Corriere della sera

13 agosto

Lo scrittore e le SS - Günter Grass, il mito dell'innocenza

di Pierluigi Battista

 

Nel segreto caparbiamente custodito per oltre sessant'anni da Günter Grass si racchiude l'enigma di un interminabile dopoguerra politico e storiografico incapace di chiudersi perché anche i suoi uomini più illustri, generosi, sensibili e illuminanti hanno accuratamente evitato, per decenni, di dire la verità. Perché hanno cancellato le tracce e sapientemente ritoccato le loro biografie. Hanno lasciato che si depositasse una patina di inautenticità e di ipocrisia sui loro percorsi esistenziali. Hanno fatto di se stessi un monumento. Hanno inventato il mito della loro innocenza. Ma nell'atmosfera della malafede, le peggiori tragedie del passato, benché rimosse, riaffiorano come fantasmi implacabili. Nella sua confessione alla Frankfurter Allgemeine, Günter Grass rivela di essersi arruolato, giovanissimo, nelle Waffen Ss. È una notizia traumatica, sorprendente. Ma non è sorprendente la motivazione con cui l'autore del Tamburo di latta - una delle più sottili investigazioni sulla temperie psicologica e morale che favorì l'ascesa del nazionalsocialismo in Germania - ha giustificato la sua tenace reticenza su quella scelta fatale abbracciata a quindici anni, poco più che bambino: tacque «per vergogna», seppellì quel passato compromettente perché, confessa, «non avevo mai trovato la forza di dirlo». Spiegazione nient'affatto sorprendente perché quel miscuglio di omertà, vergogna, imbarazzo destinato ad alimentarsi per sessant'anni è la carta di identità di un intero establishment intellettuale che ha costruito, dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo, la propria leadership morale spezzando ogni legame con il proprio vissuto, con il ricordo molesto degli anni in cui il Mostro trionfante aveva sedotto e abbacinato anche i «migliori». Qualcosa di profondamente diverso dal banale opportunismo degli eterni voltagabbana che cambiano pelle a ogni mutamento di regime. Qualcosa di molto somigliante, invece, all'annichilimento volontario del passato, a un «patto dell'oblio», come lo ha definito Alberto Cavaglion, necessario alla costruzione di una leggenda in cui l'orrore del passato, deformato e reso irriconoscibile, è stato messo in conto solo a un manipolo minoritario di malvagi, irredimibili, restituendo una patente incontaminata alla moltitudine dei complici e dei seguaci. Se dunque Grass non merita un processo iniquo e tardivo, se la pietas, non l'indignazione, è il sentimento meno crudele nei confronti del giovane che Grass è stato, di un adolescente confuso e frastornato che scambiava la croce uncinata per un simbolo del destino e dell'avventura, un giudizio diverso non può che gettare un'ombra sull'attiva partecipazione al «patto dell'oblio» di uno scrittore gratificato dal ruolo di coscienza critica, incarnazione di quella «nobiltà dello spirito» così rara nella Germania postnazista umiliata e prostrata da una sconfitta apocalittica. Davvero non si trova «la forza per dirlo» in oltre sessant'anni? E nessuno immaginava, nessuno biografo indiscreto in tutto questo tempo ha trovato l'ardire di indagare sugli anni giovanili del grande scrittore? E qual è il motivo di tanta delicato riserbo per un tempo così prolungato? La vergogna, certo. Anche Norberto Bobbio tacque, per vergogna, su alcune sciagurate lettere servili indirizzate al duce. Ma non nascose il suo rimorso, non volle più galleggiare nell'indulgenza autocompiaciuta e lo disse con dolore a un giornalista «fascista», Pietrangelo Buttafuoco, in una confessione che gli fa onore e che invece venne deplorata come una imperdonabile «debolezza» dai custodi dell'ortodossia e dagli addetti alla monumentalizzazione della storia. E la confessione di Grass è forse scossa dalla stessa vergogna della vergogna coraggiosamente denunciata da Bobbio? La storia di Günter Grass merita rispetto, come quella, identica o analoga, dei tanti intellettuali italiani che, passati gli anni dell'adesione al fascismo o della compromissione con il regime, sono diventati il cuore e il cervello dell'Italia antifascista occultando le tracce della loro vita precedente. Anche loro, Vittorini, Bilenchi e Argan, Calamandrei, Moravia e Della Volpe, Paci, Firpo e Pasolini, Gadda, Pavese e Spadolini, Piovene, Rossellini e Sapegno, Cantimori, Muscetta e Bianchi Bandinelli e tanti, tantissimi altri hanno reciso i vincoli esistenziali con la parte imbarazzante di sé. Hanno modificato la loro biografia, rielaborandola, edulcorandola, abbellendola, rimodellandola per renderla accettabile ed esemplare. Hanno pasticciato con le date della loro «fuoruscita» dal recinto del regime, dilatato oltre ogni misura qualsiasi stormir di «fronda» e di precoce dissenso, sdoppiato la loro personalità («fascisti fuori, antifascisti dentro»), nobilitato sé stessi con gli esempi della storia e della letteratura (Nicodemo, la «dissimulazione onesta»). Gli effetti della vergogna, certo. Ma anche il sostegno degli amministratori autorizzati del «patto dell'oblio» che hanno accusato di «sensazionalismo» e di «scandalismo» chi faceva menzione di un passato che doveva essere cancellato per sempre, come se il riaffiorare delle tracce occultate fosse conseguenza del lavorio torbido di devastatori della memoria antifascista intenti a imbrattare i busti dei padri della patria, a intingere le loro penne nel veleno della denigrazione. E invece il sensazionalismo non è che l'altra faccia del silenzio e dell'omertà. E l'omertà è il prezzo da pagare per far coincidere la propria vita con la leggenda. Chi oggi potrebbe mettere in discussione la grandezza dei romanzi di Grass o far pesare sulla reputazione di un grande scrittore la sventatezza dei suoi quindici anni? Si scolora sempre di più, semmai, la reputazione di un dopoguerra che non ha conosciuto il rigore della resa dei conti e ha costruito un suo pantheon di eccellenza a prescindere dal contenuto di verità che ne avrebbe legittimato il primato. Senza nemmeno il coraggio di trovare «la forza per dirlo».

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Günter Grass divide i tedeschi: restituisca il Nobel

Dopo la confessione choc dello scrittore sull’arruolamento nelle SS polemiche nel mondo culturale. La delusione dei lettori. Il biografo Michael Jürgs: «È la fine di una istanza morale», ma il filologo Walter Jens lo difende

dal nostro inviato Gabriela Jacomella

 

BERLINO - «Adesso restituisca quel premio. Non gliel'avrebbero mai dato, se si fosse saputa la verità». La Germania è scossa dal terremoto-Grass, e le onde si propagano fino ai blog e ai forum dei quotidiani. «Quel premio» è il Nobel, conferito allo scrittore nel 1999. «L'Accademia ha una sensibilità spiccata - commenta ora il critico letterario Hellmuth Karasek -. Non avrebbe mai scelto qualcuno di cui si sapesse che aveva militato nelle SS, e che a lungo era rimasto in silenzio». Il giorno dopo l'intervista choc alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, quel «silenzio tonante dell'istanza morale della nazione», così lo chiama il Kölner Stadt-Anzeiger, ha spaccato in tre parti la società tedesca: chi difende Grass, senza se e senza ma; chi si trincera dietro il medesimo mutismo; e chi attacca. Nel primo gruppo, la parola d'ordine è una sola: rispetto. «Un maestro della penna si concede una sosta e riflette: cosa ti sei scordato di raccontare, nella tua lunga vita?», riassume il filologo Walter Jens, 83 anni e un passato da forzato» del partito nazista. Gli fa eco il regista e scrittore Ralph Giordano, ebreo scampato alle SS: «Peggio di un errore è non trarne nessuna conseguenza. E questo Grass l'ha fatto già da tempo». Per Klaus Staeck, presidente dell'Accademia delle arti di Berlino, «nessun dubbio sulle sue opere e la sua integrità morale e politica». «Si vive nel mondo in cui ci è toccato di nascere», chiude lo scrittore Dieter Wellershoff. Che della vita di Grass ha condiviso il ventennio del Gruppo 47, il «caffè centrale» della letteratura tedesca impegnata. Paradossalmente, due tra i membri più noti di quel gruppo oggi scelgono di tacere. Hans Magnus Enzensberger dichiara al Corriere: «Sì, so perché mi avete chiamato. Mi spiace, ma ho deciso di non commentare. Lo fanno già altri, non lo considero necessario». Stessa linea per il critico Marcel Reich-Ranicki: «Neanche una parola, non ho il dovere di rilasciare dichiarazioni». La Germania, però, si rifiuta di calare il sipario sull'outing del suo intellettuale più amato (e odiato). «Come si concilia un silenzio di 60 anni con la vita, i discorsi, la scrittura di un uomo che è diventato la coscienza morale della Repubblica?». L'interrogativo del Lübecker Nachrichten è quello che oggi si pone una buona parte della nazione. Tra i «delusi» c'è Michael Jürgs, il biografo di Grass. La sua «vita con il Nobel» è durata «427 giorni e notti», ma l'intervista lo ha colto di sorpresa. «È la fine di un'istanza morale», decreta. Non è il solo a prendere le distanze; questa confessione, sostiene Walter Kempowski, l'autore di Echholot, diario collettivo sugli anni della guerra, «è arrivata un po’ tardi». Ancora più severo lo storico Michael Wolffsohn (fu lui ad accusare di antisemitismo il leader Spd Franz Müntefering, che aveva paragonato i capitalisti alle cavallette): «Anche tu, GG? - scrive sull'online Netzeitung -. E sì che nell'85 hai avuto la tua occasione d'oro», quando Kohl e Reagan visitarono, tra mille polemiche, un cimitero che ospitava tombe di SS. E Frank Schirrmacher, l'intervistatore della Faz, ricorda il letterato Hans Robert Jauss, rovinato dalla scoperta del suo passato di SS (la stessa sorte toccò ai giornalisti Schönhuber e Höfer): «Una voce chiarificatrice sarebbe servita». «Si è lasciato sfuggire ogni occasione per parlare - concorda il Tagesspiegel -. Per paura? O per vanità, perché non voleva essere confrontato con altri destini?». «Molti uomini che hanno ricoperto funzioni importanti nel Paese sono stati nelle SS, era risaputo. A Grass va rimproverato di essere rimasto fedele per 60 anni alla sua bugia», scrive la Bild. Quel che è certo, dichiara il critico della Süddeutsche Zeitung Joachim Kaiser, è che ora Grass «perderà un po' del suo rango e della sua reputazione». «Ce l'ha fatta di nuovo, a farsi ascoltare da tutti - chiude il Tagesspiegel -. Il libro venderà di sicuro bene; è l'uomo politico che delude. Per sempre. Milioni di persone. Non solo in Germania».

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Peter Schneider

«Ora facciamo i conti con il nostro passato»

Riconoscimenti - Restituire il premio? una sciocchezza

dal nostro inviato Gabriela Jacomella

 

BERLINO - Il telefono di Peter Schneider non ha smesso di suonare per tutto il pomeriggio; quando lo scrittore solleva la cornetta, la voce arriva stanca, ma ferma: «Credo che questo processo di svelamento sia una cosa buona. Per Günter Grass come per il dibattito culturale nel nostro Paese». Qualche anno fa l'ex ragazzo prodigio del '68 tedesco aveva raccontato - tra le pagine di Accoppiamenti - l'invidia verso chi poteva interrogarsi sul passato dei propri genitori senza dover temere le risposte, senza essere annientato dal silenzio. Quel silenzio che ora molti, in Germania, rimproverano a Günter Grass. «Ma non ritengo un problema il fatto che abbia deciso di parlare solo adesso», precisa Schneider, 66 anni. L'età ormai avanzata dell'autore del Tamburo di latta, le accuse di aver aspettato troppo per paura, per profitto, per l'incapacità di coniugare il ruolo di «coscienza morale» con un passato comunque imbarazzante, non sono riflessioni condivise dallo scrittore di Lubecca. «La scelta di tacere ha, piuttosto, condizionato la sua vita e le sue opere, le sue prese di posizione, il tono della sua scrittura. Credo che invece di criticare ciò che Grass ha fatto, noi tutti dobbiamo essergli grati. Le sue parole sono state una grande liberazione, per lui e per tutta la cultura tedesca». E quelle richieste di restituire il premio Nobel? «Enormi sciocchezze». Peter Schneider le liquida così, di getto. «Ho un grande rispetto per Günter Grass. Per lo scrittore, per l'uomo; e da oggi, per ciò che ha avuto il coraggio di dire, senza esservi stato costretto. Perché non dobbiamo dimenticare questo: nessuno l'ha obbligato. Ha scelto lui di liberarsi».

Aveva detto

«Sono nato a Danzica nel 1927. a 14 anni ero un Hitlerjunge; a 16 diventai soldato, e a 17 anni ero un prigioniero di guerra degli americani. Chi vi parla non è dunque né un provato antifascista né un ex nazionalsocialista, ma piuttosto il prodotto causale di un’annata a metà nata troppo presto a metà contagiata troppo tardi»

da «Viaggio elettorale», Einaudi.

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I prigionieri - Schmidt e Heinrich Boll anche loro nei campi

Antonio Carioti

 

Furono circa cinque milioni i militari tedeschi che si arresero agli alleati sul territorio del Reich. Molti venivano dal fronte orientale e si erano spostati a Ovest per non cadere nelle mani dei sovietici. Furono richiusi in numerosi campi, perlopiù allestiti in modo sommario. Tra i più importanti, con decine e a volte centinaia di migliaia di reclusi: Auerbach, Babenhausen, Remagen, Rheinberg, Sinzig, Winzenheim. Oltre ai giovanissimi Günter Grass e Joseph Ratzinger, vi furono imprigionati per brevi periodi altri protagonisti della Germania postbellica, come lo scrittore Heinrich Böll, il cancelliere Helmut Schmidt e il ministro Hans Dietrich Genscher. Vi rimasero più a lungo uomini già attivi nel regime nazista, come il futuro cancelliere Kurt Kiesinger e Hans Martin Schleyer, leader degli industriali ucciso da terroristi di sinistra nel 1977. Bad Aibling, cittadina presso la quale vennero rinchiusi Grass e Ratzinger, è in Baviera, a sud-est di Monaco. In quello. come negli altri campi, i militari dell'esercito regolare erano separati dai combattenti delle Waffen SS, considerati membri di un'organizzazione criminale. I secondi erano riconoscibili dal tatuaggio con il gruppo sanguigno che portavano sul braccio, ma presumibilmente non era il caso di Grass, che finì tra i normali prigionieri di guerra. Comunque nei campi la vita era dura per tutti, poiché il cibo era scarso e l'igiene precaria, senza contare la condotta spesso brutale delle guardie. Nel 1991 uno scrittore canadese, James Bacque, fece rumore con il libro Gli altri lager (edito da Mursia nel '93), nel quale accusava Dwight Eisenhower di aver fatto morire di fame 800 mila prigionieri. In realtà, chiarì lo storico tedesco Rüdiger Overmans, in quei campi perirono circa 56 mila uomini. Del resto all'epoca l'Europa era alla fame e gli alleati dovevano nutrire milioni di civili tedeschi profughi dall'Est. Le tesi di Bacque sono state confutate nel volume Eisenhower and the German Pows. Facts Against Falsehood, curato da Stephen Ambrose e Günter Bischof nel 1992.

