Impegno. Il rabbino capo di Milano interviene sul giorno
della memoria che si celebra il 27 gennaio: il messaggio di Auschwitz come
risposta morale all'indifferenza contemporanea per le atrocità naziste. Abbiamo
chiesto un intervento al rabbino capo di Milano, Giuseppe Laras, in occasione
del primo "Giorno della memoria" istituito per il 27 gennaio di ogni
anno dal Parlamento italiano con legge del luglio scorso
di
Giuseppe Laras
Col trascorrere dei tempo è fatale che il numero di
testimoni e dei protagonisti della Shoah vada sempre, più assottigliandosi e
che la credibilità di ciò che è accaduto divenga quindi di giorno in giorno
più esposta a dubbi e perplessità, grazie anche a una pseudo-storiografia
decriminalizzante e negazionista che negli ultimi anni tende a
marcare sempre più pesantemente i suoi interventi. Che fare, allora, perché questa memoria, non si consumi e
possa essere trasmessa ai giovani di oggi e alle generazioni future? Bisognerà
sicuramente parlare di quello che è accaduto, ma lo scopo principale non sarà
solo quello di consegnare ai posteri questa memoria, ma quello di trasmettere un
atteggiamento di rifiuto della violenza e dell'intolleranza in modo che possa
divenire parte integrante del patrimonio etico-culturale degli uomini di
domani. Credo sia soprattutto questo il valore della memoria: ricordare per
ricostruire. Il ricordo di Auschwitz deve diventare l'emblema di una nuova
umanità che sia immune da tutto ciò che ha reso possibile la Shoah col suo
sanguinoso bagaglio di devastazione e di morte. Un discorso come questo
intorno a una memoria concepita in senso dinamico, capace cioè di rivoluzionare
lo spirito umano rendendolo più consapevole e degno della sua matrice divina,
solleva necessariamente alcuni interrogativi dolorosi e inquietanti su silenzi,
acquiescenze e connivenza, opposti dal mondo circostante, non solo in Germania
ma anche altrove, di fronte alla
persecuzione e ai crimini perpetrati dal nazismo contro gli ebrei. D'altra
parte, guardando il presente, non sembra che Auschwitz abbia prodotto un
cambiamento radicale all'interno della cultura occidentale. Mi riferisco alla produzione,letteraria e soprattutto alla
riflessione filosofica della cultura tedesca, ma anche di quella europea più in
generale. Se consideriamo, infatti, la produzione successiva a quell'evento,
credo si possa parlare, più che di un pensiero che ha lavorato per il
mantenimento della memoria dei genocidio, di un pensiero che ha lavorato per la
rimozione della memoria del genocidio. Certo, porsi di fronte a quell'orrore
significa mettere al centro di ogni discorso culturale il problema non solo
storico-politico, ma soprattutto etico del male e della sofferenza. Ma
questo non è avvenuto. Poche sono le voci di letterati e pensatori
contemporanei che abbiano saputo davvero affrontare e misurarsi con il volto
crudele di Auschwitz. Ma torniamo alla memoria intesa, come garanzia di cancellazione di quei
presupposti
antimorali e anticulturali che hanno consentito la consumazione della Shoah,
ovvero come deterrente contro il ripetersi nel presente e nel futuro di disegni
soppressivi di gruppi e di individui a motivo della loro specificità, di
qualunque natura o segno essa possa essere. Ebbene, questa esigenza, avvertita a livello etico, e istintuale, si scontra con
una constatazione empirica: che la memoria degli uomini e degli accadimenti
fatalmente si consuma e tende a scomparire col tempo. Una cosa del genere l'aveva già affermata Kohèleth,
nell’ambito della sua analisi della realtà esistenziale che si svolge
“sotto il sole”: “Quello che è stato è quello che sarà; quello che è
accaduto è quello che accadrà, non vi è nulla di nuovo sotto il sole”.
(I,9). Ē purtuttavia vero che, al di là di qualsiasi certezza
“scientifica” (ma esiste?), noi abbiamo il dovere di trasmettere la memoria.
Che importa infatti se un giorno, vicino o lontano, questo nostro impegno,
questa esigenza del nostro spirito potranno forse retrospettivamente risultare
sterili, improduttivi o inutili? A parte che la bontà e la validità di
un’azione, di un pensiero, di un sentimento non si misurano dal risultato che
essi producono ma mantengono intrinsecamente il loro valore per il solo fatto di
essere stati compiuti o espressi, che importa - ad esempio - se nella
storiografia sulla Shoah di domani la tragedia di 50 anni fa apparirà sfumata,
ridimensionata nei numeri e magari inserita, quanto a intensità e a
essenzialità, nel quadro più generale e generico
delle negatività e della “banalità” crudeli di questa nostra era?
Avvertire come possibile o anche come probabile, o al limite, anche come certo tutto ciò (e vorremmo
che non accadesse mai e, forse, non
accadrà mai!) non mi pare che
possa comportare per noi uomini del presente, la disperazione della
rassegnazione e del disimpegno. Al contrario, ciò comporterà un impegno ancor
più determinato, e consapevole a mantenere e a trasmettere questa memoria, fin
dove essa potrà giungere, per aiutare gli uomini di domani a essere più
giusti, più buoni, più umani. Sempre Kohèleth (III, 7) affermava che «c'è,
un tempo per tacere e un tempo per parlare». Oggi siamo ancora nel tempo della
parola e quindi dobbiamo parlare, trasmettere la memoria e testimoniarla, quando
verrà - se verrà - il tempo del silenzio, non parleremo più. L’importante
è che nel tempo della parola (che è anche tempo di responsabilità e di
impegno) ognuno di noi agisca come se ignorasse che forse un giorno potrà
sopravvenire il tempo del silenzio.
Dal
Corriere della sera, 23 gennaio 2001
I
cento incredibili giorni di Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano.
