Corriere della sera
RIVALUTAZIONI - UNA RICERCA DI DANIEL CARPI
A Salonicco arrivò lo Schindler italiano
La
vera storia del romagnolo Guelfo Zamboni. Salvò centinaia di ebrei usando
canali diplomatici
di
Sergio Romano
Esce dagli archivi, un pezzo alla
volta, la tragica storia dei 56.000 ebrei di Salonicco. Due anni fa Antonio
Ferrari segnalò sul Corriere l'apparizione di 1500 documenti, pubblicati
dal ministero degli Esteri greco, e raccontò la vicenda di un rabbino, Zvi
Hirsh Koretz, a cui vennero mosse, dopo la guerra, accuse infamanti. Fu detto
che aveva consegnato ai tedeschi. la lista degli ebrei della città e si era
prestato a collaborare con i rappresentanti personali di Eichmann. Ma altri
sostennero che lo aveva fatto nella speranza di salvare il maggior numero
possibile di persone. Il rabbino Koretz riappare ora, con altri personaggi
dell'epoca, nel lungo articolo che uno storico israeliano di origine italiana ha
scritto per un'opera collettiva pubblicata dall’Università sugli ebrei in
Turchia e nei Balcani dal 1808 aI 1945. L’autore è Daniel Carpi, figlio di un
avvocato toscano, Leone Carpi (1887-1964), che fu tra le due guerre il
rappresentante italiano di una controversa figura del movimento sionista, Zev
Jabotinsky, e lo aiutò a organizzare per i suoi militanti, con l'accordo di
Mussolini, la scuola navale di Civitavecchia. Daniel arrivò in Palestina
giovanissimo dopo la fine della guerra, si dedicò agli studi storici e fu
persino candidato da Menachem Begin (il Primo ministro degli accordi di Camp
David) alla presidenza della Repubblica. Non venne eletto, ma fece una brillante
carriera accademica e si dedicò tra l'altro alla storia delle comunità
ebraiche italiane durante il Rinascimento. Qualche anno fa Carpi trovò alla
Farnesina l'archivio del Consolato generale d'Italia a Salonicco e poté
ricostruire, con informazioni di prima mano, i due anni e mezzo che intercorrono
tra l'arrivo dei tedeschi nella città il 9 aprile 1941 e la
pressoché totale distruzione della comunità ebraica nell'autunno del
1943. Carpi corregge anzitutto alcune inesattezze storiche. Tutti gli studiosi
sono d'accordo nel riconoscere i meriti del console italiano, ma parlano
soprattutto di Giuseppe Castruccio, che prese la direzione dell'ufficio nel
giugno del 1943, e rimproverano al suo predecessore, Guelfo Zamboni, una
colpevole negligenza per il problema ebraico. Carpi, invece, sostiene che il
primo console a cui molte centinaia di ebrei dovettero la loro salvezza, fu
proprio Zamboni. Quando lo conobbi a Roma, verso la metà degli anni Cinquanta,
veniva da Baghdad e stava per andare a Bangkok dove sarebbe stato ambasciatore
fino al 1961. Era un romagnolo piccolo, distinto, gioviale e di buon carattere
che aveva tuttavia una medaglia di bronzo al valor militare e una croce al
merito per le ferite che si era buscato in guerra fra il 1916 e il 1918. La
giovialità e il coraggio gli furono utili quando arrivò a Salonicco, in zona
greca occupata dai tedeschi, nel febbraio del 1942. Per alcuni mesi poté
evitare che gli alleati trattassero gli ebrei della città come avevano trattato
nei mesi precedenti gli ebrei polacchi e ucraini. Ma agli inizi del '43, quando
Eichmann mandò il suo vicario ad Atene per organizzare con il governo militare
tedesco la deportazione della comunità di Salonicco, Zamboni dovette limitarsi
alla protezione degli ebrei italiani. Lo fece tuttavia allargando per quanto
possibile la categoria dei suoi connazionali: «Ē bene ricordare - scrive
Carpi - che la protezione fu garantita non soltanto agli ebrei di nazionalità
italiana, ma anche a coloro che rivendicavano il diritto di essere considerati
italiani, sostenevano di avere rapporti familiari, veri o presunti, con ebrei
italiani o avevano dato un evidente contributo, secondo il console, agli
interessi culturali o economici dell'Italia nella città e nella regione». Per
strapparli alla deportazione Zamboni tempestò di telegrammi il ministero degli
Esteri, svegliò nel mezzo della notte il capo della rappresentanza italiana ad
Atene e, secondo alcuni, non esitò a sfruttare la venalità di un furfante
