Corriere della sera
Giorno della memoria
Daniel,
la guerra nazista e una strega
La
fame e i rastrellamenti in una favola alla scoperta della paura Il tenero
racconto della scrittrice sullo sfondo della tragedia delle leggi razziali
fasciste
- Alla vigilia del «Giorno
della memoria» un libro di Lia Levi sulla Shoah
di Paolo Fallai
Chi ha paura di parlare ai bambini della paura non sa che rischi corre. Perché un adulto può scegliere di mentire a se stesso, di ignorarla, di dimenticare, può perfino millantare di non conoscerla: un bambino cresce insieme alla paura, così come cresce col latte della madre, ci parla, la misura, la definisce. Fino a quando non riesce a vincerla. Non parlare con loro della paura vuol dire lasciarli soli in balia della loro immaginazione, che spesso può viaggiare ai confini estremi dell' abisso. Nella storia della nostra città l' abisso è stato vissuto. Per raccontare la Shoah, il culmine dell' orrore, una scrittrice colta e sensibile come Lia Levi ha scelto di prendere per mano i suoi giovani lettori, senza lasciarli soli un momento. «La portinaia Apollonia» è un piccolo volume delle edizioni «Orecchio acerbo», che esce proprio alla vigilia del Giorno della memoria, quel 27 gennaio dedicato al ricordo della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. I protagonisti della storia, in apparenza, sono solo tre: il piccolo Daniel, un bambino ebreo, sua madre e Apollonia, la portinaia che «portava occhiali con i vetri grossi». Daniel ha molta paura di lei, così simile alla strega della sua fiaba. Imparerà a non fidarsi delle apparenze, mentre la sua giovane vita è attraversata dalla guerra, dai soldati nazisti, dall' attesa degli alleati, dal padre costretto a fuggire le persecuzioni antiebraiche, dalle donne in coda per conquistare un pezzo di pane, dal lavoro clandestino della madre «perché gli ebrei non possono lavorare». Daniel ci conduce con la leggerezza del bimbo in questo mondo, grazie alle parole semplici e tenere di Lia Levi e agli straordinari disegni di Emanuela Orciari, accompagnandoci nell' avventura fino alla soglia della speranza. Il breve racconto di Lia Levi è coraggioso, perché occorre sempre una forza straordinaria per parlare della Shoah, ed è educativo, perché non ha timore di chiamare col loro nome i responsabili di quella sciagura. Infine è un libro necessario. Ai bambini e ai loro genitori. Solo una comunità che non ha rispetto di sé e della propria dignità dimentica: e nella coscienza dei romani la Shoah è legata in modo indissolubile alla infamia delle leggi razziali, alla vergogna delle delazioni, al crimine delle deportazioni culminato nel rastrellamento nazista avvenuto nel Ghetto il 16 ottobre 1943. Perché prima del martirio di uomini, donne, bambini nei campi nazisti ci fu qualcuno che denunciò quegli uomini, che fece arrestare quelle donne, che strappò il futuro a quei bambini. E accanto ai soldati nazisti c' erano i fascisti italiani. Anche per questo a Roma, più che altrove, non è ammessa retorica, di fronte a questo incubo dell' umanità. Anche se tenerla viva, questa memoria, appare ogni giorno un poco più complicato.
Dal Corriere della sera, 19 gennaio 2005
Il
cardinale ebreo ad Auschwitz per il Papa
L'
arcivescovo di Parigi Lustiger rappresenterà la Chiesa cattolica: «In quel
lager c'è la memoria di mia madre»
di
Massimo
Nava
DAL
NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI - Ad Auschwitz, per il sessantesimo anniversario
della liberazione, accanto a capi di Stato e rappresentanti di Stati, ci sarà
un uomo che porterà sulle spalle, come una croce, la missione di
rappresentanza, il dovere della memoria e le ferite del suo cuore, poiché in
quel luogo di sterminio divennero cenere sua madre e numerosi parenti. L'
arcivescovo di Parigi, Jean-Marie Lustiger, 78 anni, ebreo di origini polacche,
sarà testimone del suo tempo e inviato del Papa, in bilico fra l' intimità del
dolore e il significato pubblico di una presenza che, dopo il viaggio di
Giovanni Paolo II in Terrasanta, segnerà un altro passo sul cammino della
riconciliazione fra cristiani ed ebrei e del tormentato riconoscimento del
silenzio della Chiesa sulle persecuzioni. Ieri, nella sua residenza di Parigi,
ha spiegato il senso del suo viaggio. Con poche parole misurate, senza enfasi,
schivando con garbo i passi ancora controversi del cammino da compiere. «Questo
cammino data da molto tempo. Il Papa non ha mai smesso di lavorare per portarlo
a termine. I muri dell' incomprensione sono caduti. La fiducia e il rispetto
reciproco ci danno l' opportunità storica di discutere di tutto, in piena
sincerità. Ci guidano la ricerca della verità e la riscoperta di ciò che
abbiamo in comune, la parola di Dio, la concezione etica dell' uomo. Ma la
riconciliazione va molto più lontano di una chiarificazione storica, perché
investe le radici della fede». Il Papa ha scelto il cardinale ebreo,
direttamente toccato dalla Shoah, l' orfano convertitosi a 14 anni, il
prelato che ha scritto: «Auschwitz è parte della sofferenza di Cristo» e che,
nei giorni scorsi, partecipando come primo rappresentante della Chiesa al
congresso mondiale ebraico, ha detto: «La coscienza europea è stata
profondamente e intimamente marcata dalla presenza ebraica» e ha ricordato l'
impegno del Papa polacco per la «purificazione della memoria». «Il Papa mi ha
confidato una missione che non è soltanto diplomatica. Ho riflettuto qualche
secondo. Ho detto che mi costava molto, ma ho detto di sì. Ci sono andato già
una volta. Ho rischiato anch' io la deportazione. Laggiù c' è la memoria di
mia madre e di una trentina di parenti di mio padre. Non avevo alcun stimolo né
intellettuale né spirituale a tornare in quel luogo di morte e distruzione. Ma
il dolore personale resta nel mio cuore e nelle mie preghiere. Ad Auschwitz, sarò
uno degli ultimi testimoni viventi di fatti che attraversano tutta la storia del
mondo e dell' Occidente in particolare. La missione consiste nel ricordare alle
generazioni future l' unicità di quel crimine, ma anche il rischio che gli
uomini possano ripeterlo. Nei massacri successivi, riconosciamo oggi il concetto
di crimine contro l' umanità perpetrato dal Nazismo. La Shoah fu la
prima forma di sterminio scientifico e deliberato. L' umanità ha la
responsabilità dell' educazione preventiva. Quando non ci saranno più
testimoni, la Storia non dovrà essere archiviata». «In questi giorni -
aggiunge - ci sono molte rievocazioni. E questo è positivo. Ma c' è ancora la
necessità assoluta di riaffermare una verità storica, di metterla al riparo da
diverse forme di falsificazione: quella del nazismo, quella riduttiva e