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E il ricordo di Ratzinger non coincide

Luigi Accattoli

 

CITTA' DEL VATICANO - «È una bella storia, non è vero?» dice Günter Grass della conoscenza che fece, in prigionia, con il giovane Ratzinger: «Lui voleva diventare un ecclesiastico e io volevo fare l'intellettuale». La racconta - quella storia - con parole simili a quelle usate da Ratzinger nel volume La mia vita (San Paolo 1997). Ma Ratzinger nell'autobiografia non dice d'aver conosciuto Grass nel campo di prigionia di Bad Aibling, dove restò per un paio di mesi nella primavera del 1945, quando ambedue avevano 18 anni. «Forse non memorizzò il cognome e non ebbe poi modo di scoprire nello scrittore l'antico compagno delle partite a dadi» ipotizza Ludwig Ring-Eifel, redattore capo dell'agenzia cattolica tedesca KNA e buon conoscitore della biografia del cardinale Ratzinger. L'ipotesi è condivisa da Ingrid Stampa, che da un quindicennio è un'assidua collaboratrice di Ratzinger cardinale e Papa, per quello che riguarda le sue pubblicazioni: «Non ho mai trovato negli scritti un accenno alla conoscenza dello scrittore e neanche me ne ha parlato a voce, quando in conversazione ci è capitato di nominarlo». La coincidenza tra quanto narrato dallo scrittore e dal cardinale sulla loro prigionia è totale, tranne che per un aspetto: l'entità del campo. Grass dice che lì - «a cielo aperto» - erano «internati centomila prigionieri». Ratzinger invece scrive che in quel «terreno agricolo» erano stati «acquartierati circa 50 mila prigionieri». Si può immaginare che nessuno dei due abbia avuto un'informazione esatta e che lo scrittore - portato a colorare il ricordo - abbia optato per il numero tondo; mentre il teologo, addestrato al ragionamento rigoroso, abbia voluto tenersi su una stima più cauta. Combaciano, invece, le due memorie sull'esposizione alle intemperie e gli altri disagi. «Restammo all'aperto fino alla fine della nostra prigionia», scrive Ratzinger, annotando che quando «cominciò a piovere, si formarono dei gruppi, per cercare un misero riparo all'offesa del tempo». Dice anche che «alcuni fortunati avevano portato con sé una tenda». Grass doveva far parte di questi «fortunati», perché narra che «quando pioveva ce ne stavamo in una buca che avevamo scavato nel terreno e sulla quale avevamo steso un telo per proteggerci dall'acqua». Lo scrittore dice che quel compagno di nome Joseph «pronunziava spesso citazioni in latino». Ratzinger racconta d'essere riuscito a portare con sé - al momento della retata condotta dagli americani - «un quaderno e una matita», con i quali «arrivai persino a cimentarmi con la composizione di esametri greci». Sfogliando i volumi del cardinale si rintraccia almeno un rimando a un titolo di Günter Grass: in Fede e futuro (Queriniana 1971) Ratzinger scrive che «la verità si sottrae all'uomo ed egli appare - per citare il titolo dell'ultimo libro di Günter Grass - sottoposto ad anestesia locale», cioè «capace soltanto di cogliere brandelli deformati del reale». Una nota rimanda al romanzo di Grass Anestesia locale (Einaudi 1971).


14 agosto

«Indegno del Nobel»: il caso Grass ormai è europeo

Il silenzio dello scrittore mette a rumore politica e cultura. E c'è chi insinua: è un’operazione commerciale

Walesa: non è più cittadino di Danzica. Il Pen Club di Praga lo sconfessa

dal nostro inviato Gabriela Jacomella

 

BERLINO - Via i premi, via i riconoscimenti, via tutto. Quello che ieri era solo un rumore di fondo, una reazione istintiva dallo stomaco del Paese - lettori delusi, oppositori storici trionfanti, semplici cittadini - si sta trasformando in bufera. Danzica, Polonia: il premio Nobel per la pace Lech Walesa suggerisce al premio Nobel per la letteratura Günter Grass di rinunciare alla cittadinanza onoraria della sua città d'origine (e il consiglio comunale riflette sulla possibilità di ritirargliela). Praga, Repubblica Ceca: il Pen Club medita di chiedere allo scrittore tedesco la restituzione del Premio Karel Capek, conferitogli nel 1994. Berlino, Germania: il tabloid Berliner Kurier si domanda se «da un punto di vista morale», sia giusto che ora Grass si tenga il Nobel. «Una situazione spiacevole, non mi sento a mio agio in sua compagnia - ha dichiarato alla Bild l'ex presidente polacco, anch'egli cittadino onorario di Danzica -. Se si fosse saputo che era nelle SS non avrebbe mai ricevuto quell'onorificenza. La cosa migliore sarebbe che vi rinunciasse volontariamente». Perfino il presidente della Spd Kurt Beck ammette di essere «piuttosto scosso», pur confermando il sostegno alla «grande personalità» di Grass. Non c'entrano le SS, non c'entra nemmeno l'arruolamento volontario a soli 15 anni. Il silenzio, ecco cosa viene rimproverato allo scrittore. Il tamburo di latta che per quarant'anni ha rimbombato nelle orecchie e nei cuori dei tedeschi, per denunciare gli strascichi della dittatura e aprire le porte alla democrazia, non ha emesso alcun suono quando si sarebbe trattato di far cadere ogni velo sul proprio passato. «Questo baffuto praeceptor Germaniae ha sempre avuto qualcosa da dire, su tutto e tutti; tranne su come egli stesso abbia indossato l'uniforme di Himmler e Heydrich - scrive la Süddeutsche Zeitung -. Certo, è un paragone ingiusto verso i molti giovani che volenti o nolenti entrarono nelle SS. Ma chi tanto a lungo, così di frequente e spesso a ragione ha preteso chiarezza di pensiero e discorso, non avrebbe dovuto stare zitto su questa parte della sua biografia». Intanto i due fronti, colpevolisti e innocentisti, guadagnano partigiani. Martin Walser, scrittore ed ex soldato della Wehrmacht, le cui dichiarazioni su nazismo e Olocausto in più occasioni hanno agitato la Germania, dichiara alla Stuttgarter Zei­tung: «Il suo silenzio getta una luce distruttiva sul nostro superamento del passato attraverso il ricorso a pensieri e parole regolati da norme. Ma con la sua esternazione plateale Grass ha dato una lezione a questo clima morale poliziesco». Di tutt'altro avviso lo storico Joachim Fest, sullo Spiegel: «Per uno che per decenni si è messo in scena come istanza morale del Paese, questa confessione arriva con un po' di ritardo». E ora, a solo un giorno dalla pubblicazione di quel dialogo con Frank Schirrmacher sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, già un'altra ombra cala sulle spalle di Grass. «Perché abbia taciuto così a lungo, e perché solo ora sia arrivato alla decisione di dire la verità, questo rimane oscuro. Ma lo scrittore dimostra ancora una volta il suo talento per il marketing», scrive lo Handelsblatt. Ancora più espliciti i dubbi del Tagesspiegel: tutti i critici del Paese hanno fu mano Sbucciando la cipolla, l'autobiografia in cui Grass ha deciso di raccontare la sua gioventù. Il libro, 480 pagine e 11 disegni a sanguigna di mano dell'autore, uscirà il primo settembre. Fino a quella data, embargo per ogni recensione. Come mai proprio ora lo scrittore ha deciso di rompere le regole, e proprio con un giornale che domenica uscirà con larghe anticipazioni del libro? Gregor Dotzauer, critico del Tagesspiegel, si vendica a modo suo: «anticipando» tutto quel che è possibile svelare. L'episodio sulle SS «che è ben lungi dall'essere al centro del libro», l'amore per l'arte culinaria, la dichiarazione d'amore per la madre. E il finale: «Così vissi da quel momento in poi, da pagina a pagina e tra libro e libro...». «Il suo romanzo più vitale, da molto tempo a questa parte», commenta Dotzauer. Come scrive il Rheinische Post: «Il caso Grass non è chiuso, è solamente iniziato».

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Lo storico

Nolte: ha taciuto troppo a lungo però la sua colpa resta irrilevante

di Dario Fertilio

 

Miele e veleno, per Günter Grass, dallo storico tedesco Ernst Nolte. Se da un lato lo studioso «revisionista» per eccellenza assolve l'autore del Tamburo di latta dalla colpa di connivenza, che giudica «irrilevante»; dall’altra lo critica per aver taciuto tanto a lungo. Nel suo rifugio estivo di Brunsmarck, dalle parti di Lubecca, Nolte si prende dunque le sue soddisfazioni. Perché, dice, il caso Günter Grass manda in frantumi il concetto di «colpa collettiva tedesca», quello che lui per anni ha combattuto. E l'intellighentsia di sinistra, che durante questi anni l’ha accusato di «revisionismo», dovrà forse rassegnarsi: i tempi sono maturi per la riconciliazione della Germania con il suo passato. Sorpreso per tutta la vicenda? «Assolutamente no - risponde Nolte -. Grass non aveva mai negato che, fino ai processi di Norimberga, in grande maggioranza i tedeschi appartenenti alla sua generazione fossero convinti del buon diritto della Germania in guerra. Soltanto dopo quei processi il cambiamento d'opinione è stato radicale». Ma si può parlare, almeno moralmente, di una colpa dello scrittore? «Grass non si è arruolato volontariamente nelle Waffen SS, vi è stato chiamato. La cosa che mi colpisce, invece, è che sotto la pressione dell'opinione pubblica, alla cui crescita lui stesso ha tanto contribuito, abbia taciuto per decenni una circostanza, in sé, irrilevante». In realtà, Nolte chiama in causa la categoria degli intellettuali tedeschi in generale. Perché Günter Grass, rileva, in fondo aveva già fatto la sua parte con l'ultimo libro, Il passo del gambero, dove ha descritto le sofferenze e le ragioni dei tedeschi, soprattutto quelle dei profughi dalla Germania orientale. Sono gli altri, innumerevoli silenzi del mondo culturale tedesco, piuttosto, a inquietarlo. «Trovo eccezionalmente grave - precisa - che tanti autori eminenti, per decenni, abbiano sentito l'obbligo di tacere, si siano adeguati». Ma questo «divieto», per fortuna, adesso sembra incrinarsi. E allora, ecco presentarsi una grande opportunità: «La riconciliazione con tutta la storia tedesca passata, anche con le sue pagine più terribili e sbagliate». Non si tratta qui, secondo Nolte, di ridimensionare o «relativizzare» le colpe di un popolo: «lo considero uno dei più grandi scandali dei tempi moderni il fatto che non di rado l'accusa di colpevolezza sia stata applicata a giovani che, secondo  criteri giuridici attuali, non sono nemmeno considerati punibili. Soltanto chi commette un preciso reato secondo la legge, o il diritto naturale, può essere condannato. Attribuire una colpa collettivamente, senza considerare il comportamento individuale, è assurdo... del resto anche i seguaci di un'ideologia, in un certo senso, sono "colpevoli", ma finché non commettono un'azione criminosa di che cosa potrebbe accusarli un giudice?». Ed eccoci di nuovo a Günter Grass, alla sua confessione tardiva, al sospetto che abbia preferito tacere per non vedersi stroncare la carriera di scrittore... «Non ho accesso al cuore di Günter Grass - dice Nolte sorridendo - ma credo che la risposta implicita a questo dubbio non sia da escludersi». E adesso? Come reagirà la sinistra intellettuale tedesca alla «caduta» del suo leader morale e riconosciuto? «Di svolte ne ha già fatte tante - ironizza Nolte - e altre potrebbero arrivare in futuro. Non ci sarebbe da meravigliarsi se questa confessione di Grass si rivelasse di grande importanza al proposito». Ma la strada della revisione storica, Nolte non se lo nasconde, è ancora in salita. «Considerare l'intero passato tedesco come una "colpa" è soltanto un'autosuggestione di individui interessati. Il nazionalsocialismo, certamente, può essere considerato in sé condannabile, ma sarebbe anche giusto precisare da quale punto di vista si intende giudicare un fenomeno così gigantesco e molteplice». Infine, una frase pronunciata da Grass nella sua ormai celebre intervista, secondo Nolte, andrebbe meditata: «I vincitori pensano di non doversi preoccupare dei peccati del passato, e invece anche loro sono coinvolti». Questa non è solo una confessione, potrebbe portare a una "rivalutazione" della storia tedesca.

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Il commediografo

Fo: io ho confessato il mio passato. Ha fatto male a parlare solo oggi

di Giuseppina Manin

 

«Certo, il silenzio di Grass, così lungo, così ostinato, pesa come un macigno. Sulla Germania e, certo, su di lui. Tenere dentro per tutta la vita una colpa equivale inevitabilmente a ingigantirla, a farla dilagare a dismisura. Finché a un certo punto lo stomaco, o l'anima, hanno dovuto sputarla fuori». Pensieroso, Dario Fo ripensa all'outing tardivo dello scrittore tedesco che tanto scalpore sta suscitando. Ci pensa con cognizione di causa, consapevole delle molte, singolari, affinità che lo uniscono a Grass. Entrambi ottantenni, entrambi uomini di una sinistra rigorosa, impegnati a tempo pieno nella yita culturale e politica, entrambi autori di testi letti e tradotti ovunque nel mondo. Entrambi premi Nobel: Fo nel '97, Grass nel '99. In più, come Grass, anche Fo ha avuto un trascorso giovanile a destra: qualche mese nella Repubblica di Salò, prima nella contraerea poi nei paracadutisti. È successo pressappoco nello stesso periodo in cui lui si era arruolato nelle Waffen-SS. Grass aveva 16 anni, io 17. Lui lo fece, a quanto racconta, per fuggire dalla famiglia e attratto dall'idea di andare a combattere negli UBoot, io per non finire a lavorare in Germania, come succedeva a quelli che si rifiutavano. di entrare nell'esercito. Un modo per defilarmi certo non glorioso, ma a quei tempi dalle mie parti, sul Lago Maggiore, con i gruppi partigiani allo sbando, fummo in molti a farlo. Una "fuga" seguita da tante altre: in poche settimane me la battei dalla contraerea, nei parà durai solo 40 giorni. E quindi mi imboscai sul serio, dentro un capanno nella brughiera, fino alla Liberazione. Una parentesi di cui non mi vanto, ma che non ho neanche mai tentato di nascondere. Di conseguenza non ho mai avuto l'angoscia di venir "scoperto". Anche, se a più riprese, la destra ha cercato di sfruttare questo capitolo, imbastendo ogni sorta di falsità». Stare nelle file dei repubblichini, anche se defilati, non dev'essere stato comunque una passeggiata... «Mah, dentro c'era un po' di tutto, perfino delle brave persone. Certo i fanatici non mancavano. Ricordo. certi ufficiali terribili già a vedersi, gente che non ci metteva niente a farti secco se si accorgeva che tu stavi lì per portare a casa la pelle. Quando, anni dopo, ho letto Il buon soldato Schweyk messo in scena da Brecht, uno che attraversa gli orrori della guerra con l'unico proposito di sopravvivere, mi sono detto: è la mia storia». Ma da noi, aggiunge, erano ancora rose e fiori. «A salvarci, noi italiani abbiamo sempre avuto l'ironia, dote meno diffusa in Germania dove l'idea di essere il popolo "über alles", di avere una missione da compiere, doveva essere diffusa. Il giovane Grass di sicuro si arruolò spinto da pulsioni romantiche e gloriose, da noi invece vigevano l'opportunismo e senso di sopravvivenza. Alla fine meglio noi. Per dirla con Brecht, beato il popolo che non ha bisogno di eroi». Un sospetto di opportunismo postumo corre però ora in Germania, dove molti sospettano che dietro il «colpo di teatro» di Grass ci sia un'abile manovra pubblicitaria per lanciare la sua autobiografia, di prossima uscita. «Non credo proprio - ribatte Fo -. Uno come lui non rischierebbe certo la reputazione, il credito messo insieme in una vita, per vendere un libro. Addirittura ho letto che qualcuno vorrebbe che rinunciasse al Nobel... No, se si vuole la "punizione" lui se l'è già inflitta con quell'autobiografia. Dev'essergli costata sangue, mai avrebbe voluto scriverla. Ma a un certo punto ha "dovuto" farlo. Pur sapendo che il prezzo da pagare sarebbe stato altissimo». E non tanto per la «colpa» in sé ma per averla taciuta così a lungo. «Tacere talora equivale a mentire. Adesso però, che ha finalmente trovato la forza della verità, Grass magari ne uscirà ridimensionato, perderà in parte il suo credito, lo smalto di intellettuale sopra ogni sospetto, ma forse diventerà anche più "umano", più vicino alle fragilità di tutti. Sarà interessante rileggere la sua opera alla luce di questo segreto svelato. Che certo non sarà l'unico. Attendo con gran curiosità la sua autobiografia. Per saper di più su Grass, ma anche su altre pagine ancora sotto chiave. Per esempio, quando racconta dell'incontro nel campo di prigionia con il giovane Ratzinger. I soldati delle SS erano tenuti in campi distinti dagli altri. Come mai allora il futuro Papa si trovava anche lui là?».


