Corriere della sera
Giorno della memoria
Il
presidente delle comunità ebraiche: «Dimenticato il giorno della memoria»
Discussioni - Amos Luzzatto al ministro dell’Istruzione e ai rappresentanti delle Camere: un anno dopo la legge, iniziative insufficienti per il 27 gennaio
di Paolo Conti
«Non
intendo
esprimere giudizi aggressivi. Ma credo che gli attuali governi abbiano
sottovalutato la legge. Forse non
hanno capito che riguarda loro stessi, cioè lo Stato, e non le Comunità
ebraiche che possono essere coinvolte per offrire testimonianze ma non devono
certo “organizzare”. Altrimenti a che serve una legge?» Amos Luzzatto,
presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è molto amareggiato
anche se la sua non è una polemica infuocata.
Dal
Corriere della sera
WIESEL «Io ricordo ma non per odiare»
Intervista
al Nobel per la Pace che paragona l’11 settembre ad Auschwitz e Hiroshima. Il
27 gennaio, Giornata della memoria, andrà in scena il suo testo più famoso: «La
notte»
di Marc Fleishhacker e Gianluca Guidotti
In Il male e l’esilio lei ha detto: «Auschwitz è
la fine, Hiroshima l’inizio … ma rischiamo di avere altre Hiroshima». Dove,
in questo percorso di tragedia, dovremmo collocare l’11 settembre 2001?
«Probabilmente l’11 settembre va collocato nel mezzo; e se
non stiamo attenti, se dimentichiamo troppo presto, allora un’altra Hiroshima
è possibile, non un altro Auschwitz, ma un’altra Hiroshima sì. Forse c’era
così tanto odio in quegli anni, in quei tempi, in quegli eventi che si ha
ancora un fall-out. Così come parliamo di precipitazione radioattiva
possiamo parlare di precipitazione di odio. E cinquant’anni dopo siamo
testimoni di questa precipitazione e
questo fall-out, queste ceneri d’odio ancora brucianti, sono sparse di
fanatici che credono di avere Dio dalla loro parte. E credono che Dio sia
diventato un loro complice, un complice di assassinio e assassino. Come possono
coinvolgere Dio in un assassinio?
Nel romanzo L’oblio lei parla del morbo di Alzheimer.
La paura della perdita della memoria attraversa gran parte delle sue opere.
Questa terribile malattia sembra una metafora dei nostri tempi in cui troppo
spesso odio e violenza vincono. Come può l’uomo, dopo l’Evento, continuare
a ripetere gli errori e le atrocità del passato?
«Che ne è dell’umanità che non impara dal passato?
Vorrei saperlo. La questione è che la natura umana non può essere cambiata così
rapidamente. Probabilmente non nell’arco di una sola generazione, e nemmeno in
un secolo. Perciò siamo sedotti dal male, siamo tentati da ciò che è impuro.
E quando quella tentazione prende il potere allora siamo in pericolo.La minaccia
per questa generazione, questo secolo, i giovani d’oggi, i bambini, è il
fanatismo, l’odio, l’odio razziale, l’odio religioso, l’odio etnico,
l’odio culturale. E l’odio è come il cancro, quando c’è è difficile
fermarlo perché contagia da cellula a cellula, da arto ad arto, da persona a
persona fino alla morte. Sì, oggi abbiamo dei nemici che credono che il loro
essere uomini consista nel potere di uccidere. Devono essere fermati, una volta
ancora».
In L’ebreo errante lei ha scritto: «Ad Auschwitz è
morto non solo l’uomo, ma anche l’idea dell’uomo». Dopo essere passato
attraverso «il male assoluto», ha ancora fiducia nell’uomo? Nel Bene?
«Non si può concepire Auschwitz con Dio, né senza Dio. E
quindi ci troviamo davanti a un dilemma. Che fare allora? Continuiamo a farci
questa domanda e rispondiamo che non si può concepire Auschwitz avendo fiducia
nell’uomo e neppure senza. Dov’era l’umanità in quegli anni?
Ē troppo facile dire
che tutto è Dio. E gli uomini? Auschwitz non è sceso dal cielo. Ē
stato concepito dall’uomo, edificato dall’uomo, reso efficiente
dall’uomo. Ē stato frutto dell’uomo. Spesso di uomini intelligenti:
alcuni anche colti e ben educati. Allora perché educare? Io sono un educatore.
Perché credere nella cultura? Io sono uno scrittore.
