Auschwitz: cronache dall'inferno.
Libri. Otto Friedrich rivela nuovi particolari della
storia del lager, ma nemmeno oggi conosciamo tutta la verità. I sopravvissuti,
che dopo tanti anni si sono tolti la vita, hanno temuto di non essere creduti da
un mondo indifferente
di Corrado Stajano
Sembra che si conosca tutto dei lager nazisti, che se ne
abbia piena coscienza. La bibliografia sui campi di eliminazione è sterminata,
basterebbero tra i cumuli di memorie, di saggi storici e critici, i libri di
Robert Antelme, di Jean Amèry, di Primo Levi, di Aldo Carpi, di Bruno
Bettelheim, per capire l'orrore, la caduta dell'uomo, la perdita di identità e
di passato che ha lacerato per sempre i sopravvissuti. Poi si legge un nuovo libro e si
resta ogni volta attoniti, come se quei fatti raccontati e il più delle volte
conosciuti, avessero il potere di risuscitare tutti i fantasmi del male, dei
terrore, della violenza: «Come è potuto accadere tutto questo, nel XX secolo,
nel cuore d'Europa?». Si prova questo sentimento anche leggendo il libro di Otto
Friedrich, giornalista e saggista americano - per diversi anni direttore di Time
- che ha per titolo Auschwitz (ed. Baldini &
Castoldi, un testo ricco di informazioni, dallo stile secco ed essenziale che si
propone ai raccontare pianamente quel che accadde nel lager tra il '40 e il '45
attraverso i documenti che si sono salvati dai roghi e con l'analisi di tutto
quanto è stato scritto in mezzo secolo. Una cronaca lontana dal tempo narrato.
L'autore non entra nei cuori e nelle menti dei carnefici, racconta e basta, anche se nelle ultime pagine ha come dei sussulti. Dov’era Dio mentre
ad Auschwitz e altrove si celebravano riti demoniaci, mentre si
immolavano milioni di vittime? Il libro è efficace soprattutto quando riguarda
fatti minimi, apparentemente senza importanza e sconosciuti. Come apparve
Auschwitz il 26 marzo '42 ai prigionieri del primo Transport Juden? Ricorda un sopravvissuto: “Una stazione piccola e graziosa, molto simile a
ogni altra stazione di provincia; una piazzetta di ghiaia incorniciata da alti
castagni”. Elie Wiesel, lo scrittore deportato ad Auschwitz da ragazzino, ricordava quell’angolo sperduto della Polonia meridionale come
un posto brutto, al di là della sofferenza della memoria. Ci ritornò nel ‘79
e fu sopraffatto dalla sua bellezza: «Le nuvole basse, la foresta folta, la
calma solenne dello scenario. Il silenzio è pieno di pace, dà sollievo. Dante
non ha capito niente. Il mio inferno è un luogo di un tale sereno splendore da
togliere il fiato». Friedrich racconta, dunque. La vita quotidiana del campo,
il lavoro, il conflitto, i kapò, i tribunali clandestini, i rapporti tra
carnefici e vittime, la morte di massa, le camere a gas. Compaiono nel
libro, con i loro caratteri, personaggi che superano le invenzioni di ogni
possibile romanzo giallo o nero. Il dottor Mengele, che portava guanti bianchi,
fischiettava arie di Wagner e decideva in un millesimo di secondo della sorte di
un prigioniero. Una volta volle assistere di persona al parto di un’internata.
Ricorda una testimone: «Lo vidi prendere ogni precauzione durante la
preparazione, verificando che tutti i principi della asepsy fossero osservati
scrupolosamente e il cordone ombelicale venne reciso con grande perizia.
Mezz'ora dopo fece mandare madre e figlia ai forni». Con il dottor Mengele il
comandante del campo di Auschwitz, Rudolf Höss, l'inventore dei macabro
motto, arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, che
accoglieva i prigionieri ad Auschwitz, l'uomo che senza battere ciglio confessò di essere personalmente
responsabile della morte di tre milioni di uomini e di donne. («Non era un
mostro, né lo è diventato, neppure al culmine della sua carriera, quando per
un suo ordine si uccidevano ad
Auschwitz migliaia di innocenti al giorno», ha scritto Primo Levi
nell'introduzione all'autobiografia che Höss scrisse in carcere prima
dell'impiccagione: «E' stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era
fatto di una sostanza diversa da quella, di qualsiasi altro borghese di
qualsiasi altro Paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né
nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla
pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere»).
Restano problemi insoluti. Quando si seppe delle camere a gas? Solo nel '42,
sembra, giunsero nelle capitali alleate rapporti sui massacri in Germania, solo
nel ’44 due fuggiaschi da Auschwitz inviarono dalla Cecoslovacchia
una relazione dettagliata che arrivò alla Casa Bianca, alla Croce Rossa in
Vaticano. Ma ci fu sempre chi restò
scettico, chi era portato a
considerare quelle terribili verità come
incredibili esagerazioni. “Perfino coloro - commenta Friedrich – che erano inclini a un intervento
a favore degli ebrei temevano di essere accusati di voler distogliere risorse
dallo sforzo bellico». Nel '44 l'Aviazione americana fotografò Auschwitz. Le
fotografie, straordinariamente nitide, rimasero nascoste negli archivi della CIA
fino al ‘79. Si vedevano le camere a gas, i forni crematori, le lunghe file
dei prigionieri. Ma gli esperti nella lettura delle immagini non videro altro
che un grande campo di prigionia: «Ciò che accadeva ad Auschwitz - scrive
Friedrich - andava al di là di qualsiasi immaginazione, quindi non poteva
essere creduto».Anche i sopravvissuti, che, tanto tempo dopo, si sono tolti
la vita, hanno temuto di non essere più creduti, in un mondo sempre più indifferente.