15 agosto

La difesa di Günter Grass: così divento una non persona

«Nelle SS avevo 16 anni solo ora ho trovato il modo di confessare»

IL CASO Crescono le pressioni in Europa perché restituisca il Nobel. Lo scrittore: «È stata una macchia per tutta la vita»

dal nostro inviato Gabriela Jacomella

 

BERLINO - Questa volta il silenzio è durato due giorni. Il tempo di raccogliere le idee, dopo il diluvio di critiche scatenato dall'intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung; e ieri, Günter Grass ha parlato. «Stanno cercando di trasformarmi in una non persona». L'accusa peggiore, per uno scrittore che dell'individuo e della sua responsabilità civile ha fatto il fulcro della propria opera. «Ma proprio per questo sono grato del fatto che ci siano opinioni contrastanti e differenziate. Posso solo sperare che alcuni tra coloro che mi hanno attaccato ora leggano con attenzione il mio libro». Sulla richiesta di restituire cittadinanze onorarie e premi, in primo luogo quello conferitogli nel 1999 dall'Accademia svedese, Grass non vuole esprimersi. «Non la finirei più con i commenti, se lo facessi». Torna, piuttosto, su un concetto per lui fondamentale: in quei due mesi scarsi che separarono il suo ingresso nelle Waffen SS dal suo ferimento, non sparò un colpo. E non partecipò a nessun delitto. Di questo, l'uomo che un tempo era la coscienza critica del Paese si dice sicuro. Più che di tutto il resto, e sembra quasi scusarsene: «Potendo fare ricorso solo al ricordo, non sono riuscito a esprimere in maniera più precisa quale sia stato il mio modo di agire a 16-17 anni. O il fatto che abbia dovuto sentirmi addosso questa macchia - perché è come una macchia che l'ho vissuta - per oltre sessant'anni, e che abbia cercato di trame le mie conseguenze. A questo si è conformato il mio successivo comportamento, come scrittore e come cittadino». Ma perché quel silenzio così prolungato, signor Grass? Perché quei sessant'anni di mutismo che stantio mettendo sottosopra la Germania (e non solo)? «Solamente quando mi sono deciso a scrivere qualcosa sui miei anni di gioventù, ho trovato questa forma letteraria. Che mi ha infine consentito di scrivere e parlare del periodo in cui sono stato membro delle Waffen SS». Una risposta non morale o politica, dunque, bensì artistica: mi sono espresso perché ho trovato, finalmente, il modo giusto per farlo. Ma non sono quei mesi nelle SS, sostiene Grass, a rappresentare il nocciolo del nuovo libro. Centrali sono piuttosto gli interrogativi che lo tormentarono negli anni successivi. E che lui snocciola come grani di un rosario consumato dall'uso: «Come ho potuto rincorrere in maniera tanto ingenua questa ideologia? Perché non ho fatto domande, quando mio zio polacco fu fucilato secondo la legge marziale, nel 1939, dopo l'assalto nazista agli uffici postali di Danzica (un episodio ricordato anche nel Tamburo di latta, ndr)? Perché non ho indagato quando il mio insegnante di latino, che aveva espresso apertamente i suoi dubbi sulla vittoria finale, sparì all'improvviso?». Così si chiude, con una serie di punti interrogativi sospesi nell'aria, l'intervista rilasciata da GG (insieme a «BB», vale a dire Bertolt Brecht, uno degli intellettuali-simbolo della nazione tedesca) all'agenzia di stampa Dpa. Ma sono ben altre le domande rimaste a fluttuare nel vuoto pneumatico che la delusione e la rabbia hanno creato nel cuore di critici e lettori. Chissà se Grass deciderà di rispondervi giovedì sera, quando sul canale televisivo Ard, ore 22.45, andrà in onda il suo incontro con il critico Ulrich Wic­kert. Era in scaletta per il 7 settembre, poco dopo l'uscita dell'autobiografia (per cui la casa editrice nega qualsiasi «operazione commerciale»). Dati gli eventi, si è deciso di anticipare. Nel frattempo, il fronte del dibattito si è spostato dal terreno intellettuale a quello politico. Se Angela Merkel ha deciso di trincerarsi dietro un no comment, i suoi compagni di partito non perdonano a Grass le critiche ad Adenauer espresse nell'intervista: «Grass ha avuto pretese per tutta la vita, soprattutto verso i politici. Le abbia verso se stesso e restituisca i premi. Nobel incluso», attacca l'esperto culturale della Cdu, Wolfgang Börnsen. Perfino tra le file della Spd, il partito per cui Grass si è schierato, serpeggia l'imbarazzo. Franz Müntefering, vicecancelliere in carica, ammette: massimo rispetto per Günter, ma avrei preferito che avesse parlato prima. Dalla Germania, al resto del mondo. In una Polonia già in allerta per la discussa esposizione berlinese sulle deportazioni, i primi sussurri sono ormai diventati grida: «Inaccettabile che la città in cui ha avuto inizio la Seconda guerra mondiale - attacca Jacek Kurski, del partito di governo Legge e giustizia - abbia tra i suoi cittadini onorari un membro delle SS. Se non restituirà la cittadinanza, gliela toglieremo noi». E Lech Walesa, tra i primi a invocare il ritiro dell'onorificenza, rincara la dose: «Sono felice di non averlo mai incontrato, di non aver mai dovuto stringergli la mano. Ho perso mio padre in guerra, e Grass era nelle SS». Quella di Grass è, secondo la Lega ebraica tedesca, «una confessione giunta stranamente in ritardo». Che «riduce ad absurdum i suoi discorsi precedenti», chiude il Consiglio centrale degli ebrei. E per Lars Gustaffson, vecchio compagno di Grass, Frisch ed Enzensberger ai tempi di Berlino Ovest, «questa è una storia spaventosa. Provate a pensarci: sessant'anni di silenzio». Chiude, lo scrittore svedese, citando Strindberg: «Non si può vivere con un segreto». C'è anche chi, come lo storico Norbert Frei, minimizza: «Non è poi gran cosa», quel periodo nelle SS. Ma il basso profilo non convince, e il «caso Grass» rimbalza sui media, soprattutto all’Est (e Politika, giornale di Belgrado, commentando le «ombre calate sull'integrità morale» dello scrittore, ricorda il suo sostegno ai bombardamenti sulla Serbia durante la guerra in Kosovo). «Aspettiamo di sapere la verità - ammonisce sul Riformista Franca Rame, voce storica della sinistra militante -. Se dovesse venir fuori che era un massacratore non gli daremo la medaglia al valore; ma questo linciaggio è inaccettabile». E a chi invoca la restituzione dei premi, la moglie del Nobel Dario Fo risponde con una battuta: «Allora cosa dovrebbe fare Benedetto XVI? Restituire il pontificato?».

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I PRECEDENTI

Anche Walter Jens e Martin Broszat furono nazisti

 

BERLINO - Gli rimproverano di aver parlato tardi, troppo tardi. Ma quello di Günter Grass, raccontava ieri Die Welt, non è che l'ultimo di una serie di coming out tardivi, che hanno costellato la storia dell'intellighenzia tedesca. «Non sono pochi i grandi intellettuali della Repubblica federale che in gioventù sono stati membri del Partito nazista», scrive il quotidiano. E ricorda come nel 2003, quando Christoph König mise mano al Lessico internazionale dei germanisti 1800-1950, le sue indagini certificarono che circa 100 studiosi avevano fatto parte della Nsdap. Tra loro, nomi di spicco nella sinistra liberale: Walter Höllerer, fondatore del Colloquio letterario di Berlino; il filologo di Tubinga Walter Jens (che sabato si è espresso a favore di Grass), smascherato dai giornalisti; lo storico Martin Broszat, liberale di sinistra ed esperto di nazismo, il cui outing data al 2003; Herni Nannen, ex redattore capo di Stern. O Peter Wapnewski, fondatore del Wissenschaftskolleg di Berlino, che, scoperto, disse di aver «scordato» la sua militanza e commentò: «Sarebbe stato più facile se vent'anni fa avessimo detto: sì, eravamo nel partito, fu una cosa stupida». Sul caso di Jens e compagni intervenne, nel 2003, lo stesso Grass: quel silenzio, «lo posso spiegare solo a partire dalla mia stessa biografia». A tre anni di distanza, è quello che sta facendo.

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La vicenda


17 agosto

Grass al contrattacco va già in libreria

L’autobiografia esce in anticipo. Da Stoccolma gli confermano il Nobel

IL CASO Distribuite 150 mila copie di «Sbucciando la cipolla», mentre la Germania continua a dividersi

Gabriela Jacomella

 

L' ultima tessera del dominio è caduta ieri mattina, quando sugli scaffali delle librerie tedesche è spuntato un libro dalla copertina bianca, macchiata dal rosso di una cipolla disegnata a sanguigna. Beim Häuten der Zwiebel, «Sbucciando la cipolla», l'autobiografia di Günter Grass la cui uscita era stata annunciata per il 1° settembre, ha fatto dunque il suo esordio con due settimane di anticipo, Centocinquantamila le copie distribuite, 480 le pagine, prezzo di copertina 24 euro. Una mossa a sorpresa della Steidl Verlag, la casa editrice di Gottinga che per settimane aveva ribadito il totale embargo verso qualsiasi indiscrezione sulla nuova fatica del premio Nobel. Nessuno, questa volta, se lo aspettava. Non i giornali, che ieri titolavano sul ritrovamento, negli archivi della sezione reclutamenti della Wehrmacht, dei documenti che registravano la cattura da parte statunitense di «Gunther (sic) Grass, Waffen Ss, Divisione Frupdsberg». Non i critici e gli intellettuali, divisi tra assolutori e colpevolisti. Non i lettori, che martedì sera potevano sbirciare nelle vetrine di Dussmann, la più nota libreria di Berlino, senza trovare traccia del libro più (preventivamente) discusso dell'anno. Centocinquantamila copie, «niente di straordinario per Grass» (i cui libri, in Italia, sono editi da Einaudi), dichiara la Steidl Verlag. Ma potrebbero non soddisfare la fame di certezze di un Paese che in un fine settimana d'agosto ha visto cadere dal piedistallo la propria «istanza morale». Undici capitoli, dalla giovinezza a Danzica al Tamburo di latta, l'era «cattolico-ammuffita» di Adenauer, i primi viaggi in autostop verso l'Italia e la Francia. In mezzo la guerra. Ricordi incastonati l'uno nell'altro, «come un'insalata di immagini».La volta in cui si fece la pipì addosso sotto le bombe sovietiche, «qualcuno piangeva come un bimbo, me ne stavo lì nei miei pantaloni bagnati a guardare il  corpo squarciato del ragazzo con cui avevo appena blaterato su chissà cosa». La rabbia degli ebrei liberati dai lager nella base aerea Usa: «”Nazisti, ehi voi nazisti!” ci gridavano. Noi rispondevamo: "Andatevene in Palestina!». E la volta in cui l'Obersturmführer  volle sapere «i suoi desideri per il futuro, dopo la vittoria finale», e «io tenni segreto il fatto che ero sicuro di voler diventare un artista». Un segreto svelato, invece, a un compagno di prigionia, il bavarese Joseph Ratzinger (ma la sorella, al suo ricordo del futuro Papa, commenterà: «Sei una carogna bugiarda!»). Il libro, scrivono ora i critici, è tra i migliori di Grass: «Avvincente, dallo stile elevato, spietatamente diretto». E il fronte difensivo guadagna terreno: lo storico Hans Mommsen, l'arcivescovo polacco Michalik, il regista Schlöndorff (Oscar '79 per Il tamburo di latta). La Fondazione Nobel, da Stoccolma: «L'assegnazione è definitiva, non è mai accaduto che un premio sia stato ritirato», neanche al norvegese filonazista Knut Hamsun. Stessa posizione, in Spagna, per la Fondazione Principe delle Asturie, cui un ex deportato ha chiesto di revocare il riconoscimento assegnato nel '99. Ma gli attestati di stima non fermano sospetti e accuse. Lo scrittore ha parlato perché quei documenti, raccolti dalla Stasi per usarli come mezzo di ricatto, sarebbero stati resi pubblici tra qualche mese, scrive il Kölner Stadt-Anzeiger. Il Wall Street Journal attacca Grass, ex SS che si permette di criticare le guerre americane in Vietnam e Iraq. Lui ripete ormai da giorni la stessa frase: «Sono stato arruolato nelle SS, non ho preso parte a nessun delitto; ho però sempre sentito il bisogno di raccontarlo, un giorno, in un contesto più ampio».

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Spunti - Sospetti di mezza estate

 

Con puntualità e sussiego teutonici, la casa editrice Steidl, le librerie tedesche e il chiacchieratissimo Günter Grass si apprestano a raccogliere i frutti della tempesta mediatica di mezza estate: l'autoritratto dell'artista da giovane, come membro delle Waffen SS, è già in commercio con due settimane di anticipo. Non è difficile predire a «Sbucciando la cipolla» una rapida scalata delle classifiche, dopo l'«operazione pubblicitaria» denunciata anche dalla comunità ebraica in Germania. Sospetti rafforzati indirettamente dallo stesso Grass, quando rinvia i commenti a dopo che tutti avranno completato la lettura. Peccato che l'operazione ammantata di anticonformismo debba concludersi banalmente al botteghino, anche se la nobiltà dell'intento di Günter Grass, e la qualità della sua prosa, potrebbero essere una garanzia.