In questi anni l’Europa ha conosciuto gli orrori della
Bosnia e del Kosovo. Che cosa dovremmo insegnare ai nostri figli affinché la
fine dei genocidi diventi realtà e non solo un sogno?
«Ho visitato i
Balcani, sono stato là, sono stato a Sarajevo, sono stato in Bosnia durante i
massacri. Ricordo che giravo chiedendo alle persone: «Perché fate questo?
Perché tutto questo odio?». E là, davanti al mio sconcerto, alla mia paura,
al mio disincanto, hanno evocato il potere della memoria. E dicevano: “Che
significa? Ma mio nonno è stato ucciso, o umiliato, da suo zio, dal suo prozio,
come posso dimenticarlo?” E a causa di fatti successi duecento anni prima,
combattevano uno contro l’altro, ammazzandosi reciprocamente. Io credo che la
memoria sia un rimedio contro l’odio, ma loro usano la memoria per spargere
odio. Ē un problema di
cultura. Penso che adesso la situazione sia migliorata perché alcuni dei
politici che hanno commesso i massacri si trovano ora a L’Aia, affronteranno
la corte e verranno puniti, spero come meritano.
Dal
Corriere della sera
La testimonianza - Liliana Segre: «Mi portarono ad Auschwitz,
avevo tredici anni
di Pierluigi Panza
«Sono nata nel 1930 a Milano. La mia era una famiglia di
ebrei milanesi da generazioni. Abitavamo in corso Magenta. Con l’entrata in
vigore delle leggi razziali in cominciò la persecuzione, e io dovetti lasciare
la scuola di via Ruffini. Poi iniziò la caccia all’ebreo. A tutti, anche a
mio nonno che era malato terminale di Parkinson». E
così, il 7 dicembre del ’43, l’anno in cui Milano festeggiava il patrono
piangendo tra le rovine della Scala, una bambina di 13 anni di nome Liliana
Segre viaggiava verso Viggiù e la Svizzera per cercare la salvezza. «Vivevo
questo viaggio come un’avventura di grande speranza: ero con mio padre e due
suoi cugini. Dormimmo la notte in una casa di contrabbandieri. Ma arrivati ad
Arzo, nel Canton Ticino, un ufficiale svizzero-tedesco ci respinse, e i
finanzieri italiani, in camicia nera, ci arrestarono».
La
speranza si rivela un sogno da svegli e inizia la prigionia.
«Finimmo in prigione a Varese, divisi tra maschi e femmine.
Poi a Como. Poi a San Vittore, 40 giorni di attesa della deportazione
annunciata. Eravamo nel V raggio, quello adibito agli ebrei. Allora il muro di
recinzione era più basso e si vedeva piazza Aquileia».
Quaranta dì, quaranta nott …, e poi?
«Il 30 gennaio ’44 lasciammo San Vittore per la Stazione
Centrale. Ci caricarono all’alba, nel buio, dai sotterranei. Ci davano calci e
pugni per farci salire e i cani latravano. I vagoni venivano sprangati».
Poi, come scriveva Thomas Mann, la partenza che, non meno
del ritorno, appariva impossibile al disperato.
«Infatti, non volevo crederci. Il viaggio durò una
settimana: prima di partire ci avevano dato un sacchetto con razioni di galletto
e latte in polvere. Non c’era da bere e non c’era luce. Durante il viaggio
fecero scendere due volte alcuni di noi a prendere dell’acqua».
Cosa accadde all’arrivo?
«Arrivammo ad Auschwitz; appena giù dal treno fui divisa da
mio padre. Non lo vidi più. Nella primavera seguente portarono qui anche i miei
nonni. Non li vidi più. Io, con altre ragazze, fui scelta per lavorare: su 605
persone solo 31 ragazze e circa 60-70 uomini scamparono al camino lo stesso
giorno. Non so perché mi abbiano scelta: ero alta dimostravo più di 13 anni».
Il racconto prosegue in un clima da «Schindler’s list»
senza Schindler.
«Prima ci raparono a zero, ci impressero il numero tatuato
sul braccio, ci portarono via tutto, ci vestirono a righe. Io lavoravo come
operaia in una fabbrica di munizioni, la Union, che in tempo di pace fabbricava
macchine. Ho lavorato al coperto, altrimenti non avrei avuto speranza di
sopravvivere: ero giunta a pesare 32 chili».
Ricorda la liberazione?
