Corriere della sera

Himmler, ritratto di famiglia con delitti.

La nipote Katrin: «Uomo duro e spietato ma per me non era un mostro»

CONFESSIONI Heinrich, il capo delle SS, era fratello di suo nonno: una studiosa fa i conti con un passato scomodo

L'AUTRICE «Ho sposato un ebreo e sono stata in Israele»

di Luigi Offeddu

 

«Ti prego - scriveva il professore alla "cara nonnina Anna" - bada a che i nostri 3 figli amino la disciplina, l'ordine, la moralità. Soprattutto, fai che non diventino teologi». Non divennero teologi. Ma il figlioletto mediano, il più bellino, Heinrich detto Heini, grasso e malinconico, sempre un po’ malaticcio, tanti anni dopo avrebbe scritto: «So bene che in molti mi considerano un pagano incurabile, però in fondo all'animo sono un credente: credo in Dio e nella Provvidenza». Amava i cerbiatti («La caccia? Un delitto a sangue freddo contro esseri innocenti: noi siamo l'unico popolo al mondo che abbia uno spiccato amore per gli animali»), i fiori, i tramonti. E la famiglia. «Il caro Heini - scriveva di lui l'amico Martin - ieri ha appeso le foto alle pareti di casa e ha giocato tutto il giorno con i suoi bambini. ­ Non ha fatto neppure una telefonata. Ha dedicato tutto il giorno alla famiglia». L'amico Martin, di cognome, faceva Bormann. E correva l'anno 1945, aprile, quando il «caro Heini» giocava a 4 zampe sul pavimento e lodava la Provvidenza: aveva ormai 45 anni, era già «il più grande distruttore di vite umane mai esistito sulla terra, cresciuto non nel Lumpen­proletariat ma in una vecchia famiglia della buona borghesia bavarese, culturalmente legata all'umanesimo». Così sta scritto in una delle sue biografie, che si domanda: «Dunque l'umanismo non serve?». È la stessa biografia che, un giorno, Katrin Himmler si è trovata a leggere «con angoscia». Perché il «caro Heini» non è altri che Heinrich Himmler, il fratello del nonno: «Reichsführer» o capo delle SS e della polizia politica nazista, «Mefistofele di Hitler», esecutore e pianificatore dell'Olocausto. Morto in quello stesso aprile '45, dopo 12 minuti di agonia, con un capsula di Zyankali o cianuro di potassio schiacciata fra i denti. «L'uomo senza nervi» come lo chiamò l'ufficiale americano che lo interrogò prima del suicidio, stupito della sua amabilità e freddezza. «Lo stupido, devoto, spietato, mistico Himmler» come lo chiamò Hugh Trevor-Roper. Ma per lei, Katrin, l'avo di «una famiglia del tutto normale», mai conosciuto in vita e però sempre presente nei racconti, nei diari, nelle vecchie foto color seppia conservate negli album: le stesse carte, alcune mai pubblicate, che ora ha raccolto nel libro I fratelli Himmler. Una storia di famiglia tedesca, pubblicato in Germania dall'editore Fischer; già migliaia le copie vendute, pronta una seconda edizione. Pagine private in cui si affollano molte ombre: come «Coniglietto» o Hedwig Potthast, la segretaria da cui Himmler ebbe due figli («A Natale lui mi ha fatto la dichiarazione»); o Marga, la moglie soprannominata «la donna-uomo». Katrin Himmler ha 38 anni, vive a Berlino, è ricercatrice universitaria di scienze politiche: «Lavoro sui temi del razzismo e dell'interculturalità», Il nonno paterno, Ernst, ingegnere alla radio di Berlino, era il fratello più piccolo di Gebhard ed Heinrich. Gebhard si chiamava anche il loro padre, preside di ginnasio temuto per la sua severità, orfano di un funzionario doganale (lo stesso mestiere del padre di Hitler) e precettore del principe bavarese Enrico di Wittelsbach, di. scendente di Ludwig II (Heinrich Himmler sarebbe divenuto suo figlioccio). L'ultimo maschio della stirpe è oggi il figlio bambino di Katrin: il papà è un ebreo israeliano. «Mio figlio - spiega Katrin ­ è troppo piccolo per capire. Ma non gli nasconderò nulla del passato. Fa parte della sua storia. Ho solo paura del momento in cui scoprirà che una parte della sua famiglia ha cercato di sterminare l'altra». Lei è mai stata in Israele? «Sì, varie volte, a trovare i parenti di mio marito: mai nessun problema». Quando ha scoperto chi era Heinrich Himmler? «Già da bambina sapevo che mio nonno era fratel­lo di colui che aveva ucciso milioni di uomini. Ma non ci avevo mai riflettuto davvero, Per me, fra i due, c'era sempre stato un netto confine: da una parte Ernst l'apolitico, dall'altra Heinrich il terribile. Poi, nella primavera '97, mi telefonò mio padre: gli Usa avevano restituito alla Germania gli archivi federali, avrei potuto fare io delle ricerche? Ci pensai per mesi. A mia nonna avevo chiesto solo una volta di quell'uomo in abito scuro, un po' rigido, il nonno Ernst, che stava appeso in una foto in salotto. Mi ricordavo bene di come lei era scoppiata a piangere e del mio spavento. Finalmente iniziai le ricerche». Da cui sembra affacciarsi un Heinrich Himmler a due facce: «In famiglia, con gli amici, sempre pieno di attenzioni: si prodigò per aiutare tutti. Era il suo lato migliore. Ma verso i nemici o coloro che riteneva inferiori come i popoli dell'Est, i bolscevichi, gli ebrei, era duro, spietato. Senza scrupoli. Pensava che fosse suo dovere combatterli, ne era convinto fin nelle viscere». A Himmler sono state addebitate più vittime che nella realtà, sostiene gente come il negazionista David Irving. Lei che ne pensa? «Non deve, non può fare a me questa domanda. Non so che cosa sostenga Irving nei dettagli. Certo, non è un cretino e non penso che neghi tutto. Ma se anche qualche cifra fosse stata esagerata, se anche le vittime fossero state di meno, conta il fatto che vi sono state. L'Olocausto è stato comunque un orrore». Il libro ha per intestazione una frase di Tzvetan Todoroy, «se fossimo stati alloro posto avremmo potuto diventare come loro». Perché l'ha scelta? «E una conclusione logica: Himmler e gli altri erano uomini come noi, che agivano come noi. In un'altra epoca, in un'altra circostanza, sarebbero emersi anche i loro lati buoni». Ciò diminuisce la loro colpa? «No, la responsabilità rimane. Ma come ciò sia potuto succedere, è proprio ciò che volevo esplorare, che è importante capire. Sempre». Lei l'ha capi­to? «Ho cercato di farlo. Ho capito che gli uomini non sono soltanto buoni o soltanto cattivi».

