Testimoni.
In “Anni perduti” Federica Spitzer racconta l’internamento nel campo che
nel 1944 fu ripulito per un’ispezione della Croce Rossa. E il viaggio della
salvezza verso la Svizzera
diSergio Romano
Nella grande letteratura sul genocidio ebraico le memorie
autobiografiche rappresentano complessivamente una percentuale modesta. Molti
non ebbero il coraggio di mettere su carta i loro ricordi. Altri dovettero
ritenere che ogni libro di memorie diventa letteratura e corre quindi il rischio
di offendere i morti sminuendo o rimpicciolendo la tragica enormità
dell'evento. Qualche religioso, infine, sostenne che il male è necessariamente
ineffabile. Non basta. Per ricordare l’orrore occorre impedire che la memoria
ne venga travolta, proteggerla con una sorta di corazza e assumere di fronte a
certi avvenimenti un atteggiamento di distaccata imperturbabilità, se
non addirittura di ironia. Soltanto così i ricordi assumono la credibilità di
un documento storico. Federica Spitzer, autrice di un breve libro apparso a Berlino
nel 1997 e più recentemente presso l'editore Dadò di Locarno (Anni
perduti. Dal Lager verso la libertà) è fra coloro che sono meglio
riusciti a raccontare la propria tragedia con il minor numero possibile di
lacrime e invettive. Dobbiamo esserle doppiamente grati: per la straordinaria
qualità del libro e per l'importanza di una testimonianza storica che permette
di meglio comprendere alcuni fra gli aspetti meno noti del genocidio ebraico. Il primo di essi è il campo di Terezìn, o Theresienstadt, una piccola città
fortificata a 150 km da Praga, edificata nel 1780 da Giuseppe Il e così
chiamata in onore della madre, Maria Teresa. Fritzi Spitzer vi fu rinchiusa con
i suoi genitori per due anni e mezzo, sino agli inizi di febbraio del 1945.
Quando vi arrivò da Vienna nell'estate dei 1949 la fortezza era lager da un
anno. Ma non fu un campo come gli altri. Per ragioni molto discusse, ma non
ancora dei tutto chiarite, il regime nazista decise di farne,
agli occhi del mondo, una «comunità ebraica autogestita». Theresienstadt ebbe
uno spaccio, una moneta, un servizio postale, un cabaret, un'orchestra, un
ospedale, un panificio, un grande laboratorio artigianale, un consiglio ebraico
presieduto da Jacob Edelstein, una sorta di centro culturale in cui alcuni
rabbini traducevano e commentavano il Talmud; e venne persino ripulito e dipinto
in occasione di una visita degli ispettori della Croce Rossa nel giugno del
1944. Dietro questa attraente facciata i prigionieri vivevano in condizioni
umilianti, lavoravano come schiavi, sopravvivevano con 800 calorie al giorno,
venivano duramente puniti dalle SS per la più piccola trasgressione, morivano
di tifo petecchiale e venivano infine avviati verso i forni crematori di
Auschwitz o Treblinka. Ma la finzione lasciò agli internati piccoli margini di
libertà che sarebbero stati, in altri campi di concentramento, impossibili e
permise a Fritzi Spitzer di esercitare l'ingegno, la fantasia e l'intraprendenza
di cui era dotata. I piccoli furti, i traffici quotidiani, le astuzie e le
picaresche avventure della protagonista sono altrettante rivincite della natura
umana contro la vita disumana dei lager. Resta da comprendere perché il regime nazista abbia montato
una così colossale finzione. Per ingannare, con una operazione di propaganda,
la pubblica opinione mondiale? Per «ospitare» i maggiorenti delle
comunità ebraiche e gli intellettuali che godevano di una notorietà
internazionale? Per dare soddisfazione a quella parte dei regime che cercava
forse di mitigare il furore persecutorio di Hitler? Per disporre di un buon
numero di ostaggi da barattare al momento opportuno? Il libro non risponde a
questa domanda, ma l'avventura di Fritzi Spitzer suggerisce qualche ipotesi. Il
2 febbraio Fritzi apprese che 1200 prigionieri sarebbero partiti nei giorni
seguenti per la Svizzera e capì che avrebbe potuto far parte del gruppo con suo
padre e sua madre. Temette che il convoglio, come quelli che lo avevano
