Corriere della sera

La tentazione antisemita di tre antifascisti liberali

Croce e Merzagora attaccavano l'idea di «popolo eletto» - Omodeo assimilava «razza ebraica» e razzismo tedesco

CONFRONTI Lo scrittore discute con lo storico Roberto Finzi un aspetto controverso della tradizione biblica

di Claudio Magris

 

Storico dell'economia e del pensiero economico cui si devono, oltre a manuali e testi generali, importanti contributi scientifici su Turgot, la fisiocrazia e Adam Smith e studioso di vasti interessi e orizzonti, Roberto Finzi è anche uomo di grandi curiosità, rispecchiate da una penna che unisce alla precisione dell'indagine la suggestiva vivacità dell'esposizione. Si è occupato, ad esempio, delle contraddizioni interne ad alcune tendenze del pensiero scientifico e ha scritto un intenso libretto, Ettore Majorana, un'indagine storica, in cui analizza la reazione della comunità scientifica ai dubbi che Majorana aveva avanzato sul senso della sua e loro ricerca. La comunità scientifica reagisce compatta ipotizzando una crisi psichica oppure, il che per una certa rigida mentalità scientista è la stessa cosa, mistica, per non ammettere che un grande scienziato possa mettere in dubbio il senso, la responsabilità, le conseguenze del lavoro scientifico. Finzi si è occupato a più riprese di antisemitismo, come indicano vari libri, fra i quali L'antisemitismo e L'Università italiana e le leggi antiebraiche. In un saggio recentissimo, Tre scritti postbellici sugli ebrei di Benedetto Croce, Cesare Merzagora, Adolfo Omodeo, egli affronta alcune prese di posizione a suo avviso sconcertanti, assunte nei confronti dell'ebraismo e del problema ebraico, subito dopo la Seconda guerra mondiale, da quelle grandi personalità di provata fede antifascista. In che senso, gli chiedo, si può ravvisare una posi­zione preoccupante in quegli interventi?

Roberto Finzi: i testi cui il mio lavoro, di prossima pubblicazione su Studi Storici, si riferisce sono una lettera che Benedetto Croce scrisse nel settembre 1946 a Cesare Merzagora, poi pubblicata quale prefazione a una raccolta di articoli di quest'ultimo I pavidi (dalla cospirazione alla Costituente), edita in Milano nel dicembre 1946 per i tipi dell'Editrice Istituto Galileo. Nella raccolta di Merzagora è compreso un pezzo sulla «questione ebraica», che aveva suscitato scalpore e da cui la stessa direzione de La Libertà - il foglio liberale dove compare dapprima - sentì il bisogno di prendere le distanze e a proposito del quale lo stesso Merzagora fu costretto a una replica autodifensiva. Il suo senso lo ha ben riassunto uno studioso del futuro presidente del Senato: «Se ancora esisteva una questione ebraica ciò era dovuto alla forte tendenza degli ebrei a stringersi nella loro comunità rifiutando ogni confronto». Nel 1945 era poi uscito su L'Acropoli, rivista diretta da Adolfo Omodeo, un articolo del direttore dal titolo «La razza tedesca», nel quale, all'interno di un testo di chiara e aspra denuncia del razzismo, gli ebrei, per dirla con le parole con cui Dante Lattes polemizzò con Croce, «finiscono coll'essere non tanto i martiri quanto i rei delle iniquità commesse contro di loro». L'illustre storico, amico intimo di Croce, scriveva infatti che per penetrare il «grave pericolo dalla costituzione di una "razza tedesca" possono essere illuminanti "le vicende della razza ebraica". La similarità fra il costituirsi della razza ebraica ai tempi di Esdra e di Nehemia e il razzismo tedesco culminante nell'abominio di questa Seconda guerra mondiale». Una «razza» quella ebraica che ebbe a costituirsi «soprattutto per l'idea di una consacrazione d'Israele a Dio e alla sua legge», donde «la paura di alterazioni nello spirito di fedeltà, importate da gentili sempre inclini a forme idolatriche», e «si accentuò soprattutto per una psicologia di popolo vinto, che sentendo la propria incapacità a trionfare per virtù politica sognava d'ottenere il successo a traverso il culto di un Dio onnipotente signore della storia e artefice del sistema della provvidenza». Croce esprimeva, in quella lettera e in altri scritti precedenti e successivi, una posizione analoga. Basta una citazione: dopo avere denunciato la persecuzione antiebraica del regime fascista, Croce dice: «Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per altri italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gli altri italiani; procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire». Parlava di una religiosità barbarica e primitiva, dell'idea del «popolo eletto, che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il quale, purtroppo, aveva a suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la folle attuazione». Può dire queste cose Croce in quanto afferma a più riprese che gli ebrei «disconoscono le premesse storiche (Grecia, Roma, Cristianità) della civiltà di cui dovrebbero vènire a fare parte». Si tratta di posizioni non razziste, ché Croce e Omodeo rifiutano il razzismo come spuria forma di dottrina naturalistica, ma che stanno tutte dentro, e alimentano, quello che Simon Levis Sullam ha proposto di chiamare l' «archivio antiebraico», depositato nella coscienza collettiva e nella cultura europea attraverso i secoli. La mia analisi non è che l'analisi di un foglio di quell'archivio. La prossima sarà quella della Judenfrage di Karl Marx, su cui già ho lavorato ma in un modo che oggi ritengo molto approssimato e in parte errato. Sono inquietanti queste posizioni perché possono nutrire posizioni antiebraiche, molto più «sottili» di quelle antisemite becere. E già l'hanno fatto.