Personaggi. Si gira a Budapest, dal libro di Enrico
Deaglio, la storia di un uomo qualunque che nel '44 portò in salvo più di
75.000 ebrei
di
Maurizio Porro
Anche noi italiani abbiamo la nostra Schindler's list: 75.200
ebrei che furono salvati nel nome del fine che giustifica i mezzi, dal signor
Giorgio Perlasca, impostore, come titola il suo diario, a fin di bene, ex
combattente franchista della guerra civile spagnola, che nel '44, commerciante
di carni e di cavalli, si trovò in Ungheria all'arrivo dei nazisti e vide cose
orribili. La sua avventura, dopo 11 anni di preparazione in cui a un certo
momento fu coinvolto anche Benigni avrà a Budapest il primo ciak I'11 febbraio
per una produzione internazionale Rai. «Non è facile ricreare la Budapest di allora, oggi spuntano
ovunque fast food, alberghi e antenne. Sarà un film per le sale, ma da noi una
produzione tv in due puntate - dice il produttore Carlo Degli Esposti - che
annunciamo ora per la Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Non è stato un
progetto facile, la storia è stata scritta e riscritta fino alla versione di
oggi che porta la firma di Rulli, Petraglia ed Enrico Deaglio, che su Perlasca
ha scritto per Feltinelli «La banalità del bene» e dedica alla Shoah questo
numero del «Diario». Nel '93 ci fu anche un documentario intervista con
Perlasca della tedesca Nina Gladitz e un «Mixer» tv apportò alla ribalta
quest'uomo che ha vissuto in silenzio e modestia un momento straordinario della
storia, tornando poi a Padova come se niente fosse, chiacchierando con gli amici
al bar, e forse neppure creduto. Storia strana: Perlasca, che l' 8 settembre '43 si era schierato
con il re e Badoglio, era sempre stato «dall'altra parte», a, destra, e oggi
il figlio Franco (in onore del generalissimo) è assessore di Alleanza nazionale
a Padova. Racconta il produttore: «Alcuni sopravvissuti da una radio di Tel
Aviv nell'88 cercavano questo Perlasca come salvatore di ebrei, più di
Schindler. Deaglio e io lo trovammo e lo portammo a “Mixer”, mentre in
Israele veniva decorato come "Giusto tra i giusti" e poi Cossiga lo
nominò cavaliere». «Quando morì a 82 anni, il giorno di Ferragosto del ‘92 -
ricorda Deaglio -, Perlasca era in primo piano sui giornali americani: vennero
duemila persone e arrivarono telegrammi da tutto il mondo, a memoria dei molti
ebrei che volevano dirgli grazie». La vita a volte è un romanzo: «Nel '44 Perlasca si rifugiò
nell'ambasciata spagnola, si finse diplomatico, ambasciatore, medico, ottenne
case protette per 5.200 ebrei destinati ai campi, affrontò le Croci Ferrate
hitleriane e il ministro dell'Interno, salvando dal rogo il ghetto dove vivevano
70.000 ebrei. Quando gli chiesi: "Perché l'ha fatto?", mi rispose:
"Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?". Aveva visto uccidere un
bambino ebreo per strada, aveva visto i treni partire per i campi, aveva
incrociato lo sguardo di Eichmann. Ma si era anche accorto che, con un po' di
coraggio, qualcuno lo si poteva tirar giù da quei vagoni». Il
fattore umano: «Del progetto del film era felice, chiese soltanto che non si
parlasse male di Franco e non si violasse la sua privacy». Marcello Pezzetti,
del centro di documentazione ebraica, da Auschwitz, lo ricorda bene e con
affetto: «Era uno straordinario uomo qualunque, che fino all'ultimo si sentì
per quel che aveva fatto fuori dalla legalità, non voleva parlarne, complessato
forse per una cotta per una ragazza ebrea. Disse. "Perché non avrei
dovuto?" Questa è la verità». Un film da 12 miliardi, diretto da Alberto Negrin e con
protagonista Luca Zingaretti, pronto in autunno, racconterà a tutto il mondo
questa storia straordinaria di 100 incredibili giorni.
«Noi,
testimoni della Shoah»
Ricorrenze
/ I ricordi dei sopravvissuti mentre si prepara, sabato, la Giornata della
memoria.
In
sei giorni 4 mila persone alla mostra documentaria di Palazzo Reale. Liliana
Segre: "Quando tornai da Auschwitz il portinaio
mi scambiò per un'accattona"
di
Margherita Mezan
Al carcere di San Vittore un intero raggio, il quinto, era
riservato a loro, gli ebrei, milanesi e non: dopo l' 8 settembre, con la firma
dell'Armistizio e i tedeschi nell' Italia del nord, la «caccia» è ormai
spietatamente ufficiale, i rastrellamenti all'ordine del giorno. E della notte.
La macchina dello sterminio, mezzi e burocrazia, è così perfetta da non
lasciare scampo e dei circa 7.000 ebrei italiani deportati, solo 610 faranno
ritorno. A Milano, ma anche Como, Varese, gli ebrei vengono raccolti
per essere poi dirottati, in camion chiusi, alla Stazione Centrale: lì i treni
speciali sono pronti, treni «merci», ma con un carico umano di 600, 700
persone per volta, tutti da «piombare». «Ma noi non li vedevamo se non
all'ultimo quando i vagoni venivano alzati dai montacarichi», racconta Liliana
Segre che a 13 anni entra da sola, piangendo, nel carcere di Varese. Poi con il
papà arriva a Milano. «A San Vittore, mai un’ora d'aria, esistevano ancora i
raggi a "ballatoio" e la mattina della deportazione, il 30 gennaio
1944, i soli a salutarci furono i detenuti comuni. Si sporgevano dalle
celle per benedirci, lanciarci un frutto, stringerci una mano. Il camion ha
attraversato all'alba una città deserta, è transitato all'angolo tra via
Carducci e corso Magenta, dove abitavo. lo, spiando dalla tenda che chiudeva il
cassone ho salutato la mia casa».