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L’intervento

Quell' antifascismo di facciata e la cattiva coscienza tedesca

Nel dopoguerra - Furono riciclati numerosi esponenti del Terzo Reich

di Luciano Canfora

 

Si possono rimproverare cadute di gusto a Günter Grass? Certamente sì. Per esempio, in una lunga intervista concessa alla Süddeutsche Zeitling dello scorso 9 luglio, per elogiare un calciatore di origine algerina non gli è venuto di meglio da dire che «sembra un tedesco». Antichi pregiudizi restano sedimentati persino nella testa dei migliori. Ma non certo per aver chiesto, a 15 anni, di andare volontario nei sottomarini. Fa una certa impressione l'attacco concentrico della stampa tedesca sulla persona di Günter Grass, colpevole di aver rivelato solo ora di essere stato, a 17 anni, e per l'esattezza dal primo marzo al 20 aprile 1945, arruolato nelle SS. (In sostanza gli si rimprovera di non aver affrontato la fucilazione come disertore, visto che era stata ormai chiamata alle armi la classe 1927). Fa impressione a me questa canea, ma forse non solo a me, se considero che, tra le varie accuse rivoltemi dalla stampa tedesca (tranne la Frankfurter Allgemeine Zèitung) nei mesi scorsi, c'era quella di aver osato ricordare la militanza nazista e razzista dell'adulto Hans Globke: autore negli anni Trenta del «commento» alle leggi razziali di Norimberga e poi, negli anni Cinquanta, prezioso e iperprotetto collaboratore di Adenauer. Avevo rievocato questi «fasti» ingloriosi in un libro intitolato Eine kurze Geschichte der Demokratie («Breve storia della democrazia»). L'editore bavarese Beck, stracciando fuori tempo massimo un contratto di edizione firmato d'intesa con altri quattro editori europei, bloccò il volume quando stava andando in tipografia. Un altro editore, minore ma più limpido, lo ha pubblicato. Mi accorsi tardi che proprio Beck aveva a suo tempo edito i testi razzisti di Globke. E infatti per questa ragione era stato «epurato» dall'autorità militare americana di occupazione; e per un po' di tempo aveva fatto ricorso al sotterfugio di seguitare l'attività editoriale sotto altro nome. La indignazione della Süddeutsche Zeitung o della Welt contro chi aveva evocato questi «fasti» fu ostinata e alquanto plateale. Anche studiosi di un certo livello dissero la loro: il dottor Lill (Bonn) disse e scrisse che Globke e Seebohm (altro im­presentabile ex nazista imbarcato da Ade­nauer) erano «il prezzo» che Adenauer do­veva pagare per non avere fastidi a destra, nella lotta politica e parlamentare. Sic. Come possano persone e giornali che ragionano in questo modo tuonare contro Günter Grass per ciò che fece a 17 anni resta difficile da capire. Ma, obiettano, quello che indigna è che abbia taciuto così a lungo. Tra coloro che in tal modo si esprimono (e mi fa venire in mente il comico «Je m'enveloppe dans ma vertu» ricordato una volta, con ironia, da Benedetto Croce) vi è nientemeno che Joachim Fest, il quale, a difesa di Helmut Kohl travolto dagli scandali, disse qualche anno fa: «Non è corruzione, tutt'al più omessa trasparenza» (Il Foglio, 31 marzo 2000). Joachim Fest, il quale, nella sua molto discussa biografia di Hitler pubblicata da Ullstein nel 1973, scriveva tra l'altro, nella conclusione: «In soli dodici anni il nazionalsocialismo ha dato un altro volto al mondo». Ma torniamo sul lungo silenzio. Qualche anno fa, in Italia si cercò di «linciare» lo studioso che nel giugno 1992 scoprì e pubblicò, parlandone preliminarmente a lungo con Bobbio stesso, la lettera scritta da Bobbio trentenne a Mussolini nel luglio 1935 contenente una strumentale genuflessione politica a tutela della propria posizione accademica. Per fortuna fu Bobbio stesso a dare ragione al suo intervistatore e a dichiarare colpevole il proprio silenzio durato quasi sessant'anni. All'epoca ci fu persino chi farneticò di un complotto mirante a sbarrare la strada di Bobbio in direzione del Quirinale. Così va il mondo: moralismo a corrente alternata. Per non dire dell'abisso che intercorre tra l’immatura scelta di un quindicenne in un Paese che cade a pezzi e non ha avuto altra educazione che quella di regime e la decisione presa a freddo, in tempi del tutto tranquilli, da un accorto accademico. Rivelazione spontanea, quella di Günter Grass. Non così quella di Mitterrand quando venne fuori la sua presenza attiva a Vichy, da adulto, non da adolescente. Nessuno gli chiese di lasciare la presidenza. Dunque la improvvisata persecuzione verbale imbastita contro Günter Grass, mentre non ha  alcun fondamento morale ma è solo un gioco cinico, è però anche un importante rivelatore del clima dell'odierna Germania. Una voce critica, tradizionalmente non conformista, qual è la sua, dà fastidio: e dunque ogni argomento è utile per colpirla, anche un soprassalto di iperantifascismo di pura facciata.

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il brano

Dissi al mio amico: Joseph, diventerai Grande Inquisitore

di Günter Grass

 

Solo dopo che il campo di prigionia nell’area di esercitazione militare di Grafenwoehr fu smantellato, e noi fummo trasferiti con i camion verso l’Alte Baviera, nel campo all’aperto di Bad Aibling – dove ci rifugiammo in buche scavate nel terreno, sotto a delle tende, finché poche settimane dopo ci divisero e ci portarono verso i campi di lavoro -, la mia fame diminuì un po’, perché mi riuscì, grazie alla mia merce di scambio (…), di migliorare la razione mattutina povera di calorie. Il controvalore erano le sigarette americane, e per me, che non avevo più desiderio di tabacco, si dimostrarono molto remunerative. Pane e burro di arachidi furono merce di scambio. Una dose di un chilo di carne brasata è tra i miei ricordi più forti. E ancora, una grossa tavoletta di cioccolata. Mi ricordo pure un grosso scambio di lamette da barba Gillette, sicuramente non per uso personale. Una volta - ero ancora nel campo di Bad Aibling – tre sigarette della marca Camel mi fruttarono un pezzo di cumino, che mi ricordò la ricetta del cavolo al cumino: una ricetta degna dei migliori chef. Ho diviso quel cumino, frutto dello scambio, con i miei commilitoni, con i quali me ne stavo accoccolato sotto un tendone per ripararmi dalla pioggia costante e con i quali giocavo spesso il nostro futuro ai dadi. Ecco, è lui, si chiama Joseph, sta parlando con me – impassibile, sommesso, lieve; e questo non me lo toglierò mai dalla testa. Io volevo diventare questo, lui voleva diventare quello. Io dicevo, ci sono molte verità. Lui diceva, ce n’è una e una sola. Io dicevo, non credo più a nulla. Lui accumulava un dogma dopo l’altro. Io gridai: Joseph, tu diventerai sicuramente un Grande Inquisitore o andrai ancora più in alto. Egli aveva sempre gli occhi fissi verso qualcosa e ogni volta che gettava i dadi citava Sant’Agostino, del quale ricordava, con grande erudizione, i componimenti in latino. Così parlavamo e giocavamo ai dadi giorno dopo giorno, fino a quando lui, che era originario dei dintorni del bosco bavarese, fu rilasciato; mentre io, poiché non avevo alcun indirizzo sicuro e per questo ero senza luogo di origine, fui portato prima alla disinfestazione e poi in un campo di lavoro. Quando io e mia sorella, in una primavera di quegli anni, a Pentecoste, con una parte della famiglia visitammo la città di Gdansk, con uno sguardo a Danzica e alla nostra infanzia (…), mi ricordai come (ai tempi del convento, ndr) sorella Alfons Maria, la severa responsabile delle novizie, le stesse sempre addosso. E ancora più stupefacente era il fatto che avesse sempre conservato la propria fede cattolica, anche di fronte alla collaudata tendenza sinistroide di una ex levatrice e funzionaria sindacale. Giudicò l’elezione di Papa Benedetto in modo particolarmente scettico: «Anche se fosse dieci volte tedesco non potrei assolutamente rallegrarmene». E dopo una breve pausa aggiunse: «Magari avessero scelto stavolta un cardinale brasiliano o proveniente dall’Africa…». Poi parlammo della morte del Papa polacco come di una rappresentazione pubblica senza pudore. Io la definii «repellente»; lei replicò: «Spudorato». Mi mancavano aggettivi peggiori, a lei ne rimasero strozzati in gola alcuni che superavano i miei (…). Allora le raccontai di alcuni episodi della gioventù quando a 17 anni, in un campo di raccolta per prigionieri di guerra, in preda ai morsi della fame, masticai il cumino ottenuto in scambio con un commilitone mio coetaneo, mentre cercavamo rifugio dalla pioggia sotto una tenda.

Il testo è tratto dal volume: «Beim Häuten der Zwiebel», pubblicato da Steidl Verlag


18 agosto

Grass: quel Joseph forse non era Ratzinger

Il dietro front del Nobel: «Mi manca la certezza. Posso solo supporlo»

 IL CASO Mentre il libro è già esaurito, in una nuova intervista lo scrittore si corregge sul Papa

di Gabriela Jacomella

 

«Adesso, mano sul cuore, Günter, era veramente colui che oggi è Papa Benedetto XVI, quel ragazzo incontrato nel campo di prigionia? "Posso solo presumerlo"». Nella terza intervista in pochi giorni, a seguire le due pagine di dialogo con la Frankfurter Allgemeine  Zeitung che hanno scatenato il putiferio e condotto per mano la Germania fino alla diffusione anticipata della sua autobiografia, Günter Grass inserisce la retromarcia. Dall'altro lato della scrivania ci sono due giornalisti dell’agenzia Dpa. La domanda è diretta, quasi accorata: era o non era Ratzinger il commilitone con cui ha giocato a dadi in quella primavera del 1945? Risposta:  «Questa presa di coscienza è sopravvenuta la prima volta mentre scrivevo (l’autobiografia, ndr). Quel che è certo è che a Bad Aibling, questo campo di detenzione di massa sotto il cielo aperto in cui erano stati raccolti circa 100 mila prigionieri di guerra tedeschi, mi ero rintanato in un buco nel terreno, con un ragazzetto della mia età - eravamo entrambi diciassettenni. Era di origini bavaresi, cattolico in maniera quasi fino al fanatismo, ed era anche capace, con i suoi 17anni, di infilare di tanto in tanto nel discorso delle citazioni latine (...). Lui voleva fare carriera nella gerarchia ecclesiastica; io volevo diventare artista, e famoso». Fin qui, il ricordo. Poi, ed è cronaca di circa un anno fa, «mentre sto scrivendo il manoscritto per il mio libro di memorie, ecco che un tedesco diventa Papa. E mi ritrovo a leggere - sapevo naturalmente chi fosse il cardinale Ratzinger, conoscevo la sua mentalità conservatrice, la sua entrata in scena partita dallo sfondo e perseguita con ostinazione, piano piano -  che era stato a Bad Aibling. Questo Joseph mi sembrò all'improvviso conosciuto, anche il modo, di comportarsi, questa timidezza, l'ostinazione, la delicatezza - posso solo supporlo, che quel ragazzo fosse lui?». Non è una smentita diretta. Non è una dichiarazione dell'agente letterario, «le parole del signor Grass sono state fraintese, non abbiamo mai detto che il ragazzo Joseph fosse da identificare con Ratzinger». È una risposta tra le tante, quasi un riassunto di quelle pagine di Sbucciando la cipolla, nel capitolo «A tavola con gli ospiti», in cui il premio Nobel racconta l'incontro e il dialogo con il «grande inquisitore» Joseph, tra partite a dadi e cumino da masticare. E invece, in quel «posso solo supporlo», sembra riecheggiare la risata della sorella, ex suora, cui l'episodio viene raccontato a conclave appena chiuso: «Sei una carogna bugiarda!». L'unico che potrebbe confermare non pare interessato a rompere il suo silenzio: «È una questione che concerne soltanto la vita privata del Santo Padre», ha dichiarato ieri la Sala stampa vaticana, interpellata dalla Dpa. Dalla cerchia ristretta dei collaboratori di Benedetto XVI, però, trapela che il Pontefice non avrebbe mai ricordato quel rapporto d'amicizia col il suo illustre conterraneo. La chiave del mistero potrebbe celarsi in un altro passaggio dell'intervista di ieri, che a sua volta riecheggia l'introduzione alla nuova fatica di Grass: lì lo scrittore parlava di ricordi a intermittenza, simile a «un’insalata di immagini». Ieri con i giornalisti tratteggiava un libro che «non è un'autobiografia classica, di quelle che mettono in fila ordinatamente fatti dopo fatti, dati dopo dati. È il tentativo di riscoprire un giovane uomo che mi è sconosciuto, e di interrogarlo su come si sia comportato in determinate circostanze». Con lo scritto e con la voce, è come se Grass dicesse al pubblico: prendetemi sul serio, ma non troppo. Questa è un'opera di narrativa, non di ricostruzione storica. Ci sono dei buchi, dei salti temporali; e la memoria che a volte tradisce, a volte non aiuta a trovare risposte. Soprattutto un perché «al mio non aver fatto domande». Di silenzio, vergogna e paura è impregnata buona parte del libro, ed è su questo aspetto che si sono concentrati i media tedeschi; mentre il Kölner Stadt-An­zeiger - a proposito di marcia indietro - ha dovuto rimangiarsi le insinuazioni su un presunto dossier della Stasi, la cui prossima desecretazione avrebbe spinto Grass a rivelare il suo passato nelle Waffen SS. Da Londra e New York arriva invece il sostegno dei colleghi Salman Rushdie e John Irving: «Scandalo costruito, oggi Grass è lo stesso grande scrittore che era fino a un paio di giorni fa», ha commentato l'autore dei Versetti satanici. «Per me resta un eroe, sia come scrittore che come bussola morale. Il suo coraggio è aumentato, non diminuito, da queste rivelazioni», chiude il romanziere del Mondo secondo Garp. E nell'intervista rilasciata alla televisione Ard, lo stesso Grass ha dichiarato: se il sindaco di Danzica mi chiederà di rinunciare alla cittadinanza onoraria lo farò, «ma da parte mia non vedo alcun motivo per restituirla». Le vendite di Sbucciando la cipolla, nel frattempo, vanno benissimo. I primi 150 mila esemplari sono praticamente esauriti, e la Bild ha fatto i conti in tasca a Grass: il ricavato complessivo dovrebbe essere all'incirca 1,7 milioni di euro. La Steidl Verlag sta già stampando una seconda edizione da 100 mila copie, i diritti sono stati richiesti da dodici Paesi. L'intermittenza della memoria, a quanto pare, non ha contraccolpi sotto il profilo commerciale.

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I dubbi

E nei campi le SS erano divise dagli altri prigionieri tedeschi

 

Più si va avanti e più s’infittiscono i dubbi sul caso Grass, specie per quanto riguarda il suo incontro in prigionia con il giovanissimo Joseph Ratzinger nel  campo di Bad Aibling, Un ricordo che, nell’intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», uscita sabato, era apparso nitidissimo, ora  diventa una semplice supposizione, suscitata nello scrittore, dall'elezione di Benedetto XVI al soglio pontificio. Qualche perplessità era già sorta perché Grass, identificato quale appartenente alle SS (come risulta dai documenti americani), in teoria sarebbe dovuto finire in un'area del campo separata d'a quella destinata ai militari dell'esercito regolare, quale sicuramente era Ratzinger. Ma si poteva anche pensare che la giovane età del prigioniero Grass gli fosse valsa un trattamento più mite. Si è poi scoperto però che nel libro il pio Joseph con cui l'autore giocava a dadi non è identificato, esplicitamente con Ratzinger. E ora una nuova intervista confonde ulteriormente le acque. Si ha l'impressione di un sapiente alternarsi fra rivelazioni e marce indietro. E mentre i dubbi aumentano, i dati di vendita ci forniscono l'unica certezza: se è una strategia di marketing, funziona alla perfezione.


