Corriere della sera
Giorno della memoria
Ciampi: anche il nostro Paese fu colpevole
Una pausa, nel discorso del capo dello Stato, scatena un’ipotesi su un’allusione ai Savoia.
di Lorenzo Salvia
«Lo sterminio di oltre un quinto degli ebrei italiani non fu dovuto soltanto alla barbarie nazista: Fu reso possibile dalle vergognose leggi razziali del 1938». Poi una pausa. Più.lunga delle altre. Per cinque secondi Carlo Azeglio Ciampi alza lo sguardo dai fogli che sta leggendo. Come per dare il tempo di riflettere. E c'è chi legge in quelle parole, in quella pausa, anche una critica ai Savoia. Dice Amos Luzzatto, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane: «E' un dato di fatto: censurare le leggi razziali vuol dire censurare anche chi quelle leggi le firmò, cioè la famiglia reale. Ma pure gli italiani fecero la loro parte. Specie prima dell’ 8 settembre, quando molti erano ben contenti di prendere il posto di lavoro che gli ebrei dovevano lasciare». Il Capo dello Stato parla ai ragazzi. Agli studenti premiati per «L'Europa: dagli orrori della Shoah al valore dell'unità», concorso organizzato dal ministero dell’Istruzione in vista del Giorno della memoria. Ciampi non ricorda solo le responsabilità del nostro Paese, ma anche i meriti. Perché, sottolinea, ci fu un «grande numero di italiani non ebrei, migliaia di uomini e donne di ogni ceto e di ogni regione, civili e militari, funzionari e diplomatici, religiosi e religiose che non obbedirono a quelle leggi e soccorsero gli ebrei perseguitati, salvandone e proteggendone molte migliaia». Per questo ci sono 295 nomi italiani nel Giardino dei giusti di Gerusalemme, dove sono ricordate le persone che si opposero all'Olocausto. Il presidente della Repubblica si rivolge direttamente agli studenti, ai ragazzi arrivati da tutta Italia al Quirinale e seduti in ordine nella sala dei Corazzieri: «Ē indispensabile, cari giovani, che anche voi compiate lo sforzo difficile per ricordare. Dico che occorre non soltanto dimenticare, cioè non lasciarsi uscire dalla mente queste cose, ma occorre ricordare, ossia conservare nel cuore oltre che nella mente la memoria del passato». Poi la premiazione, occhi lucidi e foto di rito. Al concorso hanno partecipato 20 mila studenti, inviando un tema, un disegno o un poster. E' solo una delle tante iniziative per il Giorno della memoria che si celebra il 27 gennaio, anniversario della liberazione per gli internati del campo di Auschwitz. Manifestazioni sono state organizzate in diverse città. Da Firenze partirà il treno della memoria, un 'esposizione itinerante dedicata ai ragazzi. Il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, sarà al Museo del deportato di Carpi. Inaugurerà la mostra dedicata a Giorgio Perlasca, l'italiano che salvò dallo sterminio migliaia di ebrei spacciandosi per il console spagnolo a Budapest.
E il «buon italiano» si scoprì razzista
Nel ’38 la rivista di Interlandi cercò di divulgare i principi discriminatori delle leggi contro gli ebrei. Calunnie cui pochi reagirono
di Wanda Lattes
Nell’estate
1938, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione del «Manifesto della razza»
apparso sul «Giornale d’Italia» il 14 luglio, inizia le sue pubblicazioni la
rivista «La difesa della razza» che sotto la direzione di Telesio Interlandi,
grazie al lavoro di un notevole numero di redattori e collaboratori, sarebbe
uscito con cadenza mensile per essere distribuita con larghezza di mezzi, fino
alla vigilia della caduta del regime fascista, il 29 giugno 1943. La rivista
aveva molti abbonati, ma andava anche in edicola, assai reclamizzata. Il
periodico, il cui direttore aveva iniziato la carriera con il volume: «Contra
judeos» aveva la pretesa di essere una rivista di divulgazione scientifica,
contando, per il vero, sul contributo di studiosi di antropologia, zoologia,
demografia, medicina, statistica e così via. Ma comunque il suo preteso livello
non nascose mai la vera ragione di essere, cioè la diffusione di pregiudizi,
falsità, leggende antiebraiche, capaci di sorreggere il senso delle leggi
razziali, diffondendo quell’antisemitismo che preparava l’umiliazione e
quindi l’assassinio degli ebrei italiani. Alla rivista, e in particolare a
caratteristiche e significato delle illustrazioni numerose in essa contenute, ha
dedicato il suo studio il dottor Sandro Servi, fiorentino, consulente e
coordinatore di progetti educativi per le comunità ebraiche italiane. Ha
esposto il suo lavoro, Sandro Servi, durante il convegno tenuto nell’autunno
2002 alla Yeschiva University di New York, sotto la presidenza di Joshua
Zimmermann, con il titolo: «Gli
ebrei italiani sotto il fascismo e il nazionalsocialismo». Gli argomenti
relativi a condizioni, vita e morte di circa 40 mila ebrei italiani, prima,
durante e dopo la persecuzione, sono stati sviscerati da studiosi di diversi
Paesi e tendenze storiografiche: tra gli italiani Mario Toscano, Stanislao
Pugliese, Michele Sarfatti, Roberto Finzi, Susan Zuccotti, Liliana Picciotto,
Anna Bravo e Manuela Consoni, introdotti da Alexander Stille. Un'analisi a largo
spettro. La violenza, il cattivo gusto, l'inaffidabilità delle illustrazioni de
«La difesa della razza» hanno profondamente colpito i partecipanti al
convegno. Non soltanto perché è ancora diffuso nel mondo lo stereotipo di
un'Italia fascista che in fondo ama e rispetta i cittadini ebrei, poi a
malincuore sacrificati alla ferocia nazista, ma anche perché le caratteristiche
intrinseche dell'apparato illustrativo sono di così bassa qualità da
testimoniare grave ignoranza. Ma che Italia era questa? Si sono chiesti gli
intervenuti a New York. Vignette, riproduzioni, montaggi fotografici sono stati
divisi dallo studioso in quattro filoni fondamentali. Nel primo raggruppamento
si palesa il tentativo di consolidare il mito della razza italiana attraverso
schemi, disegni, foto ispirati a una scienza positivista, a una pretesa genetica
tesa a documentare le caratteristiche di razze superiori, come appunto l'italica
e la germanica, in contrasto con razze inferiori, nera, gialla, e naturalmente
ebraica. Alle razze inferiori le illustrazioni assimilano i «degenerati» cioè
francesi, inglesi, americani, che non hanno le nobili radici dell'Impero romano.