deformata dello stalinismo e quella del revisionismo contemporaneo». Durante la
conversazione, il Cardinale ha ricordato i terribili momenti di un bambino che
aveva già tutto compreso di quella «verità»: «Mia madre era stata internata
a Drancy (il campo, alla periferia di Parigi, dove venivano concentrati i
prigionieri da trasferire in Germania, ndr). Riuscì a farci arrivare
clandestinamente delle lettere, pagando i suoi carcerieri. Questa è la fine,
questa è una malattia mortale, ci scrisse. Mio padre, anni prima, aveva avuto
il colpo di genio, o di follia, di affidarmi a una famiglia tedesca antinazista
che sapeva delle mie origini. Da bambino, ho imparato il tedesco e ho vissuto il
nazismo, giocando con i miei coetanei. Incontravo adolescenti della gioventù
nazista che giravano con il coltello alla cinta e che, senza sapere chi ero, mi
dicevano: Gli ebrei saranno uccisi tutti. Quando sono tornato in Francia, era
difficile spiegare che era tutto vero, che quella propaganda di morte si era
realizzata. Mio padre, cittadino francese, aveva perso la fiducia nel passaporto
francese». Nel 1940, Lustiger viene battezzato, come molti bambini ebrei che
così riuscirono a sfuggire alle persecuzioni. La controversia su quelle
conversioni è tornata d' attualità, ma il futuro cardinale trovò nel
battesimo non un rifugio sicuro, ma l' inizio di una vocazione e di un percorso
intellettuale. «I miei ricordi - ha detto una volta - mi hanno impresso l' idea
di una continuità fra vecchio e nuovo testamento, l' intuizione di un legame
fra il Cristo sofferente e Israele perseguitato». A 14 anni, Aron Lustiger,
battezzato Jean-Marie, vive a Orleans, presso la famiglia di un' insegnante di
filosofia. Il venerdì santo, nella cattedrale, abbraccia, con la fede
cristiana, il senso della vocazione. Il Papa lo nominerà vescovo della diocesi
dove si era convertito. Della conversione e degli anni della paura, di un'
ostilità che a tratti lo avrebbe inseguito anche dopo la guerra, il cardinale
di Parigi ha sempre parlato poco. Anche i suoi scritti e le sue riflessioni
sulla riconciliazione, frutto di un percorso cominciato negli anni Cinquanta,
con un pellegrinaggio a Gerusalemme, sono stati resi noti ed espliciti molti
anni dopo. Il libro che ha fatto discutere, «La promessa», è stato pubblicato
tre anni fa. Il suo è il percorso intimo ed eccezionale di un uomo di fede e di
un intellettuale che ha sublimato la personale tragedia nella ricerca filosofica
e teologica. Considerò la sua nomina ad arcivescovo di Parigi la «messa in
evidenza della parte di giudaismo che c' è nel cristianesimo», come una
promessa di riconciliazione mantenuta. «Sono cardinale, ebreo e figlio d'
immigrati». Ad Auschwitz tornò una volta sola dopo la guerra. Scrisse: «Dopo
Auschwitz i diritti dell' uomo non hanno cessato di essere riaffermati. Ma che
cosa è diventato l' uomo di cui proclamiamo i diritti?». Ieri ha ripetuto: «La
Shoah non è soltanto una questione di carnefici e vittime, di quantità
o di specificità del crimine, ma la chiave per riaffermare la dimensione etica
del destino dell' umanità». Gli chiediamo del «silenzio di Dio» davanti a
tragedie del nostro tempo, da quelle per mano dell' uomo a quelle della natura,
come il maremoto in Asia. «C' è qualche cosa di arcaico nell' imputare queste
cose a Dio. L' uomo ha il potere di controllare lo sviluppo, di prevenire, non
possiamo riferire a Dio la nostra irresponsabilità di fronte all' umanità e
alla natura». Massimo Nava Biografia Il cardinale Jean-Marie Lustiger è nato a
Parigi nel 1926 da genitori ebrei polacchi. Durante l' occupazione nazista i
suoi genitori lo mandarono insieme alla sorella Arlette a Orléans dove fu
accolto da una famiglia cattolica. Lì, alla presenza dei suoi genitori, si
convertì e cambiò nome (i genitori lo avevano chiamato Aron). Sua madre fu
deportata ad Auschwitz da cui non fece mai ritorno Etica e Shoah La Shoah
è la chiave per riaffermare la dimensione etica del destino dell' umanità Fede
e riconciliazione La riconciliazione va molto più lontano di una
chiarificazione storica, investe le radici della fede
Dal Corriere della sera, 22 gennaio 2005
Viaggio
virtuale nell'orrore della Shoah - Il
portale di Babele
Marco
Pratellesi
«Soluzione
finale» è la formula formalizzata alla Conferenza di Wannsee, il 20 gennaio
1942, per indicare la decisione del nazismo di portare a termine il genocidio
degli ebrei. Era l'ultimo atto di un lungo e tragico cammino che prevedeva il
loro annientamento totale: uomini, donne, vecchi, bambini. Lo sterminio di circa
sei milioni di ebrei da parte dei nazisti è indicato con il termine Shoah,
che in ebraico significa «annientamento», preferito ad «olocausto» per
eliminare qualunque idea di sacrificio religioso. Per celebrare il giorno della
memoria, dedicato al ricordo di tutte le vittime, l'Italia ha scelto il 27
gennaio, giorno in cui aprirono i cancelli di Auschwitz, liberato dai soldati
dell'Armata Rossa nel 1945. I deportati ebrei dall'Italia e dal Dodecaneso
furono 8.566, dei quali 7.557 morirono nei campi nazisti. I siti
dell'Associazione nazionale ex deportati (www.deportati.it), del museo della
Memoria di Gerusalemme (www.yadvashem.org) e della Shoah Foundation di
Spielberg (www.vhf.org) sono ottimi punti di partenza per capire e ricordare
attraverso la rete
Dal
Corriere della sera, 23 gennaio 2005
«Mussolini partecipò all'orrore della Shoah»
Lo
storico Sarfatti: ci fu un accordo Berlino - Salò per la consegna degli ebrei
italiani alle SS naziste ANTISEMITISMO Le leggi fasciste del ' 38 erano basate
sul criterio del razzismo biologico
Antonio
Carioti
A
qualcuno non piacerà. In primo luogo a chi cerca di minimizzare le
responsabilità di Mussolini nelle persecuzioni antiebraiche. E più in generale
a chi intende la giornata della memoria in senso unanimistico e rituale. Perché
il libro di Michele Sarfatti La Shoah in Italia introduce nel clima
celebrativo di questo sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz
una forte nota polemica, che tocca il culmine nel pesante verdetto di
colpevolezza emesso a carico del Duce. Il Mussolini di Salò, afferma l' autore,
«partecipò volontariamente e consapevolmente alla Shoah». Siamo agli
antipodi, dunque, del giudizio espresso da Renzo De Felice, il quale, forte
della sua autorevolezza di pioniere degli studi sui rapporti tra regime littorio
e mondo ebraico (il testo fondamentale in materia risale al 1961), sosteneva che
«il fascismo è al riparo dall' accusa di genocidio, è fuori dal cono d' ombra
dell' Olocausto». La divergenza tra i due storici riguarda un punto cruciale.