Una casa che, al ritorno da Auschwitz, non ritroverà. «Nell'agosto 1945 -
racconta ancora Liliana Segre, milanese da generazioni, il nonno Giuseppe
fondatore nell' 800 della Croce Verde, papà e zio ufficiali dell'esercito e
gran patrioti - arrivata su un altro camion, stavolta americano, sono scesa in
piazzale Cadorna. Con me c'era un'altra ragazza, Graziella Cohen: qualcuno ci
offrì l'elemosina. E anche il portinaio della ma casa ci scambiò
per accattone e, scacciandoci dal portone, non ci permise di entrare. Fu solo
grazie ad altri inquilini che riuscii a farmi riconoscere”. Questa
mattina Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, incontrerà il pubblico nella
Sala della Provincia di via Corridoni,14, dove verrà proiettato, alle ore 9.30,
il film di Silvia Brasca «Meditate che questo è stato». E, alle ore 17, ci
sarà un altro incontro alla Libreria Einaudi (via Festa del Perdono 12). Pochi lo sanno, ma quel che ancora resta dei tempi delle
persecuzioni sono i montacarichi della Stazione dove, due anni fa, all'altezza
dell' ultimo binario sulla destra, è stata apposta - su iniziativa della
Comunità di Sant'Egidio - una lapide commemorativa. Se qui e altrove in città
i «luoghi della memoria» appaiono defilati, centralissimo è invece Palazzo
Reale nelle cui sale, fino al 19 febbraio, viene ospitata la mostra «Per non
dimenticare la Shoah», che propone documenti e testi di ricerche meticolose da Gianfranco Moscati», spiega Marco
Szulc, presidente di «Figli della Shoah», l'associazione promotrice. Ed è lo
stesso Gianfranco Moscati, classe 1924, che spesso guida gli studenti in visita
alla mostra (hanno prenotato 220 classi per un totale di almeno 6 mila alunni,
mentre finora sono entrate 4 mila persone) nel percorso della memoria, fra le
immagini delle vessazioni quotidiane, lettere censurate, i manifesti con le
caricature grottesche e repellenti degli ebrei, le cartoline antisemite, le
vecchie foto dei campi di sterminio, le tracce delle persone fatte scomparire.
Il giorno della memoria.
«Per chi suona il mandolino di
CEFALONIA»
Reportage – Parlano i testimoni della strage tedesca
commessa sull’isola greca l’8 settembre ’43, dopo il rifiuto di arrendersi
della divisione italiana Acqui
di Marzio Breda
CEFALONIA – La giornata è così grigia che la linea
dell'orizzonte si confonde e sembra soltanto la vena di una lastra d'ardesia
La pioggia toglie profondità al paesaggio e getta su tutto i riflessi
del peltro. Ma la «casetta rossa», per quanto abbia l'intonaco inzuppato,
spicca subito tra i vapori freddi, unica macchia di colore lungo la strada verso
Capo San Teodoro. Ricostruita, ricorda una casa cantoniera, proprio come apparve
agli ufficiali italiani che vi furono rinchiusi nel settembre del 1943. Lì si
confessarono con il loro cappellano, don Romualdo Formato, prima d'essere
portati a morire in una radura vicina, dove c'è ancora l'olivo che fu il
riferimento per la mira al plotone d'esecuzione della Wehrmacht. Chi arriva incontra Stathys
Ambathielos: vive qui. Gentile, ti lascia girare e
tace con rispetto mentre conti i fori dei proiettili sul tronco e osservi il
vallone in cui furono gettati i corpi: 1, 2, 3... 170. «Mamma, mamma. Dio, Dio» sillaba Stathis, le stesse
invocazioni che ha sentito ripetere da chi udì le grida della strage. E «mamma,
mamma» urlava pure «il bellissimo ragazzo» che l'ottantatreenne
Stamàtia Vutsìnas vide sulla porta del comando germanico, a Pharsa, l'ingresso
della sua abitazione oggi. «E' una scena che non riesco a cancellare: due della brigata
Edelweiss, e lui in mezzo. Uno lo tiene,sotto tiro, l'altro entra a chiedere
istruzioni e quando torna pronuncia una sola parola: "Kaputt".
L'italiano guarda verso di me piangendo, ma è un attimo, gli sparano alla
tempia, poi lo buttano nel fosso della strada, pieno di morti. Decine, coperti
di calce che li rende irriconoscibili, grigi». Ecco, il grigio torna come un'ossessione, oggi, a Cefalonia.
Grigia è la mattinata. Grigia la «zona» della storia entro cui l'eccidio è
stato relegato. E grigia, non limpida, la pretesa di chi vorrebbe delegittimare
le basi morali di una scelta, quella della Divisione Acqui di battersi
contro i tedeschi, che fu una prova di dignità militare e uno dei primi atti
della resistenza. Erano i giorni dell’armistizio e dell’abbandono,
degli ordini ambigui, della patria che muore e rinasce nelle
coscienze di quei giovani, del dilemma tra la vita e l'onore. Gli 11.700
italiani di stanza qui rifiutarono di arrendersi all'ex alleato che forse, per
loro, tornava ad essere il nemico del Risorgimento, e impugnarono le armi un
mese prima che Badoglio dichiarasse guerra alla Germania. Un sacrificio
disperato: 1.300 caddero in combattimento, altri 5.170 furono assassinati dopo
la cattura (assassinati dalla Wehrmacht, non dalle SS, ciò che spiega i silenzi
degli anni successivi, ammessi dal senatore Taviani in nome della ragion di
Stato, per non gettare ombre su un alleato chiave per la Nato). E al saldo vanno
aggiunti 2.966 prigionieri spariti nelle stive di tre navi affondate dalle mine.
L'isola del Mar Ionio resta piena di tracce del
massacro di 57, anni fa. A Prokopàta, fra i rami di un albero-patibolo, fino a poco tempo fa penzolavano un osso e una suola di stivale. Sui resti dei
ponte di Kimonico campeggia sempre la croce uncinata. Nel liceo di Argostòli il
professar Pétros Petràtos tiene lezione su quel capitolo di storia. A Keramies,
Villa Valianos, alle cui finestre fu appesa la tovaglia bianca della resa, è
sopravvissuta al terremoto del 1953. Sono paesi dove una troupe ha appena girato
un film con Nicholas Cage e Penelope Cruz tratto da «Il mandolino dei capitano
Corelli» dell'inglese Louis De Bernières, un romanzo che ha dato spunto a
grandi polemiche e piccoli commerci. Si può comprare un vino bianco
ribattezzato Corelli's Robola (3.400 dracme a bottiglia), cenare alla Taverna
del capitano (8.000 dracme), o affidarsi a una guida che ti conduce nei luoghi
del libro (5.500 dracme l'edizione tascabile) e della pellicola. Sono i soli effetti della «riscoperta» del dramma di
Cefalonia che fanno sorridere Leyteris Eleyteratoy, 73 anni, testimone dei fatti
e saggista sceso in prima linea per difendere gli uomini della Acqui e i
partigiani dell’Elas. Per il resto. È ostinato e duro: ha tempestato di
lettere i giornali di mezzo mondo, imponendo controinchieste come quella del Guardian.