Un secondo filone di illustrazioni può essere raggruppato in ragione
dell'intento politico ideologico, contraddittorio ma esplicito. Gli ebrei sono
orrendi capitalisti, padroni della plutocrazia, ma anche spaventosi
rivoluzionari legati al marxismo, al comunismo, e dunque vengono raffigurati
nelle caricature ora come schifosi proletari sporchi e violenti, ora come
miliardari coperti d'oro. Poi c'è il filone semplicistico della scoperta del
cittadino traditore, che associa l'ebreo agli imperialismi americani, sovietici
e dei maledetti inglesi, con opportuni disegni. Infine, e forse per primo, il più
impressionante dei sistemi di accusa grafica, ripreso dall'antico antigiudaismo
cristiano: qui una messe di pitture, stampe, schizzi fa vedere gli ebrei
profanatori dell'ostia consacrata, legati al deicidio, e molto spesso dediti
all'assassinio efferato soprattutto di bambini dai quali si preleverebbe il
sangue per riti immondi. Chi ha osservato le illustrazioni della rivista,
diffusa per ben cinque anni, non ha potuto né può fare a meno di domandarsi se
e quanto la violenta propaganda figurata, accompagnata del resto da rinforzi e
commenti su altre e ben più prestigiose testate, sia arrivata allora al cuore e
al cervello dell'italiano medio. Vale la pena
di ricordare che da parte sua Pio XI, destinato a morte prematura, già
nel luglio '38 proclamava agli allievi di Propaganda Fide, che «esiste una sola
razza umana». La protesta contro le leggi razziali era precisa. Come reagiva
allora, in cuor suo il cattolico medio di fronte al razzismo proclamato in altra
sede, eppure definito una bestemmia? Quanti colti italiani, per contro, ridevano
contenti vedendo insultare con vignette il genio di Einstein, o ammirando
l'antico disegno di un bimbo ferito a morte, sanguinante per fornire condimento
al pane degli ebrei? La risposta a tali domande, per ora, i sociologi non sanno
darla. Ma la giornata della memoria, che si celebra dopodomani, serve per un
esame di coscienza.
Dal Corriere della sera, 25 gennaio 2003
Il caso. I campi italiani dimenticati da tutti: ville e
quartieri dove c’era la morte. Sono almeno 135, molti sono stati distrutti, in
pochissimi vi è una lapide. Ora uno è diventato una stazione di polizia mentre
in un altro si celebrano matrimoni e feste.
di
Lorenzo
Salvia
ROMA
- Campi di concentramento. Non solo ad Auschwitz o Dachau. Ma anche in Italia. A
Ferrara, Asti, Mantova, Chieti, Isernia, Verona. Almeno 135 quelli di cui è
stata trovata traccia. Eppure sono luoghi dimenticati. Chi vive nei dintorni
spesso non ne sa nulla. Molti sono stati distrutti. Altri trasformati in
villette o case di riposo. Spesso non c'è nemmeno una lapide che ricordi quel
periodo. «Una pagina a lungo ignorata», dice Amos Luzzatto, presidente
dell'Unione delle comunità ebraiche. Ad occuparsi della questione è stato lo
studioso Fabio Galluccio. Ha messo insieme ricerche fatte a livello regionale,
lavori di altri storici. E' andato alla ricerca di quei posti. Ha chiesto agli
abitanti del luogo, parlato con i sindaci, gli anziani. Il risultato è finito
in un libro, «I lager in Italia», pubblicato in 2 mila copie. I primi campi
vennero creati nel 1940 per internare i cittadini degli stati nemici. Ma ben
presto cominciarono ad essere usati per ebrei, zingari, omosessuali, slavi delle
zone occupate. Non erano luoghi di sterminio, con esecuzioni di massa. Ma le
condizioni di vita erano durissime. E non mancarono le fucilazioni sul posto.
Della maggior parte dei lager non resta niente. Distrutti dal tempo, coperti
dalla vegetazione, o rasi al suolo. Come nel caso di Anghiari, in Toscana: oggi
c'è un quartiere di case a schiera. Oppure trasformati: il campo di Urbisaglia,
nelle Marche, è diventato una villa per i ricevimenti matrimoniali. Quello di
Farfa Sabina, nel Lazio, una stazione di polizia. Quello di Civitella del
Tronto, in Abruzzo, un ospizio come quello di Agnone, nel Molise. Spesso non c'è
nulla che ricordi cosa è successo. «Sono stati luoghi di deportazione - dice
Galluccio - di tortura e anche di morte. Eppure nella grande maggioranza dei
casi non c'è nemmeno una lapide. Forse per senso di colpa, o per scelta
politica». Luzzatto: «Sarebbe giusto se tutti quei posti fossero ricordati in
qualche modo. Per fortuna negli ultimi tempi qualcosa sta cambiando». Quali
sono i lager dimenticati? Più facile contare quelli in cui c'è almeno una
lapide. Oltre alla Risiera di San Sabba, di Trieste, i casi sono pochi. Tra
questi il campo di Ferramonti, in Calabria, che una fondazione sta cercando
faticosamente di risistemare. E poi quelli di Fossoli, vicino a Modena, e di
Anghiari.