De Felice era convinto che Mussolini, nel periodo della Repubblica sociale,
volesse soltanto concentrare la popolazione israelitica in alcuni campi di
raccolta, per deciderne il destino a guerra finita: se le autorità di Salò
tollerarono la deportazione degli ebrei italiani verso Auschwitz e, in qualche
misura, vi collaborarono, fu perché all' atto pratico non potevano opporsi alla
prepotenza nazista. Sarfatti, autore di un importante saggio su Gli ebrei nell'
Italia fascista (Einaudi) uscito nel 2000, ritiene invece che vi sia stato fra
il Terzo Reich e la Rsi un vero e proprio «accordo per la consegna ai tedeschi
e la conseguente deportazione (e uccisione) degli ebrei arrestati dagli italiani».
Quali elementi accreditano una simile ipotesi? Sarfatti ammette che non esiste
una documentazione che possa certificarla oltre ogni ragionevole dubbio, ma
richiama l' attenzione su due significativi indizi: uno di carattere generale e
l' altro relativo a una vicenda particolare. Il primo non è altro che la
routine del meccanismo di deportazione. Nelle regioni amministrate dalla Rsi, le
milizie di Salò arrestavano gli ebrei e li convogliavano nel campo di Fossoli,
vicino a Carpi, in provincia di Modena. Qui intervenivano le Ss, che prendevano
in consegna i perseguitati e li trasportavano in Germania. Tra le due
operazioni, commenta Sarfatti, c' era un tale automatismo da far presupporre un
accordo preventivo fra le parti interessate. Il secondo è invece un riscontro
archivistico: un carteggio, in cui il prefetto repubblichino di Reggio Emilia,
Enzo Savorgnan, si rivolge al capo della polizia, Tullio Tamburini, chiedendo
conferma dell' esistenza di accordi intervenuti tra Salò e Berlino, di cui gli
aveva parlato un ufficiale nazista, per la consegna ai tedeschi degli ebrei
arrestati dai fascisti. Il 5 febbraio 1944 Tamburini risponde con l' ordine di
affidare i prigionieri al comando germanico. Una disposizione scritta che,
secondo Sarfatti, sarebbe stata impensabile senza il preventivo consenso del
capo del governo, cioè Mussolini. Che dunque doveva aver concordato, o quanto
meno ratificato a posteriori, un' intesa per il trasferimento degli ebrei nelle
mani dei loro sterminatori. Dato che il Duce conosceva da tempo la sorte
riservata alle vittime del razzismo hitleriano, Sarfatti conclude che in questo
modo si passava dalla progressiva cancellazione dei diritti degli ebrei
italiani, realizzata dal regime nel periodo 1938-1943, all' approvazione del
loro annientamento fisico. Il che porta a escludere che il fascismo si possa
considerare, per dirla con De Felice, «fuori dal cono d' ombra dell' Olocausto».
Se questa è senza dubbio la parte più scottante del libro, bisogna aggiungere
che anche il resto è disseminato di spunti polemici, per niente attenuati dalla
scrittura asettica e controllata dell' autore, che preferisce lasciare la parola
ai fatti piuttosto che far vibrare le corde dell' indignazione. Mentre De Felice
riteneva «fuorviante» parlare di antisemitismo fascista prima della Guerra
etiopica, Sarfatti attribuisce a Mussolini forti pregiudizi antiebraici, emersi
già in precedenza e sottolinea come nel suo partito il razzismo avesse sempre
avuto (fatto senza precedenti in Italia) un pieno diritto di cittadinanza. Se De
Felice teneva distinto l' antisemitismo «spiritualista» del Duce da quello di
Hitler, volto a preservare la purezza del sangue «ariano», Sarfatti ribatte,
testi di legge alla mano, che «la base della normativa fascista antiebraica fu
il razzismo biologico». Non è solo dal biografo di Mussolini, peraltro, che
questo saggio marca una decisa presa di distanza. Anche l' interpretazione dell'
8 settembre 1943 come una simbolica «morte della patria», proposta da Ernesto
Galli della Loggia, non convince l' autore, secondo il quale fu semmai nel 1938,
con l' approvazione delle leggi razziali, che il fascismo e la monarchia «uccisero
la patria». Inoltre Sarfatti rifiuta la definizione della lotta partigiana
quale «guerra civile», accreditata anche a sinistra dagli studi di Claudio
Pavone, poiché a suo avviso si trattò di «una insurrezione armata contro un
potere illegittimo e uno straniero occupante». Quando infine Sarfatti ricorda
che un' eventuale vittoria delle forze nazifasciste ad El Alamein, nel 1942,
avrebbe esposto all' annientamento gli ebrei residenti in Palestina, aggiungendo
che «questa considerazione impedisce agli italiani onesti di guardare a quella
battaglia con un' ottica solo nazional-militare», il bersaglio della sua
critica è palesemente il capo dello Stato, che ai compatrioti caduti nel
deserto egiziano ha invece voluto rendere omaggio. Il libro e l' autore Il
saggio di Michele Sarfatti «La Shoah in Italia» (pagine 164, euro
8,50), in uscita domani da Einaudi, è una sintesi di uno degli eventi più
tragici del Novecento, con un' ampia appendice documentaria Il testo è diviso
in tre parti: la prima sugli aspetti generali del genocidio; la seconda sulla
persecuzione antisemita attuata dal Terzo Reich nel periodo 1933-1945; la terza
dedicata allo sterminio in Italia. L' autore lavora come ricercatore presso il
Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) di Milano. Ha pubblicato i
volumi «Gli ebrei nell' Italia fascista» (2002) e «Le leggi antiebraiche
spiegate agli italiani di oggi» (2002), entrambi editi da Einaudi.
L' OBIEZIONE - Sabbatucci: nella Rsi i tedeschi decidevano da soli
Anania
Casale
«Non
parlerei tanto di una responsabilità personale di Mussolini nella Shoah,
quanto di una generale complicità dei fascisti di Salò nella deportazione e
nello sterminio degli ebrei, se non altro perché la Repubblica sociale era per
sua natura uno Stato in cui nei fatti a comandare, soprattutto su alcune
materie, erano i tedeschi». A esprimersi così è Giovanni Sabbatucci, storico
contemporaneista di scuola defeliciana. «Senza voler in alcun modo attenuare le
colpe del Duce - aggiunge - bisogna notare che nel resto d' Europa altri governi
collaborazionisti svolsero un ruolo più attivo e diretto nell' attuazione del
genocidio». Lo studioso sottolinea che non è uno specialista della Shoah
e non vuole formulare un giudizio specifico sul libro di Sarfatti prima di
averlo letto. Ma ricorda che «nella Rsi vi era una grande confusione
istituzionale, in cui potevano benissimo convivere linee diverse anche sulla
questione ebraica, senza contare che parecchi esponenti del vertice di Salò
rispondevano direttamente ai nazisti». Sabbatucci non crede inoltre che il
fascismo fosse razzista fin dai suoi esordi: «È vero che nessun altro partito
italiano aveva mai incluso componenti apertamente antiebraiche, ma è
altrettanto vero che l' antisemita Giovanni Preziosi rimase per lungo tempo tra
i fascisti un personaggio piuttosto isolato». Quanto alla distinzione tra il
razzismo biologico di Hitler e quello «spiritualista» del Duce, Sabbatucci
parte dalla premessa che «il razzismo si fonda per definizione su una visione
distorta della genetica ed è un' assoluta stupidaggine pensare di attribuirgli
un contenuto spirituale». Ciò nonostante, continua, «Mussolini cercò di
differenziare il suo antisemitismo da quello nazista, tant' è vero che certe
categorie di ebrei vennero escluse da alcune delle vessazioni più odiose. Ma le
leggi razziali furono lo stesso un' infamia: per certi aspetti, come nota
Sarfatti, erano perfino peggio delle norme in vigore nel Terzo Reich».