Dice: «Gli italiani erano sì degli occupanti, e percepiti come tali perché ci
volevano annettere. Ma erano gente friendly che, se ti rubava una
gallina, dopo la divideva con te. E che non condannò mai a morte nessun greco,
qui, mentre sotto i tedeschi di morti ne abbiamo avuti quasi 300».«Kalà paidià», bravi ragazzi, e però niente a che fare con la caricatura
dei soldati tutto canto e mandolino e zero virtù militari che esce dal romanzo.
Infatti decisero di combattere dopo un referendum mai avvenuto in un esercito,
in cui votarono dal generale all’ultimo artigliere. E noi greci non eravamo i
“barbari comunisti” che racconta quello scrittore. Il vero Corelli, cioè
Amos Pampaloni, che è ancora vivo e vegeto, è un eroe popolare qua: sparando i
primi colpi contro la Wehrmacht, inaugurò anche la nostra lotta di liberazione».Eleyteratoy rammenta bene quel 13 settembre del ’43: aveva
16 anni, stava nello stesso posto dove lo incontriamo adesso, a Lixouri, e vide
la nostra batteria centrare i barconi tedeschi che entravano nella baia, carichi
di rinforzi. Poi si scatenò l'inferno, e ci vollero 9.436 morti per spegnerlo.
Sarebbero stati meno, qualcuno recrimina, se la resistenza greca fosse
intervenuta. «E' un'altra falsificazione di chi vorrebbe revisionare la storia
e sostiene, ad esempio, che la Acqui si immolò per il re, per Badoglio o magari
per il comunismo. Non mi sembra giusto che appiccichino bandiere politiche ai
vostri morti: meritano soltanto quella dell'onore e dell'amor di patria. «Aiutarli noi greci? Cominciavamo allora a organizzarci
militarmente: avevamo pochi mitra e moschetti consegnatici da Pampaloni e da
altri ufficiali già in contatto con il nostro capo, il colonnello Kavadìas
dell'esercito greco, un liberale, altro che un marxista. Comunque siamo entrati
nel ballo, contando 15 caduti in azione. Formammo gruppi speciali, per
soccorrere i vostri. Diversi contadini furono fucilati, per avere ospitato
italiani. Per una settimana ne nascosi uno anch'io, in una baracca fuori dal
paese. Si chiamava Antonio, faceva l'insegnante: poi una mattina non l'ho più
trovato. Aspettavamo gli inglesi, radio Londra ci incitava a resistere. Quando
vedemmo gli aerei, urlai a mio padre: "Arrivano, ora cambia tutto".
Invece erano gli Stukas, e non ci fu più nulla da fare per nessuno». Adesso tace, lo storico, stringendo fra le mani un libro di
quattrocento pagine che ha scritto tre anni fa, «Un passaggio della memoria sulla Cefalonia della Resistenza». Nella biblioteca ha
molti volumi su quella settimana terribile, una dozzina sono di autori ellenici,
come dire che l'hanno studiata forse più loro di noi. Sulla scrivania c'è una
foto di Pampaloni che, salvatosi miracolosamente, si unì ai partigiani dell'Elas
con i quali combatté per quattordici mesi. «La guerra di Mussolini contro la Grecia fu una vergogna - ci congeda
Eleyteratoy -, ma il sacrificio della divisione Acqui l'ha cancellata. Quel che
non capisco è perché, ora che si riparla di quei morti, qualcuno li usi quasi
"contro" la vostra Resistenza, come per dire che Cefalonia fu
"oscurata" perché non nasceva nell'alveo ideologico comunista... lo
non coltivo la mistica del martirio, ma in quei giorni equivoci,
impugnando le armi, i soldati della Acqui furono i primi a esprimersi in un modo
non equivoco.
«Insomma: se quello fu uno dei più grandi crimini del nazismo,
come è stato sancito pure a Norimberga, resta una delle più grandi glorie del vostro Paese».
Il viaggio di Ciampi in marzo per ricordare le 10.000
vittime
Il presidente della Repubblica prepara una
missione a Cefalonia, per il prossimo 1° marzo, durante la quale sarà
accompagnato da un gruppo di superstiti della Divisione Acqui. Lo spirito del
viaggio (che comprenderà visite ai luoghi dell’eccidio e una ricognizione in
mare) è già stato anticipato in alcuni discorsi di Ciampi, con cenni anche
autobiografici, sull’ 8 settembre ’43. La primavera scorsa, a Piombino, in
polemica con certe letture storiche, disse che «la scelta consapevole di quei sodati, il voto con cui decisero di non
arrendersi e di combattere, riscattò l’onore dell’Italia: e quel giorno la
patria non morì, ma risorse». All’iniziativa del capo dello Stato si
aggiunge una raccolta di firme partita da Acqui Terme, che chiede alle nostre
istituzioni di compiere i passi necessari affinché la Germania riconosca il
crimine della Wehrmacht e offra le scuse ai familiari delle vittime.