ebreo, Vital Hasson, che lavorava per i tedeschi, taglieggiava i suoi
correligionari e svolgeva funzione di kapò nel ghetto di Salonicco. Quando
Zamboni dovette lasciare la città per tornare a Roma, il suo successore,
Castruccio, seguì la sua linea e poté trasferire ad Atene 350 ebrei
italiani o «quasi italiani» che erano rimasti a Salonicco nell'estate
del 1943. Vi era ormai in consolato, scrive Carpi, una cellula di funzionari che
si era dedicata alla protezione degli ebrei e che viene descritta in alcune
memorie storiche come «brigata Rosenberg». Ma chi era dunque questo Rosenberg
(un nome abbastanza comune fra gli ebrei dell'Europa centrale, ma non
esclusivamente ebraico) che dirigeva le operazioni di salvataggio dall'interno
di un ufficio consolare italiano? Quando cercò una risposta a questa domanda
Carpi s'imbatté paradossalmente in un «Sonderkommando Rosenberg» che i
tedeschi avevano distaccato a Salonicco nell'aprile del 1941 per un'indagine sui
«nemici del Reich». Ma era un caso di omonimia. Il nostro Rosenberg si
chiamava Riccardo ed era un ufficiale del Sim (Servizio informazioni militari) a
cui era stata dato, per «copertura», il titolo di viceconsole. L' 8 settembre,
non appena seppero che il governo italiano aveva firmato l'armistizio, i
tedeschi si gettarono sul consolato, ne distrussero la ricetrasmittente e
s'impadronirono degli archivi. Ma Castruccio aveva già bruciato i documenti
segreti e Rosenberg era scomparso. Riapparve brevemente a Osnabrück, in
Germania, nel 1968 quando dovette testimoniare nel processo contro
irresponsabili di un massacro di cui era stato testimone nel 1943. «Ma il suo
nome - gli chiese il giudice tedesco - non è forse di origine ebraica?». «Sì
- rispose Rosenberg -, sono nato in una famiglia ebrea. Ma sono stato battezzato
nel 1927». E dopo avere reso la sua testimonianza ritornò a Malta dove, a
quanto pare, si era ritirato con sua moglie. Il rabbino Koretz, il consoli
Zamboni e Castruccio, il furfante Hasson, il vice console Rosenberg, i maggiori
esponenti della comunità ebraica di Salonicco: ecco alcuni dei personaggi che
attraversano le pagine del saggio di Daniel Carpi. Usciti dagli archivi della
Farnesina, sono i fantasmi di una città da cui scomparvero nel 1943 poco meno
di 56.000 persone. In un articolo pubblicato dal Sole 24 Ore dell' 8
settembre («Salonicco, la Gerusalemme dei Balcani») Alberto Negri scrive che
il consolato italiano è stato chiuso da qualche mese e che l'edificio «piccolo
gioiello di architettura eclettica, simbolo di un pezzo della memoria nazionale,
è in vendita: con un soprassalto di orgoglio gli ultimi italiani di Salonicco
hanno tolto dalla cancellata il cartello On sale». A me (e suppongo a
Carpi) piacerebbe pensare che quel cartello sia stato tolto di notte dalle ombre
di Zamboni e di Rosenberg.
Un
rabbino consegnò gli elenchi ai tedeschi. Oltre cinquantamila nomi.
Era la più grande e prospera
comunità ebreo-sefardita d' Europa. A Salonicco viveva, cioè, il gruppo più
nutrito di discendenti degli ebrei spagnoli che nel 1492 furono cacciati dalla
regina Isabella perché non si erano convertiti. Nel '43 erano oltre
cinquantamila. Solo in 1950, però, sopravvissero all'Olocausto. Da una serie di
1500 documenti riservati (segnalati dal Corriere della Sera nel giugno del 2000)
emerse che fu un gruppo di persone - fra cui il rabbino capo Zvi Hirsh Koretz -
a consegnare alle SS gli elenchi di tutti gli ebrei che vivevano nella città.
Secondo quelle relazioni, in cambio dei nomi consegnati, i tedeschi donarono
alla comunità «una villetta e due taxi, rispettivamente da 8 e 5 posti».
Koretz era nato a Rzeszow, Polonia. Nel '33 era stato scelto come rabbino capo
della comunità di Salonicco. Arrestato dai tedeschi dopo l'occupazione della
città, vi era rientrato dopo otto mesi in una prigione austriaca. Secondo
alcuni storici, nelle sue intenzioni c'era quella di salvare gli ebrei obbedendo
ai tedeschi. Ma, dal marzo all'agosto 1943, furono 19 i convogli blindati che
partirono dalla città greca verso i campi di sterminio.
Dal
Corriere della sera,
22 settembre 2002