Corriere della sera

Leggi razziali, la storia infinita – Così gli ebrei italiani furono perseguitati e derubati prima e dopo il 1938

di Carlo Vulpio

Ma si può dire «razza ebraica»? No, non si può dire. Non solo perché è un’espressione infelice, odiosa, «politicamente scorretta». Non si può dire proprio tecnicamente. Nemmeno gli autori e gli esecutori delle famigerate leggi razziali fasciste riuscirono a spiegare concettualmente, prima ancora che giuridicamente, cosa diavolo volessero dire quando scrivevano «i cittadini italiani di razza ebraica». Si attorcigliarono intorno alle parole a tal punto che giunsero alla conclusione - in ogni articolo di legge, in ogni decreto o circolare ministeriale - che era da considerarsi di «razza ebraica» chi era figlio di almeno un genitore ebreo. Già, ma quando un genitore poteva dirsi ebreo? Era «da considerarsi ebreo» - ecco la risposta – chi professava quella religione. Con la paradossale conseguenza che anche due genitori cattolici che, poniamo, avessero abbracciato  la religione ebraica avrebbero perciò stesso cambiato «razza» e sarebbero diventati «ebrei», trascinando con sé anche i figli, i quali sarebbero stati «considerati di razza ebraica» anche se, per dire avessero scelto di farsi buddisti, cristiani, musulmani. «Una incredibile finzione giuridica, che di giuridico non ha nulla e che smonta la celebrata sistematicità e profondità dei giuristi fascisti», scrive Nicola Magrone, autore di Codice breve del razzismo fascista, una poderosa ricerca basata sugli atti ufficiali del Regime - leggi, decreti, regolamenti, sentenze, atti amministrativi - per capire, attraverso una rigorosa indagine normativa, (Magrone è un magistrato, capo, della Procura molisana di Larino), come sia potuto accadere. E, soprattutto, come sia stato possibile che anche dopo la caduta del fascismo agli ebrei gettati sul lastrico nemmeno le leggi e i tribunali della Repubblica abbiano riconosciuto una giusta riparazione. Tanto è vero che «la enormità del problema» ha portato, il primo dicembre 1998, all'istituzione della «Commissione parlamentare per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati». Commissione che ha concluso i lavori nell’aprile 2001 con un Rapporto dettagliato e tuttavia incompleto, al punto da raccomandare al governo «di dare continuità all’indagine anche dopo che la stessa Commissione avrà ufficialmente chiuso propri lavori». Ma andiamo con ordine. Una volta dimostrata l'esistenza di un terreno di coltura favorevole - nella società, nelle. convinzioni religiose diffuse, nella pubblicistica - all'accoglimento delle leggi razziali, Magrone ne prova anche la non estemporaneità: in sintesi, non si trattò del frutto di un improvviso impazzimento, o del «passo falso» di una dittatura «fino a quel momento» tutto sommato sopportabile. E nemmeno della volontà di non essere e non mostrarsi da meno dell’alleato nazista tedesco (su questo, è lo stesso Mussolini a rivendicare l'autonomia della scelta italiana). Fu invece l'esito di una scelta totalitaria da parte di un regime totalitario, praticata attraverso una feroce e puntigliosa normazione («Nonostante il fascismo non possa dirsi "razzista" in sé e per sé», avverte Magrone) e attuata a colpi di leggi ordinarie che pian piano scardinarono quella «flessibile» costituzione che era lo Statuto Albertino. Poi, una volta realizzato l’Impero, ecco come il Gran Consiglio del Fascismo inquadra «il problema ebraico»: «Esso è un aspetto metropolitano di un problema di carattere generale, l'ebraismo mondiale, che è il principale animatore dell’antifascismo all’estero… Noi difendiamo la nostra razza preservando il popolo e lo Stato dall’invadenza del mondo ebraico, la cui concezione politico-sociale-religiosa è assolutamente contrastante con la nostra»..,Ecco dunque il punto vero: nulla di biologico, ma due «razze», l'italiana e l'ebraica, definite sulla base di due distinte concezioni politico-sociali-religiose. A questo punto scattò il censimento degli ebrei casa per casa e l'obbligo per loro di autodenunciarsi come tali, con la concessione di un «premio» (l'annotazione «discriminato» sui documenti) nei casi di «speciali benemerenze», da valutarsi a discrezione del ministro dell'Interno, nei confronti del Regime. Poi si passò alla confisca dei beni degli ebrei, operazione condotta attraverso l'Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare) istituito nel 1939. E questo è forse l'argomento più interessante e sconvolgente del lavoro di Magrone, non solo perché inedito e sostanzialmente irrisolto dopo oltre mezzo secolo dalla caduta del fascismo, ma perché ci fa comprendere come la persecuzione sia continuata anche dopo, fin dentro alle aule dei tribunali, e come una cosa sia stata il processo di reintegrazione nei diritti civili e politici, un'altra la riparazione economica, la restituzione dei beni rapinati per legge prima, e per legge negati poi. Un paio di esempi chiariranno meglio. Il 25 luglio ‘49 Abramo Tedeschi chiede al Monte di credito di Pegno di essere indennizzato «per il sequestro da me subìto di 2 letti con rete, 1 mobile, 1 coperta verde, 1 paio di tendine, 1 tappeto da tavolo, 2 vasi da notte». Risposta dell'Egeli: «Ella è invitata a pagare il saldo di lire 5.473; più interessi, per la gestione dei beni a suo tempo confiscati in Suo danno in applicazione delle leggi razziali». Mentre Arrigo Vita, nel ‘48, denuncia inutilmente che «l'istituto San Paolo di Torino, delegato dall'Egeli, mi ha richiesto la somma di lire 18.650 per la gestione del mio alloggio durante il periodo nazifascista. Ho rifiutato di pagare ritenendo che l'Egeli abbia avuto la funzione di campo di concentramento per i nostri beni». Ostruzionismo, certo, ma non solo. Perché il fatto che non un caso sfuggisse a questa regola, scrive Magrone, «era dovuto alla preoccupazione del legislatore di far ruotare il tutto intorno al problema giuridico della buona fede che si presumeva in capo ai nuovi proprietari». Cosicché spettava a chi era stato spogliato e umiliato dare la «prova diabolica» della mancanza di buona fede da parte del soggetto, o dei soggetti (e spesso erano una fila più lunga di una processione), che si erano ingiustamente impossessati dei propri beni. Si spiegherà così la diffusa scelta degli ebrei di rinunciare a ogni azione legale. «Pena l'acuirsi di un sentimento, orgoglioso e impaurito insieme - sostiene Magrone - di identificazione, questa volta, con un grappolo di postulanti ebrei. Postulanti perché ebrei». I provvedimenti postfascisti, insomma, furono tutti sensibili ai diritti del «terzo in buona fede» e alle «ragioni» del popolo innocente e inconsapevole. Magrone: «Si tranquillizzavano così i beneficiari delle spoliazioni, tenendoli al riparo da ogni conseguenza patrimoniale ed economica della "abrogazione" delle leggi razziali, e si affermava l'innocenza dell’uomo comune", la sua estraneità agli eventi e alle brutalità razziste del regime». E quando i casi di indennizzo riuscivano ad arrivare in tribunale? Anche la magistratura dava risposte meramente formalistiche. Per esempio: un ebreo «discriminato», cioè parificato all'«ariano», poteva chiedere l'annullamento della vendita di un proprio bene? No, era la risposta, anche quella della Corte di cassazione, se non si poteva provare, «incontestabilmente» provare, che quella vendita fosse stata imposta dalla necessità di sottrarre il bene alla confisca dovuta alle leggi razziali. Stessa risposta nei casi in cui l'ebreo licenziato prima della formale approvazione delle leggi razziali chiedeva la riassunzione, «poiché quel licenziamento non fu imposto da una norma di legge». E così via.