Dal
Corriere della sera, 24
gennaio 2005
Andrea,
il secondino di San Vittore morto per salvare gli ebrei di Milano
Nel
'44 il sacrificio della guardia carceraria. «Portava cibo ai detenuti politici
e ai loro bimbi». Un documento ricorda la vicenda e la deportazione della
guardia a Flossenburg. Fu scoperto perché in carcere furono trovati ossi di
pollo. Ucciso dalle torture delle SS
Pierluigi
Panza
Si chiamava Andrea Schivo ed era
nato a Villanova di Albenga (Savona). Apparteneva a una famiglia di contadini.
Ma, mentre suo fratello rimase in Liguria a curare la terra, lui venne a Milano
dove trovò impiego come guardia carceraria a San Vittore. E qui divenne un
piccolo e sfortunato Perlasca. La ricostruzione della storia di Andrea Schivo
(che potrà essere perfezionata da nuove testimonianze) e del suo aiuto portato
agli ebrei milanesi rinchiusi a San Vittore in attesa di essere tradotti ad
Auschwitz nel '44, è affidata a un documento ancora inedito depositato negli
archivi del Cdec (Centro di documentazione ebraica), alla testimonianza della
nipote, Carla Arrigoni Sala e a quella di due partigiani che l'hanno incontrato
a Flossenburg, raccolte con l' aiuto dell' Associazione «Figli della Shoah».
Schivo era Milano negli anni Trenta e qui, ricorda la nipote, «divenne amico
della famiglia Venegoni, che avevano un forno in via Belfiore e una cascina a
Mortara. Lì viveva Giuseppina Venegoni, che divenne moglie dello Schivo nel
1935». La nipote ricorda l'uomo come un amante della musica, tanto che un Santo
Stefano portò la famiglia alla Scala dove davano l' «Ernani», di pomeriggio
poiché si era in tempo di guerra. A San Vittore i secondini lo chiamavano «il
superiore» e con questa qualifica gli era consentito di andare su e giù per i
piani. Nel ' 43, Schivo incominciò a prendersi cura di alcune famiglie di ebrei
rinchiuse, portando loro da mangiare di nascosto. La nipote ricorda che aveva
visto più volte la zia cucinare un pollo da portare in carcere di nascosto; e
proprio questo gli fu fatale. «Fu scoperto perché in carcere si trovarono gli
ossi del pollo: torturavano il vecchio della famiglia ebrea per sapere chi
avesse dato loro da mangiare e così le SS arrestarono Schivo». Questo fatto è
confermato da un documento inedito del 15 giugno 1945 firmato da 19 secondini
colleghi dello Schivo, nel quale si legge: «Gli agenti di custodia delle
carceri giudiziarie di Milano testimoniano quanto segue: verso la fine di
giugno-i primi di luglio dell' anno 1944, l' agente Schivo Andrea fu tratto in
arresto dalla SS tedesca per motivo che venne scoperto di aver agevolato dei
detenuti ebrei politici con i loro bambini che si trovavano rinchiusi in queste
carceri soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva
essere possibile e utile. Cosicché l'agente Schivo dopo una breve permanenza in
queste carceri non più come guardia ma come detenuto venne deportato in
Germania dove ora abbiamo appreso per mezzo di un compagno dello stesso campo
che l'agente Schivo Andrea è morto in seguito a maltrattamenti percosse e
sevizie da parte della SS tedesca lasciando la famiglia addolorata e piena di
miseria». Questa documentazione coincide in effetti con quanto riportato a
pagina 22 del libro «I campi della demenza» (Milano, Vangelista, 1975) scritto
dal partigiano Antonio Scollo. Scollo racconta che il 5 luglio 1944 fu arrestato
e tradotto a San Vittore nella cella numero 108, dove restò sette giorni dopo
di che dovette lasciare il posto a una guardia carceraria che era stata accusata
di portare da mangiare agli ebrei che occupavano i cameroni del quinto raggio.
Scollo, che è morto anni fa, dichiara nello stesso libro di aver incontrato
quella guardia carceraria nelle cucine di Flossenburg a pelar patate. Anche un
altro partigiano, Angelo Bertani, avviato a Flossenburg, avrebbe visto lo Schivo
in cucina e nel blocco 23 insieme agli italiani provenienti dal sottocampo di
Hersbruck. Quella di Schivo è solo una delle storie di poveri italiani che
hanno cercato di opporsi al male pagando con la vita il tributo per il rispetto
della propria coscienza. Basti ricordare che nella mattina del 30 gennaio 1944,
in una Milano gelida e indifferente, 605 ebrei rinchiusi a San Vittore vennero
spinti sui camion che li attendevano nei cortili del carcere presso i raggi
quarto e quinto, e da lì vennero condotti alla stazione centrale attraverso il
sottopassaggio di via Ferrante Aporti fino a un binario fantasma, nascosto, il
binario 21, sul quale erano fermi ad aspettarli i vagoni del convoglio Rsha
destinato al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. L' operazione, già
collaudata nel 1943, venne ripetuta per un totale di 15 trasporti.
LA POLEMICA - Colombo contesta
lo storico «Inutili queste celebrazioni? La memoria fonda la civiltà»
Gian
Guido Vecchi
MILANO
- È stato l'incubo ricorrente dei deportati nei campi di sterminio, «se anche
raccontassimo, non saremmo creduti», ne I sommersi e i salvati Primo
Levi scriveva che nella sua forma più crudele «l'interlocutore si voltava e se
ne andava in silenzio». Ecco la cosa peggiore: il silenzio e, di conseguenza,
l'oblio. Solo che adesso questo passaggio viene contestato dallo storico
triestino Giampaolo Valdevit come «un argomento convenzionale». Fino a
concludere, dalle colonne del Piccolo: «Della Giornata della memoria possiamo
tranquillamente farne a meno». Ce n'era abbastanza perché Furio Colombo -
direttore de l'Unità e primo firmatario della legge che ha fissato la memoria
della Shoah il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz -
replicasse ieri con un editoriale («gli smemorati di Auschwitz») che accusa
Valdevit di «negare in poche frasi non solo la Storia ma anche la sua
professione di storico». Valdevit parte da una domanda: «Perché un lungo
oblio avrebbe preceduto la recente stagione del ricordo?». Le SS dicevano ai
deportati ebrei: se anche vi salverete, non vi crederanno. Ma secondo lo storico
non c'entrano l'enormità della Shoah né «il carattere demoniaco dei
nazisti». Ad «attivare» la memoria storica, sostiene, «concorre la
situazione politico culturale del momento». Nel dopoguerra, insomma, il nuovo
nemico era il comunismo «ed è contro questo nemico che sono state mobilitate
tutte le energie e risorse delle società occidentali, compresa la memoria». I
nazisti erano stati sconfitti, la memoria della Shoah non serviva. Dopo
l'89 la situazione si sarebbe rovesciata, «il grande affermarsi della memoria
del nazismo è stato prodotto dalla fine del comunismo». Conclusione: d'accordo
in Bosnia o nel Kossovo, ma nell'Europa occidentale pacificata, oggi, «ricordare
per non ripetere gli errori del passato è un monito vuotamente retorico e
inutile». Furio Colombo è stupefatto: «Uno storico si misura con i fatti e li
racconta sempre, la strage degli Ugonotti è tuttora la strage degli Ugonotti e
non c'è niente che possiamo fare! E poi la memoria è il nostro modo di
lasciare traccia nel cammino della vita, da Omero a oggi non c'è mai stato un
momento in cui si potesse dire: la memoria non serve». Pausa, sospiro, «ti
aspetteresti di doverlo spiegare a un bambino, a un teenager... Una volta,
quand'era piccola, lo dissi anche a mia figlia: la civiltà esiste perché
ciascuno si è preoccupato di raccontare qualcosa a chi viene dopo, sennò si
dovrebbe ricominciare ogni volta da zero». Eppure lo dice pure il professor
Valdevit, noto per i suoi studi sulle foibe, «al primo anno, in università, mi
capitano ragazzi che non sanno nulla di storia contemporanea, ma proprio nulla!».
