Corriere della sera

La musica al tempo di Hitler, un incubo «degenerato»

Mostre e concerti a Parigi per i compositori perseguitati e oscurati dal nazismo. Nel nome di un'arte ariana

Giuseppina Manin

PARIGI - Quel teatro era sempre pieno. Ogni sera un concerto, un'opera, e spesso delle novità. Gli artisti non mancavano a Terezin, campo di deportazione modello, supervisionato dalle SS e pubblicizzato dal regime per mostrare al mondo i muscoli della sua liberalità culturale. Musicisti, pittori, teatranti, in gran parte erano deportati lì, in quel Parnaso cinto di filo spinato, così pratico perché così vicino ad Auschwitz. Pochi chilometri e via, a suon di musica verso le camere a gas. Eppure in quell'inferno Viktor Ullmann compose nel '43 un'opera, Der Kaiser von Atlantis, dove la Morte si mette in sciopero perché gli uomini le stanno portando via il lavoro, secondo il beffardo libretto scritto da Petr Kien sul retro dell'elenco degli internati. Sempre a Terezin, Han Krasa compone Brundibar, opera per bambini, i bambini del campo, replicata lì ben una trentina di volte. Benvenuti in  «Germania, terra della musica» dice un agghiacciante manifesto di propaganda di quegli anni, ora esposto alla Cité de la Musique, per la mostra «Il Terzo Reich e la musica» (fino al 9 gennaio) corredata da una serie di concerti dedicati ai compositori di quel periodo. Allineati e non. Perché insieme al folle sogno di una razza pura, il nazismo ne aveva un altro, quello di una musica pura. Un Pantheon di suoni squisitamente ariani il cui ceppo attingeva ai grandi nomi di Bach, Haendel, Beethoven e aveva la sua apoteosi in Wagner e Bruckner. Musicisti questi ultimi prediletti da Hitler, che fin da bambino adorava le opere del primo, mentre nel '37 rese onore al secondo, benedicendone il busto marmoreo nel Walhalla di Ratisbona durante una cerimonia apice della politica musicale nazista. Con una selezione drastica il Terzo reich spazzò via tutto quello che nell'arte non rispondeva ai canoni di un'estetica nazional-popolare semplice e accessibile a tutti. «Le opere d'arte che richiedono una quantità esagerata di spiegazioni non capiteranno più tra le mani dei cittadini tedeschi», aveva promesso Hitler. E così fu. A venir messi al bando furono i nuovi talenti come Schoenberg, Hindemith, Krasa. Eisler, Krenek, Schulhoff, colpevoli di produrre quella musica bollata nel '38 a Düsseldorf come «degenerata» alla pari del jazz, pericoloso veicolo di un'invasione «negra», irriso in un manifesto dove un nero dall'aspetto scimmiesco suona il sassofono. Dall'altra parte, esclusi dai programmi furono anche grandi nomi del passato, rei di ebraicità, come Meyerbeer, Offenbach, Maheler, Mendelssohn. A quest'ultimo è legata una delle iniziative più grottesche di quegli anni: il bando di concorso per scrivere un nuovo «Sogno di una notte di mezza estate» ma in chiave ariana. Richard Strauss, che pur verso il regime aveva avuto più di una debolezza, definì il progetto ridicolo. Sul serio invece lo prese Carl Orff, con Werner Egk tra i grandi profittatori del regime, sempre pronti ad adeguarsi alle nuove direttive pur di stare a galla. Nella fascia molle di chi si barcamena nell'ambiguità spicca invece Anton Webern. Pur essendo uno dei «fabbricanti di rumori atonali », secondo la definizione di Goebbels, riuscì a restare a Vienna, tollerato dal potere, che invano aveva cercato di convertire alla musica seriale. Nelle stesse acque poco limpide riuscì a navigare anche un grande direttore come Wilhelm Furtwaengler, amatissimo da Hitler che lo preferiva all'altro re del podio, Hans Knappertsbusch, dall'incrollabile fede antisemita. E nel '37 fu proprio Furtwaengler a dirigere «Parsifal» a Bayreuth, tempio wagneriano retto da Winifred Wagner, vedova di Siegfried, figlio del compositore, grande ammiratrice di Hitler. Una foto la ritrae in abito da sera mentre lo accoglie al Festival. Dallelenco manicheo della musica «buona» e «cattiva» non sfugge neanche la canzone. Genere popolare e quindi da controllare con la massima attenzione. Fronti opposti dominati da due donne simbolo: la pericolosa e irridente Marlene Dietrich, la docile e utilissima Zarah Leander, pronta a rincuorare le truppe al fronte intonando languida. «So che un giorno arriverà un miracolo».

Dal Corriere della sera, 17 ottobre 2004

sommario