«Una ninna nanna. E i bambini morivano». Il racconto di una sopravvissuta a Ravensbrück
«Molte partorivano, i neonati venivano eliminati»
di
Gian
Antonio Stella
Finita
la guerra, la conta delle vittime avrebbe rivelato: almeno 125 mila ebree,
zingare, comuniste, "asociali" e prigioniere russe internate, 95 mila
(tra le quali almeno 919 italiane identificate) uccise dalla fame, dal freddo,
dalle sevizie, dalle camere a gas costruite nel 1944 o dall'agonia di una
spaventosa «marcia della morte» organizzata dai nazisti pochi giorni prima
dell'arrivo delle truppe sovietiche. Per non parlare delle migliaia (il numero
è ignoto: le SS in rotta distrussero i registri) di bambini che, in quel campo
dove «i fili spinati erano pieni di biancheria infantile ..stesa al vento ad
asciugare», come, scrisse Primo Levi, avevano la sorte segnata. «Quando nasce un
bambino ebreo o quando una
donna arriva al campo con un bambino, non so che fare del bambino -
spiegava ad Auschwitz Josef Mengele -. Non posso lasciarlo libero perché
non ci sono più ebrei in libertà. Non posso tenerlo nel campo perché non ci
sono strutture che gli permettano di crescere normalmente. Non sarebbe un atto
umanitario mandare un bambino ai forni senza permettere alla madre di
assistere alla morte del figlio».
«A Ravensbrück e a Bergen Belsen, quando i bimbi nati in infermeria si
rivelavano sani e vitali, venivano strangolati o annegati sotto gli occhi della
madre», spiegano Bruna Bianchi e Adriana Lotto in Deportazione e memorie
femminili (edizioni Unicopli, € 19), una documentatissima ricostruzione
della vita di migliaia di donne nei lager sudafricani, nazisti e staliniani. Ad
Auschwitz, le deportate che lavoravano al Revier sopprimevano i bambini con il
veleno per salvare la vita alle madri. Scrive Lucie Adelsberger, che lì aveva
le funzioni di medico: «Tutto il veleno del campo fu usato per uccidere i
neonati, e non era mai abbastanza. (...) Quando le compagne che aiutavano nel
parto sopprimevano il bambino affogandolo in un secchio d'acqua, facevano
credere alla madre che il piccolo era nato morto. (...) A partire dall'estate
del 1944 molti bambini subirono una sorte ancora più atroce, gettati vivi nei
crematori o nelle fosse comuni cui veniva appiccato il fuoco». Questo aveva
negli occhi Madeleine Roussenne, una francese
finita a Ravensbrück con la
casacca a righe marchiata dal triangolo rosso che toccava ai
"politici": cataste di pannolini e orsacchiotti e vestitini
ammucchiati fuori dalla camera a gas. Per questo, dopo essere tornata a vivere,
si sentiva in colpa: perché tra gli 870 bambini nati negli ultimi mesi di
guerra nel lager femminile, quando ormai i nazisti avevano scelto (per vedere
quali erano i limiti di resistenza di un neonato, pare) di lasciare che fossero
il freddo e la fame e i topi a farsi carico di uccidere i più piccoli, la sua
figlioletta era una delle pochissime ad essere sopravvissuta. Nacque il 21 marzo
1945, in una sordida baracca, senza acqua né elettricità: «Era scuro quando
vi arrivai, una bugia posata al suolo lo rischiarava debolmente. Il materiale di
cui disponeva la levatrice era dei più rudimentali: un paio di forbici, un
gomitolo di cotone da rammendo, delle fasce di carta, una piccola bacinella
d'acqua, un minuscolo flacone di disinfettante. Tre o quattro sovietiche
partorivano sui loro pagliericci. La levatrice era una prigioniera per reati
comuni, si chiamava Terza». Avevano
un forcipe pericolosamente «preso in prestito» in infermeria, un po' di acqua
calda come «regalo di nascita» rubata nelle cucine, nient'altro. Ma andò
tutto bene. Un miracolo: «Ho visto, tra le altre, morire una polacca,
per mancanza di cure appropriate, in
seguito ad un cesareo praticato da Terza in condizioni precarie, senza
disinfettante. Aveva fatto quanto aveva potuto per salvare
la nostra compagna, ma, perché
potesse sopravvivere, ci sarebbe voluto ben altro che della competenza e della
dedizione. Dalla sua ferita si diffondeva un odore difficilmente sopportabile.