Dal
Corriere della sera, 25 gennaio 2001
Anche gli Italiani approfittarono della Shoah
Giorno della memoria, Violante accusa. Ciampi: l’Olocausto
monito per tutta l’umanità
diAlessandro Capponi
ROMA - Ē sabato, proprio come il 27 gennaio del 1945:
allora vennero aperti i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, oggi è il
Giorno della memoria. Una ricorrenza istituita grazie a una legge, la 211. E il
presidente della Repubblica Ciampi manda un messaggio che il presidente
dell'unione delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzato, legge nel liceo
Kant, a Roma: «La Shoah deve rappresentare un monito per tutta l'umanità
contro l'odio razziale, etnico e religioso che ancora insanguina molte parti del
mondo. La memoria è un dovere. Le leggi razziali del 1938 segnarono il più
grave tradimento del Risorgimento e dell'idea stessa della nazione italiana, al
cui successo gli ebrei avevano contribuito in modo determinante. Ma furono
numerosi gli italiani che seppero anteporre le ragioni della loro coscienza alla
violenza della dittatura». Ma non c'è solo dolore, in questa prima
commemorazione, perché il ricordo della Shoah è segnato da un'accusa precisa:
«L'Italia poteva evitare lo sterminio», dice Luciano Violante. Nella palestra
del liceo, di fronte ad una platea di ragazzi, accanto al ministro Tullio De
Mauro, e a Francesco Rutelli, il Presidente della Camera non concede attenuanti
all'Italia: «Per viltà o per connivenza, il nostro Paese ha permesso lo
sterminio, e ne ha approfittato». Ad ascoltarlo in silenzio ci sono giovani tatuati dalla moda
e anziani tatuati dal nazismo: «Gli italiani, alcuni italiani, hanno usato le
leggi per denunciare i rivali in affari, per lucrare su una tragedia
incomparabile. Luciano Violante sceglie dunque di ricordare tutto, non solo le
medaglie alla resistenza. Anche le responsabilità irrimediabili: «Abbiamo
rivelato al tedeschi cognomi e indirizzi di docenti ebrei per ereditare le
cattedre, abbiamo denunciato i proprietari di case per ricomprarle a prezzi
ridicoli, abbiamo venduto per poche lire quelli che cercavano rifugio». E
ancora: «Lo sterminio poteva essere evitato, non è vero che non c'erano
alternative, perché in Bulgaria il parlamento si oppose». L'applauso è
compatto, quasi liberatorio. si protrae ancora
un poco, quando Rutelli comincia a parlare: «Svastiche sui muri delle scuole,
negli stadi, sulle saracinesche dei negozi, anche considerandoli gesti banali,
non devono essere accettati, perché possono essere preludio all'oblio». Il
deputato che ha voluto la legge 211, Furio Colombo, si commuove mentre parla
agli studenti, poi prende la parola De Mauro: «In ogni ambiente - dice - le
discriminazioni di qualche tipo continuano». La giornata registra una coda polemica nel pomeriggio,
durante la cerimonia nel Museo storico della Liberazione, lo stabile di via
Tasso adibito a prigione dalle Ss, presente il ministro Melandri. Quando arriva
il deputato di An Maurizio Gasparri si levano alcuni fischi: «La considero una
pagina orribile e poi sono stato invitato», spiega Gasparri. i fischi vengono
placati dai rappresentanti del museo e della comunità ebraica. Ma l'invito viene
smentito.
Il
caso Quei trecento posti “rubati” negli atenei
Pochi si opposero alle leggi razziali che costrinsero all’esilio personalità
come Fermi
diRoberto Finzi
Quando il governo fascista emanò i provvedimenti antisemiti,
Ernesto Rossi scriveva dal carcere il 22 ottobre 1938: “Ē un bel numero
di cattedre che rimangono contemporaneamente vacanti: una manna per tutti i
candidati che si affolleranno ora ai concorsi». Atteggiamento non dissimile si
registrò nel 1931, al momento del rifiuto del giuramento da parte di chi non
volle giurare.
Esistevano possibilità di resistere o di testimoniare in modo inequivoco un
disagio. Lo hanno mostrato in modo diverso Massimo Bontempelli, Ranuccio Bianchi
Bandinelli, Antonio Signorini. Né si può dimenticare, in questo quadro, «la
prova clamorosa della fiera disobbedienza» della «Rivista di diritto privato»
alle ingiunzioni delle superiori autorità. Nel momento in cui provvedimenti
razzisti obbligavano Alfredo Ascoli a lasciare la «Rivista di diritto civile»,
la «Rivista di diritto privato» lo chiamava a far parte del suo comitato
scientifico. Ma, come ha scritto Rosetta Loy, «quasi trecento posti» resisi «immediatamente
disponibili con le leggi razziali» facilitarono «alquanto la digestione di
provvedimenti in apparenza indigeribili». Anche di uno dei documenti più
disgustosi del tempo si coglie la reale matrice solo nella dimensione dell'uso
delle risorse venutesi ad avere e della battaglia per accaparrarsele. Ē il
comunicato della Commissione scientifica dell'Unione Matematica Italiana
dell'inizio del dicembre '38 che chiedeva che «nessuna delle cattedre di
matematica rimaste vacanti in seguito ai provvedimenti per l'integrità della
razza venga sottratta alle discipline matematiche anche dopo le eliminazioni di
alcuni cultori di razza ebraica». Questi «cultori» rispondevano ai nomi, fra
gli altri, di Vito Volterra, Federico Enriques, Guido Castelnuovo, Guido Fubini.
Giorgio Israel, matematico a La Sapienza, li ha definiti: «I massimi capiscuola
della matematica italiana moderna».
Da parte dell'accademia italiana non ci fu reazione significativa ai provvedigli
razzisti. Era possibile in un regime totalitario? Intanto c'è da chiedersi se
era necessario e inevitabile lo zelo amministrativo che in più casi traspare.
Ma qualche gesto era comunque possibile. Unico fra i responsabili degli atenei,
lo inviò il rettore di Firenze, Arrigo Serpieri. Con una trasparente allusione
alle norme «discriminatorie», aprendo l'anno accademico, augura ai colleghi
dimessi d'autorità che «possano venir loro riconosciuti, in competente sede, i
meriti necessari per continuare a servire, in altri settori, l'Italia e il
Regime». «Vita universitaria» il 5 ottobre 1938 scriveva che dopo i
provvedimenti razzisti «non sarà facile coprire tutte le cattedre con elementi
scientificamente ben preparati. E suggeriva di evitare concorsi di cui avrebbero
potuto avvantaggiarsi furbi e impreparati.
Oggi una significativa stagione di studi ha messo in luce il depauperamento
della cultura a seguito dei provvedimenti razzisti. Ē sufficiente ricordare
il caso dei «ragazzi di via Panisperna» guidati da Enrico Fermi o quello della
scuola torinese di biologia di Giuseppe Levi. La chimica perdeva due figure di
rilievo come altri due Levi, Giorgio Renato e Mario Giacomo, quest'ultimo
sostituito da Giulio Natta, futuro Premio Nobel. Per quel che concerne il
settore umanistico il giudizio di Eugenio Garin è inequivocabile: «Ripercussioni
non minori, anzi talora con risonanze anche più vaste, si ebbero nell'ambito
delle lettere e delle scienze storiche e filosofiche». Molti fra i colpiti, si
sa, emigrarono e più non tornarono. Per molte ragioni. Anche perché nel
dopoguerra molti furono gli ostacoli a una reale reintegrazione dei docenti
espulsi nel 1938. Una storia su cui si è cominciato a scavare e che racconterò
un'altra volta.
Lia
Levi: «Così insegno ai bambini a non ripetere gli orrori dei padri».