«Il 27 gennaio ’45 i russi entrarono a Auschwitz, ma noi
eravamo stati trasportati via. Ci spostavano da un campo all’altro: fu la
marcia della morte. Quelli che cadevano a terra venivano uccisi. Dall’ultimo
campo noi e i nazisti uscimmo insieme dai cancelli. Poi, lungo la strada, loro
si cambiarono gli abiti e si misero in borghese. Di colpo furono loro ad avere
paura e fuggirono. Ma ben pochi di loro hanno pagato».
Come fu il ritorno a Milano?
«Gli americani ci avevano raggruppati per nazionalità in
alcuni paesi liberati. Ci riprendemmo e dopo quattro mesi presi un convoglio per
Milano. All’inizio andai a vedere la mia casa in corso Magenta 55. Le finestre
erano chiuse. Per sempre. Ma il portinaio mi disse che i miei nonni paterni si
erano salvati nascondendosi in un convento a Roma ed erano venuti a cercarmi. Si
era salvato anche un mio zio, che aveva combattuto a Borgosesia con i
partigiani. Vissi con gli zii e i nonni. Poi, a 18 anni, ho conosciuto il
ragazzo con cui mi sono sposata. Abbiamo festeggiato le nozze d’oro. Abbiamo
tre figli e due nipoti».
Cosa racconta loro?
«Hanno una mamma da coccolare. Adesso ho un nipote, Edoardo,
di 13 anni, l’età in cui venni deportata. Gioca con la playstation. Mi fa un
certo effetto. Davide ne ha 11. Preferisco che siano i miei figli a raccontare.
Loro mi chiedono poco, c’è molto pudore».
Ē mai tornata a vedere i campi?
«No, mi sono sempre rifiutata. Perché se tutto fosse uguale
a prima non potrei reggere; sapere che tutto è diverso, e che non si può avere
un’idea di quell’orrore, mi ferisce. Ho l’impressione che tra poco non ci
sarà più niente, le poche vestigia de campi cadono a pezzi. Qualcuno vuol fare
un supermercato vicino. Io incontro ogni anno migliaia di scolari; ma ho visto
in tv dei ragazzi che saltavano e mangiavano gelati dentro Buchenwald. Io dico:
si portino a visitare i campi solo ragazzi preparati»
Dal
Corriere della sera
L’intervista - Rumi: «I cattolici antisemiti? No, ma il caso Israele è
un’altra cosa
di
Paolo Conti
«Cattolici italiani antisemiti oggi? Direi proprio di no.
L’Olocausto ha creato una contraddizione insanabile tra l’essere cristiani e
ogni atteggiamento antisemita. Il combinato disposto tra ciò che è accaduto e
la lezione del Concilio Vaticano II lo rende impensabile anche a livello
colloquiale», dice Giorgio Rumi, storico cattolico, docente di Storia
contemporanea alla Statale di Milano.
Invece
Amos Luzzatto parla di persistente antisemitismo degli ambienti cattolici
rimasti impermeabili proprio agli insegnamenti del Concilio.
«Bisognerebbe dimostrarlo …. Lui avrà le sue ragioni per
affermarlo. Io vivo in un ambiente universitario e non ricordo riserve,
eccezioni contro il popolo, la tradizione, la religione ebraici. Altra cosa è
la questione Israele. Lì c’è una distinzione: una parte di cattolici
dimostra maggiore sensibilità per la necessità dell’esistenza dello Stato
d’Israele, altri pongono il problema dei palestinesi. Ma l’antisemitismo non
c’entra più».
Qual è il nodo storico dell’antisemitismo italiano?
«A livello europeo la presenza di un popolo che manteneva
lingua e tradizioni “diverse”: atteggiamento incomprensibile per popolazioni
latine o germaniche che, fatta eccezione per alcuni grandi porti, erano
sostanzialmente omogenee. E la vicenda del “diverso” attraversò l’Europa
in molte direzioni».
Che cosa intende?
«Dico che nell’800 non era facile essere cattolici in
Svezia, protestanti in Spagna. E se è vero che alla fine del ‘700 il popolo
di Mantova si ribella all’apertura del ghetto ebraico, è vero anche che il
popolaccio di Londra si solleva in quegli anni contro una legge di tolleranza a
favore dei cattolici. Sia ben chiaro: non propongo certo l’assoluzione di
storici errori sugli ebrei che nel XX secolo diventano tragedia. Dico che
bisognerebbe fare una “eziologia” sul concetto del diverso, uno studio sulle
radici della malattia».