È morta dopo giorni e giorni di
agonia e di delirio». La piccola fu chiamata Sylvie, dotata subito del numero
di serie (61.162) e destinata alla Kinderzimmer, dove i neonati dormivano
staccati dalle madri: «Giacevano in dieci per ogni pagliericcio e, sempre per
ciascun pagliericcio, era stata distribuita una sola coperta. Cosa rarissima al
campo, c'erano vetri alle finestre. Non c'era elettricità. Vi si accendeva una
stufa ogni mattina con appena due mattonelle di carbone e non era più
alimentata». Faceva freddo, in quel marzo prussiano. Anche 20 gradi sotto zero,
certe notti. «Niente era stato previsto per la pulizia. Come le altre ho lavato
mia figlia ogni mattina nella mia gamella con la mia razione di
"caffè"». I neonati vivevano «di una specie di pappa d'avena fatta
con l'acqua, nella quale talvolta veniva aggiunto un po' di latte (...) Si
masticava e rimasticava una
buccia di patata trovata per terra e la si faceva scivolare nella boccuccia
del bambino. La buccia di patata inoltre era ottima, almeno così
sembrava, contro la diarrea; una o l'altra
di noi, per tenerci su di morale, lo ribadiva: «Sai, durante la guerra del
1914...». All'alba, «ognuna andava al dormitorio dei bambini a cercare il suo,
tremando al pensiero di scoprire un cadaverino». Madeleine si sentì impazzire,
una mattina: «Nella notte, di nascosto perché era proibito, una donna si era
avvicinata per cercare il suo bambino e l'aveva sostituito con mia figlia.
Andando nell'oscurità a cercare Sylvie, era il suo bambino morto che avevo
preso in braccio. Sono rimasta un lungo momento come inebetita, i denti serrati.
Quel mattino era il "suo" bambino che era morto, ma la notte
seguente... Ogni mattina i piccoli cadaveri venivano portati via». Ravensbrück
era diventato un lager enorme, in quella primavera del 1945. Nato per 2.500
prigioniere, ne custodiva ormai 45 mila. Per questo
si salvarono, Madeleine e Sylvie e con loro l'amica Pierrette e il suo
figlioletto. Nel caos di un campo diventato sempre più feroce ma sempre più
ingovernabile, quando le SS decisero di mandarle coi loro piccoli alla camera a
gas, Madeleine e Pierrette vennero nascoste sotto il nome di due detenute morte
nelle baracche delle internate polacche e russe. Giorni di terrore. Fino
all'ultimo appello, coi tedeschi che contavano e ricontavano «schiumando
rabbia» alla ricerca dei due neonati, che le mamme tenevano fasciati stretti
sotto le gonne. Finché non salirono finalmente, il cuore in gola, su un camion
della croce rossa svedese venuto a portarsi via un primo carico di liberate. Mentre
si allontanavano inebetite verso il
ritorno alla vita, avranno avuto forse negli occhi una immagine come quella
descritta da Giuliana Tedeschi. La quale in C'è un punto sulla terra
ricorda il giorno in cui fu portata a rimuovere, con altre decine di donne,
quanto restava di una "infornata" al crematorio di Birkenau: «Le
attendevano colà cinquanta carrozzine da bimbo. Il tedesco ordinò a ciascuna
di prendere una carrozzina e di spingerla, in fila per cinque, per tre
chilometri fino al magazzino.» Un corteo muto e spettrale, con le poverette che
ricordavano «giardini, viali, bimbi rosei addormentati nelle carrozzine sotto
vaporose copertine rosa e celesti», e «non vedevano che un lungo pennacchio di
fumo che si perdeva nell'infinito».
Antisemitismo, in Italia c’è uno «zoccolo duro»
Uno su cinque diffida degli ebrei, l’8% vorrebbe cacciarli dal Paese
di Renato Mannheimer
Quanto
è
esteso l'antisemitismo tra gli italiani? Come per tutti i sentimenti, si
tratta di un fenomeno difficile da misurare con precisione. Per alcuni
atteggiamenti, come il grado di fiducia nei governi, c'è, da parte dei
ricercatori, una certa esperienza e consuetudine, che porta a indicatori
grossomodo condivisi in tutto il mondo occidentale. Per altri orientamenti,
come, appunto, l'antisemitismo, le cose sono più complesse, anche data la
ambiguità del fenomeno da misurare. Se ci limitiamo a rilevare se gli ebrei
siano comunque considerati «diversi», con caratteristiche sociali, culturali,
politiche che li distinguono dal resto degli italiani, troviamo che la pensa
così una quota molto ampia di cittadini, poco più del 30% della popolazione
adulta. Se entriamo più nel merito e sondiamo la presenza di un vero e proprio
sentimento di diffidenza nei confronti degli ebrei, rileviamo una percentuale
minore, ma non esigua: poco più di un quinto, composto da cittadini di tutte le
età e ceti sociali, con una accentuazione tra chi possiede titoli di studio
medio-bassi, tra chi vive nei piccoli centri e chi si colloca politicamente nel
centrodestra (in misura maggiore tra gli elettori di Forza Italia rispetto a
quelli di An). Se poi poniamo quesiti più «duri» riguardo agli ebrei, come ad
esempio «non sono dei veri italiani» o «mentono quando sostengono che il
nazismo ne ha sterminati milioni» o, ancora, «dovrebbero lasciare l'Italia»,
troviamo percentuali ancora minori, ma sempre relativamente significative. Le
ultime due affermazioni, ad esempio, che sono quelle che trovano in assoluto
minor approvazione, ottengono comunque il consenso dell' 8% della popolazione
adulta, pari, per intenderci, a più di due milioni e mezzo di persone. Al
di là dello strumento adottato per misurarlo, c'è quindi, anche nel nostro
Paese, una sorta di «zoccolo duro» di antisemitismo. Che desta qualche
preoccupazione, sia perché la sua estensione appare immutata nel tempo (i dati
relativi allo scorso anno non differiscono molto da quelli odierni), sia,
specialmente, perché essa non comprende l'ampiezza, ancora maggiore del
cosiddetto «antisemitismo potenziale». Quello, cioè non dichiarato nei
sondaggi, per reticenza o, più spesso, perché costituisce una sorta di
sentimento latente, negato talvolta anche a se stessi, ma basato su pregiudizi
ben radicati e pronto ad emergere e divenire esplicito nel momento in cui
qualche stimolo esterno (un avvenimento, una campagna di comunicazione) lo
solleciti.