19 agosto

Il caso Grass

Silenzi di un tamburo

Gli scrittori non sono sacerdoti laici resta autentico il suo impegno civile

La confessione del Nobel ripropone il rapporto tra arte e ideologia: da Goethe a Céline, ad Hamsun

di Claudio Magris

 

Anche i peccati, come i capitali presi in prestito, si pagano con gli interessi, che crescono con il tempo; quello che Günter Grass ha svelato con tanti anni di ritardo, di per sé veniale se si considera la terribile situazione e l'età che egli aveva quando l'ha commesso, gli casca addosso come un macigno. Come è stato detto, avrebbe potuto e dovuto dirlo subito; nulla resta segreto e ciò che rimane, soffocato e irrisolto, nell'intimo rischia di incancrenire, di crescere, erodere distruttivamente come un tumore, assumendo dimensioni abnormi e inquinando l'esistenza. Pure la coscienza, come una camicia macchiata o anche solo sudata, va messa a lavare e ad asciugare, senza preoccuparsi del commento dei vicini sulle macchie. Perché Grass non l'abbia fatto prima, nessuno può dirlo, perché nessuno può entrare nelle incertezze e contraddizioni della mente di un altro, capire cosa, oggettivamente e soggettivamente, un altro avrebbe potuto e dovuto dire o fare in certe circostanze. Tutto ciò diviene ancor più difficile quando entra in gioco un complesso così tortuoso e inibitorio come il passato nazista. Inoltre i ricordi mutano nel tempo, co­me dice un racconto di Svevo; spesso non si ricordano i fatti accaduti ma le deformazioni con cui negli anni la memoria li ha rivissuti e alterati. Ricordo tutto, ma non intendo niente, si dice nella «Coscienza di Zeno». L'insinuazione che la tardiva recentissima confessione di Grass sia legata alla promozione del volume ora uscito è poco credibile, perché un Premio Nobel, e in particolare il grande autore dell'immortale «Tamburo di latta», non hanno bisogno di espedienti sensazionali per lanciare un libro, come le ragazzine che ostentano prevedibili trasgressioni sessuali. Se così fosse, si tratterebbe comunque di un calcolo sbagliato, che si ritorce come un boomerang e si traduce in un danno duraturo, non compensato - alla fine nemmeno materialmente - da alcun record di vendite. Al di là dell'episodio specifico, questa vicenda di Grass ha scandalizzato ed è stato un clamore così eccessivo e sproporzionato probabilmente anche perché si considerano, erroneamente, a priori gli scrittori e gli artisti - e tanto più quanto più sono grandi - come rappresentanti dello Spirito, quasi sacerdoti laici della verità, dell'umanità e della giustizia, quali maestri di vita. Purtroppo non è vero; creare un'opera d'arte anche grande non garantisce affatto, come del resto sapeva bene Thomas Mann, il possesso permanente di qualità morali e nemmeno di un'intelligenza capace di evitare le aberrazioni etiche e politiche. Molti tra i più grandi scrittori del secolo scorso sono stati fascisti, come Pirandello; nazisti o filo nazisti come il grandissimo Hamsun; antisemiti loro malgrado come l'autodistruttivo e anch'egli grandissimo Céline; stalinisti, come quegli scrittori francesi che andavano devotamente a Mosca ad assistere alla «Messa Rossa» ovvero alle impiccagioni staliniane di tanti loro compagni. Continuiamo ad amarli, a comprendere l’itinerario autolesionista che li ha portati a queste automutilazioni spirituali e ad imparare da loro perfino valori essenziali quali l’amore e la ribellione negati dalle perverse ideologie cui hanno indulto, ma certamente non possiamo attenderei da essi più chiarezza o saggezza che dalla così detta gente comune. Del resto anche Goethe ha scritto l'immortale storia di Margherita, che ci insegna per sempre la pietà e la comprensione per lei, e alcuni anni più tardi ha votato per la condanna a morte di una ragazza che aveva commesso la stessa colpa di Margherita. Lo spirito soffia dove e quando vuole e non sempre nel cuore e nella mente di un grande scrittore; quando non soffia, ognuno è un povero diavolo capace di tutte le sciocchezze. Non è strano che non abbia soffiato sul Grass diciassettenne, in quel momento tremendo, e non sappiamo perché non abbia più tardi spazzato via come un vento quel peso dalla sua coscienza. Una cosa è certa. Questa vicenda strombazzata non sminuisce minimamente non solo la grandezza poetica di chi ha scritto «Il Tamburo di Latta», ma nemmeno la meritoria milizia etico-politica di Grass in tutti questi anni. Grass è stato uno scrittore impegnato nel senso migliore; ha saputo criticare e denunciare i difetti e le storture della Germania con durezza ma con moderazione ideologica, senza cedere mai alle sirene dell'estremismo che anni fa seducevano tanti suoi colleghi, bensì battendosi per una concreta politica progressiva dei piccoli passi, celebrando - lui così prepotentemente aggressivo - il «passo della lumaca» della politica ossia i miglioramenti graduali del Paese, il senso responsabile delle reali possibilità. Il merito politico di essersi battuto per questi ideali resta, a prescindere dai fantasmi che sino a poco fa gli hanno impedito di sbarazzarsi di quel peso e dal rapporto che tutto ciò può avere o non avere con le classifiche dei bestseller.

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Le reazioni

«Ora doni il ricavato del libro alle vittime del nazismo»

 

A una settimana dall'intervista alla Frankfufter Allgemeine, il «caso Grass» si sposta sempre più a Est. È la Polonia il nuovo fronte; per un Walesa pronto a rinunciare alla cittadinanza di Danzica, se non lo dovesse fare lo scrittore tedesco, salvo poi proporre un faccia-a-faccia a novembre, c'è una Erika Steinbach, presidentessa della tedesca Lega dei profughi, che attacca: «Grass danneggia i rapporti Germania-Polonia. Dovrebbe donare i ricavati del suo libro alle vittime polacche del nazionalsocialismo». Peccato che la stessa Steinbach (che nel '90, in Parlamento, si schierò contro il riconoscimento dei confini tedesco-polacchi) sia accusata di revisionismo per la mostra sulle espulsioni «Vie forzate» - da cui la Polonia vuole ritirare la campana della «Gustloff», nave di profughi affondata dai sovietici nel '45. Grass, intanto, rilancia: alla Welt ha fatto pervenire la lettera con cui, nel 2002, autorizzava a «desecretare» ogni eventuale atto negli archivi della Stasi. E secondo Focus, il 54% dei tedeschi «comprende» il ritardo della confessione di Grass. I più vicini al Nobel sono gli uomini e gli under 34 (58%, contro il 49 degli over 55). (ga.ja.)


22 agosto

Il caso Grass

L’intervento

Il dovere della memoria: senza aspettare 60 anni

di Giovanni Belardelli

 

Data l'importanza di Grass nella cultura della Germania contemporanea, si può forse capire che perfino il capo del governo tedesco Angela Merkel abbia sentito il bisogno di intervenire sul suo caso. La Merkel afferma - con un'ironia evidentemente polemica - che le sarebbe piaciuto essere messa a conoscenza prima del «tenore della biografia» dello scrittore, vale a dire della sua adesione, giovanissimo, alle SS. Effettivamente, come molti hanno osservato in questi giorni, la questione vera non è di stigmatizzare (magari da parte di chi è comodamente nato dopo il 1945) le scelte del diciassettenne Grass: la estrema debolezza, in Germania, di ogni forma di resistenza al nazismo sta a testimoniare quanto fosse difficile per i tedeschi dell'epoca liberarsi, nella mente prima anco­ra che negli atti, dei miti hitleriani. L'unica questione davvero rilevante riguarda il tempo interminabile che Grass ha aspettato prima di confessare la sua adesione d'un tempo, l'oblio custodito in decenni nei quali diventava (forse, è legittimo ipotizzare, anche grazie a certi silenzi) una delle grandi voci della coscienza tedesca. Perché ad esempio (se lo è chiesto uno storico di Yale, Peter Gay) non dire tutto nel 1959, dopo la pubblicazione del «Tamburo di latta»? Ma anche i modi con cui quell'oblio è stato finalmente rotto non sono parsi sempre adeguati: si pensi alle parole con cui Grass ha evocato la conoscenza, durante la prigionia, con un Joseph che prima è, poi in un'intervista appena successiva già non è più, l'attuale papa. Fatto sta che sul lungo silenzio di Grass sembrano già consolidate due posizioni opposte. C'è chi ne dà un giudizio assai duro, quasi spiegandolo con mere considerazioni di vantaggio personale: così, sul New York Times di due giorni fa, Daniel Kehlmann, dopo aver ricordato che un incontro con Pinochet valse a Borges il non conferimento del Nobel, si è chiesto: «Chi aveva servito nelle SS avrebbe avuto una possibilità?». Dall'altra quanti sembrano trovare tutta la questione quasi irrilevante. John Irving, ma è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare, ha dichiarato che per lui Grass resta un «eroe», una «bussola morale», il che pare francamente eccessivo. Davvero possiamo prendere come bussola chi attende, quali che ne siano i motivi, sessant'anni per raccontare un passato imbarazzante? E che dobbiamo pensare allora di tutti i discorsi sui doveri della memoria, sulla necessità di non dimenticare il passato e così via? Varrebbero per chi? Per i cittadini comuni e non per i grandi intellettuali? Ciò non avrebbe evidentemente senso, tanto più di fronte al caso di un intellettuale tedesco, appartenente a un popolo che, per ragioni a tutti note, sente di dover essere particolarmente attento ai doveri della memoria. Il primo dei quali, forse, è di cer­care di raccontare la verità sul proprio passato. Magari non subito se è troppo difficile (come certo doveva essere per Grass e per tanti tedeschi nel 1945). Ma anche senza aspettare sessant'anni.

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Merkel accusa Grass: «Sul passato nelle SS hai parlato troppo tardi»

«In fatto di storia abbiamo idee diverse»

La Cancelliera rompe il silenzio sulle rivelazioni dello scrittore

Gabriela Jacomella

 

«Mi sarei augurata che tutti noi venissimo informati dall'inizio, e sotto ogni suo aspetto, sulla sua biografia». Nessuno stupore per la pioggia di critiche: «Con le sue precedenti prese di posizione, dedicate ad altri avvenimenti», il minimo che il «signor Grass» poteva aspettarsi era una reazione uguale e contraria. «E comunque, le capisco. Vi ricordo che io e lui, ad esempio, abbiamo valutazioni molto diverse sulla storia tedesca». Così parlò la Cancelliera, interrogata sulla polemica che da ormai dieci giorni arroventa l'estate berlinese. Ieri, poco prima di mezzogiorno, Angela Merkel ha rotto il suo - criticatissimo - silenzio (tre settimane di isolamento) con la prima conferenza stampa post vacanze. Novanta minuti, 200 giornalisti, 39 domande. Un incontro dovuto, dopo che gli ultimi sondaggi hanno svelato una leader in calo vertiginoso di popolarità, apparentemente incapace di guidare la Grande Coalizione tra le secche pericolose della guerra in Libano o del dibattito sull'identità della Cdu, scatenato dal suo vice Jürgen Rüttgers. Il silenzio della Merkel, come quello di Grass, è stato passato ai raggi infrarossi. E così, lei ha esternato su tutto: Medio Oriente e terrorismo, Polonia, ripresa economica, attestati di stima a Schröder. Quell'uscita sull'ormai (pare) ex scrittore nazionale, le è stata strappata dalle domande dei cronisti. Lei, però, se ne è ben guardata dal tirarsi indietro, sulla scia degli altri politici già intervenuti sul «caso Grass», dall'esperto culturale della Cdu Wolfang Börnsen (che invoca la restituzione del Nobel) a un imbarazzato Franz Müntefering (Spd), vicecancelliere in carica. E si è tolta qualche personalissimo sassolino dalle scarpe, come quella postilla sulle «diverse valutazioni», chiaro riferimento a quando Grass si schierò, nel 1990, contro l'unificazione delle due Germanie. Una presa di posizione che alla «ragazza dell'Est» non dev'essere mai andata giù. «E non dimentichiamo - commenta lo storico Lutz Klinkhammer, esperto di nazismo e cultura della memoria - che Grass non ha mai voluto essere soltanto un letterato: ha fatto campagna politica per la Spd, si è schierato come cittadino. Quello della Merkel può sembrare un commento strano, dopo il silenzio di queste settimane, Ma è, comunque, la risposta politica a un Grass politico, che è sempre intervenuto nel dibattito nazionale, parlando ai politici "di professione"». E dalla politica più in vista del Paese ha ricevuto, ora, una risposta inequivocabile.

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IL VOLUME DEL '98

E da un libro rispunta una violenza sessuale

L’accusatore è Klaus Rainer Röhl, ex marito della terrorista della Raf Ulrike Meinhof

Ga. Ja.

 

Ora che il vaso di Pandora si è aperto, dal passato di Günter Grass sembra voler riemergere di tutto: dalla militanza nelle Waffen-SS alle accuse di violenza sessuale. «Grass non fuggì da scuola dopo essersi ribellato a un insegnante di ginnastica nazista, come scrive ­ nel suo nuovo libro. La verità è che lui e la sua cricca avevano attirato una ragazza del vicino liceo nel parco per poi intontirla con il cloroformio, spogliarla completamente e metterle le mani addosso, non so fino a che punto». L'accusatore si chiama Klaus Rainer Röhl, 78 anni, noto alle cronache come ex marito - tra il 1961 e il 1968 - di Ulrike Meinhof, la futura pasionaria della Rote Armee Fraktion. Fondatore della rivista di sinistra Konkret, Röhl ha dato alle stampe, nel 1998, Deutscher Narrenspiegel, «Lo specchio deformante tedesco». Al suo interno, l’ex attivista di sinistra ricorda gli anni passati nella scuola Conradinum di Danzica: «Grass era nella classe parallela». E lui, Röhl, peggior ginnasta del collegio, era tra i bersagli preferiti di quel professore nazista. «Grass era il leader di una combriccola che si comportava in maniera crudele e prendeva parte, tra gli sghignazzi, agli attacchi contro di me». Günter il bullo, che vessava i compagni e molestava le ragazze, «Forse anche questo è un episodio su cui dovrebbe rompere il suo silenzio. Quando lo incontrai per la prima volta dopo la guerra - prosegue Röhl - mi ricordò quegli attacchi: io ero, disse, la "piagnona" del cortile scolastico, di cui lui si era preso gioco all'epoca». L'episodio, passato del tutto inosservato negli otto anni di circolazione del volume (che, va detto, non è mai stato un bestseller), riemerge in un'intervista rilasciata dallo stesso Röhl al conservatore Welt am Sonntag – e ripresa ieri dal tabloid Bild - le due corazzate d'assalto della Axel Springer Verlag. E la stampa scandalistica tedesca continua così ad affilare le armi contro l'ex «intoccabile» Günter Grass.


