Corriere della sera

Il nazismo che Norimberga non cancellò

Medici – criminali e magistrati del Reich: tutti ai loro posti anche nel dopoguerra. In una nuova raccolta di saggi una sconcertante panoramica sul mancato ricambio delle classi dirigenti tedesche

di Giovanni Belardelli

Secondo gli Alleati, dopo aver sconfitto Hitler, era necessario sradicare completamente il nazismo dalla società tedesca, colpendo quanti avevano contribuito al funzionamento della dittatura e della stessa macchina dello sterminio. Il tribunale di Norimberga sottopose perciò a giudizio non solo i principali esponenti politici del Terzo Reich, ma anche alcuni dei maggiori rappresentanti di quelle élite sociali e tecniche che avevano collaborato con il regime nazionalsocialista. Contemporaneamen­te i tribunali militari delle zone di occupazione processarono molti industriali, magistrati, militari, medici, alti funzionari statali. Già nel luglio 1945 gli americani avevano dato un chiaro segnale dell’intenzione di «denazificare» la Germania arrestando decine di migliaia di membri dell’élite tedesca. Nel giro di qualche mese gli internati raggiunsero la cifra di 250.000. Se fu soltanto una minoranza a subire processi e condanne, tutti gli altri dovettero comunque passare attraverso quel procedimento di «denazificazione» che fu imposto a milioni di tedeschi. Solo chi avesse chiarito in tal modo le proprie responsabilità poteva poi rientrare pienamente nella vita civile. La «denazificazione», al di là delle conseguenze quantitativamente limitate (poiché quasi tutti la superarono), ebbe un grande valore in termini di cesura con il passato: obbligando tutti i tedeschi a giustificarsi, stava a significare che non vi era nessun futuro possibile per il nazionalsocialismo. Tuttavia, senza sottovalutare il significato di quella rottura, è altresì innegabile che il procedimento di «denazificazione» presto divenne quasi una farsa, anche grazie alla facilità con cui si potevano ottenere dalle Chiese degli attestati di innocenza. Nel giro di pochissimi anni, molti di coloro che avevano collaborato con il regime di Hitler si trovarono di nuovo a esercitare le funzioni di un tempo, come si ricava da un libro di straordinario interesse, curato da Norbert Frei, che raccoglie i saggi di vari studiosi sulle tante carriere iniziate nel Terzo Reich e proseguite nella Repubblica federale tedesca. Vediamo così che già nel 1949 quasi tutti i rappresentanti di una scienza medica che aveva tradito la propria missione dandosi come scopo non più la salute del singolo ma quella della «razza ariana»; erano tornati nelle università e negli istituti di ricerca in cui lavoravano prima della guerra. Nel 1952 risultavano ormai riabilitati tutti i liberi docenti, compresi dei membri delle SS e alcuni medici che avevano collaborato agli esperimenti su esseri umani. Chi aveva partecipato al programma di «eutanasia» (che comportava la soppressione dei malati incurabili e dei portatori di handicap) continuava a insegnare alle nuove generazioni di medici. I pochissimi che si trovarono accusati da un tribunale della nuova Germania federale furono al massimo ritenuti colpevoli del cosiddetto «errore di valutazione circa l'antigiuridicità del fatto commesso»: in pratica, li si riconosceva non consapevoli del fatto che le loro azioni erano contrarie alla legge (una motivazione, questa, che non fu impiegata soltanto a favore dei medici). Non meno incredibile appare il caso dei magistrati, che riuscirono ad accreditarsi come un ceto di esperti e di tecnici che avevano soltanto applicato la legge, laddove era vero il contrario: che le leggi naziste spesso erano state interpretate in modo particolarmente severo. Già nel 1946 la penuria di magistrati giustificò il cosiddetto procedimento «a cavalluccio»: per ogni giudice non compromesso con il nazismo era consentito impiegarne uno compromesso. Ma presto, superata la procedura di «denazificazione», tornarono nei tribunali quasi tutti coloro che vi lavoravano fino al 1945. Così, scrive Frei, i tedeschi perseguitati dal regime nazista che si rivolgevano a un tribunale «potevano trovarsi di fronte allo stesso giudice che li aveva condannati nel Terzo Reich». La continuità era assai marcata anche tra il personale del ministero federale della Giustizia che, in alcune sezioni, sembrava riprodurre - secondo gli autori di questo volume – la  composizione esistente ai tempi di Hitler. Non diverso il caso del ministero degli Esteri, che ai tempi di Adenauer aveva in quasi tutte le posizioni dirigenti i funzionari dell'epoca di Ribbentrop. Di questa continuità il libro presenta un campionario vastissimo e sconcertante anche per quel che riguarda altri settori chiave delle élite tedesche, come gli industriali, i militari e i giornalisti (a ciascuno dei quali è dedicato un saggio). Ma il volume ha il merito di evitare le facili recriminazioni postume, analizzando invece le cause storiche di una simile continuità, a cominciare dalla principale, dal fatto cioè che una «denazificazione» radicale avrebbe implicato qualcosa di impossibile: l'emarginazione dalla nuova Germania democratica di milioni di tedeschi che in precedenza avevano aderito con entusiasmo al regime nazionalsocialista. Proprio la stabilità della nuova Repubblica federale richiedeva, ad esempio, di integrare milioni di ex militari che avevano servito Hitler, al fine di evitarne la deriva politica verso destra. Tra i prezzi da pagare vi fu quello di accettare una visione del recente passato di natura largamente mitologica, finendo col credere, nel caso delle forze armate, che la Wehrmacht si fosse mantenuta indipendente dalle azioni criminali compiute dalle SS ed estranea allo sterminio degli ebrei. Più in generale si accreditò a lungo, come scrive uno degli autori del libro, la favola dei tedeschi «innocenti» dominati da «una piccola cricca senza scrupoli» dì fanatici in camicia bruna. Sarebbe stato necessario che la generazione di quanti avevano collaborato con Hitler uscisse di scena perché, da parte dell'opinione pubblica tedesca, questa e altre «favole» analoghe venissero finalmente riconosciute come tali.

 Il caso del pediatra

Un caso particolarmente esemplare è quello del professor Werner Catel (1894-1981): pediatra, capo della Clinica universitaria di Lipsia, partecipò ai progetti nazisti di eutanasia infantile, per la soppressione di bambini portatori di handicap. Nel ’47 divenne direttore della Clinica Pediatrica di Mammolshöhe; nel ’54 fu nominato professore di Pediatria all’università di Kiel; ancora nel 1964, in un’intervista a “Dier Spiegel”, si dichiarò a favore della soppressione di bambini nei quali non fossero riscontrabili “moti psichici”: “Mi creda, è possibile in ogni caso distinguere gli esseri privi di anima dai futuro uomini”.

Dal Corriere della sera, 2 novembre 2003

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