La
studiosa in un libro appena uscito racconta ai più piccoli la storia
dell’odio verso il popolo di Israele. Senza tacere nulla
di
Dario Fertilio
Ē più facile combattere i pregiudizi già esistenti, o
lottare perché le nuove generazioni non ne abbiano? Domanda cruciale, nel
momento in cui il giorno della memoria, i temi dell'ebraismo e del genocidio,
vengono riconosciuti patrimonio comune. Tanto più che una studiosa ebrea, Lia
Levi, già autrice di numerosi libri sulle persecuzioni e l'Olocausto, ne ha
dedicato uno («Che cos'è l'antisemitismo, per favore rispondete», pubblicato
da Mondadori) proprio alla trasmissione della memoria ai ragazzi. Perché il
mondo non è mai stato amico degli ebrei? Sono loro che hanno ucciso Gesù? là
vero che obbediscono alla legge del taglione, cioè all'«occhio per occhio,
dente per dente»? Ē vero che nell'Italia fascista, a differenza della
Germania hitleriana, non vennero perseguitati? Alcuni di loro furono fascisti?
Eccetera eccetera, senza trascurare altri quesiti piutto-sto vergognosi, e
tuttavia idealmente affissi all'albo dei luoghi comuni, tipo: hanno il naso
adunco, sono avari ma intelligenti, si considerano superiori, non hanno
patria...
Ē giusto riconoscere che Lia Levi, forte di un'esperienza maturata sul
campo incontrando migliaia di ragazzi nelle scuole d'Italia, non si tira mai
indietro. Nel suo libro affronta con disinvoltura le domande imbarazzanti, e a
tutte fornisce una risposta chiara e concisa, adatta a un pubblico giovanile. E
infatti il suo pregio maggiore è la capacità di demolire i pregiudizi, i cliché
mentali di cui, come sappiamo, le ultime generazioni non sono affatto più
esenti delle vecchie. Lia Levi riconosce che i luoghi comuni, del tipo «svizzeri
puntuali» e «brasiliani con la musica nel sangue», «tedeschi meticolosi» e
«italiani brava gente», sono diffusi ben al di là dell'area comunemente
definita «razzista» o «antisemita». I problemi cominciano quando, terminata
la demolizione, inizia la sua opera di educazione: qui il rischio di un nuovo
catechismo è sempre in agguato. Non potrebbe annidarvisi, paradossalmente, una
banalizzazione dell'antisemitismo? Lei risponde: «Non ho voluto costruire
formule per ragazzi, da imparare a memoria, ma soltanto penetrare nella loro
mentalità per far capire dove sia l'errore. Ho voluto che, prima
della conoscenza, si accendesse dentro di loro la luce della comprensione». Qualche
definizione, del tipo: «Il cristianesimo è una prosecuzione migliorata
dell'ebraismo», o l'affermazione che il consenso antisemita di Hitler sia stato
preparato dalle predicazioni cristiane, farà probabilmente sobbalzare qualcuno
sulla sedia. Lia Levi però non se ne preoccupa: «Riconosco di usare un
linguaggio molto semplice, che forse non piacerà nemmeno a qualche ebreo. Ma io
non intendo offendere nessuno, mi limito a far notare che le grandi
religioni di massa, come il cristianesimo, si preoccupano di dare alla gente ciò
che chiede, di cui ha bisogno». Anche l'assenza di una domanda
sull'antisemitismo bolscevico potrà suscitare perplessità. Lia Levi risponde:
«Un libro dedicato ai ragazzi italiani deve occuparsi soprattutto di fenomeni
come fascismo e nazionalsocialismo, che hanno di fatto coinvolto la nostra
società». Quanto al presente, l'autrice chiude con una nota di ottimismo: è
finito - a suo giudizio - l'antisemitismo di massa, quello «delle persone
perbene», mentre rimane quello più becero, razzista e di fondo violento.
La testimonianza
- «Così io, piccola antisemita, scoprii di essere ebrea»
di
Luigi Offeddu
Un giorno, quando ha 9 anni e mezzo, parlando di un certo
tizio molto antipatico, l'ebrea Anna Sikos dice «budes zsidò», che in un
ungherese vuol dire «sporco ebreo». L'ha detto molte altre volte, a casa e
fuori, come fanno altri nella sua città di Szolnok. Ma ecco, quel giorno del
'57 diventa per lei il primo giorno della Memoria. Perché poche ore dopo, sul
treno che va da Szolnok a Budapest, sua madre scoppia a piangere: «Non devi
ripeterlo mai. Quella cosa che hai detto lo sei anche tu. E anche io, che sono
stata 3 anni ad Auschwitz. E anche mia madre, tua nonna, di cui io ho
riconosciuto l'urlo nella camera a gas. E anche tuo padre, tuo nonno, scomparso
in un lager di cui nessuno sa il nome. Loro, e io, e te, e i nostri antenati:
tutti “zsidò”, ebrei. Devi ricordartelo».
Anna ricordò, ricorda. Dice che sua madre Barbara non le aveva mai rivelato
nulla «per proteggermi, perché non sapessi mai, perché temeva che un giorno
l'orrore sarebbe capitato anche a me. Me lo ha spiegato poco tempo fa: volevo
cancellare tutto, mi ha detto, dimenticare, non sentire più la parola ebreo.
Non per me: ma per salvare te, mia figlia». Il contrario della Memoria, l'oblio
totale: «Adesso so invece che bisogna ricordare». Adesso
Barbara Sikos ha 81 anni, e vive ancora a Budapest. Ha avuto soddisfazioni
dal suo lavoro di medico biochimico, è stata una donna affermata nel suo campo:
ma di notte la svegliano gli stessi incubi, sempre uguali. La figlia Anna è
invece una bella signora bionda che abita a Milano, dove insegna letteratura
ungherese all'Università Statale. Ē sposata, si dice «ebrea laica, non
osservante». E oggi è per lei, come per sua madre e per ogni ebreo, il giorno
della Memoria.
Parlano le voci antiche del diario di famiglia: «Tutto
comincia prima, molto prima di Auschwitz. Negli anni Trenta, mio nonno materno
Kalman Vig vive a Szolnok. Ē un ebreo non osservante, che neppure parla
l'yiddish: commerciante di carni, ha però una grande cultura. Lui e mia nonna
Roza viaggiano in tutta l'Europa. Hanno due figlie: Edit e Barbara, mia madre.