23 agosto

La reticenza di una confessione

L’imbarazzo di ammettere la scelta nazionalista

Lo scrittore ha spiegato la sua entrata nella milizia nazista come il gesto - Spiegare la sua militanza come un colpo di testa bohèmien gli deve essere sembrato meno imbarazzante irresponsabile di un ragazzo – L’altra spiegazione: avrebbe potuto dire: credevo nell’obbligo morale di combattere per la difesa della patria, ho fatto una scelta che allora mi sembrò patriottica

di Sergio Romano

 

Le confessioni possono essere non meno reticenti dei silenzi. Ammetto che quella di Günter Grass non mi ha completamente convinto. Non conosciamo il giorno esatto del suo reclutamento nelle Waffen SS (il corpo combattente della più fedele milizia del partito nazista), ma sappiamo che avvenne nell'ultimo inverno di guerra e dobbiamo presumere che il giovane coscritto, nato il 16 ottobre 1927, avesse già compiuto o stesse per compiere i 17 anni. Quando apprese che la sua domanda era stata accolta, Grass viveva con la famiglia a Danzica, città simbolo del nazionalismo tedesco, causa apparente della Seconda guerra mondiale e enclave germanica fra le popolazioni slave del Baltico e della Prussia orientale. Nella sua confessione Grass sembra volere dimostrare che l'arruolamento fu la bravata giovanile di un ragazzo che voleva uscire di casa, sottrarsi al governo dei genitori, mettere se stesso alla prova nel grande cimento della guerra: motivazioni esistenziali, quindi, in cui non sembra esservi posto per considerazioni politiche e nazionali. È possibile. Ma è difficile immaginare che un giovane tedesco di 17 anni, nato e cresciuto a Danzica, abbia deciso di andare a combattere, tra la fine del 1944 e l'inizio del 1945, soltanto per una sorta di raptus romantico e giovanile. Proviamo a ricostruire le condizioni della Germania nel momento in cui Grass strinse alla vita il cinturone di cuoio dell'uniforme di un corpo che aveva per motto le parole «Meine Ehre heisst Treue», il mio onore si chiama lealtà. Nella prima metà del 1944 le truppe sovietiche, con un travolgente crescendo di vitto­rie, avevano cacciato la Wehrmacht dai territori occupati della Russia, dell'Ucraina e della Bielorussia. Il 30 agosto 1944 i primi reggimenti sovietici del maresciallo Rokossovskij si erano affacciati sulle frontiere della Prussia orientale. Tallinn, in Estonia, cadde il 22 settembre, Riga, in Lettonia, fu conquistata il 13 ottobre. Una settimana dopo i corpi d'armata che avanzavano verso l'Europa centra­le erano alle porte di Budapest e co­minciavano un assedio che si sareb­be concluso soltanto il 13 febbraio 1945. Dall'agosto, dunque, si stava combattendo una guerra diversa da quella che i tedeschi avevano fatto negli anni precedenti. Non era più una guerra di conquista per le ambizioni di Hitler. Era la difesa della patria contro il nemico che la maggior parte della società tedesca considerava, per ragioni storiche e ideologiche, il più minaccioso e pericoloso. Accecato dalle sue ossessioni millenaristiche, Hitler preferì che l'avventura del Terzo Reich si concludesse con un colossale rogo in cui gli dei del nazismo avrebbero trascinato con sé l'intero Paese. Ma numerosi generali e lo stesso ammiraglio Karl Dönitz, successore del Führer per pochi giorni, sperarono fino all'ultimo momento che gli Alleati occidentali avrebbero permesso alla Germania di arrendersi all'Ovest e di continuare a battersi all'Est, come era successo alla fine della Grande guerra. È questa l'aria che il giovane Günter Grass respirò a Danzica negli ultimi mesi del 1944. È questo il clima politico e militare che spiega gli arruolamenti volontari di ragazzi imberbi nella fase finale del conflitto e i dodici milioni di tedeschi che abbandonarono la Pomerania, la Slesia, la Prussia orientale, il Sudetenland. Perfino le Waffen SS, per la loro disciplina e il loro spirito di sacrificio, dovettero sembrare a molti giovani, in quelle drammatiche circostanze, una forza tedesca al servizio della patria. Il nodo della questione quindi, nel caso di Grass, non è il suo arruolamento, ma il fatto che egli abbia deciso di spiegarlo come uno spavaldo gesto di irresponsabilità giovanile. Avrebbe potuto dire: ero nazionalista, credevo nell'obbligo morale di combattere per la difesa della patria, ho fatto una scelta che mi sembrò allora nazionale e patriottica. Perché non lo ha fatto? Azzardo una ipotesi. Forse Grass ha scelto il giovanilismo, fra le motivazioni possibili, perché il colpo di testa bohèmien gli è sembrato più letterario e meno imbarazzante per la sua immagine della motivazione nazionalista. L'autore del «Tamburo di latta» è stato per due generazioni il grande censore della Repubblica federale, l'intellettuale che più frequentemente e con maggiore autorità ha esortato i suoi compatrioti a ripulirsi delle loro tare ereditarie: nazionalismo, militarismo, razzismo. Di questa diffidenza per il carattere nazionale dette una prova quando, dopo la caduta del Muro di Berli­no, prese posizione contro l'unificazione tedesca. Temeva che una Grande Germania avrebbe ceduto alle tentazioni dei suoi vecchi démoni. È questa forse la ragione per cui, giunto ormai il momento della verità, ha deciso di lasciare agli atti della storia una giustificazione per quanto possibile compatibile con il ritratto che ha disegnato di se stesso nel corso della sua vita. Non è sorprendente. Ogni confessione, quando non è estorta con la forza, è una arringa per la difesa. In un libro apparso qualche mese fa («I redenti»), Mirella Serri ha spiegato che molti intellettuali italiani, convertiti al comunismo fra il 1943 e il 1945, confessarono di essere stati fascisti, ma datarono l'uscita dal regime nel 1938 e dettero in tal modo la sensazione di non avere avuto nulla a che vedere con la fase razzista del regime mussoliniano. Non era vero. Nella maggior parte dei casi quegli intellettuali avevano continuato a collaborare con lo Stato fascista fino al 25 luglio 1943 e, in particolare, con giornali impeccabilmente antisemiti, come Primato, Roma fascista, Tevere, Quadrivio. Molti scrittori (Elio Vittorini e Vasco Pratolini, ad esempio) avrebbero potuto giustificare se stessi dicendo di essere stati fascisti di sinistra. E avrebbero potuto aggiungere di avere trovato nel comunismo alcune importanti assonanze con il fascismo rivoluzionario: il disprezzo della democrazia borghese, il par­tito educatore, la costruzione dl'uomo nuovo, la proprietà pubblica. Se avessero usato questi argomenti, tuttavia, avrebbero avallato l'esistenza di un fascismo di sinistra in cui le posizioni più avanzate erano molto vicine a quelle del Partito comunista. E avrebbero confermato che vi erano nel fascismo, come aveva detto Giovanni Gentile nel suo discorso in Campidoglio il 24 giugno 1943, dei «corporativisti impazienti». Ma questa confessione non sarebbe piaciuta a Palmiro Togliatti. Il leader del Pci era disposto a firmare il loro salvacondotto e ad accoglier­li come altrettanti figlioli prodighi fra le braccia del partito. Ma non in­tendeva permettere che una parte del fascismo potesse appartenere alla sinistra rivoluzionaria. La loro confessione fu quindi imprecisa, incompleta e reticente; come quella di Günter Grass.

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Sotto il fascismo

 

Molti intellettuali italiani convertiti al comunismo tra il  ’43 e il ’45, confessarono di essere stati fascisti ma (mentendo) datarono l’uscita dal regime nel 1938 (prima della fase razzista. Molti intellettuali e scrittori, per esempio Elio Vittoriani e Vasco Pratolini, avrebbero potuto giustificare la loro adesione al regime dicendo di essere stati fascisti di sinistra. Spiegazioni di questo tipo non sarebbero piaciute al leader comunista Togliatti, per il quale era inammissibile che una parte del fascismo potesse appartenere alla sinistra rivoluzionaria.

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Lo scrittore e la militanza nelle SS

Lettera dello scrittore alla città di Danzica sul suo passato nazista - Grass ammette l'errore «Ho imparato la lezione»

Ma il Centro Wiesenthal chiede un’inchiesta

di Gabriela Jacomella

 

«Mi spiace». Con una lettera al sindaco di Danzica, dove nacque, Günter Grass ha ammesso l'errore di entrare nelle SS. «Ubolewam». Mi dispiace. Una parola sola, in polacco, per dare il senso di una lettera che è (anche) una mano tesa tra due nazioni. Da Lubecca a Danzica, da Berlino a Varsavia. Titolava così il sito della Gazeta Wyborcza, primo quotidiano della Polonia; l'unico a riportare in anteprima, ieri, il testo della missiva indirizzata da Günter Grass al sindaco di Danzica Pawel Adamowicz. Di solito, i premi Nobel non scrivono ai primi cittadini di una (per quanto importante) cittadina baltica. Ma, tra le mille polemiche esplose dopo la rivelazione di Grass, ormai undici giorni fa («da giovane ho militato nelle Waffen-SS»), quella che ha coinvolto la città natale dello scrittore è stata, forse, tra le più aspre. La cittadinanza onoraria conferita a Grass va ritirata: questo sostiene Legge e Giustizia, il partito dei fratelli Kaczynski; questo reclamava Lech Wale­sa, ex premier e leader di Solidarnosc, «non possiamo condividere questo riconoscimento: se non lo restituisce, lo farò io». Il primo a prendere in mano carta e penna è stato, per la verità, lo stesso Adamowicz. A Grass il sindaco aveva chiesto di spiegare quel passaggio così contestato della sua biografia e, soprattutto, i successivi sessant'anni di silenzio. Il 20 agosto, domenica, lo scrittore ha dunque risposto. «Gentile signor Adamowicz, la ringrazio per la sua lettera e per la fiducia che mi dimostra anche nell'attuale situazione». Parla, Grass, della «controversia» scatenatasi su quell'episodio di gioventù («importante, ma non dominante nel contenuto del mio libro»): una controversia che «ha assunto proporzioni per me minacciose, sotto un profilo esistenziale». «Solo ora, nella vecchiaia, ho trovato la forma giusta per parlarne». «Mi piacerebbe - prosegue - mantenere il diritto di dire che ho appreso la lezione dolorosa che, quando ero giovane, la vita mi ha insegnato. I miei libri e la mia attività politica ne sono la prova». Non chiede propriamente scusa Grass. Ammette, piuttosto, quello che è già sotto gli occhi di tutti: «Il mio silenzio può essere giudicato un errore e - come sta accadendo ora – persino essere condannato. Devo anche accettare il fatto che la mia cittadinanza onoraria sia messa in dubbio da molti abitanti di Danzica... Mi spiace avervi caricato del peso di una decisione (quella sul ritiro dell'onorificenza, ndr) che sarebbe sicuramente stata più facile da prendere, e anche più equa, se il mio libro fosse già stato presentato nella traduzione polacca». Grass ricorda di quando, a inizio anni '50, comprese «le colpe» della Germania nei confronti della sua città natale e di quando, nel 1970, accompagnò a Varsavia il cancelliere Willy Brandt. Chiude elencando i motivi «che mi hanno reso orgoglioso della mia patria», con un invito esplicito al dialogo e alla comprensione. «Una lettera molto interessante, calda, a volte commovente; contiene la risposta a parecchie domande» ha commentato il sindaco prima di dare lettura pubblica della missiva (per voce dell'attore Jerzy Kiszkis) in una conferenza stampa tenutasi a Danzica ieri pomeriggio. «Una lettera convincente», dichiara ora Walesa: «Non mi considero più in conflitto con Grass - ha detto all'agenzia Pap -. Anzi, mi auguro che insieme costruiremo una solida amicizia tra Polonia e Germania». Il suo è un outing «coraggioso; meglio tardi che mai, chissà che possa servire da esempio». Rivolgendosi al sindaco, Grass aveva scritto: «Sono orgoglioso della mia città natale, che ha dato origine a Solidarnosc e al suo fondatore Walesa). Con la sua marcia indietro, il leader sindacale si schiera a fianco della maggioranza: il 58% dei polacchi è contrario alla revoca, solo il 25% è a favore, riporta la Gazeta. Anche Chiesa e intellettuali; dall'arcivescovo Michalik alla poetessa Wislawa Zsymoborska (Nobel nel 1996), difendono lo scrittore tedesco. Da Gerusalemme, intanto, un'altra lettera di ben diverso tenore è partita alla volta di casa Grass. Il mittente è il Centro Simon Wiesenthal, fondato nel 1977 dal più famoso «cacciatore di nazisti» della storia. «Le spiegazioni di Grass hanno prodotto ambiguità, non chiarezza - spiega da Israele Efraim Zuroff -. Per questo avvieremo un'indagine». Allo scrittore il Centro chiede libero accesso ai documenti conservati negli archivi tedeschi (e protetti da una severa legge sulla privacy): «Alcuni dettagli sono contraddittori. E tenuto conto della sua statura morale, riteniamo imperativo che dica tutta la verità». «Mi hanno chiamato “la coscienza politica”, addirittura "il simbolo araldico" della Germania; tutte etichette affibbiatemi dall'esterno - dichiarava intanto Grass in un'intervista alla radio austriaca Orf1 -. Se la mia opinione, in futuro, sarà accettata o respinta, questo non dipende da me».