Claudio Magris: indubbiamente colpisce la mancanza di senso dell'opportunità, specie in Croce, che in questa circostanza si rivela carente di senso storico e non avverte la brutalità di parlare in quel tono dell'ebraismo immediatamente dopo la Shoah. Ma, a parte questo, cosa significa per gli ebrei, in un Paese come l'Italia e in una democrazia, assimilarsi o non assimilarsi? Gli ebrei italiani sono italiani a pieno titolo come gli altri; sarebbe barbaro discriminarli, ma anche una autodiscriminazione, una riluttanza a integrarsi sarebbero insensate. Gli ebrei non sono una «razza» diversa come delirano gli antisemiti. Non si identificano nemmeno con una religione, perché ci sono ebrei, come Spinoza, Marx e tanti altri noti o no, per i quali il racconto del Genesi o la consegna delle tavole a Mosè non suona più credibile di quanto lo sia per atei o agnostici di altra origine. Naturalmente la diaspora; le persecuzioni e tante altre cose hanno creato un rapporto esistenziale fra l'ebreo e la sua comunità e tradizione religiosa particolarmente stretto e forte anche per l'ebreo non credente, al quale l'ebraismo religioso ha dato un'identità, una forma. Detto questo, la diversità, l'identità ebraica, può e forse deve coesistere con l'assimilazione, con l'integrazione e l'identificazione con la più vasta identità statale. La splendida autobiografia di Jakob Wassermann - di cui sono uscite due versioni italiane, la prima presso le Edizioni di Storia e Letteratura e la seconda presso la casa editrice Il Melangolo - parte dalla domanda sbagliata che egli si sente porre: «Vuoi essere ebreo o tedesco?», mentre la sua identità è la loro simbiosi. E giusto vi sia un senso forte della propria peculiarità culturale, delle proprie radici anche lontane, di un universo sentimentale, morale, esistenziale (per molti, pure religioso) che si porta in se stessi, con una fedeltà che peraltro non isola dal resto del mondo, che fa sentirsi diversi ma - nella propria forma peculiare - così come ognuno, ogni tradizione, sono diversi e non «più diversi» di altri gruppi. Forse è questo che Croce auspicava? E se è negativo, come resisterle senza cadere nel regressivo particolarismo della febbre identitaria? Sono gli antisemiti ad accusare gli ebrei di voler restare estranei per poterli appunto considerare estranei; Gombrich, ricorda Giorgio Pressburger, ha detto una volta che il più grande esperto di identità  ebraica è stato Adolf Hitler.