Nessuno ha mai dato loro fastidio. Finché sale al potere il dittatore Horthy».
Nel '36, gli ebrei ungheresi vengono espulsi dalle scuole pubbliche. «Andiamo
via, dice nonna Roza. Ma mio nonno: no, solo i ladri fuggono. E così mia
madre ha 17 anni, ed è la notte del 17 dicembre 1937 - pensare che il 7, già
nella Torah, è il numero fortunato degli ebrei - quando la polizia batte alla
porta. Portano via il nonno. Dopo un anno in galera, l'accusa: aver dato carne
avvelenata ai cristiani. Io ho letto gli atti di quel processo, e sono stata
male: mio nonno in aula con la testa bendata, pestato a sangue, che vede la
nonna e piange. E il pubblico ministero che lo fa portare via: "Dovevi
piangere prima, quando avvelenavi i cristiani". La condanna in primo grado:
18 mesi. In appello: 5 anni. Arrestano anche la nonna, per un anno. Nessuno
capisce bene quel che sta accadendo in Europa. Nel '43 arriva a Szolnok un ebreo
tedesco, parla delle camere a gas: è pazzo, dicono gli altri. In quei giorni,
mio nonno è già stato scarcerato e poco dopo arrestato di nuovo: un 17
settembre, ancora il numero 7 e ancora di notte. Lui si alza, si fa la barba,
mette la camicia più bella: sa che non tornerà mai più. Ē serio,
tranquillo, anche se tutti in casa piangono. Mamma gli fa la valigia, lui gliela
prende galantemente di mano: non piangere, dice, quando ritorno ti porto un
elicottero. Come il regalo più bello e impossibile, come una sfida per gli
agenti che ascoltano. E ancora oggi, noi di casa, se c'è una grande sfida
diciamo: dopo, compreremo l'elicottero».
Il nonno scompare per sempre. La nonna e le ragazze vanno a
vivere nel ghetto. Sei mesi dopo, le caricano su un treno per Birkenau, dintorni
di Auschwitz: «Nonna non aveva capito. All'arrivo ci fu la selezione. Lei era
stanca, si appoggiava alla mamma: la misero nella fila diretta alle camere a
gas. La mamma vide poi atrocità di ogni tipo, nel lager: ma ciò che non scordò
mai, una vera ossessione, fu l'istante della selezione. Siamo tornate insieme 5
anni fa, a Birkenau, c'era un silenzio da vomitare. Lei cercava solo il punto
della selezione: " Ē
il mio cimitero", diceva. E mi raccontò che una notte, fra le urla che
venivano dalle camere a gas, aveva riconosciuto la voce della nonna».
C'è altro, da ricordare: «La perdita della dignità: come
tutti gli altri mia madre, che non si era mai spogliata davanti ai suoi cari,
dopo 3 giorni di brutali perquisizioni e docce comuni si era abituata a stare
nuda davanti a uomini e donne. E quella SS che citava Catullo in latino, mentre
sparava: ancor oggi ci fa paura sentire i versi. E la “kapò” ebrea tedesca
che aiuta una prigioniera incinta, nasconde il bimbe, le porta il latte, poi,
scoperta, uccide il bimbo sbattendolo al muro».
Nel ‘45, Barbara ed Edit vengono liberate dai russi. Nel '57, Barbara racconta
tutto alla figlia. Qualche anno dopo, va a Tel Aviv per la prima volta nella sua
vita: «Quando l'hostess annunciò "signori, stiamo sorvolando la terra di
Israele", mamma scoppiò a piangere». E oggi, il giorno della Memoria: «Oggi,
mamma è come chiunque sia tornato da Auschwitz: tutti ammalati, nessuno è
normale. Magari lavorano tutta la vita, poi arriva la vecchiaia e cominciano a
suicidarsi. Anche lei, una volta, ha minacciato di farlo. Sono stanchi di
vivere. E hanno vergogna di essere sopravvissuti agli altri. Ma ricordare si
deve, sempre. Anche se qualche volta io ho paura che noi parliamo troppo, che
siamo diventati quasi di moda. Ho paura della banalizzazione. E che alla fine,
per questo, gli "altri" ci odino ancora di più. Sa una cosa? Forse è
meglio se d'ora in poi parleranno gli altri, i non ebrei, chi è fuori dalla
nostra tragedia. Ē
nostro ed è anche loro, questo giorno della Memoria».
«Noi, gli scampati all’Olocausto»
Il dovere della memoria: la testimonianza di chi visse in prima persona una
Storia da non dimenticare mai. Bauer: nelle scuole rivivo l’orrore. Fiano: i
ragazzi vogliono sapere. Szulc: facciamo un museo
diViviana Kasam
«Avevo otto anni quando una notte sentii mio padre urlare:
"non picchiatemi nazisti, mamma aiutami!". Fu così che cominciai a
scoprire, a distanza di tanti anni dalla fine della Guerra e della tragedia,
l'orrore che i miei cercavano di risparmiarmi: la deportazione di mio padre nei
Lager, le sevizie, la morte dei suoi familiari». Marco Szulc, medico, 46 anni,
ancora abbassa lo sguardo al ricordo così terribile. Eppure quel ricordo è
diventato la ragione della sua vita. «Ē Ia missione che mi ha affidato mio
padre morendo» spiega. «Di raccontare la Shoah, ai miei figli, al mondo. Senza
rabbia né odio: ma perché non venga dimenticata, e dunque non si ripeta». Tre
anni fa, con la moglie e tre sopravvissuti allo sterminio, Marco Szulc ha
fondato a Milano l'Associazione «Figli della Shoah», che oggi ha sedi in tutta
Italia e conta più di mille iscritti, molti dei quali non ebrei.
Un'associazione con lo scopo di mantenere viva la memoria del genocidio,
organizzando incontri, dibattiti, lezioni nelle scuole, concorsi, mostre (l'anno
scorso quella su Anna Frank al Castello Sforzesco realizzò cinquantamila
presenze tra cui cinquecento classi che arrivavano da tutta Italia; «Per non
dimenticare la Shoah», inaugurata la settimana scorsa a Palazzo Reale, ha già
avuto quattromila visitatori). Il suo sogno nel cassetto è di riuscire ad
aprire a Milano un museo permanente, con una struttura didattica che dovrebbe
essere rivolta in particolar modo agli insegnanti. Non c'è una certa ossessività
in questa volontà di ricordo? Non teme che la sovraesposizione dei media
finisca per essere controproducente? «La richiesta incredibile cui dobbiamo far
fronte significa che non solo è opportuno ma doveroso parlarne».
