«Scendemmo
dal vagone e abbracciai la mamma. Il giorno stesso fu gasata. La testimonianza. Perdere a scuola la solidarietà dei
compagni fu il vero segno della fine»
di
Cesare Medail
«Se esiste solidarietà,
non si possono deportare e uccidere
sei milioni di uomini com'è avvenuto in Europa. Può accadere solo se gli
altri stanno a guardare dietro alla finestra: se sulla solidarietà prevalgono
l'indifferenza e l'egoismo umani, vi saranno altre Auschwitz», dice Nedo Fiano,
sopravvissuto al lager dove furono uccisi undici suoi familiari. La perdita
della solidarietà dei compagni di scuola, infatti, fu il primo segno doloroso
di un'odissea cominciata nel '38 quando venne espulso tredicenne dalle medie
fiorentine in seguito alle leggi razziali. «Solidarietà», dunque, e «libertà come bene irrinunciabile» sono le
idee-forza che Fiano (75 anni, oggi consulente di marketing a Milano) ha tratto dalla
tragedia che ripercorre sul filo della memoria: «Fino
al 1938 la mia famiglia non ebbe alcun problema: mia madre Nella gestiva una
piccola pensione a Firenze, mio padre Olderigo era funzionario delle Poste, mio
fratello impiegato in un albergo. Con le leggi del'38 cambiò tutto: alla mamma
tolsero la licenza, il papà fu licenziato, io persi la scuola anche se potei
frequentare con altri ragazzi ebrei una piccola scuola creata da docenti ebrei
della comunità fiorentina. In quei cinque anni, conoscemmo tutte le restrizioni
possibili: niente telefono, radio, niente villeggiatura. «Con la guerra, poi, fummo sempre più emarginati anche se
qualche italiano non ci aveva cancellato. Le famiglie ebree si ritrovavano solo
nelle ricorrenze religiose ma erano come isole». Dopo la «boccata di ossigeno» delle settimane comprese fra il 25 luglio e
l'otto settembre '43, i tedeschi occuparono militarmente l'Italia e cominciò la
caccia all'ebreo: «Mio zio e mia zia furono arrestati in novembre; noi restammo nascosti
da generosi amici fiorentini, ma in febbraio feci la fesseria di uscire e mi
arrestarono. Poi fu la volta dei miei genitori, di mio fratello, sua moglie e il
loro bambino di 18 mesi. La nonna di ottant'anni fu portata via insieme agli
altri anziani e a tutto il personale da una casa di riposo ebraica». Nella prigione fiorentina, i Fiano non sapevano nulla l'uno dell'altro. E Nedo,
che non riusciva a rendersi conto di quanto accadeva, riabbracciò i genitori
nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena: «All'inizio non
sapevamo nulla, speravamo di restar là e mi pareva un fatto positivo aver
riallacciato i legami. Mio fratello però, sua moglie e il bambino erano saliti
sul treno per Auschwitz il giorno prima che io arrivassi a Fossoli. Non li avrei
più rivisti. Ma non avevamo ancora idea del genocidio, del piano di sterminio
progettato per il nostro popolo». Questo era lo stato d'animo quando Nella, 0lderigo e il
diciottenne Nedo Fiano, il 16 agosto 1944, salirono sul vagone piombato. con una
cinquantina di persone accalcate nello spazio destinato a una dozzina di
cavalli: un viaggio di sette giorni in cui lo spettro della tragedia cominciò a
prendere forma: «La mamma, per natura e serena, dava prova di grande forza, ma
poco a poco i disagi alimentari, igienici, le durezze della scorta, l'ansia
dell'ignoto sconvolsero la mente, di tutti. Quando scesi, io non ero più lo
stesso che era salito. Appena giunti ad Auschwitz, ci parve di essere entrati in
un'altra, disumana dimensione, vittime della perversa volontà d'infierire
sull'animo delle persone in modo da trasformarle in animali. La violenza fisica,
insomma, era il mezzo per distruggere intimamente l'uomo. Quando divisero le
donne dagli uomini, abbracciai per l'ultima volta mia madre che fu gasata e
cremata il giorno stesso dell'arrivo. Il caso volle che, quando ci passarono
al filtro, mi capitasse un sergente maggiore il quale, nell'apprendere che
venivo da Firenze, si mise a decantarne le bellezze artistiche e mi assegnò,
visto che sapevo il tedesco, a una squadra interpreti. Il papà, invece, non
passò il filtro e fu gasato poco tempo dopo». Dopo Auschwitz, Nedo Fiano passò per altri sei campi nazisti
prima di essere liberato a Buchenwald nel marzo 1945. L'odio razzista gli aveva
ucciso i genitori, il fratello, la cognata, il nipotino, gli zii, la nonna e
altri parenti: «Non era rimasto più nessuno. Tornai a Firenze funestato dalla perdita di tutti, ma consapevole di aver vissuto una
tragedia senza precedenti nella storia dell'umanità. Quell'esperienza di uomo
privato della libertà, degli affetti, sbattuto in quello che chiamavamo "anus
mundi", andava raccontata all'infinito». E un racconto che Nedo Fiano ripete da più di mezzo secolo a scuole, comunità,
in tutte le occasioni possibili. «Per dovere di solidarietà», dice, verso
quelli che verranno.