«Sterminate i disabili», e cominciò la tragedia.
Settantamila «eliminazioni pietose» di
adulti e bambini.
Il programma di controllo della «razza pura» iniziò nel '33. Poi dalla
sterilizzazione si passò all' eutanasia
di
Frediano
Sessi
Lo
sterminio dei disabili ha rappresentato l'inizio del più generale progetto di
Olocausto degli ebrei e degli altri «nemici» del Reich. Il primo programma di
controllo biologico della razza pura ariana (eugenetica nazista) mosse da una
campagna di sterilizzazione di massa, avviata da una legge del luglio del 1933.
Circa 410.000 tra uomini e donne tedeschi furono proposti per la sterilizzazione
chirurgica. Si trattò, secondo il regime, di "malati ereditari» tra i
quali, deboli di mente, schizofrenici, epilettici, ciechi e sordi, sordomuti,
soggetti a gravi malformazioni, o alcolisti ereditari eccetera. In breve
disabili, handicappati, pazzi e «impuri» per i quali la diversità dal modello
di «ariano puro» appariva visibile. Tribunali speciali per «la salute
ereditaria», con due medici e un giudice, sceglievano le persone da sottoporre
a intervento: legatura dei dotti seminali dell'uomo e taglio o legatura delle
tube nella donna. In questa prima fase, precisava Martin Bormann, segretario
privato e collaboratore di Hitler, era inevitabile che sulle diagnosi e sulle
decisioni pesassero anche questioni di carattere politico. Nel formulare una
diagnosi di debolezza mentale, si doveva tener conto del «comportamento morae
e politico di una persona». Il passo successivo al progetto di sterilizzazione
di massa fu l'uccisione delle «vite indegne di essere vissute». Il 18 agosto
del 1939, una nota del ministero dell'Interno richiese una «registrazione il
più possibile tempestiva di tutti i bambini di età inferiore ai tre anni» nei
quali si sospettasse la presenza di una delle seguenti malattie: «microcefalia,
idrocefalia, malformazioni di ogni sorta, paralisi». Il compito venne affidato
alle levatrici con un controllo da parte dei medici distrettuali. Gli omicidi
furono consumati in strutture pediatriche camuffate sotto nomi come:
«Dipartimenti di specializzazione pediatrica» o «Centri di ricerca»,
«Istituzioni terapeutiche e di convalescenza» eccetera. Il primo di questi
centri della morte fu l'Istituto statale di Görden, presentato al pubblico con
il nome di «Dipartimento Psichiatrico Speciale per la Gioventù». I bambini da
sopprimere furono tenuti in reparti di pediatria per alcune settimane e in
seguito sottoposti a un trattamento speciale con compresse di «Luminal», o
iniezioni mortali di morfina e scopolamina. Poco prima dello scoppio della
guerra la pratica dell'eutanasia venne estesa agli adulti. Il programma,
affidato ai medici, portò in breve all'assassinio di oltre 70.000 persone
disabili, tra il 1940 e il 1941, con la punta massima delle «eliminazioni
pietose» (così definite perché attuate, nell'intenzione dei nazisti, con
ausilio medico e senza violenza) nel castello clinica di Harteim (18.269
vittime). Tutti questi centri di eutanasia diventarono scuole di formazione dei
futuri comandanti dei maggiori campi di concentramento e sterminio.
«Vi racconto mio padre il pianista»
Grazie a Chopin evitò il lager. Il figlio di Andrzej Szpilman parla dell’uomo
che ha ispirato il film di Polanski. Credeva che nessuno avrebbe letto il suo
diario, da anni è un best seller
di
Ranieri
Polese
«Quando
morì, nel luglio del 2000, Wladyslaw Szpilman, il pianista sopravvissuto allo
sterminio degli ebrei del ghetto di Varsavia, non aveva ancora potuto vedere il
suo libro ripubblicato in Polonia. Col titolo «Morte di una città», il diario
del giovane musicista scampato all'olocausto era stato stampato nel 1946; ma fu
presto ritirato dalla circolazione per volontà del governo che non gradiva la
figura del tedesco buono (l'ufficiale della Wehrmacht Wilm Hosenfeld, che salvò
Wladek negli ultimi mesi dell'occupazione nazista) e ancora meno il racconto
della tragedia degli ebrei in un momento in cui la Russia di Stalin resuscitava
odi antisemiti. E non fece a tempo neppure a vedere il film che Roman Polanski
avrebbe tratto dal libro, nel frattempo uscito in Germania (1998) e l'anno dopo
in America, Inghilterra, Olanda, Italia (Baldini & Castaldi), Francia e in
un’altra quindicina di Paesi. «Polanski venne a Varsavia a parlare con mio
padre» ricorda Andrzej Szpilman, il figlio che ha vissuto vent'anni in Germania
facendo il dentista ad Amburgo. «Si erano incontrati già altre due volte, alla
fine degli anni Sessanta in California quando mio padre era in tournée come
concertista; poi, circa dieci anni dopo, Polanski era in Polonia e tornò a
visitarlo. Allora il regista non sapeva nulla del libro, del resto nessuno più
se lo ricordava. Anche mio padre non ne parlava mai. Solo dopo la sua morte, il
libro è stato ripubblicato in Polonia: da due anni è in testa alle
classifiche». Andrzej Szpilman, che sarà domani sera a Como, a Villa Gallia, a
parlare della memoria della Shoah, è stato quello che ha resuscitato l'antico
diario. L'aveva letto, dice, da ragazzino: l'aveva trovato nella libreria di
casa, ma allora non disse e non chiese niente a suo padre. «Anni dopo, in
Germania, ne parlai con il mio amico, il poeta Wolf Bierman; lui mi convinse a
insistere con mio padre per farlo ristampare. Così - e siamo ormai negli anni '
90 - lo affronto e gli dico che il diario deve riuscire». Che cosa rispose suo
padre? «Che non valeva la pena, nessuno s'interessava più all'olocausto, non
avrebbe trovato lettori». Era dispiaciuto, suo padre, del fatto che il suo
libro era stato condannato a non esistere? «Mi sembrava di no. Per lui la cosa
più importante era la musica, la ragione di tutta la sua vita». Ed era stata
la musica a, salvarlo, quando, scoperto da Hosenfeld nell'autunno del '44, lo
affascina suonandogli. Chopin!