E allora, non serve a questo la memoria? «Eh no, se lo studente non sa niente
gli devi fornire conoscenze, non celebrazioni: io distinguo tra storia e
memoria, la memoria è selettiva e magari fa dimenticare i gulag ma è sulla
storia che si fonda la civiltà, e questo profluvio di commemorazioni e retorica
mi pare superfluo». Resta la domanda di Colombo: «Davvero possiamo
"tranquillamente" farne a meno? Diritti e tolleranza sono beni scarsi,
e se l'Europa sta tentando di istituire un tribunale internazionale per i
crimini contro l' umanità è per mostrare che la storia ha sempre un dopo in
cui, come Eichmann, si può essere chiamati a rispondere». Una cosa è sicura,
concludeva Primo Levi, «molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la
"Battaglia" di Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche
sostituzione di nomi, può ancora venire a taglio».
Shoah,
una frase imbarazza An L'Ulivo: deve intervenire Fini
Storace
contro Gramazio: sbaglia, il fascismo fu responsabile
Roberto
Zuccolini
ROMA
- C'è sdegno. Ma soprattutto amarezza. È questo il sentimento prevalente della
comunità ebraica. Quelle dichiarazioni di Domenico Gramazio, pronunciate a Yad
Vashem, il memoriale della Shoah, quella convinzione che il fascismo «non
ebbe responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei», viene vista come un
affronto e come una vicenda che An deve chiarire. E sulla quale prima di tutto
Gianfranco Fini deve esprimere la sua netta condanna. Sì, il ministro degli
Esteri che un anno fa fece lo storico viaggio a Gerusalemme. Proprio
dall'importanza di quella visita nasce l' amarezza degli ebrei italiani che
vivono in Israele. Non perché rimettano in discussione l' evento, ma perché
non riescono a capire come sia possibile che un esponente del suo partito possa
pronunciare una frase del genere. «Il suo strappo - commenta il presidente
della comunità a Gerusalemme, David Cossuto - apparve sincero, ma ora ci
chiediamo se la voce di Fini sia solitaria nel suo partito». E Angela Polacco,
la guida che accompagnò il leader di An, è perentoria: «Fini, che ha rivisto
il percorso del suo partito, non può ammettere nostalgici di Salò dentro An».
In realtà Fini non ha certamente gradito l' intervento di Gramazio. E ne ha
preso subito le distanze. Solo che ha giudicato opportuno non rispondere
personalmente perché il diretto interessato attualmente non ricopre cariche
parlamentari o di partito, ma solo nella Regione Lazio essendo presidente della
locale Asp (Agenzia di sanità pubblica). Confortato anche dalla reazione del
portavoce della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici: «Gramazio, chi è
costui?». E così, nonostante il pressing di Ds e Margherita che per tutta la
giornata hanno chiesto a Fini di intervenire, il leader di An ha lasciato il
compito di spiegare come stanno le cose al diretto responsabile di Gramazio, cioè
il governatore del Lazio Francesco Storace: «Che l' Italia durante il fascismo
conobbe la vergogna delle leggi razziali l' ho detto fin dal gennaio 2003 e lo
ribadisco oggi: non sarà lui a farmi cambiare idea». Gramazio invece, lui l'
idea la cambia? Da Israele, dove ancora ieri soggiornava, il presidente dell'
Asp ha prima pensato di confermare tutto, per poi rinunciare dopo aver ricevuto
una telefonata alquanto burrascosa con Roma. E in serata faceva battute del
tipo: «Sono presidente dell' Asp, non della società della revisione storica».
Ma ieri l'Italia, vista da Strasburgo, è stata nell' occhio del ciclone anche
per un'altra storia. Quella che riguarda la risoluzione di condanna di ogni
discriminazione. Il gruppo parlamentare al quale appartiene il Carroccio,
Indipendenza e Democrazia, non lo voterà, a quanto pare per il veto di una sua
componente. Ma Mario Borghezio, capogruppo della Lega Nord a Strasburgo,
promette invece che i suoi parlamentari diranno «sì» alla risoluzione: «Abbiamo
sempre espresso chiaramente la nostra intenzione di lottare contro l'
antisemitismo». Altra cosa, precisa lo stesso Borghezio, è la direttiva
europea sul razzismo e la xenofobia: «Su quella il ministro Castelli
giustamente pone il veto: contiene affermazioni troppo generiche che potrebbero
essere di ostacolo alla libertà di opinione». Ma ieri, proprio su questo «no»
del Guardasigilli tutta l' opposizione è tornata alla carica chiedendo al resto
della maggioranza di sbloccare la situazione: «È una vergogna: l' Italia in
questo modo si emargina dal resto dell'Europa».
Dal
Corriere della sera, 26 gennaio 2005
«Si
vergogni chi minimizza le leggi razziali»
Fini
condanna le frasi dell' ex parlamentare Gramazio. Minacce naziste al commissario
Frattini
Roberto
Zuccolini
ROMA
- «Vergogna». Alla fine è arrivata la condanna esplicita di Gianfranco Fini
nei confronti di Domenico Gramazio. E ad accoglierla con sollievo non è stata
solo l' opposizione che la richiedeva a gran voce, ma anche il suo partito che
proprio alla vigilia del decennale di Fiuggi si era ritrovato alle prese con un
revisionismo storico a dir poco imbarazzante. Già martedì il ministro degli
Esteri aveva fatto sapere che la linea di An era una sola: condanna netta del
fascismo che aveva introdotto le leggi razziali antisemite. Ma aveva preferito
non intervenire direttamente lasciando parlare il presidente della regione Lazio
Francesco Storace. Ieri però ha pensato che era giunto il momento di prendere
ad alta voce le distanze da chi aveva detto, in visita a Gerusalemme, che «il
fascismo non ebbe responsabilità nello sterminio di massa degli ebrei». E lo
ha fatto nel corso di un'intervista al direttore del Tg2 Mauro Mazza: «Lo dico
con dolore: seppure in una ristrettissima schiera, c' è ancora qualcuno in
Italia che, per ignoranza o malafede, tende a minimizzare, dicendo che le leggi
del ' 39 non ebbero, come al contrario è stato, un ruolo importante, tragico
per la persecuzione e poi lo sterminio degli ebrei». Per Mario Landolfi,
responsabile della Comunicazione di An, Gianfranco Fini «ha fatto bene» a
parlare: «La linea del partito è chiara al riguardo. E va ribadita perché non
si scherza su certi argomenti». Stessa opinione del ministro dell' Ambiente
Altero Matteoli: «Una singola persona non può cambiare ciò che An pensa sulle
leggi razziali e sulla sciagura rappresentata dallo sterminio degli ebrei.