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Dalla lettera

 

«… Molti della mia generazione hanno condiviso un simile destino. È solamente ora, con l’età, che ho trovato la formula più adatta per parlarne in una prospettiva più ampia. Questo silenzio può essere considerato come un errore, può essere anche condannato…» «… Devo vivere anche con il fatto che il mio titolo di cittadino onorario di Danzica è messo in discussione. Vorrei comunque dire che ho compreso la lezione dolorosa che mi è stata donata nella mia giovinezza. I miei libri e la mia attività politica lo testimoniano»


25 agosto

Germania L’anno zero della memoria

La disfatta di Grass, falso moralizzatore

Secondo Lévy la confessione dello scrittore tedesco s’inserisce in un clima torbido di autoassoluzione collettiva

di Bernard- Herny Lévy

 

Sì, certo, si può essere un grande scrittore un vigliacco o un mascalzone. Sì, certo, l'indegnità morale, la menzogna, non è mai stata e non deve essere un argomento letterario. Sì, certo; Céline. Sì, certo, Aragon. Sì, certo, solo i morti oppure gli asini non hanno nulla da nascondere. Sì, certo, i nani, gli gnomi immondi, le tarantole provano un piacere sadico nel picchiare sulla testa dei giganti e approfittare della minima occasione per riportarli a una dimensione umana. Nell'affare Grass, tuttavia, nello scandalo creato dalla confessione sensazionale del premio Nobel per la letteratura che racconta come, a diciassette anni, fosse entrato nelle Waffel SS, non è di questo che si tratta. E a tutti coloro che, compresi alcuni dei miei amici, da qualche giorno si levano in piedi per assumere la difesa del grande scrittore oppresso dal politically correct generale, vorrei dire che purtroppo combattono la battaglia sbagliata. Il primo problema, con questa confessione, è che qui abbiamo un intellettuale – e dico proprio un intellettuale; dico e ripeto che qui non si tratta dello «scrittore che ha tutti i diritti» e che è «tanto più grande in quanto ha una parte maledetta e una zona d'ombra» - il primo problema, dunque, è che qui abbiamo un intellettuale che ha voluto essere ed è stato, in qualche modo, la coscienza della Germania. Lo rivedo a Berlino, nel 1983, al compleanno di Willy Brandt. Lo sento, prima alla tribuna, poi seduto in mezzo a una piccola corte di amici e ammiratori, capello liscio e verbo aggressivo, occhiali dalla montatura ovale che lo facevano somigliare a Bertolt Brecht, con il faccione rugoso tremante di emozione, che esortava - e come aveva ragione! - i contemporanei dell'«altra Germania», quella buona, a guardare in faccia quel famoso «passato che non passava». Ed eccolo che, vent'anni dopo, ci fa sapere che era nell'esatta situazione di quegli uomini dalla memoria dimezzata, ossessionati da crimini tenuti nascosti, e che allora invitava, così virtuosamente, a mettersi in regola con i loro scopi reconditi. Postura, dunque. Impostura. Statua di sabbia. Commedia. Il Commendatore (nel Don Giovanni di Mozart, ndt) era un Tartufo. Il professore di morale era l'incarnazione stessa dell'immoralità che combatteva. L'altro problema è che questa rivelazione funziona come un rivelatore, un proiettore gigante, un lampo di fari sinistro e prodigioso sull'intera biografia dell'autore del Tamburo di latta. Mi ricordo - ci ricordiamo - delle sue indulgenze verso Cuba. Del suo rilancio filo sovietico al tempo in cui, come diceva François Mitterrand, i pacifisti erano a Ovest e i missili della morte a Est. Ci ricordiamo del modo in cui questo socialdemocratico - come, appunto, François Mitterrand - si attaccò fino alla fine, con un accanimento così misterioso, alla finzione criminale di una Germania orientale che bisognava preservare, diceva, dalla «colonizzazione» da parte della Repubblica federale tedesca e dell' America. Ecco qui. Tutto qui. Sono dispiaciuto per John Irving, che continua ad «ammirare» questo «eroe», questa «figura morale», questo «esempio». Se Grass rimane un esempio, lo è di questa legge ferrea, mai o quasi mai smentita: l'amnesia è il destino; vi sono vuoti di memoria che sono buchi neri, abissi in cui il peggio viene travolto e precipita; una menzogna di questo calibro, una sola, anche ridotta a questo «dettaglio» che è un errore di gioventù - ed è come una radiazione oscura, un tumore, che invadono una vita e vi diffondono le loro metastasi. E poi infine il problema è quello del momento scelto dallo scrittore per liberarsi dalla sua «vergogna». Personalmente non credo troppo all'immagine dell'autore senza scrupoli che si serve di una confessione molto scandalosa per lanciare meglio il suo libro sul mercato. Ma osservo che la memoria gli torna qualche giorno dopo che a Berlino, sui luoghi stessi dei Giochi Olimpici del 1936, si è disputata la finale dei Mondiali di calcio. Osservo che gli torna in una Germania in cui stranamente si è udita poco la protesta di quelli che hanno chiesto almeno di velare le statue di Amo Breker (lo scultore prediletto di Hitler, ndt), che, settant'anni dopo, circondano ancora lo stadio. Ascolto la singolare dichiarazione di Martin Walser, l'uomo che si è messo in luce otto anni fa, dicendo che non ne poteva più di sentir parlare di Auschwitz e che adesso saluta la «lezione di morale» impartita da Günter Grass a fronte degli «usi normalizzati del pensiero e della parola». Senza parlare dell'affare Handke, poi di questa hezbollizzazione delle menti della quale ho trascorso l'estate, proprio qui, ad osservare i progressi in Germania come nel resto d'Europa. Annoto e ascolto tutto questo. E non posso non dire a me stesso, come Laurent Dispot nel suo testo La Règle du Jeu, che «Jankele­vitch aveva ragione»; che vi è qualche cosa di marcio nel regno della lingua e della memoria in Germania; e che in questo clima di febbre fredda, di banalizzazione e flirt discreto con l'orrore, s'inserisce il crollo di quello che si considerava il bastione più solido contro il ritorno del nazismo rimosso. Günter Grass, questo grosso pesce letterario, questo rombo congelato da sessant'anni di pose e di menzogne che, improvvisamente, si decompone al calore di una verità tardiva. Questo tipo di scongelamento ha un nome: è una disfatta.

(traduzione di Jacqueline Malandra)

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POLITICA E CULTURA

Ma il sindaco di Berlino difende il Nobel e un dossier prova che la Stasi gli era ostile - La polemica «Die Zeit» attacca il moralismo arrogante degli intellettuali

dal nostro corrispondente Paolo Valentino

 

BERLINO - Se dopo l'ammissione della sua appartenenza alle Waffen SS, il timore di Günter Grass era quello di diventare una «non persona», lo scrittore tedesco può stare tranquillo. Il suo prestigio di intellettuale impegnato e schierato è ancora gradito e richiesto. Almeno nella sua famiglia politica di riferimento, quella socialdemocratica. È stato il borgomastro di Berlino, Klaus Wowereit, a tendere la mano al premio Nobel, già celebre testimonial elettorale di Willy Bran­dt e poi di Gerhard Schröder. Nella capitale tedesca si vota il 17 settembre per il rinnovo del Senato e del primo cittadino. E Wowereit, in corsa per una facile rielezione, ha voluto platealmente riprendere l'antica usanza, proprio quando il tardivo outing ha posto Grass al centro di una controversia nazionale ed europea, dove le critiche superano di gran lunga le parole di comprensione. «L'ho invitato a una mia iniziativa elettorale e lui ha accettato, assicurandomi il suo appoggio e la sua presenza», ha detto il borgomastro allo Stern. Secondo Wowereit, «sarebbe fatale se l'opera di Günter Grass, quella dello scrittore come quella del saggio che lancia ammonimenti politici, venissero messe in discussione». Naturalmente, così il sindaco, «Grass deve ora accettare di essere additato da tutti coloro contro i quali ha puntato il suo indice di moralista, ma io non ho alcuna considerazione per quanti vorrebbero del tutto calpestarlo». L'iniziativa di Wowereit è stata commentata positivamente, ma non senza ironia, da Egon Bahr, uno dei grandi vecchi della Spd berlinese, già consigliere di politica estera di Brandt e Hel­mut Schmidt: «Ha fatto bene. Il prestigio letterario di Grass è incontestabile. Che poi nei suoi giudizi politici si sia spesso sbagliato, è un'altra storia». Il tormentone seguito alla rivelazione di Grass nel suo libro di memorie, Sbucciando la cipolla, va comunque lentamente riducendosi d'intensità. «Adesso basta», titolava ieri Die Zeit sulla copertina della sezione letteraria. Il settimanale di Amburgo se l'è presa soprattutto con «l'insopportabile presunzione» e il «moralismo resistente agli argomenti» dello scrittore, che «alla stregua di ogni buon rinnegato ha cambiato fronte pretendendo comunque di aver ragione e rimanendo arrogante come prima». Ma con Grass, la Zeit spara anche sulla «gerontocrazia intellettuale» della sua generazione, su chi come lui fu volontario nella Wehrmacht o nelle SS e nel dopoguerra ha preteso di recitare la parte di incorruttibile coscienza della nuova Germania. A parte l'invito del borgomastro, c'è comunque un'altra piccola consolazione per il premio Nobel. Ieri Die Welt ha pubblicato alcuni documenti inediti della Stasi, la polizia segreta della ex Germania Est, provenienti dal dossier personale di Günter Grass e dove appare chiaro che la dittatura comunista lo considerava un nemico provocatore e più volte gli negò il visto d'ingresso, per paura delle sue esternazioni critiche e dei suoi appelli pubblici in favore della libertà d'espressione degli scrittori dell'Est.

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Fantasmi – E su Parigi grava l’ombra di Vichy

 

Non solo i fantasmi evocati dalla vicenda di Günter Grass a ossessionare l’Europa. Lo ricordava sull’«International Herald Tribune» dell’altro ieri James Kanter, sottolineando come la macchia del collaborazionismo pesi ancora sulla Francia. Resta infatti aperto il dibattito sui rapporti del defunto presidente François Mitterand con il regime di Vichy, mentre un tribunale ha giudicato le ferrovie francesi responsabili per il contributo fornito alla deportazione degli ebrei. Ma la questione non riguarda solo il passato, poiché, aggiunge Kanter, «la persistente popolarità del Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen servea ricordare che l’estremismo di estrema destra non è morto con Vichy». I fattori che hanno causato il successo del leader xenofobo nel 2002 non sono certo spariti, soprattutto dopo le rivolte dei giovani di origine nordafricana che hanno sconvolto le periferie. Nel 2007 si torna a votare e Le Pen è accreditato dai sondaggi di un preoccupante 15 per cento.


27 agosto

Etica e impegno - Davvero Grass non conosceva l'orrore delle SS?

Discussioni – Il Nobel per la pace interviene sui casi suscitati da due protagonisti della letteratura: il norvegese Gaarder e lo scrittore tedesco

di Elie Wiesel

 

Di recente due romanzieri hanno invaso la stampa mondiale. Non hanno niente a che vedere l'uno con l'altro, se non per il fatto che hanno pubblicato opere lette in decine di lingue. E che il loro atteggiamento verso la scrittura e la responsabilità dello scrittore nei confronti del linguaggio ha suscitato controversie di ordine etico più che letterario. Il primo, Jostein Gaarder, abita in Norvegia e il libro che lo ha fatto conoscere anni fa si intitola Il mondo di Sophie; una specie di raccolta di lezioni filosofiche impartite da uno sconosciuto maestro a una giovane allieva. La tendenza è più o meno di sinistra; non credo di aver visto molto spesso la sua firma su pagine politiche. Ed ecco che si parla solo di lui, o meglio di un suo articolo, che tratta degli avvenimenti politici e militari in Libano. Avvalendosi di un linguaggio eccessivo e di argomenti violenti, ha prodotto un testo che sembrava uscito dai volumi nazisti di uno Streicher o di un Goebbels. Improvvisamente si discute ovunque non se l'articolo sia antisemita, ma se lui lo sia. Per i bombardamenti di abitazioni civili in Libano, in un articolo dal titolo «Il popolo eletto da Dio» sul quotidiano Aftetposten, uno dei più importanti nel Paese, Jostein Gaarder accusa lo Stato di Israele e il popolo ebraico di apartheid, di razzismo, di vivere nel Medio Evo, di predicare l'odio e di commettere crimini contro l'umanità. Si spinge fino a dire: «Non riconosciamo più lo Stato di Israele. Non si torna indietro. Lo Stato di Israele ha violato il riconoscimento mondiale e non avrà pace finché non deporrà le armi». Si spinge addirittura ad affermare che «lo Stato di Israele non esista più». Questo articolo pieno di stereotipi antichi e moderni antigiudaici ha provocato un tale choc negli ambienti intellettuali che per scusarsi l'autore ha dovuto dichiarare che si era espresso malissimo, che lo hanno capito male e che, di fatto, si considerava israeliano esattamente come John F. Kennedy si era dichiarato berlinese. Parole patetiche, incoerenti, che non hanno migliorato la sua reputazione. Per quanto mi riguarda, avendo letto questo scritto, posso solo concludere che lo scrittore è responsabile di quello che scrive; se si esprime da antisemita, vuol dire che lo è. Adesso veniamo al secondo scrittore di cui si parla in Germania e in tutto il mondo. Sul piano puramente letterario, Günter Grass ha alle spalle una grande opera prestigiosa che vale veramente. Il suo primo romanzo, Il tamburo di latta, viene annoverato tra i capolavori del secolo scorso. Le opere successive giustificano il Nobel che gli è stato attribuito nel 1999. I suoi giudizi avevano un peso, le sue riflessioni raggiungevano un pubblico vasto. Facendo riferimento a lui, non si faceva mai a meno di sottolineare il suo impegno morale. In breve, era la coscienza della nuova Germania. Ed ecco emergere il fatto che in gioventù, all'età di 17 anni, si era arruolato nelle infami Waffen SS. Improvvisamente la fazione dei suoi lettori si divide in due. Da un lato si parla di un errore di gioventù mentre dall'altro si insiste sul lungo silenzio che precede la sua confessione. Emergono molte domande: era stato reclutato a forza nelle SS? Le strutture ideologiche delle SS non erano quindi basate sul volontariato? E poi, a 17 anni, non conosceva l'orrore che le caratterizzava? Ignorava davvero quello che i camerati delle SS facevano agli ebrei? E soprattutto, perché ha taciuto così a lungo? Se il caso Gaarder ha suscitato la mia collera, il caso Grass mi ha solo rattristato. Accetto la spiegazione secondo cui il silenzio era dovuto alla vergogna. Possiamo immaginare le sue notti e i suoi risvegli quando si ricordava del passato? Come non cercare di comprendere la sua agonia solitaria? Attendo con impazienza di leggere il suo nuovo libro, in cui sicuramente ne parla. Fino ad allora, propongo che ciascuno si riservi di emettere un giudizio.

(Traduzione di Jacqueline Malandra)

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ARCHIVI

La memoria di Günter, tardiva e anche imprecisa

 

BERLINO - (p. val.) Non tutti i dati biografici che Günter Grass ha inserito nel suo libro di memorie, Sfogliando la cipolla, sono credibili. E anche se questa mancanza di precisione non cambia la sostanza generale delle ammissioni dello scrittore, essa contribuisce ad alimentare ulteriori dubbi, quando non un sospetto di reticenza, sui suoi ricordi. Lo rivela Der Spiegel, nel numero da oggi in edicola. Due redattori del settimanale hanno infatti potuto visionare il libro dei ricoverati dell'ospedale militare di Marienbad, dove Grass, arruolatosi volontario sei mesi prima nelle Waffen-SS, venne ricoverato dopo essere stato ferito dalla scheggia di una granata. L'accesso al documento, protetto dalla legge tedesca sulla difesa della privacy, è stato reso libero dallo stesso scrittore. Si scopre così che Grass non fu arruolato già dal settembre 1944 nelle unità d'élite di Heinrich Himmler, dove il 16 ottobre, secondo quanto scrive nel libro, avrebbe festeggiato il suo diciassettesimo compleanno. In realtà, secondo il registro, lo scrittore venne arruolato il 10 novembre 1944. Inoltre, come unità d'assegnazione, viene indicata quella di addestramento per il terzo reparto corazzato degli assaltatori e non quella, fin qui evocata, della X SS-Panzerdivision «Frundsberg». Ma nel registro non si fa stranamente menzione delle Waffen-SS, anche se gli storici confermano l'esistenza di un «III Panzerjaeger und Ersatzabteilung» nella milizia di Himmler. Anche il grado non corrisponde alle indicazioni di Grass. Il libro del Reservelazarett Marienbad parla infatti di «tiratore». Cominciano nel frattempo ad apparire le prime recensioni letterarie al libro di Grass. Ieri è stata la volta della Frankfurter Allgemeine, il giornale cui per primo lo scrittore ha rivelato il suo passato nazista. «Al termine di 480 pagine - scrive fra l'altro l'autore - Günter Grass non ci spiega perché per sei decenni egli abbia taciuto di aver servito da diciassettenne nelle SS».