Hosenfeld non solo non lo fa
arrestare, ma addirittura lo nutre e
gli dà di che difendersi dal freddo. Sempre grazie alla musica, nel dopoguerra,
Szpilman si costruisce una carriera come compositore, direttore dei programmi
musicali della radio e come concertista richiesto in tutto il mondo. «Una volta
uscito il libro» continua Andrzej «mio padre non si sottrasse alle richieste
di incontri con i lettori. Alle presentazioni in Germania, mi ricordo, c'erano
sale gremite di giovani che alla fine andavano da lui, s'inginocchiavano e gli
baciavano le mani. In quello stesso anno, lo scrittore Martin Walser aveva
pronunciato un discorso a Francoforte invitando i tedeschi a chiudere col
passato, a non sentirsi più colpevole per Auschwitz. Quei giovani inginocchiati
davanti a mio padre dimostravano quanto Walser fosse nel torto». All'inizio del
2000 Polanski torna a Varsavia per discutere del progetto del film: rievocarono
il comune passato? Anche Polanski, infatti, si era salvato dal ghetto di
Cracovia. «No, parlarono solo su come fare quel film». Palma d'oro a Cannes
nel 2002, acclamato dai critici di tutto il mondo, «Il pianista» ha buone
possibilità di essere nominato agli Oscar. Recentemente, però, sul New Yorker
David Denby ha pubblicato una recensione fortemente limitativa. Il distacco,
l'impassibilità del protagonista è mal giudicata: «non
ha niente da dirci» scrive. Molto meglio, aggiunge Denby, «Schindler's
List di Spielberg «più complesse e in grado dimostrare il male e il bene
e l’ambigua intimità che c'è fra loro». Cosa pensa Andrzej Szpilman
di questa critica? «Mi ricorda un'altra recensione letta poco tempo fa in
America in cui il critico si chiedeva perché mio padre non aveva preso le armi
e sparato contro i tedeschi. Ridicolo. E assolutamente improponibile il
raffronto con il film di Spielberg, un gran film ma certo tutta un'altra cosa.
Spielberg racconta la vicenda di un tedesco buono che salva degli ebrei dalla
morte. Ma uscendo da quel film tu non sai cosa fu l’olocausto. Nel
"Pianista" di Polanski, invece, c'è
la rappresentazione di quello che accadde agli ebrei durante l'occupazione
nazista, le umiliazioni, le violenze, la deportazione e la morte. Non
m'interessa quello che pensa Mr Denby. Uno che era nel ghetto di Varsavia e
riuscì a salvarsi, Marcel Reich-Ranicki, il più grande critico letterario
tedesco, ha scritto: per la “prima volta un film mi ha restituito la
realtà che anch'io ho vissuto». Nonostante le richieste, di suo
padre, nel Viale dei Giusti in Israele non c'è un albero dedicato a Wilm
Hosenfeld, morto in un campo di prigionia sovietico nel '52. Perché? «Forse
disturbava la divisa da soldato tedesco. Dicono che non hanno trovato elementi
sufficienti per escludere che Hosenfeld avesse partecipato ad azioni contro gli
ebrei. Quando invece noi avevamo portato le prove di come aveva salvato altri
ebrei oltre mio padre». Il libro e il film continuano a circolare con grande
successo in tutti i Paesi del mondo. «E' importante che ci si ricordi di queste
cose, adesso soprattutto che alcuni intellettuali ci chiedono di chiudere con il
passato. Il film e il libro, poi, mostrano cos'è veramente la guerra, quanta
crudeltà scateni, e questo mi sembra necessario oggi, proprio mentre il mondo
si sta preparando a una nuova guerra».
Dal Corriere della sera, 26 gennaio 2003
«Corsi a scuola per vincere l’antisemitismo»
Amos Luzzatto: se due milioni e mezzo di italiani vorrebbero cacciarci dobbiamo puntare di più sull’educazione. Il presidente delle Comunità ebraiche: il sondaggio pubblicato dal «Corriere» conferma cose che dico da tempo. Occorre molto tempo per sradicare questo tipo di razzismo
di Giuliano Gallo
ROMA
- Più
di 2 milioni e mezzo di italiani ritengono che gli ebrei «dovrebbero lasciare
l'Italia» e che «mentono quando sostengono che il nazismo ne ha sterminati
milioni». Il 22 per cento prova «molta o abbastanza» diffidenza nei loro
confronti. E il 30 per cento li ritiene in ogni caso «diversi». Il sondaggio
effettuato da Renato Mannheimer per il Corriere della Sera dipinge un
Paese nel quale serpeggia ancora una robusta e preoccupante vena di
antisemitismo. Un atteggiamento che non sembra destinato a modificarsi, anzi i
dati di un analogo sondaggio dell' anno scorso, annota Mannheimer, sono
praticamente identici.