Insomma, l' intervento del leader era atteso. Resta però ancora aperto il caso
Gramazio, soprattutto a livello locale. Perché l' esponente di An non ricopre
più incarichi parlamentari, ma è il presidente dell' Asp, l' Azienda di sanità
pubblica del Lazio. Tanto che ieri, nel consiglio regionale, l' opposizione ha
presentato una mozione in cui si chiedono le sue dimissioni. Risposta del
governatore Francesco Storace, che pure ieri ha definito «tragedia del pianeta»
la Shoah: «Non posso commentare tutte le mozioni presentate dal
centrosinistra». Oggi si celebra in tutta Italia il giorno della memoria.
Silvio Berlusconi si dichiara «orgoglioso» di rappresentare il nostro Paese ad
Auschwitz per «rendere onore a tutti coloro che vi hanno perso la vita e a
tutti coloro che hanno conosciuto l' orrore e hanno avuto la fortuna e la forza
per raccontarlo». Il ministero dell' Interno ha anche diffuso una circolare a
tutti i prefetti per segnalare l' opportunità di rispettare un minuto di
silenzio in ricordo delle vittime dell' Olocausto. Senza però indicare un
orario preciso per effettuarlo. E ci sono in tutta Italia, manifestazioni in
memoria della Shoah e della liberazione del campo di sterminio di
Auschwitz. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi premierà al Vittoriano di Roma
gli studenti italiani vincitori di un concorso sul «valore della testimonianza»
e il ministro dell' Interno Giuseppe Pisanu incontrerà il presidente dell'
Unione delle comunità ebraiche italiane Amos Luzzatto nel corso di una
cerimonia alla scuola superiore dell' amministrazione. Anche l'Osservatore
Romano dedica spazio all' evento definendo la Shoah «punto di
riferimento permanente per tutti coloro che hanno avuto e hanno a cuore l'
avvenire dell' unità del genere umano». E proprio alla vigilia del giorno
della memoria, nelle stesse ore in cui interveniva al Parlamento di Strasburgo
sul ricordo della Shoah, il commissario europeo Franco Frattini ha
ricevuto a Bruxelles una lettera di minacce accompagnata da una svastica.
Quel
bambino di nome David
Giorno
della memoria e un piccolo ebreo
di Enzo Biagi
Non
si cancella il passato: su un muro di Auschwitz lessi: “Chi non conosce la
storia sarà costretto a riviverla”. C’è un giorno per ricordare: prima però,
raccontiamo che cosa accadde, di quante infamie sono capaci gli uomini, perché
i nostri figli sappiano. Una volta, tanti anni fa, andai nel ghetto di Varsavia.
gli uccelli e il vento avevano lasciato cadere qualche seme tra le macerie, e da
una finestra spuntavano le foglie di un susino. C’era, e credo ci sia ancora,
un monumento con nastri, corone e una lapide. Annotava: “Il popolo ebraico
ricorda il sangue dei suoi martiri”. Allora non pensavo che avrei avuto una
tenera nipotina che di nome si chiama Rachele, e una notte ho sognato, io che
non ricordo mai le avventure notturne, che la teneva per mano e non la lasciavo
mai, e scappavamo nei boschi dove sono stato partigiano. Ho quattro nipoti: per
lei, quando vado a certe funzioni della sua fede, metto il cappello, per gli
altri lo tolgo. Anch’io, nel Giorno della Memoria, ho il pensiero e il
rimpianto per un bambino polacco, un cappellaccio di pezza in testa (così, in
una fotografia ingiallita), un sorriso mite, quasi rassegnato. Della sua
famiglia non è rimasto nessuno, solo io un vecchio italiano se lo porta dentro,
anche se di lui conosce solo le pagine del suo diario e quello che gli
raccontarono quando andò a cercare di narrare la sua breve vita. Si chiamava
David Rubinowicz, e la sua maestra, la grassa e dolce signora Florentyna
Krogolec, mi disse: “David, se voleva, poteva salvarsi. Era biondo come un
tedesco”. Morì soltanto perché il suo nome era David. Aveva dodici anni, era
figlio di un lattaio, scomparve nell’autunno del 1942: un treno partì dalla
stazione di Suchedniowo, forse si fermò a Belsen o a Dachau o Auschwitz o a
Buchenwald. C’erano quasi duecento stazioni di transito prima di arrivare a
Dio. Di lui sono rimasti una pagella, alcuni quaderni, la fotografia di una gita
scolastica: il volto di David, nell’immagine un po’ confusa, si perde tra
quegli altri bambini di campagna che portano la borsa di tela legata con le
cinghie alla schiena. Andai a cercare il ricordo del piccolo polacco anche sulle
colline del suo villaggio e nel bosco dove trovò rifugio durante un
rastrellamento e là vide la volpe che gli faceva paura. Ho visto la vecchia
scuola dove aveva imparato a leggere, sono entrato nella soffitta dove si
nascondeva, ho incontrato il compagno di banco: aveva la faccia segnata e i
capelli grigi. Di tutti i Rubinowicz era rimasta solo una cugina, fuggita poi in
Israele. Per due anni, ogni giorno, egli ha annotato i suoi “strani
pensieri” e le vicende di quel paese sotto l’occupazione tedesca. David non
è Anna Frank, è un contadino, forse non ha mai visto un cinematografo o
ascoltato un pianoforte. Il giorno che uccidono una ragazza “che era un
fiore” è sgomento. “Ormai – scrive – verrà la fine del mondo”. Va a
cercare nella severità della Bibbia una qualche ragione: “La colpa è tutta
di Abramo”. L’ultima data del diario è il primo giugno 1942; la pagina
comincia con questa frase: “Giorno di felicità”. Felicità è una parola
troppo difficile per David. Poi arrivano “le guardie”. È il 21 settembre e
di David Rubinowicz si perdono le tracce.
La città dello sterminio in fuga dalla memoria
dal
nostro inviato Paolo Valentino
OSWIECIM
(Auschwitz) - A Oswiecim le ragazze non ballano più. Neanche da sole.
