Scelte – Il ricordo di un incontro con l’autore della
«Tregua» dopo le rivelazioni inglesi
di Giorgio
De
Rienzo
Dall’Inghilterra giungono biografie con notizie (non
inedite) che spiegano il motivo del suicidio di Primo Levi. Non il ricordo
ossessivo dei campi di concentramento, ma il «domino ossessivo» della madre e
un turbato rapporto con la donna. Ancora. Quasi una tara ereditaria: il nonno
materno si uccise gettandosi da un secondo piano. Dunque tra psicoanalisi e
psichiatria organicista. L’una e l’altra approssimative. C’è un’assenza
di pietà che spaventa in questo impudico indagare sulle ragioni di un suicidio.
Nella nostra civiltà si asseconda un vizio turpe: lo spazio di silenzio
naturale per una forte commozione, per un vuoto insopportabile, va occupato, a
ogni costo, da un parlare fitto.Negli studi inglesi viene ripresa una battuta
(decontestualizzata) di un mio colloquio tra i tanti che ho avuto con lo
scrittore. Levi mi diceva di non aver mai pensato al suicidio dentro il Lager,
ma di averci pensato prima e dopo. Ma insieme mi raccontava (come ha raccontato
anche a Camon) di un suo sogno-incubo ricorrente nel Lager. Il sogno era questo:
di salvarsi. Di tornare e narrare la propria storia alla sorella e di non essere
creduto. Forse anche Levi, pur scrivendone nei suoi libri, pur prlandone a
tutti, in una parte segreta di sé non credeva alla sua esperienza inaudita di
orrore. Quando ci ha creduto non ha retto. Il suicidio spesso nasce dal vedere
l’assoluto del male nel mondo e da un addossarsene il peso, fino a dare la
propria vita per pudore di svelare agli altri ciò che di terrificante si è
visto, per salvarli da una conoscenza che non si può sopportare. E allora
questo gesto non consente giudizi, né analisi. Reclama solo un silenzio nel
pensiero.