Il
professor Amos Luzzatto, medico veneziano, è il presidente delle
Comunità Ebraiche italiane. Professore, che sensazioni le provocano numeri come
«Non
mi meravigliano affatto. lo queste dose le sto dicendo da parecchio tempo. Mi
dicono che sono un allarmista, che sono un pessimista cronico. Quindi non sono
affatto stupito dai risultati del sondaggio. Perché esistono delle componenti
culturali profonde che predispongono a un certo tipo di giudizio, anche senza
giustificazioni particolari, senza avere dei motivi razionali da poter avanzare.
Sarebbe interessante fare un campionamento profondo, cioè vedere che differenza
passa tra un campione di persone che leggono poco o niente e persone che hanno
una media cultura. Perché certamente ci sarebbe differenza».
Ma
come si ferma una marea così preoccupante?
«Non
possiamo fare altro che continuare con la nostra azione di informazione, di
azione culturale, di invito alla lettura, a documentarsi».
Anche
Mannheimer rileva che il pregiudizio antisemita
si annida soprattutto nelle
fasce meno acculturate. Ma c'è anche un antisemitismo più «colto»,
più«democratico». Oggi specialmente come opposizione alla politica di
Israele.
«E'
pur sempre antisemitismo. C'è questa caratteristica di identificare i gruppi
portatori di azioni che non piacciono con la totalità. A Gerusalemme nell'anno
33 un gruppo di ebrei, secondo il Vangelo, ha chiesto a Pilato di crocifiggere
Gesù e risparmiare Barabba. Ma basta vedere il luogo dove questo è accaduto
per capire: a starci molto stretti, al massimo ci entrano 300 persone. Quanta
gente può aver chiesto la condanna di Gesù? Eppure anche gli ebrei che
abitavano a Corinto sono diventati responsabili della morte di Gesù... E anche
i loro nipoti e pronipoti. A noi pare assurdo, ma è stato così per secoli. In
realtà ognuno deve essere considerato responsabile delle sue azioni, non
delle azioni di coloro che parlano la sua stessa lingua. Questo è un elemento
di fondo che mantiene unito questo "zoccolo duro" dell'antisemitismo,
quello che fomenta, l'atteggiamento che si legge nella ricerca di Mannheimer».
Lei
sostiene da sempre che
l'unico modo per combattere tutto questo è parlare.
«Non
ne vedo un altro possibile: informazione ed educazione. Incominciare dalla
scuola, spiegare, narrare chi erano queste persone, quali sono le dottrine, qual
è la storia. Direi che l'educazione e la cultura sono le uniche armi serie che
abbiamo a disposizione».
La
ricerca dice anche che i numeri sono sostanzialmente identici a quelli dell'anno
passato, che non c'è un miglioramento.
«Da
un anno all'altro è molto difficile che i numeri cambino, perché questi sono
fenomeni che si formano nello spazio di più anni. E quindi per smantellarli ci
vuole un tempo almeno uguale a quello impiegato per il loro formarsi. Sarebbe
grave se fra dieci anni
fossimo ancora fermi su queste posizioni. Anche noi abbiamo commissionato
un'indagine sul razzismo in genere, ma non sembra che ci siano vecchi dati
confrontabili con quelli di oggi».
Deportati e salvatori di ebrei: sette onorificenze
Ciampi ha “premiato”, tra gli altri, Rigoni Stern e don Brunicci, canonico di Assisi
ROMA
- In
occasione della Giornata della Memoria, Carlo Azeglio Ciampi ha conferito sette
onorificenze al merito a altrettanti italiani che hanno aiutato ebrei
perseguitati o sono sopravvissuti alla deportazione. Nell’elenco spicca il
nome di Mario Rigoni Stern. Il presidente della Repubblica, nel conferirgli il
titolo di Cavaliere di Gran Croce, ha ricordato come lo scrittore, «reduce
della campagna di Russia, ha tenuto viva negli italiani la memoria delle
sofferenze dei nostri soldati». Catturato dai tedeschi dopo l' 8 settembre
1943, Stern viene deportato nei lager dell'Est europeo; ai giorni della
prigionia risale la stesura del «Sergente nella neve». Del titolo di Cavaliere
di Gran Croce sono stati insigniti anche don Aldo Brunacci, canonico di Assisi,
che salvò centinaia di ebrei; Agata Herskovitz, nota come Goti Bauer,
sopravvissuta ad Auschwitz e Theresienstadt; Pietro Terracina, deportato ad
Auschwitz. Luisella Mortara Ottolenghi, presidente della Fondazione Centro
documentazione ebraica contemporanea, è stata nominata Grande ufficiale, mentre
Francesco Nicchi Ruscone, combattente della Resistenza e detenuto in carcere
speciale durante l'occupazione nazista, e Ines Figini, sindacalista durante il
fascismo e sopravvissuta ai lager, sono stati nominati commendatori.
Addio ad Alfred Kantor. Dipinse la vita quotidiana nei campi di sterminio
di
Ennio Caretto
WASHINGTON
- E' morto a Yarmouth nel Maine, a 79 anni, il pittore
dell'olocausto AIfred Kantor, autore di 127 dipinti, disegni e schizzi sulle
atrocità dei campi di concentramento nazisti. Kantor, un ebreo cecoslovacco, fu
internato non ancora ventenne, perdette i genitori nelle camere a gas, ma
sopravvisse agli stenti e alle torture di Teheresienstadt, di Auschwitz e di
Schwarzeide. Assieme al resoconto della sua prigionia, tutti i suoi lavori
furono pubblicati in due libri, nel ' 71 in America e nell' 87 in Europa.