L'illusione della normalità è durata meno di un anno, dall'agosto del 2000
alla primavera del 2001. Poi, la discoteca System ha chiuso. «Gli affari
andavano male», dice una parte della città. «No, l'hanno fatta chiudere le organizzazioni
ebraiche», ribatte l'altra. A Oswiecim il Supermercato non l'hanno mai aperto.
Doveva sorgere proprio dall'altra parte della strada, di fronte al cancello del
campo. Sconfitto come imprenditore, Janusz Marszalek, l'uomo che voleva fare
l'investimento, è stato poi eletto sindaco col 61% dei voti. E da allora, come
aveva promesso, non perde occasione per sbraitare contro il Museo, secondo lui
causa di tutti i guai della città. Mefisto è un locale caldo e accogliente,
situato in un vecchio scantinato del centro. Belle ragazze e giovanotti polacchi
affollano i tavoli. Pensavano al Faust, alla diabolica cantina, le due signore
che l'hanno aperto qualche anno fa. Un nome come un altro, per una birreria. Un
nome come un altro, in qualsiasi altro posto al mondo. Ma non qui. «Perché,
cos'ha di strano? Questa è una città dove si vive normalmente. Ma, per colpa
delle pressioni ebraiche, noi non abbiamo né discoteca, né supermercato»,
dice infastidita Wiola, 22 anni, che studia legge a Cracovia. Normalità, vita,
colpa, parole difficilissime da pronunciare a Oswiecim, il villaggio che nel
1939 i nazisti ribattezzarono Auschwitz, trasformandolo nel buio antro
dell'indicibile, costruendovi la più grande ed efferata macchina dello
sterminio a memoria d'uomo, il campo di annientamento dove un milione e mezzo di
persone, in maggioranza ebrei, morirono fucilati, gassati, di stenti o di
torture e poi passarono per il camino dei forni crematori. Suonerà ovattata,
stamane, nel cuore di Oswiecim, l'eco delle commemorazioni. Sarà il presidente
polacco, Alexander Kwasniewski, a fare gli onori di casa ai leader del mondo e
ai sopravvissuti, venuti a celebrare i sessant'anni della liberazione del lager
di Auschwitz-Birkenau. Ma lo spirito della nuova Polonia, che si mette alle
spalle mezzo secolo di sospetto antisemitismo e di rapporti avvelenati con la
comunità ebraica, si è fermato a Cracovia e giunge affievolito in quest’ansa
della Vistola. I termini della lacerazione e dell'incomprensione sono
maledettamente semplici. Da una parte c'è il campo dell’orrore, «il più
grande cimitero del mondo», come ha detto l'altro giorno a Berlino Kurt
Goldstein, che in quel mattino di gennaio del 1945 guardò incredulo i soldati
sovietici urlargli «sei libero». E dall'altra ci sono 40 mila abitanti, che
aspirano all'impossibile, l'ambizione di vivere in una città come le altre.
Ognuno reagisce a suo modo. Ma, a voler generalizzare, i polacchi di Oswiecim si
pongono di fronte alla memoria del lager come di fronte a un’operazione
matematica. Ci sono quelli che aggiungono, cercando una somma che dia senso a
tutto. E ci sono quelli, la maggioranza, giusta l'aritmetica delle elezioni, che
sottraggono rifiutando il passato. Agnieszka Grzonka ha 30 anni, è laureata in
scienze amministrative, per ora fa i concorsi per il pubblico impiego: «Non
possiamo separarci dalla storia, dobbiamo conviverci. La discoteca e
il Supermercato, per esempio, sorgevano o dovevano sorgere nell'area a ridosso
del campo. No, quella zona va rispettata, così come si rispetta un cimitero
cristiano. C'è abbastanza spazio per costruirle in un altro posto». Agnieszka
aggiunge. Come quelli che lavorano al Museo e dunque Auschwitz è parte della
loro vita. Come Helena Nowak, che aveva dieci anni e oggi racconta a figli e
nipoti del fumo acre che saliva dai camini e invadeva la città, o delle patate
portate in segreto ai prigionieri, che di giorno lavoravano fuori dal campo.
Aggiungono quelli che hanno incoraggiato e sostenuto la riapertura della Sinagoga,
nell'estate del 2000, e contrappongono i
cinque anni dell'orrore nazista agli otto secoli di una piccola città polacca,
dove ebrei e cristiani, in egual numero, convivevano in pace. La sottrazione, la
damnatio memoriae, è più complessa. Alcuni la fanno andandosene, abbandonano
Oswiecim, quasi ottomila dal 1989, l'anno della liquidazione definitiva del
regime comunista, che ricordava Auschwitz e dimenticava gli ebrei, destinando la
Sinagoga a negozio di tappeti. Altri cercano l'isola che non c'è. E si
invaghiscono dei cattivi demagoghi, come Janusz Marszalek, appunto, cattolico
ultraconservatore, che nel 2001 si è fatto eleggere primo cittadino, facendo
campagna contro il Museo di Auschwitz-Birkenau, accusato di «prendere in
ostaggio il territorio della città». Invelenito dalla storia del Supermercato,
mestando sullo scontento di un giovane disoccupato su due, Marszalek ne fa una
questione di sviluppo: «La gente visita il lager e poi riparte immediatamente,
senza che la città abbia alcun profitto». E anche se ora ha spurgato il
proprio linguaggio di un antisemitismo strisciante, scagliarsi contro «le
organizzazioni ebraiche» rimane il suo refrain preferito. Eppure, neanche
Marszalek esprime l'animus profondo della città. Somma o differenza, la memoria
sembra impegnare ogni sua energia. E oggi, sessant'anni dalla fine dell'orrore,
Oswiecim ricorderà. Ma come sempre, cercherà anche di vivere.
Gli
italiani e il pregiudizio: “Sono troppo attaccati al denaro”
di
Renato Mannheimer
Un
intero anno di iniziative, dibattiti, prese di posizione, non sembra essere
servito a molto. La presenza di persone definibili come «antisemiti» non si è
attenuata. Anzi, per certi versi l'atteggiamento di intolleranza si è
accentuato. Così com'è accaduto in vari altri Paesi europei. L'orientamento
negativo verso gli ebrei si può manifestare con diversa intensità e molteplici
espressioni, più o meno radicali. Analogamente all'anno scorso e ai precedenti
(ma con un incremento del 3% negli ultimi mesi), la maggioranza della
popolazione dichiara che «gli ebrei hanno mentalità e modi di vita diversi dal
resto degli italiani». E, similmente alle rilevazioni passate, c'è un 7%,
circa tre milioni di persone, che afferma che «gli ebrei dovrebbero lasciare
l'Italia». Permane l'accusa di un eccessivo attaccamento al danaro (il 42%, con
un incremento rispetto all'anno scorso, ritiene che gli ebrei abbiano «un
rapporto particolare con i soldi»), accanto all'idea che vi sia un sostegno
troppo fazioso alla politica dello Stato di Israele. Si ha dunque conferma
dell'esistenza di due matrici nella formazione e nella permanenza del
pregiudizio antisemita. La prima è legata a un'immagine distorta delle
caratteristiche specifiche degli ebrei e, in particolare, al rapporto di questi
ultimi con il danaro. La seconda dipende dall'atteggiamento verso lo Stato di
Israele e dalla stretta relazione con quest'ultimo attribuita agli ebrei. I due
fattori sono legati tra loro: l'atteggiamento critico verso Israele risulta
più accentuato tra chi ha
m'immagine negativa degli ebrei e viceversa. Entrambe le matrici deI pregiudizio
hanno un significativo peso causale leI determinare l'orientamento antisemita.