Finzi: la domanda da farsi è quella proposta da Sartre, che all'indomani dello sterminio degli ebrei d'Europa da parte dei nazisti, e dei loro accoliti italiani, polacchi, romeni e via elencando, invitava a guardare, per capire, non agli ebrei ma agli antisemiti. Sotto un certo profilo, certo paradossale, ha ragione Gombrich: l'identità ebraica è di continuo ridefinita – pensa all'invenzione del mischling – e rialimentata dall'antisemita: Dopo la «emancipazione» degli ebrei il processo di assimilazione era, almeno in Occidente, un processo in atto, con una forza così notevole che alla lunga, dirà Otto Bauer, si compirà in modo inevitabile perché prodotto di «quella forza misteriosa che (...) ravvicina l'uomo alla donna». Ma proprio nel cuore dell'Europa dell'emancipazione nel 1894, con l'affaire Dreyfus, il bubbone si ripresenta e infetta l'intero corpo sociale. L'avanguardia artistica si divise fra dieyfusardi, che come Monet e Pissarro si schierarono con Zola e il suo J'accuse, e antidreyfusardi come Cézanne, Degas, Renoir e Rodin. Antisemiti furono grandi innovatori come Richard Wagner ed Henry Ford, tratti di cultura antisemita si trovano in Ettore Majorana. E l'elenco potrebbe continuare a lungo. Insomma il pregiudizio e gli stereotipi antiebraici rappresentano un esempio straordinariamente evidente e documentato dell'operare della longue durée nell'immaginario collettivo, per nulla esorcizzati dal­la «modernità», dall'«avanguardia», dal valore estetico o dalla capacità analitica. Poi c'è il discorso dell'altra metà - numericamente maggioritaria - dell' ebraismo, quella dell'impero zarista, in cui l'identità in un periodo di straordinari sconvolgimenti sociali è alimentata dal perdurare della discriminazione. Fino al 1917 circa 650 leggi discriminatorie. Qui prende forma l'idea dell'ebraismo come nazionalità. Sono gli ebrei una nazione? Joseph Roth nel 1927 scriveva «basta la volontà di alcuni milioni di uomini per formare una nazione che prima magari poteva anche non essere esistita». Ma vorrei sottolineare che l'idea nazionale ebraica fino alla rivoluzione d'Ottobre e, specie in Polonia, fino al secondo conflitto mondiale si esprime - in particolare attraverso il Bund, il partito socialista ebraico ­ prevalentemente come richiesta di autonomia culturale e amministrativa all'interno dei Paesi dove gli ebrei vivono. È dunque ben vero che non ci si deve chiudere in se stessi e farsi assalire dalla febbre identitaria, ma come si può accettare di rinunciare alle proprie radici sotto la pressione della discriminazione o anche solo non dirò dell'insulto, ma della deformazione malevola e astiosa della propria storia? Croce, mi spiace dirlo, questo ha fatto e lo ha fatto dopo la Shoah, con un linguaggio per cui l'assimilazione non era il portare un nuovo elemento a un'identità collettiva «meticcia» come quella di ogni popolo, ma il rigetto di sé e della propria storia. Basta pensare a quanto dice a proposito del «popolo eletto».

Magris: accomunare il popolo eletto della tradizione ebraica al «Gott mit uns» nazista (o ad altre moderne pretese di primato, di superiorità e di dominio da parte di altri popoli) è scorretto in quanto antistorico (ancora una volta un grande maestro di storiografia che manca di senso della storia). Sono cose nate a distanza di millenni, in contesti sociali e civili del tutto diversi, che non possono essere messe sullo stesso piano. Comunque, ci sono civiltà cui spetta, in certe epoche, un ruolo fondamentale nel cammino dell'umanità e certamente nella creazione del monoteismo ebraico è accaduto, per quel che riguarda l'intuizione del rapporto tra l'uomo e Dio, qualcosa di particolarissimo, forse unico, che ha cambiato il senso del mondo. Fatte queste due premesse, sarebbe forse bene che, quale base di dialogo e tolleranza, nessuna cultura, tradizione o religione si considerasse più eletta di altre. Le grandi conquiste dello spirito umano nascono nel contesto dell'una o dell'altra civiltà, ma appartengono a tutta l'umanità. La grandezza di Abramo è un'eredità spirituale che appartiene a tutti, non meno che a coloro i quali possono considerare o ipotizzare di essere i suoi diretti discendenti. Può essere questo il senso dell'obiezione di Croce alla rivendicazione del popolo eletto?

Finzi: sono completamente d'accordo sulla tua considerazione. Croce pensava questo? Se lo pensava si è espresso in maniera particolarmente poco felice. Personalmente però credo che avesse un'altra visione dell'ebraismo come - lo si è visto - un qualcosa che fosse senza storia, chiuso in sé. Sennò perché parlare di rifiuto delle basi della civiltà occidentale? Lasciamo stare che della civiltà occidentale una delle radici è certo l'idea monoteista, ma davvero gli ebrei hanno vissuto duemila anni come pietrificati nelle loro antiche usanze? La vita di varie, complesse e distinte comunità non si misura certo con i soli riti!

Corriere della sera,  7 maggio 2006

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