Fornirono una spaventosa testimonianza visiva dell'olocausto, in precedenza
illustrato soltanto dalle fotografie scattate dagli alleati alla liberazione.
Kantor dipinse e disegnò segretamente per quattro anni,
nascondendo alcune sue opere. e distruggendone altre, che rifece più tardi
sulla base dei ricordi. Fu aiutato da una infermiera prima e un medico poi, che
gli fornirono carta, colori e pennelli. Raccontò di avere sempre temuto di
esser scoperto e giustiziato: «Ma volevo che il mondo sapesse, e volevo
lasciare una traccia di me», spiegò. Si concentrò sugli eventi quotidiani dei
campi di sterminio, spesso accompagnandoli con brevi commenti. Auschwitz, dove
lavorò nel reparto medico e incontrò Josef Mengele, fu da lui ritratto in
tutto il suo orrore: le donne nude che venivano divise in due gruppi, uno che
restasse in vita, l'altro destinato a morire; i detenuti che portavano i
cadaveri fuori dalle camere a gas e li caricavano sui camion; le fiamme che
uscivano dall'inferno dei forni crematori; l'infame Mengele che con un moto del
suo bastone sceglieva le vittime su cui condurre i suoi esperimenti. Su mille
prigionieri della sua sezione, Kantor fu uno dei 175 che sopravvissero. Ottenne
asilo negli Stati Uniti, e venne assunto in uno studio pubblicitario di New
York, dove completò i suoi libri.
Da Perlasca a Schindler, il Giardino dei Giusti – La storia di Bejski
di
Moshe Bejski
Oggi
alle 18, nella Sala delle Colonne di Palazzo Reale, sarà presentato il libro di
Gabriele Nissim “Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo
che creò il Giardino dei Giusti” (Mondadori. Bejski, “il cacciatore di
buoni” che in trent’anni ha trovato ventimila giusti ricordati dagli alberi
di Yad Veshem, oggi non sarà alla presentazione. Pubblichiamo qui alcuni passi
del suo messaggio che verrà letto oggi da Nissim.
Forse
solo chi è stato braccato come un animale e ha provato a scappare dal destino
amaro che lo attendeva, trovando però le porte chiuse di fronte alla ricerca di
un rifugio per la notte, è in grado di apprezzare pienamente quelle persone
eccezionali che in virtù della loro umanità e ragionevolezza si sono
comportate diversamente dalla maggior parte degli individui, che assistevano con
indifferenza a ciò che stava accadendo e senza far nulla per aiutare...
Numerosi e diversi furono i modi per aiutare e salvare gli ebrei e furono
infiniti gli stratagemmi escogitati da queste persone, per proteggere coloro che
erano sotto la loro protezione: nascondendo a casa propria una famiglia o un
bambino, condividendo un pezzo di pane, approntando certificati ariani falsi,
offrendo cibo, aiuto per passare i confini o la necessaria assistenza medica...
Nel ricordare i Giusti delle Nazioni la soddisfazione mia e della commissione
era rappresentata dal fatto che, mentre ascoltavamo e discutevamo questi fatti
straordinari, ogni caso ci faceva provare la sensazione che, persino
dall’oceano di odio e violenza, e dall’oscurità in cui si trovò il mondo
intero, erano emerse persone incredibili che devono servire da modello per la
nostra generazione e per tutte quelle successive. Ci furono persone che non si
accontentarono di salvare una sola vita o quella di una sola famiglia, già moltissimo, ma che grazie alle
idee, al loro coraggio e ai tanti stratagemmi inventati sono diventate simboli
di salvezza per tanti ebrei, centinaia, migliaia, e persino decine di migliaia. Desidero
ricordare il nobile svedese Raul Wallenberg, giunto a Budapest come
diplomatico nel 1944, durante uno dei momenti di maggiori deportazioni di ebrei
verso Auschwitz, che stampò e rilasciò certificati di protezione del suo Paese
e costruì un Ghetto internazionale sotto la protezione della Svezia, riuscendo
così a salvare più di 30.000 ebrei.. Sempre a Budapest, il console del Portogallo si comportò
allo stesso modo, rilasciando visti per salvare gli ebrei. Quando il Consolato
del Portogallo fu definitivamente chiuso, un cittadino italiano, Giorgio
Perlasca, con grande spirito d'iniziativa, riuscì a salvare molti ebrei
usando il timbro del console per fornire visti senza averne l'autorità. Ebbi
l'onore e il piacere di accompagnare il signor Giorgio Perlasca quando venne
invitato in Israele per piantare un albero nel Viale dei Giusti delle Nazioni, e
di presentarlo al presidente di Israele. Un personaggio straordinario,
giustamente orgoglioso delle sue azioni. Le gesta di Oskar Schindler, che tanti
ebrei salvò, sono note attraverso il libro di Thomas Kenneally e il film di
Steven Spielberg, «Schinder's list». Ebbi la fortuna di essere nella lista
di Schindler durante la guerra e grazie a lui sono
sopravvissuto assieme a 1200
prigionieri del campo di concentramento... In verità si può dire che in
ogni Paese e in ogni posto potevano essere salvati ebrei se soltanto si fosse
trovato qualcuno disposto a rischiare, e il rischio non era piccolo.
Dal Corriere della sera, 27 gennaio 2003