Corriere della sera

L'INTERVISTA - Elie Wiesel: «Il Muro ha salvato molte vite»

dal nostro corrispondente Alessandra Farkas

NEW YORK - «Francamente non riesco a capire tanto rumore per nulla. Quello costruito in Israele non è un muro ma una recinzione per proteggere il Paese dagli attacchi suicidi dei kamikaze. Se riesce in questo intento, com'è il caso, la sua funzione, peraltro temporanea, è inattaccabile». Parla Elie Wiesel, l'autorevole scrittore e premio Nobel per la pace scampato ad Auschwitz che si dice contrario al «processo» iniziato ieri presso la Corte internazionale di giustizia dell'Aja per discutere la legittimità del muro costruito da Israele in Cisgiordania. «Penso che ogni nazione sovrana e ogni governo civile hanno il diritto-dovere di difendere i propri cittadini come meglio possono - spiega Wiesel - non è certo compito del tribunale Onu immischiarsi in questa faccenda, ordinando a Israele di non difendere le proprie donne, vecchi e bambini. Forse quel tribunale è pronto a proteggere gli innocenti trucidati ogni giorno dai terroristi? Se la risposta è sì, allora possiamo parlare di abbattere quel recinto».

Secondo i palestinesi è uno strumento di segregazione che li penalizza gravemente.

«Grazie a quella barriera pochissimi terroristi sono riusciti ad entrare nel Paese e ciò ha salvato non solo tante vite israeliane ma altrettante palestinesi, visto che dopo ogni attentato suicida la puntuale risposta dello Stato provoca nuove vittime tra i palestinesi. Non dimentichiamoci che quella staccionata non è stata ispirata da una decisione politica ma di sicurezza nazionale: se si arriva a un accordo di pace tra le parti basteranno pochi giorni per abbatterlo».

Ha fatto male l'ambasciata d'Israele all'Aja a mostrare le foto delle vittime israeliane alla vigilia del processo?

«Perché mai? Nessuno ha portato quelle foto all'interno del tribunale, cercando di influenzare i magistrati e perciò il violento attacco anti-israeliano del sindaco dell’Aja mi sembra incomprensibile. Come si può criticare un'azione volta solo a salvare vite?».

Pensa che i palestinesi stiano vincendo la guerra dei mass media?

«Israele sta lottando per la propria esistenza e la sua priorità assoluta è salvare vite e difendere la dignità delle persone che vogliono vivere. Spiegare al mondo le proprie ragioni e compiacere l'opinione pubblica non può quindi che venire in secondo luogo. Ma forse è una lotta persa in partenza a giudicare dalla violenza degli attacchi che Israele si è tirata addosso quando ha mostrato le foto delle sue vittime fuori dal tribunale dell'Aja».

Eppure anche l'amministrazione Bush ha espresso non poche riserve nei confronti del muro.

«È un problema di linguaggio, lo ripeto. Non avrebbero mai dovuto chiamarlo muro perché quella parola ha strane connotazioni che riesumano vecchi fantasmi - dal muro del ghetto di Varsavia, al muro di Berlino - spingendo l'entourage di Arafat a ribattezzarlo "il muro nazista". Ma è a dir poco offensivo e ripugnante paragonare qualsiasi cosa succeda in Israele con il tragico passato dei suoi abitanti. L'unica via di uscita da questa spirale d'odio è la ripresa del dialogo che può avvenire solo quando entrambe le parti abbasseranno il volume e la violenza degli insulti reciproci. Fino ad allora Israele deve continuare a fare ciò che fa, difendendo entrambi con uno steccato che, non dimentichiamolo, tra vicini di casa è normale».

È ottimista?

«Se qualcuno mi avesse detto, nel 1945, che sarei vissuto per combattere questa crociata nel 2004 non ci avrei mai creduto. Ero convinto che l'antisemitismo fosse morto ad Auschwitz e invece ho dovuto constatare con stupore che solo gli ebrei sono morti in quel lager mentre l'antisemitismo è più sano e vegeto che mai. È stata la più dolorosa realizzazione della mia vita».

Antisemitismo e recinto sono facce della stessa medaglia?

«Sì, ma l'Europa può fare molto, visto che - dall'inquisizione alle crociate, ai pogrom – l'antisemitismo è una malattia europea. Io non ho mai dimenticato quante volte l'Europa ha abbandonato Israele. Nel ’73, quando stava per perdere la guerra dello Yom Kippur che doveva decidere la propria esistenza, gli americani iniziarono a mandarle aerei ma non una sola nazione europea permise loro di atterrare per far rifornimento. Se lo ricordino bene quel triste capitolo di storia i leader europei che oggi attaccano il "muro"».

Dal Corriere della sera, 24 febbraio 2004

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