Torniamo al caso italiano
«Nell’Italia moderna è possibile individuare un momento
ben preciso: la fine di quelle che Carlo Cattaneo chiamava le interdizioni
israelitiche, i vincoli che facevano dell’ebreo un suddito diverso. Tra la
fine dell’800 e fino alla prima Guerra mondiale ci fu una certa
discriminazione con grossolani elementi antisemitici tra i cattolici.
L’abolizione delle interdizioni trovò impreparata la parte più rozza della
popolazione che aveva un senso rudimentale della cittadinanza. Aggiungiamo che
nelle comunità ebraiche era marcata la simpatia per la sinistra risorgimentale.
Prima di allora no: nel 1848, quando si stese lo Statuto rimasto in vigore fino
al 1948, non ci furono obiezioni anti-ebraiche».
Impossibile non parlare dell’infamia delle leggi
razziali del ’38 e dell’accoglienza delle tragiche discriminazioni tra i
cattolici.
«Bisogna distinguere tra il prima e il dopo. “Prima”
c’era indubbiamente diffidenza. Il “dopo” fu altra cosa. Il razzismo
fascista, curiosamente, riuscì a far diventare antirazzista il piccolo uomo
della strada. Vorrei ricordare la famosa omelia del cardinale di Milano
Ildefonso Schuster che proprio nel ’38 parlò di “eresia anti-romana”:
Roma era madre dei popoli e l’applicazione delle “barbare leggi” razziste
erano secondo lui “un’eresia
anti-romana”, quindi riteneva il Concordato “vaporizzato”».
Ma nel ’43 padre Tacchi Venturi, anima di Civiltà
Cattolica, dopo la caduta del fascismo scrive a Badoglio e non chiede
l’abolizione delle leggi razziali ma solo la modifica.
«Frutto di arretratezza culturale, del sentirsi uomo
dell’800. Bisognerebbe invece pensare al contributo assicurato da tanti
sacerdoti nell’Italia del Nord durante la Repubblica sociale».
A cosa si riferisce in particolare?
«Ai rapporti della Guardia nazionale repubblicana che
parlavano dei parroci del Nord come parte di una rete di assistenza agli ebrei e
di simpatia per la Resistenza».
La Resistenza ha dunque contribuito a battere
l’antisemitismo?
«La Resistenza attiva, quella in montagna, ma anche
l’altra fatta di amicizie e di simpatie (cioè l’acqua rispetto al pesce,
per citare esempi maoisti): sostegni umani prima ancora che coscientemente
politici, come quelli dei parroci. L’antisemitismo tedesco e poi fascista ha
suscitato un vento liberatorio da vecchi atteggiamenti».
Domande e Risposte
di Paolo
Valentino
Il Bilancio Quanti morti? |
Dei
sei milioni di ebrei assassinati, il triste primato spetta alla Polonia,
con tre milioni di vittime (il 90,9% della popolazione ebraica), seguita
dall’Unione Sovietica (34,4%). Gli ebrei greci uccisi furono 67.000
(86,6%). Gli italiani 7.680 (17,3%). |
La definizione Chi era un ebreo? |
Il 14 novembre 1935 i nazisti
definirono «ebreo» chiunque,
con tre o quattro nonni ebrei, appartenesse alla Comunità ebraica al 15
settembre 1935, o vi si fosse iscritto dopo; chiunque fosse spossato con
un ebreo al 15 settembre 1935 o dopo questa data; chiunque discendesse
da un matrimonio o da una relazione extraconiugale con un ebreo al o
dopo il 15 settembre 1935. |
I campi Quale fu il primo? |
Il primo campo di concentramento, Dachau, in Germania, fu
aperto il 22 marzo 1933. I primi reclusi furono prigionieri politici,
criminali abituali, omosessuali, testimoni di Geova, mendicanti,
vagabondi e venditori ambulanti. |
Fuggiaschi Chi si salvò |
Dal 1933 al ’39, 355.278 ebrei tedeschi e austriaci
abbandonarono le loro case. Nello stesso periodo, 80.860 ebrei polacchi
immigrarono in Palestina e 51.747 ebrei europei si rifugiarono in
Argentina, Brasile e Uruguay. Negli anni 1938-1939, circa 35.000 ebrei
emigrarono dalla Boemia e Moravia (Cecoslovacchia). Shanghai accolse
circa 20.000 ebrei europei. |
Giustizia Ci furono processi? |
Il termine «Processo di
Norimberga» si riferisce all’insieme dei processi dei criminali di
guerra nazisti che si svolsero alla fine della guerra. I primi processi
si svolsero tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946, di fronte al
Tribunale militare internazionale. La seconda fase del processo,