29 agosto

I conti del passato

Il giovane Grass vittima della storia - Non giudichiamolo con i criteri di oggi

Discussioni – Dai disertori inglesi della Prima guerra mondiale ai coscritti tedeschi della Seconda: le vittime stritolate nell’ingranaggio degli eventi

di Niall Ferguson

 

Papà, cosa hai fatto in guerra? Questa è una domanda che Gertrude Harris (nata Farr) non ha mai potuto fare a suo padre Harry. Quando il padre andò a combattere nella Prima guerra mondiale, lei aveva solo sette giorni. Dopo due anni passati sul fronte occidentale, lo condannarono a morte per «aver mostrato codardia dinanzi al nemico». La scorsa settimana, però, il segretario alla Difesa britannico, Des Browne, ha deciso di riabilitare Farr e più di trecento altri soldati che tra il 1914 e il 1918 furono condannati a morte per infrazioni alla disciplina militare. Se il Parlamento approverà la proposta, Harry Farr non sarà più morto da codardo. Sarà promosso (secondo le parole di Browne) a «vittima di guerra». Papà, cosa hai fatto in guerra? Senza dubbio i figli gemelli di Günter Grass gli avranno spesso rivolto la stessa domanda. Per molti anni l'autore del Tamburo di latta ha dato una risposta innocua. Raccontava che, come molti adolescenti tedeschi, negli ultimi giorni di guerra era un ausiliario in un'unità antiaerea. Era stato ferito e alla fine fatto prigioniero. In un'intervista della scorsa settimana, Grass ha però ammesso che in realtà era stato assegnato alla 10° divisione corazzata delle SS, «Frundsberg». Sì, avete sentito bene. L'eminente personalità letteraria della sinistra tedesca, che nel 1985 denunciò Helmut Kohl e Ronald Reagan perché erano andati a visitare il cimitero di guerra di Bitburg, in cui erano sepolti 24 ufficiali delle SS, si rivela egli stesso una SS, un esponente della guardia pretoriana nazista, marchiata come organizzazione criminale a Norimberga e implicata nell'Olocausto più di qualsiasi altra emanazione del Terzo Reich. Questo non significa che egli sia un criminale di guerra, dal momento che l'essere semplicemente un membro delle Waffen SS non è mai stato un capo di imputazione. Secondo la testimonianza di Grass, egli non fece nulla di più che cercare di sopravvivere negli ultimi mesi di guerra, quando la sua divisione stava tentando invano di resistere all'avanzata sovietica. Eppure queste notizie su Grass (che peraltro non hanno recato danno alle vendite della sua autobiografia) gettano una luce beffarda sul suo presunto ruolo propulsore nell'aiutare la Germania postbellica a «fare i conti con il passato». «Lei ha mostrato - dichiarò il membro dell'Accademia svedese che nel 1999 gli consegnò il Nobel - che fin quando la letteratura ricorda quel che la gente ha fretta di dimenticare, essa rimane una forza con la quale bisogna confrontarsi». Ahimè. Vergangenheitsbewältigung - fare i conti con il passato - è un'espressione molto tedesca, ma è un'attività comune a tutti. Questi due casi illustrano uno dei problemi centrali che essa comporta: il pericolo di stilare giudizi storici basandosi su un metro anacronistico. Che è poi l'errore di chi definisce le carestie indiane del XIX secolo «olocausti vittoriani», o di chi paragona al terrore di Stalin la campagna inglese con­tro i Mau Mau nel Kenya degli anni Cinquanta. Esaminiamo più da vicino il caso del soldato Farr. Ci vorrebbe un cuore di pietra per non essere commossi dal suo destino. Rimase in ospedale cinque mesi perché soffriva di shock da granata; le mani gli tremavano al punto da non riuscire a tenere una penna. Rimandato in trincea, crollò. «Se non vai fino a quel dannato fronte, ti faccio saltare quel dannato cervello», gli disse il suo sergente maggiore. «Non riesco ad andare avanti», rispose Farr. Alla corte marziale bastarono venti minuti per condannarlo alla fucilazione. Secondo gli standard attuali, il trattamento riservato a Farr fu, senza dubbio, una tremenda violazione dei diritti umani. Alcuni direbbero che i veri criminali furono coloro che lo condannarono. Ma qualcosa di simile si potrebbe dire della maggior parte delle condanne a morte, se non di tutte, della nostra storia. Se si è contrari alla pena di morte per principio, ci si potrebbe chiedere perché qualche centinaio di poveri diavoli siano stati scelti per essere riabilitati. Nel XVIII secolo, ad esempio, molti dei crimini per i quali dei giovani venivano impiccati erano solo piccoli furti. Oggi la maggior parte di quei trasgressori subirebbe non più di un ammonimento o un richiamo per comportamento antisociale. Non dovremmo riabilitare i ladri di pecore impiccati, gia che ci siamo? Durante la Prima guerra mondiale, la giustizia militare inglese era decisamente severa anche per gli standard del tempo. Ben 266 soldati britannici e coloniali furono fucilati per diserzione, 18 per codardia, 7 per aver abbandonato il loro posto e 2 per aver gettato le armi: in tutto 293 (altre condanne a morte furono eseguite per crimini di natura differente, come l'assassinio). E questa è solo una piccola parte delle tremila condanne a morte comminate dalla corte marziale, molte non eseguite. Invece in Germania vi furono soltanto 150 condanne a morte per violazioni simili, e solo 18 furono i fucilati. Gli ufficiali superiori inglesi sostenevano fosse necessario uccidere i tipi come Farr pour encourager les autres, per usare le parole di Voltaire. Durante gran parte della guerra, l'esercito inglese era stato inferiore al nemico, poiché i suoi uomini erano stati reclutati in fretta e addestrati a guerra già iniziata, ed era anche in una posizione strategica più debole, poiché era costretto a lanciare ripetute offensive contro ben difese posizioni tedesche. Eppure nell'esercito inglese il tasso di diserzione durante la Seconda guerra mondiale non fu  più alto che nella Prima, nonostante la pena di morte per diserzione fosse stata abolita nel 1930. Anzi, la media fu leggermente inferiore (7 per mille nella Seconda rispetto al 10 per mille della Prima). A fronte di questi trascorsi, qual è la situazione nell'esercito attuale, che gruppi come Military Families Against the War sostengono sia demoralizzato dall'esperienza della guerra in Iraq? Secondo le cifre diffuse dal ministero della Difesa la scorsa settimana, tra il 2003 e il 2005 sono scomparsi dalla propria unità 2030 soldati inglesi, in seguito congedati (oggi pochi di questi casi arrivano davanti alla corte marziale: i soldati assenti senza permesso, dopo un certo tempo, vengono semplicemente cancellati dai ranghi). Ne deriva un tasso di diserzione del 7 per mille nel 2005, più basso rispetto all'8 per mille del 2004. In altri termini, la pro­pensione alla diserzione dei soldati inglesi sembra molto costante nel tempo, nonostante l'ammorbidimento della giustizia militare e i profondi cambiamenti nella natura della guerra. La situazione nell'esercito tedesco della Seconda guerra mondiale era all'estremo opposto rispetto all'odierno esercito composto di volontari. Dopo esser stata relativamente liberale nella Prima guerra mondiale, nelle fasi finali della Seconda la giustizia militare tedesca divenne draconiana. La Wehrmacht giustiziò da 15 a 20 mila uomini per il «crimine politico» di diserzione o Wehrkraftzersetzung (indebolimento della capacità difensiva) e ne mandò a morte molte altre migliaia, assegnandole a «battaglioni di punizione». E in questo contesto che va collocata l'esperienza di Günter Grass nelle Waffen SS. Nel novembre 1944, quando fu arruolato, la guerra era chiaramente persa e le forze tedesche erano impegnate nel disperato, estremo tentativo di impedire che il Paese fosse travolto dall'Armata rossa. Per puntellare il morale che andava sgretolandosi, i leader nazisti misero da parte ogni remora nell'uso della pena di morte. In quei giorni anche i tedeschi erano in pericolo; quasi quanto le minoranze etniche prese di mira dai nazisti. Riabilitare i disertori della Prima guerra mondiale è quindi un gesto vuoto come condannare i coscritti della Seconda. Harry Farr e Günter Grass erano solo due rotelline nei mostruosi tritacarne della guerra totale. Ed è per questo che la vera domanda che i figli dovrebbero fare ai veterani non è «Papà, cosa hai fatto in guerra?», ma «Papà, cosa ti ha fatto la guerra?»

 (Traduzione di Maria Sepa)


10 settembre

IL CASO L'editore del «Tamburo di latta» non perdona allo scrittore il "passato nelle SS

Inge Feltrinelli: io, tradita da mio fratello Giinter  - «Grass era il moralizzatore, il predicatore, forse per questo ha taciuto»

dal nostro inviato Cristina Taglietti

 

MANTOVA - Al Festivaletteratura oggi arriva Daniel Kehlmann, trent'anni, uno degli scrittori tedeschi più noti della sua generazione (La misura del mondo, tradotto in Italia da Feltrinelli ha venduto in Germania 450mila copie) e non si può non parlare del caso che ha sconvolto il mondo culturale tedesco: la confessione di Günter Grass della sua appartenenza giovanile alle SS. Non si può soprattutto se con lui c'è Inge Feltrinelli, nata e cresciuta a Gottinga, amica storica di Günter Grass e sua prima editrice (nel 1972 pubblicò in italiano Il tamburo di latta, che per il cinquantenario, nel 2009, verrà riedito con una nuova traduzione). Inge Feltrinelli non ha ancora digerito il tradimento di quello che definisce «un fratello», Kehlmann è più freddo. Così l'incontro si trasforma in un confronto tra due generazioni lontane, accomunate però dalla convinzione che quella del nazismo in Germania sia una ferita ancora sanguinante. «Per me è stata una rivelazione terribile - dice Inge Feltrinelli -. Non riesco ad accettarla. Ho la stessa età di Günter. Abbiamo sofferto tutti enormemente dopo la guerra, quando sono emersi in tutto il loro orrore i crimini del nazismo. Abbiamo dovuto fare una sorta di rieducazione politica, lui è rimasto fino al processo di Norimberga un giovane nazista». Inge Feltrinelli al suo amico non concede neppure la scusa dell'età: «A 16 anni si è abbastanza maturi per capire che cosa succede, non si è così ingenui. Forse per Daniel Kehlmann è diverso perché non ha vissuto personalmente quei momenti». «In effetti io non ho capito subito la portata della notizia - risponde lo scrittore -. Tutto sommato non mi sembrava una colpa così orribile. Mi chiedevo: era un ragazzino, che cosa ha fatto di male? Non ha nemmeno sparato. C'è chi ha fatto di peggio. Non mi pareva minimamente paragonabile ai casi di Hamsun o di Heidegger sostenitori molto più attivi del nazismo. Poi ho capito che è soprattutto un fatto simbolico. Le SS rappresentano l'esercito del diavolo. Non puoi stare con il diavolo». Inge Feltrinelli del suo mito infranto ha parlato con molti scrittori e amici sparsi per il mondo, anche con un altro premio Nobel, Nadine Gordimer, per cercare di capire, di darsi una spiegazione: «Per noi tedeschi lui era il grande moralizzatore, il predicatore. Era il Pasolini, il Sartre della Germania. Oggi non c'è più, in tutto il mondo, un intellettuale impegnato come lui. Anche in America non c'era una voce forte, autorevole come la Sua: Bellow, Roth, Miller, nessuno ha avuto questo impatto sulla società civile. Non dimentichiamo che Willy Brandt non sarebbe diventato cancelliere senza Grass, che si è speso moltissimo per lui, gli ha fatto quasi da portavoce. È stato grazie a Günter che Brandt si è messo in ginocchio davanti al monumento dei morti del ghetto di Varsavia, un gesto storico. Gli anni dopo la guerra in Germania erano cupissimi, Grass è stato un forte catalizzatore intellettuale, un motore della rinascita civile del Paese». Forse anche un po' vittima di questo ruolo, secondo Kehlmann: «Ha preso posizioni impopolari. Si è schierato contro il '68 facendosi odiare dai giovani, poi contro la riunificazione delle due Germanie. L'impressione è che ci sia stata su di lui fina forte pressione dell'ambiente intellettuale tedesco che l'ha investito del ruolo di guru, come se la società ne avesse un bisogno vitale». Su questo punto si capisce anche la differenza tra Daniel Kehlmann e Inge Feltrinelli. Se per l'editrice la delusione è cocente proprio per quel ruolo di guida morale che Grass incarnava, Kehlmann non crede che «il compito di uno scrittore sia di essere un punto di riferimento civile» anche se, dice, «non dobbiamo dimenticare che a Borges aver incontrato Pinochet è costato il premio Nobel». Ciò che l'editrice rimprovera a Grass è soprattutto di non aver parlato prima: «Capisco che abbia avuto paura, vergogna. Ma di occasioni per parlare ne ha avute moltissime. Quando nel 1985 ha aperto la bocca per denunciare Helmut Kohl e Ronald Reagan che erano andati a visitare il cimitero di guerra di Bitburg dove erano sepolti 24 ufficiali delle SS, poteva dire "so quanto sia grave perché anch'io sono stato una SS". Invece è sempre stato zitto». All'ipotesi che Grass abbia parlato con sessant'anni di ritardo solo per fare pubblicità al libro non crede nessuno dei due. « È troppo banale, volgare - dice Inge Feltrinelli -. lo so che la casa editrice Steidl in agosto ha mandato 550 copie del libro ai giornali con l'accordo che non se ne parlasse fino al primo settembre. Poi, improvvisamente, due settimane prima, arriva questo scoop della Frankfurter Allgemeine Zeifung. Non so, c'è qualcosa che non torna. Poi sai che soddisfazione per tanti vecchi nazisti che ancora ci sono poter dire: ecco il vostro guru di sinistra che cos'era. Si sentono tante voci: anche che lui abbia voluto anticipare il fatto che nel 2007 la Stasi desecreterà i documenti degli archivi». Per Kehlmann, invece, è probabile che Grass non abbia parlato prima perché non aveva ancora trovato, anche dal punto di vista letterario, il modo per esprimere questo segreto che diventava sempre più grande. «Poi deve aver pensato che se questa cosa fosse uscita dopo la sua morte sarebbe stato peggio, non avrebbe potuto difendersi. Certo è strano che nessun altro sia riuscito a scoprirlo prima. Forse il giornalismo investigativo non è in grande forma. Anche il biografo Michael Jürgs che adesso dice di sentirsi tradito, forse avrebbe dovuto cercare di scoprirlo da solo». Che il segreto sia rimasto così ben conservato, che in sessant'anni non sia mai venuto fuori un ex-compagno, un vicino, un amico, Inge Feltrinelli lo spiega con il fatto che Grass «ha vissuto a Danzica, in un ambiente molto chiuso, isolato» in un momento di grande confusione. «Forse - dice Kehlmann - qualche indizio ce lo danno ancora i suoi libri, dove appaiono spesso, come un filo rosso, questi bambini cattivi, capaci di fare il male». Su un'altra cosa Inge Feltrinelli e Kehlmann sono d'accordo: che la confessione di Grass non può essere un passo per la riconciliazione del popolo tedesco con il proprio passato, anche più oscuro. «La cicatrice - dice Inge Feltrinelli - deve restare aperta. Come scrive Adorno, dopo Auschwitz non si può più fare poesia. Chi, come Bernard-Henri Lévy, parla di un clima di autoassoluzione collettiva che si respirerebbe in Germania, si dimostra superficiale, non sa nulla dei tedeschi».

Corriere della sera, 2006

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