Corriere della sera

Antisemitismo. Memorie di un cattolico pentito. Confessioni. Lo storico  De Rosa racconta una sua giovanile compromissione con la politica antiebraica del fascismo. E il modo in cui guarì dalla “malattia”. «Era un goffo, scriteriato libercolo sul sionismo, scopiazzato di qua e di là»      

di Gabriele De Rosa

La punta più alta del consenso al fascismo avvenne in seguito alle sanzioni comminateci dalla Società delle Nazioni per la guerra contro l'Etiopia. Ho ancora bene in mente la massiccia cerimonia dei versamento dell'anello alla patria. La conquista di quelle terre sembrò agli italiani una buona causa, apriva la porte ai bravi contadini dissodatori veneti, così come era avvenuto in Libia, dove ne incontrai più di uno nella nostra avanzata che si concluse nell'ottobre del 1942 disastrosamente a El-Alamein. Angelo Roncalli difese, in polemica con i fratelli, l'impresa di Etiopia. Insomma veramente il consenso fu allora massimo, mentre da Londra Luigi Sturzo protestava pèrché quella guerra violava il diritto internazionale. Solo l'approfondimento della storia del Novecento del “secolo breve” come spesso torna a ripetere - ma che breve non fu - può aiutarci a dipanare tutti gli equivoci, le ambiguità, le contorsioni ideologiche, anche ai livelli più alti, che furono escogitati, inventati per garantire - ed era falso - la continuità e la salutare lezione di una «rivoluzione» che avrebbe salvato l'immagine di una grande Nazione italiana, ordinata ed eroica ... Quando il fascismo varò le leggi sulla razza io ero allora matricola universitaria fascista. Avevo un modesto ufficio sui problemi del lavoro e del sistema corporativo presso la Federazione fascista di Alessandria. Mi fu dato il compito di scrivere qualche articolo su questa disgraziata legge e io ubbidii, scopiazzando qui e lì, in gran fretta, la letteratura antiebraica, protestando perché si pensava di fare un «focolare ebraico» in Palestina, dove era stato crocefisso Gesù. Ne uscì fuori un goffo scriteriato libercolo, insensato, che non trovò nemmeno un modesto editore di provincia, comparve e scomparve in provincia. L'avevo fatta veramente grossa. Ci furono, grazie a Dio, persone di buon senso che mi fecero capire l'insensatezza che avevo commesso, e fra questi un nome desidero ricordare, Dino Tabet, avvocato della mia famiglia, ebreo, con il quale divisi denaro per sopravvivere e il timore dei nazisti durante l'occupazione di Roma. Non c'è nessuna abilità scrittoria che possa raccontare il subbuglio, l'introversione, il dramma interiore che mi travolse allora. Di questa mia triste vicenda, errore e peccato insieme, si parlò nel 1963, quando divenuto docente universitario, qualcuno - non a caso - risuscitò il libercolo. Se ne discusse in seno alla redazione del periodico dell'Istituto della Resistenza. Mi aiutarono Ferruccio Parri e Alessandro Galante Garrone, che sapevano bene la storia drammatica della gioventù durante il fascismo, ma anche della partecipazione di tanti giovani alla guerra di liberazione e alla Resistenza. Il mio «risveglio», se vogliamo chiamarlo così, incominciò nel 1941, in un luogo che potrebbe sembrare il meno adatto per una seria riflessione: in un campo di addestramento militare, a Civita Castellana (Viterbo) e subito dopo ad Arezzo, nella caserma dove si svolgeva il corso preparatorio per allievi ufficiali granatieri. Quei mesi, circa un anno (luglio 1941- giugno 1942), rappresentarono per me lo svelamento della realtà e con esso della natura, del costrutto ideologico del fascismo. I colloqui, gli scambi di idee, l'appassionamento che suscita quel parlare aperto, serrato, convinto fra i giovani, di diversa provenienza culturale, alcuni già antifascisti, con i segni anche nel volto della rivolta morale e politica, fu un evento drammatico. Il mio ricordo riconoscente va particolarmente a un giovane napoletano, si chiamava Galdo Galderisi, deceduto poi in Albania durante la guerra, crociano, che mi aiutò a rileggere Croce: non solo quello dell'Estetica, ma soprattutto della Storia d'Italia, e a capire Marx. Non fu facile ripercorrere la storia d'Italia dalla crisi dello Stato liberale al fascismo con le esitazioni e le illusioni della vecchia classe dirigente, e della troppo duttile borghesia, conservatori e clerico moderati, che avevano avallato la «cura» del fascismo. La guerra combattuta fece il resto, partorì in me e in tanti giovani coetanei, ma tanti, la rabbia, che si fece acuta quanto più si approssimava l'imminenza della catastrofe. Sì, il fascismo aveva perso la scommessa, non aveva calcolato bene come e quando ci si sarebbe seduti al tavolo della pace per dividersi con Hitler il mondo. Ma non sarebbe stato solo catastrofe per l'Italia, ma per l'intera Europa e per il suo cristianesimo, fatto a brandelli: la data come un marchio indelebile fu quella del 27 gennaio 1945, quando i soldati russi aprirono i cancelli del campo di Auschwitz e si accorsero che Dio lì dentro non c'era.


