Altro
che Gestapo, i carnefici erano i vicini di casa
In un libro la verità sui 1600 ebrei massacrati nel 1941
in un villaggio polacco. Una vicenda che ha costretto anche la Chiesa a chiedere
perdono – Ma secondo alcuni storici non ci sono prove negli archivi
di
Livia
Manera
Questa è una storia per i forti di stomaco. Siamo in
Polonia, il 10 luglio 1941. Quel giorno metà degli abitanti della cittadina di
Jedwabne si armarono di asce, forconi e coltelli e uccisero l’altra metà:
1600 ebrei con cui erano cresciuti e andati a scuola. Prima ordinarono a una
settantina di giovani di fare a pezzi e trasportare al cimitero il monumento a
Lenin della piazza, fecero a pezzi anche loro, e li gettarono nella fossa con la
statua. Poi andarono casa per casa aggredendo a sassate e accoltellando ogni
ebreo senza distinzione di età o sesso. Ad alcuni strapparono gli occhi e le
lingua.Ad altri tagliarono la gola. Pestarono a morte dei bambini e
violentarono alcune donne. Madri che avevano affogato i propri neonati per
sottrarsi ad altra fine, furono costrette a uccidersi allo stesso modo. Altri a
danzare nudi e fare esercizi ginnici, mentre donne e bambini applaudivano. Un
gruppetto di uomini giocò a pallone con la testa mozzata di una ragazza.
Infine, nel pomeriggio, tutti gli ebrei, che dopo ore di violenze erano ancora
in grado di camminare, furono condotti in un fienile, chiusi dentro e arsi vivi.
Un piccolo ensemble musicale suonò alcune arie per coprirne le grida. Fino a qualche mese fa una lapide nella piazza del paese
ricordava Jedwabne come «luogo di martirio del popolo ebraico, dove la Gestapo
e la gendarmeria di Hitler bruciarono vivi 1600 ebrei». E tutti, a partire dal
sindaco che aveva coordinato la strage al prete che l’aveva benedetta, si sono
nascosti dietro quella menzogna per 60 anni malgrado due processi condotti dai
sovietici nel ’49 e nel ’53 avessero documentato gli eventi, risultando
nella farsesca condanna di una ventina di persone, poi amnistiate. E la verità
sul fatto che la strage di Jedwabne fu condotta da civili, senza alcun ordine da
parte dei tedeschi (i quali si limitarono ad approvare e firmare gli eventi a
scopo documentaristico), sarebbe forse rimasta ibernata per sempre se Jan Gross,
professore di Storia alla New York University e veterano del ’68 polacco, non
avesse trovato in un archivio di Varsavia la testimonianza dimenticata di un
sopravissuto e avesse deciso di indagare. Il risultato è I carnefici della
porta accanto, un libro sconvolgente che sta per uscire in Italia dopo avere
incendiato l’opinione pubblica polacca, costretto il presidente Kwasniewski a
chiedere perdono, estorto un mea culpa del capo della Chiesa cardinale Josef
Glemp, e obbligato gli storici e il resto della popolazione della Polonia a
confrontarsi con una verità agghiacciante. Quella di esser stati non solo
vittime, ma veri e propri criminali di guerra: una verità così difficile da
accattare per un Paese che ha sacrificato alla Seconda guerra mondiale 3 milioni
di cattolici e 3 di ebrei, che alcuni studiosi preferiscono arrampicarsi sugli
specchi piuttosto che piegarsi a riscrivere la storia della Polonia alla luce
del suo violento antisemitismo. Cosa che invece questo svagatissimo professore
che non si accorge di arrivare al nostro appuntamento alla New York University
con un’ora e mezza di ritardo, li obbligherà a fare. Lui, e i giovani storici
polacchi che stanno lavorando nella stessa direzione.Jan Tadeusz Gross è un uomo di 53 anni di cui 30 passati
nelle università americane non hanno cancellato un forte accento. «Prego»,
dice invitandoci a camminare sul tappeto di carte che copre il suo ufficio, ed
è difficile non sorridere pensando che tra i documenti che siamo obbligati a
calpestare devono trovarsi anche le imbarazzanti reazioni al suo libro di
storici polacchi di fama, come Tomasz Szarota dell’Accademia Polacca delle
Arti e delle Scienze, che ha reagito incolpando del massacro di Jedwabne la «passività»
degli ebrei, o di Tomasz Strabosz dell’Università Cattolica di Lublino, il
quale indica come movente della strage il collaborazionismo degli ebrei durante
l’occupazione sovietica. Cosa a cui Gross risponde: «Falso, perché anche
altri collaborarono. E poi come potrebbe l’assassinio di donne, vecchi e
bambini essere una vendetta politica? Le cifre delle deportazioni in Siberia
smentiscono che agli ebrei sia stato riservato un trattamento di favore. Ritengo
invece che il movente sia stato il desiderio di spogliarli dei loro beni una
volta per tutte».Nella polemica che ancora infuria in Polonia intorno a questo
libro, alcuni rimproverano a Jan Gross di non aver e trovato riscontri negli
archivi tedeschi. «Ma il fatto che le squadre della morte che operavano sul
fronte orientale e riferivano quotidianamente a Hitler sulle loro attività non
citano mai nei loro rapporti Jedwabne, prova che non erano coinvolte. Qualunque
ufficiale tedesco fosse riuscito a uccidere 1600 ebrei in un giorno ci avrebbe
tenuto a riportarlo, contando su una ricompensa».
Le tappe
La storia
La
testimonianza
Il libro
Il 10 luglio 1941, due
settimane dopo l'arrivo dei tedeschi, circa 1600 ebrei del villaggio
polacco di Jedwabne furono trucidati dai loro concittadini. Per anni la
strage fu imputata alla Gestapo che, invece, non diede alcun ordine
Lo storico Jan Gross ha trovato
negli archivi di Varsavia la testimonianza di un sopravvissuto che ha
permesso di ricostruire la verità sull'evento
«I carnefici della
porta accanto» di Jan T. Gross è edito in Italia da Mondadori (pagine
192, euro 15,60)