Il libro: «Codice breve del razzismo fascista» di Nicola Magrone, ed. Popoli & Costituzioni


 La testimonianza - «Mi hanno tolto tutto, anche l’anima»

Spoliazione delle cose e dei corpi, ma anche spoliazione dell’anima, ecco cosa fu la persecuzione degli ebrei, al punto da renderla indicibile, irraccontabile. «Avrei preferito dimenticare; non ci sono riuscita. Oggi, la vita mi obbliga a ricordare», dice Elisa Springer. Ebrea di origine ungherese, nata a Vienna 85 anni fa, Elisa Springer ha impiegato più di 50 anni per riuscire a raccontare, con l’aiuto del figlio Silvio, medico, l’orrore dei lager nazisti in cui è stata rinchiusa dal ’43 al ’45 (a Bergen Belsen era nella stessa baracca con Anna Frank) e dove sono morti i suoi genitori e tre suoi zii. Nel ’97, ha pubblicato «Il silenzio dei vivi» (Marsilio), giunto alla decima edizione, seguito, sempre per lo stesso editore, da «L’eco del silenzio. La Shoah raccontata ai giovani». Elisa Springer fu catturata in Italia, a Milano, e incarcerata a San Vittore, poi con un treno da Verona venne deportata nel lager di Auschwitz, quindi a Bergen Belsen e infine a Therensienstadt. Sopravvisse perché la credettero morta. Nella testimonianza contenuta nel «Codice breve del razzismo fascista», Elisa Springer scrive: «Attenzione: la solitudine, la diversità mal sopportata, la sopraffazione, la disattenzione sono ancora di casa nella nostra civiltà. Purtroppo, sembra che tutte le nostre sofferenze, tutti i nostri morti non siano serviti proprio a nulla. L’uomo si butta tutto alle spalle, le guerre continuano, i delitti continuano, l’intolleranza continua». E conclude: «Sono solo una donna che ha subito, che ha vissuto tutto l’odio dell’uomo e che, malgrado tutto, ama disperatamente il suo prossimo».

Dal Corriere della sera, 23 novembre 2003

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