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Dispute Quell’Heidegger non è da buttare

Pierluigi Panza

 

Una «H» con i baffetti sta dividendo l’Europa: il suo nome non è Hitler, ma Heidegger. Francia e Germania si affrontano, l’Italia media. Dopo lo storico libro di Victor Farias del 1987, Heidegger et le nazisme, lo scorso autunno l’editore francese Albin Michel ha pubblicato l’ancor più radicale testo di  Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, dove si ricorda che ancora nel ’38 il filosofo sosteneva politiche di annientamento degli ebrei e che si conclude invitando a liberarsi di lui «per evitare che il nazismo continui a propagarsi attraverso gli scritti di Heidegger». La risposta tedesca, pur indiretta, appare esplicita: in occasione del trentennale della scomparsa ha inserito come obbligatorio lo studio delle opere di Heidegger nel programma per l’abilitazione all’insegnamento della filosofia nella sezione 2006. La controrisposta francese è arrivata su Le Point della scorsa settimana con La double face de Heidegger nel quale Roger-Pol-Droit – pur considerando una pluralità di posizioni – lascia intendere che ci furono compromissioni profonde e durature a partire dalla «professione di fede» del ’33. E l’Italia? La posizione è di mediazione. Bruno Gravagnuolo, su l’Unità (recensendo il libro intervista L’ultimo sciamano a cura di Antonio Gnoli e Franco Volpi) parla di una compromissione «indubitabile», lasciando intendere che ciò non annulla la validità del suo pensiero. Anche Marco Filoni, su il Riformista, è sulla stessa linea e ricorda che il filosofo ebreo Eric Weil invitava alla lettura del Mein Kampf. Insomma: sopravvalutato sì, ma non da cancellare. Come dire: con l’acqua sporca non buttiamo anche Essere e tempo.

Corriere della sera, 16 luglio 2006

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