Ma un’analisi statistica più approfondita mostra come il giudizio,
positivo o negativo, verso Israele «conti» più di ogni altra cosa nella
formazione e nell'intensità dell'atteggiamento verso gli ebrei. Risulta di un
certo interesse anche la descrizione dei tratti salienti di chi, più di altri,
esprime un atteggiamento antisemita. Quest'ultimo si rileva in misura
relativamente maggiore tra quanti si collocano politicamente a destra. Ma è una
mera accentuazione: il connotato prevalente degli antisemiti più convinti è la
perifericità nello status socio-economico. Si tratta perlopiù di persone
anziane (la punta massima è rilevabile tra chi ha oltre 65 anni, la minima si
riscontra sotto i 25 anni), con titolo di studio basso (tra chi ha fatto solo la
scuola elementare gli «antisemiti» sono quasi un terzo), residenti in comuni
medio-piccoli. Generalmente pensionati o casalinghe.
Questi segmenti di popolazione, più marginali socialmente, sono più
ricettivi di pregiudizi di ogni genere. È tra loro che si rileva, ad esempio,
anche il più alto tasso di «antipatia» verso gli arabi, nei confronti dei
quali emergono talvolta atteggiamenti ancora più ostili di quelli riscontrabili
verso gli ebrei. Ciò rende ancora più preoccupante il fenomeno. Si ha
infatti conferma dell'esistenza di un'ampia base di portatori potenziali di
pregiudizio, stimolabile da questo o da quell'episodio, da questa o quella forza
politica. Con un conseguente pericoloso accrescimento dell’intolleranza
sociale.
STORIA E RICORDO
di
Emanuele Fiano*
Friedrich
Nietzsche, a proposito del lento corpo a corpo tra memoria e oblio che coinvolge
ciascun essere umano ogni volta che si trovi a rendere conto del proprio
passato, scrive: «lo non posso aver fatto questo», dice la mia memoria. «lo
non posso aver fatto questo - dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla
fine - è la memoria ad arrendersi». Interrogare le nostre storie e le nostre
azioni a 60 anni dalla liberazione di Auschwitz,
non può prescindere dall'abbandono di orgogli ideologici. La storia va
raccontata tutta. La Giornata della memoria è oggi una scadenza
istituzionale, ma questo non implica che essa possa intendersi come un'occasione
in cui al centro si collocano solo i morti. Certo, gli sterminati, sono il luogo
della riflessione; ma la memoria, è quella dei vivi, di quelli nati dopo. È la
nostra identità che deve interrogarsi oggi, e lo dico in specie a Milano, città
laboratorio politico e frontiera dell’Europa. Più che mai oggi, purtroppo,
dai nostri padri, la memoria deve diventare il progetto di noi figli. In questo
senso la Giornata della memoria, più che una rievocazione, rappresenta una
"chance". Per interrogarsi sui nostri comportamenti, per ritrovare
all'interno delle nostre storie di vita concrete, uno sguardo non finto sul
destino del mondo. Il nucleo essenziale di questa giornata produce domande: com'è
accaduto un evento? Quali sono stati i passaggi comportamentali, mentali,
culturali, che lo hanno posto in essere? Chi ha fatto cosa e perché? Era
determinato a priori che gli individui si comportassero così? Immaginate la
deportazione, immaginate voi, le vostre famiglie, le vostre case aperte,
depredate, i vostri cari razziati, e voi con loro, immaginate Milano che guarda,
e gli ebrei che vanno a morire. La Giornata della memoria è allora un luogo nel
tempo per riflettere sui comportamenti, per trovarvi la possibilità della
scelta diversa e non predeterminata, per interrogare i silenzi che nel tempo non
si sciolgono. Cioè non unicamente un'occasione dove prende corpo la dimensione
del lutto. È, invece, o può essere invece, un'occasione in cui si riflette
pacatamente sui nodi non sciolti, sugli atteggiamenti che nel tempo abbiamo
rimosso per costruire una storia coerente e "sopportabile". Se
vogliamo è anche un modo in cui l'orgoglio cede il passo e lascia spazio a
una dimensione civile. Ma questo dipende da noi. La memoria come la storia non
parlano per se stesse, sono il segno di una relazione, di un modo critico di
connettere passato e futuro attraverso le domande che riguardano il nostro
presente e la nostra storia individuale e collettiva.
* Consigliere Unione Comunità Ebraiche
La
storia Dalle celle di San Vittore ad Auschwitz Bimba di nove anni, fu uccisa con la madre nelle camere a gas di P.P. (Pierluigi Panza)
La
bambina che vedete in questa foto si chiamava Sissel, Emilia Vogelmann ed era
nata a Torino il 3 settembre 1935. Il 6 febbraio del 1944 la piccola era già
morta. La famiglia del padre lasciò la Galizia a
inizio Novecento e si stabili
prima a Vienna, poi in Palestina e quindi, dopo un lungo vagare, a Torino e a
Firenze. In Italia il padre di SisseI trovò lavoro come tipografo e sposò Anna
Disegni, figlia del rabbino di Torino.
Dapprima, i loro, furono anni
sereni in Italia: si conservano lettere della piccola che scrive ai nonni da
Torino e foto sulla spiaggia di Viareggio e a passeggio con il padre sul
Lungarno. Ma, nel 1938 vennero promulgate le leggi antiebraiche: la madre Anna
dovette lasciare l'insegnamento mentre la piccola Sissel non poté più
frequentare la scuola. Quando, dopo l'8 settembre del '43, i tedeschi
attaccarono l'Italia, il padre di Sissel, Schulim Vogelmann, la madre e la
piccola cercarono di fuggire in Svizzera. Forse grazie anche alla segnalazione
di qualche solerte italiano, la famiglia venne fermata alla stazione di
Sondrio, da dove iniziò il calvario che avrebbe condotto anche Sissel alla
fine. Il giornale «Il popolo valtellinese» del 25 dicembre 1943, con il
sinistro titolo «Ebrei e milioni sotto chiave», riferiva: «Veniamo a
conoscenza
che anche durante quest'ultima settimana i militi della guardia nazionale
repubblicana di Tirano hanno provveduto all’arresto di ben 42 ebrei». Dopo
un primo periodo di prigionia, Sissel e i suoi genitori vennero tradotti nel
carcere di San Vittore a Milano e rinchiusi nel quarto e quinto raggio.
Finirono anche loro sul treno che il 30 gennaio 1944 partì dal binario 21
della Stazione Centrale in direzione di Auschwitz. Sei giorni dopo, madre e
bambina erano già state eliminate nelle camere a gas. Il padre, che era
tipografo
e quindi utile ai nazisti, divenne invece il numero 173484 e si salvò. I
ricordi della loro storia si sono conservati grazie alla testimonianza di
Daniel Vogelmann, figlio del secondo matrimonio del signor Schulim Vogelman. |
Dal
Corriere della sera, 27
gennaio 2005