Di diverso avviso un'altra voce chiamata a raccontare il dramma dell'Olocausto.
Teme infatti l'effetto saturazione Goti Bauer, una delle poche sopravvissute
milanesi. «Anche perché l'informazione è spesso superficiale e
sensazionalistica. Credo di più nelle testimonianze dirette che noi portiamo
nelle scuole, ai ragazzi». E da una decina d'anni Goti parla della sua tragica
vicenda nei licei di Milano e dell'hinterland milanese portando di classe in
classe la testimonianza diretta di un orrore che non può essere dimenticato: «Con
dolore e fatica, perché ogni volta rivivo la sofferenza, a volte sto male per
giorni. Ma è un sacrificio necessario spiega - e anche un'esperienza umana
straordinaria: ricevo decine di lettere, poesie anche, nascono rapporti che
durano negli anni». Ci sono mai momenti negativi? «Rarissimi. C'è semmai la
difficoltà dei ragazzi a capire l'orrore, l'efferatezza. Ma è naturale: è un
orrore che supera i parametri di comprensione umana».
«Ho cominciato a parlare in pubblico a sessant'anni» ricorda Liliana Segre,
deportata ad Auschwitz a tredici anni, e sopravvissuta «soltanto perché
dimostravo più della ma età: i bambini li mandavano subito ai forni crematori».
Dopo la Liberazione, come la maggior parte dei sopravvissuti, cercava solamente
di dimenticare: «Volevo essere normale, non far pesare il ricordo sui miei
figli. Poi, compiuti i sessant'anni, mi resi conto che il tempo incalzava, che
avevo il dovere di far conoscere la Shoah».
Così cominciò «umilmente» a proporsi alle scuole come volontaria. «La prima
volta fu alle Marcelline» racconta «perché le conoscevo, e perché credo sia
importante aprirsi all’ambiente cattolico». L'inizio di una stagione del
ricordo e della testimonianza. Da allora, ha parlato in più di cento scuole,
persino in un, seminario. «Un'esperienza umana straordinaria: sono convinta di
ricevere più di ciò che dò. Da Auschwitz non si guarisce mai: però io sono
riuscita a rifarmi una vita perché sono stata amata e ho saputo amare. Questo
cerco di comunicare ai ragazzi: non parlo di morte, ma di vita e speranza, di
coraggio. E mi commuove che a volte mi chiedano consigli, come se il mio dolore
mi avesse dato una saggezza più profonda».
Voi «testimoni» dite che è necessario ricordare la Shoah perché non si
ripeta: lei ritiene che esista davvero un pericolo? «Sono nata in una famiglia
completamente assimilata, che diceva: in Italia agli ebrei non può succedere
nulla; noi abbiamo combattuto per la Patria. La vita mi ha insegnato che tutto
può succedere. Nedo Fiano, 75 anni, deportato a diciotto, di scuole
ne ha visitate più di
quattrocento: è stato uno dei primi superstiti a portare ai ragazzi la sua
testimonianza. Con una capacità di coinvolgerli stupefacente: in un dibattito
al Liceo Manzoni insieme a Roberto Benigni, quando fu presentato il film «La
vita è bella», l'attore venne quasi messo in secondo piano,
praticamente ignorato, e tutte le domande dei ragazzi furono per lui, per il
deportato e sopravvissuto Fiano che raccontava in prima persona. «Mi piace
parlare ai ragazzi, sono affamati di conoscenza. Gli adulti sono diversi, o non
vogliono sapere, o hanno un'opinione preconcetta».
Ripetere tante volte la stessa storia, non si finisce per recitare se stessi? «No,
io ogni volta mi emoziono. E poi parlo a braccio, modulo gli interventi secondo
le reazioni dei ragazzi. Che sono molto diversi, e dipendono dalla preparazione
che è stata fatta dagli insegnanti. Una cosa ho notato: le femmine sono
generalmente più partecipi emotivamente, i maschi più coriacei. Non ho capito
se è un atteggiamento, o una sensibilità diversa».
Il vero significato della tragedia
di Fulvio Scaparri
Nel
Giorno della memoria ho riletto «La scuola dei dittatori»
, del vituperato Silone, per non dimenticare come si prepara il terreno
dell'avvento di una dittatura e quanto ciascuno di noi sia corresponsabile di
ciò che può avvenire accettando,supinamente, restando indifferente o aderendo
con entusiasmo all'affermazione
un'ideologia totalitaria. Milano, principale centro italiano dell'informazione,
renderebbe un buon servizio a se stessa e all'Europa se si dotasse di una mostra
permanente sulle tecniche e sui guasti della disinformazione e della persuasione
più o meno occulta. I giovani e i meno giovani potrebbero così essere indotti
a comprendere come sia possibile che tragedie di proporzioni colossali come la
Shoah e le
purghe staliniane, ma anche tutte le politiche di sterminio, «pulizia» e
«bonifica» di ieri e di oggi possano essere ideate e realizzate contando anche
sulla complicità, l'omertà, l'indifferenza. dell' opinione pubblica.
Oggi molti ragazzi ai quali chiedo cosa sanno della
Shoah rispondono quasi sempre legando la persecuzione degli ebrei al «pazzo»
Hitler, ai nazisti e ai loro lacchè sparsi in tutto il mondo. Sembra che
nessuno li abbia ancora spinti a interrogarsi sulle responsabilità dei tanti
che non hanno visto o hanno fatto finta di non vedere, sulla colpevole ignoranza
di chi affidando il proprio destino a una dittatura, ne ha accettato le
conseguenze, finendo col non vedere e perfino immaginare cosa stesse accadendo,
anche quando il vicino di casa o il compagno di scuola o di lavoro veniva
discriminato o trascinato via per essere portato chissà dove. In altre parole,
il «Giorno della memoria» dovrebbe essere anche il giorno del rifiuto di
accettare che qualcuno decida per noi e ci induca a rinunciare al nostro diritto
a partecipare alle scelte che ci riguardano. Senno di poi? Certo, ma è già
qualcosa se ci, servirà a non chiamarci fuori dalla nostra responsabilità nel
ripetersi degli orrori di ieri.