conosciuta come i Processi dopo Norimberga, si svolse dinanzi al
Tribunale Militare di Norimberga. |
Lo sterminio
Una data simbolica Il
«Giorno della memoria» è stato istituito per legge dal Parlamento
italiano nel luglio del 2000. Ē stato scelto il 27 gennaio perché
in quel giorno, nel 1945, fu liberato il campo di concentramento e di
sterminio di Auschwitz-Birkenau. |
Sono
soldati dell’Armata rossa i primi ad entrare nel campo di Auschwitz-
Birkenau; i militari si trovano di fronte a quattro edifici rasi al
suolo dai nazisti in fuga, a mucchi di cadaveri e a uomini scheletrici
che vagano per il campo. |
Olocausto e Shoah Il termine Olocausto, che designa il sacrificio di Isacco, fu introdotto da Elie Wiesel per definire lo sterminio degli ebrei. A molti, tra i quali Primo Levi, il termine non piace e gli viene preferito Shoah (in ebraico, distruzione). |
La soluzione finale Il
termine «Soluzione finale si riferisce al piano di sterminio del popolo
ebraico e fu usato alla Conferenza di Wansee del 20 gennaio 1942. Si
calcola che furono uccisi sei milioni di ebrei e cinque milioni di altri
civili, tra i quali zingari e omosessuali». |
I LAGER
Ecco come funzionava uno dei campi di sterminio organizzati dai nazisti
Auschwitz Il campo di concentramento di Auschwitz (vicino a Oswiecim, nell'Alta Slesia, in Polonia) fu aperto il 27 aprile del '40 su ordine del comandante delle SS Heinrich Himmler. Vi furono sterminati circa quattro milioni di persone. |
Birkenau È il secondo campo di Auschwitz, destinato alla «Soluzione finale», ovvero allo sterminio degli ebrei. Qui nel luglio del '42 furono costruiti quattro forni crematori: contenevano le camere a gas e le fornaci per cremare i cadaveri. |
Le camere a gas Le vittime, aiutate a spogliarsi dagli uomini del Sonderkommando (prigionieri), venivano condotte nelle «docce»: in realtà erano camere a gas. Dopo l'immissione dello Zyklon-B, i detenuti morivano in dieci minuti. |
I forni crematori Gli uomini del Sonderkommando - dopo aver estratto protesi, denti d'oro e gioielli - mettevano i corpi, a gruppi di 15 - 20, sui montacarichi che conducevano ai crematori. Il tempo di incenerimento di un cadavere era di circa trenta minuti. |
Ebrei uccisi per nazione
(percentuale della popolazione ebraica eliminata)
Austria 50.000 27,0% |
Italia 7.680 17,3% |
Belgio 28.900 44,0% |
Lettonia
71.500 78,1% |
Boemia
78.150 85,1% |
Lituania
143.000 85,1% |
Lussemburgo
1.950 55,7% |
Danimarca
60 0,7% |
Paesi
Bassi
100.0007 1,4% |
Estonia
2.000 44,8% |
Finlandia 7 0,3% |
Polonia
3.000.000 90,9% |
Francia
77.320 22,1% |
Romania
287.000 47,1% |
Germania
141.000 25,0% |
Slovacchia
71.000 79,8% |
Grecia
67.000 86,6% |
Unione
Sovietica
1.100.000 36,4% |
Ungheria
569.000 69,0% |
Yugoslavia
63.300 81,2% |
«Così spiegai a mia figlia l’orrore dell’Olocausto»
di Erica Jong *
La prima volta che venni in Europa ero una ragazza che stava
per diventare donna. Per mia madre, nata a Londra da genitori ebreo-russi, era
importante portare le tre figlie newyorchesi in visita al vecchio mattatoio
europeo. Io avevo 13 anni, le mie due sorelle 8 e quasi 18. Cominciammo col
trascorrere una mese a Londra, che ricordo come il posto più spaventoso che
avessi mai visto. Ovunque andassimo c’erano asce e ceppi dove tanti condannati
avevano appoggiato i loro colli, strumenti di tortura: vergini di ferro, pinze
per strappare le unghie. La Torre di Londra avrà anche custodito i Gioielli
della Corona d’Inghilterra, ma quello che ricordo erano le asce e i ceppi. Si
diceva che Anna Bolena vagasse per la Torre con la prima testa sottobraccio. La
National Gallery, poi, era piena di quadri raffiguranti i torturatori e le loro
vittime. Madame Tussaud’s era uno spettacolo orrifico di cera dedicato alla
storia inglese. Apprendemmo che il London Bridge veniva usato per mostrare le
teste dei traditori issate su picche. A Tyburn Tree i prigionieri venivano
giustiziati mentre la folla assisteva allo spettacolo mangiando pasticci di
carne e arance.