 Intellettuali e razzismo. «I tanti filoni del conformismo: chi si adeguò, chi aderì con zelo»

di Cesare Medail

Il brano pubblicato in questa pagina, dove Gabriele De Rosa confessa di avere scritto un «libercolo» antiebraico dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste (1938), proviene dal volume di interviste Cattolici, Chiesa, Resistenza curato da Walter E. Crivellin per conto dell'Istituto Luigi Sturzo, di cui lo stesso De Rosa è presidente. Lo storico cattolico racconta di aver scritto quel testo quando era universitario; ma non fu certo l'unico a cimentarsi sulla razza. Michele Sarfatti, lo storico ebreo autore del saggio Gli ebrei in Italia durante il fascismo (Einaudi), dice che dopo le leggi razziali «vi fu una vasta adesione alle idee antisemite tra gli universitari». Senza entrare nel caso De Rosa, che fra l'altro partecipò alla Resistenza, Sarfatti distingue fra i tipi di adesione: «Si andava dal semplice adeguamento al vero e proprio zelo. Il Paese si stava antisemitizzando secondo percorsi complessi, anche perché alcuni di quei giovani passarono poi alla Resistenza ripudiando la partecipazione al fascismo. Ciò che colpisce, però, è l'assenza di autocritica pubblica dopo la Liberazione». Sarfatti ricorda che i primi scritti storici sulla persecuzione antiebraica arrivarono tardi: una serie di articoli di Antonio Spinosa su Il Ponte (metà anni  '50) e La storia degli ebrei sotto il fascismo di Renzo De Felice (primi anni '60), che suscitarono polemiche perché facevano nomi e cognomi. «Era come se il Paese avesse voluto dichiarare chiuso dall'alto tutto quel periodo, mentre la diffusione della mentalità antisemita poteva essere combattuta solo con un'analisi pubblica di quel passato». Lo storico dell'ebraismo non ritiene che quella produzione antisemita avesse fondamento religioso: «C'era sì un filone di provenienza cattolica, ma ve n'erano altri di origine nazionalista, positivista o fascista pura». Nell'intervista, però, il giovane De Rosa dice che scriveva contro l'idea di «un focolare ebraico in Palestina, dove era stato ucciso Gesù». Sarfatti conferma che l'avversione a uno Stato ebraico in Terrasanta era «molto più riconducibile a settori del mondo cattolico che ad altri ambienti». Non è questo che lo preoccupa, ma piuttosto la paura che «quanti ricordano pubblicamente quel passato siano, ancora oggi, una minoranza».

Corriere della sera, 13 novembre 2000

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