preceduto, fosse destinato a un campo di sterminio ed esitò. Ma non appena ebbe
consultato i genitori e preso una decisione, si buttò nell'impresa a capofitto
e riuscì a iscriversi con essi nella lista dei prescelti. Comincia da quel momento uno dei più singolari
episodi
della seconda guerra mondiale. Tre giorni dopo ciascuno dei partenti ricevette,
con sua grande sorpresa, un barattolo di marmellata, un sacchetto di vitamine,
due pagnotte e fu messo a sedere in un treno che era composto di carrozze,
anziché di carri bestiame. Su quel treno i 1200 attraversarono la Boemia,
piegarono a sud-ovest verso Karlsbad, passarono la frontiera tedesca in
direzione di Bayreuth, videro dal finestrino le rovine di Augsburg,
Friedrichshafen, Norimberga e finalmente, al di là del lago di Costanza, le
coste illuminate della Svizzera. Quando il treno entrò frenando e
scricchiolando nella stazione di Kreuzlingen la banchina era piena di gente che
guardava silenziosamente e lanciava ogni tanto qualche sorriso. Erano gli
abitanti della cittadina, accorsi con doni d'ogni genere. Erano il volto
ospitale di un paese che oggi siede, spesso ingiustamente, sui banco degli accusati. Dietro la liberazione dei 1200 prigionieri di Theresienstadt
vi fu un uomo politico svizzero che aveva buoni rapporti con alcuni esponenti
tedeschi. Si chiamava Jean-Marie Musy, era stato consigliere federale e aveva
fondato nel 1936 un'Associazione nazionale svizzera contro il bolscevismo.
Quando alcuni rabbini ortodossi americani gli chiesero d'intercedere, per
la liberazione di un gruppo di ebrei, Musy sperò forse che una iniziativa
umanitaria avrebbe spianato la strada a un suo progetto, accarezzato da tempo:
un patto fra gli alleati e la Germania contro l'Unione sovietica. Si mise al
lavoro e avvicinò due persone che lo aiutarono con motivazioni diverse:
Heinrich Himmler, capo delle SS e della Gestapo, Walter Schellenberg, capo dei
controspionaggio tedesco. Il primo voleva sfruttare l'operazione per ottenere
denaro e mezzi di trasporto; il secondo per migliorare, nei limiti del
possibile, l'immagine della Germania e aprire trattative con gli Alleati.
Come dimostrano altre vicende di quei mesi, Himmler aveva probabilmente un
obbiettivo prevalentemente venale, mentre Schellenberg perseguiva uno scopo
politico. L’accordo fu raggiunto quando Himmler rinunciò ai mezzi di
trasporto (che nessuno era disposto a fornire) e si «accontentò» di cinque
milioni di franchi. Moreno Bernasconi, nella sua prefazione, scrive che
un'operazione analoga era stata tentata qualche mese prima da Adolf Eichmann in
Ungheria: la liberazione di un milione di ebrei e la chiusura delle camere a gas
contro 10.000 camion e beni di prima necessità. Di queste trattative, condotte
da uomini che cercavano di aprire a se stessi un'uscita di sicurezza, Hitler, probabilmente, non fu mai al corrente. Mentre il Führer, rinchiuso nel
bunker della cancelleria, non aveva altra soluzione per il suo Paese fuorché un
gigantesco «crepuscolo degli dei», sulle mura della grande prigione nazista
cominciavano ad aprirsi le prime crepe. Fritzi Spitzer fu tra i pochi che riuscì
a scivolare attraverso una fessura per conquistare la libertà. Il libro suggerisce un'ultima osservazione. Con alcune
eccezioni (fra cui i libri di Primo Levi) la migliore letteratura sui lager
tedeschi è femminile. Ricorderemo
d'ora in poi il nome di Fritzi Spitzer accanto a quelli di Margarethe
Buber-Neumann (che poté confrontare i campi di Hitler con quelli di Stalin), di
Ruth Schwertfeger, autrice di Donne di Therensienstadt,, di Ruth Krueger
autrice di Vivere ancora (un
altro libro su Theresienstadt, pubblicato nel 1995 da Einaudi) e di Fey von
Hassel, autrice di memorie apparse recentemente («Corriere» del 21 febbraio):
quattro donne intelligenti, testarde e capaci di combattere il nazismo con le
armi della loro femminile umanità. Si dice che il Führer avesse con le donne
un rapporto difficile e si fermasse spesso sulle soglie di un velleitario
corteggiamento. Comincio a capirne le ragioni.