*Scrittrice a saggista
La polemica - Furio Colombo:
«Nelle scuole non
basta un minuto di silenzio»
di
Enrico Caiano
Milano – Soddisfatto di come l’Italia sta rispondendo
alla «sua» Giornata della Memoria?
«Soddisfatto che sia difficile trasformare la Shoah in una
celebrazione retorica. Mentre la retorica è possibile nel commemorare le
guerre. Shoah invece significa leggi razziali, ricordare se un Paese le ha avute
o no. E l’Italia non solo le ha avute, ma ha collaborato con la Germania a
imporle in Europa. Col re Savoia unico sovrano europeo a firmarle».
Questa
«antiretoricità» cosa comporta?
«Che proprio perché non è facile fare della retorica sul
tema, è più facile reagire con la disattenzione».
Furio Colombo, ebreo, deputato ds nella scorsa legislatura e
oggi direttore dell’Unità, è uno dei padri di quella legge
dell’estate 2000 che ha istituito la Giornata della Memoria.
Da parte di chi si nota disattenzione?
«Al giornale ho ricevuto segnalazioni di Comuni in cui si
invita a celebrare oggi l’inizio del Carnevale e a dimenticare che è il
giorno della memoria. Penso al sindaco Giuliano Giuliani di San Severo , Foggia,
che ha cancellato la ricorrenza sostenendo che “le leggi razziali sono
un’invenzione comunista”. Ē
di An».
Accusa il centrodestra anche a livello di potere centrale?
«Il presidente della Camera – e sottolineo della Camera e
non anche quello del Senato – si è comportato
davvero come vertice di un’istituzione che rappresenta tutto il Paese. Si vede
che da deputato votò quella legge: ha celebrato la giornata in vari modi alla
Camera, dalle mostre fotografiche alla prima del film dedicato a Giorgio
Perlasca».
E del governo è soddisfatto?
«Non mi spiego il comportamento del ministro
dell’Istruzione Letizia Moratti. Perché è una persona intelligente e con un
certo senso della vita e delle conseguenze dei propri atti non:
si rende conto dell’irrilevanza del minuto di silenzio nelle scuole
suggerito a confronto con l’immensa rilevanza dl tema? L’ho sempre
immaginata normale e non tormentata da visioni distorte come quelle che segnano
la vita di molti membri della Lega. Mi pare difficilmente spiegabile tale grado
di insensibilità, specie in una persona che tiene a farsi conoscere come
religiosa».
A
destra si paragonano Shoah e gulag staliniani, ma anche a sinistra si sente dire
che lo sterminio degli indiani d’America fu un massacro come quello degli
ebrei…
«Ogni volta che lo sento dire mi rattrista. Ē
confusione culturale. La manifestazione più terribile di mancanza di
rispetto verso la Shoah è parlare d’altro. Ē come se a un congresso
medico sui tumori si ricordasse che c’è anche la tubercolosi e si moriva di
tisi in un altro secolo. Verissimo, ma è un altro discorso».
Non
è invece il segnale che anche a sinistra serpeggiano pulsioni antisemite o
comunque antisraeliane?
«Un sentimento anti israeliano forte c’è sempre stato a
sinistra. Però si tratta di un fenomeno profondamente traversale in Italia.
Basta pensare alla visita di Formigoni in Iraq durante la guerra del Golfo:
molti filoni cattolici hanno antipatia per Israele. Mentre in quei giorni
ricordo posizioni nettissime di Fassino e Veltroni, pacifiste però vicine a
Israele».
Tuttavia,
come ha notato Paolo Mieli, nessun intellettuale progressista si è mosso per
segnalare l’intensificarsi in questi giorni nel mondo arabo dei riferimenti
propagandistici ai Protocolli di Sion, quei falsi documenti che parlavano di un
progetto israeliano per l’egemonia del mondo …
«Mieli ha ragione. Lo chiamerei però silenzio degli
intellettuali punto e basta, non lo limiterei alla sinistra. Lui vede una
militanza intellettuale da qualche parte o su qualche tema, negli Usa o in
Europa? La realtà è di un grande vuoto, in cui ci si sente a disagio: viviamo
un brutto momento di silenzio dell’intelligenza del mondo».
Dal
Corriere della sera