Patria indipendente

testi - Il museo Cervi

Speciale Museo Cervi

Nella storia della famiglia Cervi il sofferto percorso dell’emancipazione contadina e le radici della Repubblica e della democrazia italiana

 

di Lucio Cecchini

Contadini e Resistenza

Una visione tradizionale quanto consolidata dipinge il mondo contadino come una sorta di universo isolato, chiuso in se stesso e, soprattutto, sordo e ostile rispetto alle novità e in particolare a quelle di segno rivoluzionario. Ne deriva uno schema in cui la città e i lavoratori di città, operai e artigiani, rappresentano il fattore di spinta e di innovazione, anche sotto l'aspetto del conseguimento di una certa coscienza di classe e di un certo livello organizzativo, attraverso gli strumenti del mutuo soccorso, della cooperazione e della resistenza, mentre la campagna, succube dell'influenza del clero e dei proprietari, è l'elemento di freno, di conservazione, talvolta di violenta opposizione alle iniziative pericolose dei "novatori", colpevoli di turbare la sonnolenta pace sociale, fatta di adeguamento passivo e di rinuncia. La saggezza tradizionale della campagna diviene perciò sostanziale conservatorismo, mentre i lavoratori agricoli sono incapaci di iniziative, se non riconducibili allo scoppio improvviso di una jacquerie senza obiettivi e prospettive. Questa lettura della storia ha le sue giustificazioni. Basti pensare al ruolo delle campagne nel Risorgimento, che spesso si qualifica soprattutto come controrivoluzionario. Con eccezioni cospicue. Nel 1849, caduta la Repubblica romana, è tutt'altro che marginale la presenza attiva dei contadini nella "trafila" che, tra Ravenna e Forlì, permette a Garibaldi di sfuggire a tutte le ricerche di due polizie particolarmente "occhiute", come quella pontificia e quella austriaca.

La mistificazione della “Zona Grigia”

La visione di cui stiamo discorrendo ha investito - ed era inevitabile che così fosse - anche la Resistenza. Nell'ultimo volume della sua sconfinata biografia di Mussolini e in altre opere, Renzo De Felice, senza dubbio il più intelligente degli storici revisionisti, si diffonde a lungo sulla cosiddetta "zona grigia", al cui interno si sarebbe mossa la stragrande maggioranza degli italiani, non schierati da una parte né dall'altra e soltanto impegnati a sbarcare il lunario e a dedicarsi alla difficile arte di sopravvivere nella tremenda temperie di metà degli Anni Quaranta. Mentre Resistenza e adesione alla repubblica di Salò sarebbero stati fatti marginali che riuscirono a interessare una quota abbastanza trascurabile, dal punto di vista numerico, della popolazione italiana. Per questo aspetto è già stato rilevato che la tesi defeliciana è piuttosto forzata. Infatti, se si tiene conto che la Resistenza ha interessato direttamente soltanto una parte delle regioni italiane, se si considera che il movimento partigiano ha finito per assumere dimensioni nell'ordine delle centinaia di migliaia di unità direttamente impegnate, se si ricorda l'apporto dei reparti dell'esercito sorpresi all'estero dall'8 settembre e che tra i seicentomila militari internati nei campi tedeschi soltanto una minoranza, questa sì davvero marginale, aderì a Salò - e spesso come pretesto per tornare in Italia e, alla prima occasione, disertare e magari passare alle Resistenza - si arriva alla conclusione che, in effetti, il movimento antitedesco ed antifascista ha coinvolto, in modo diretto e indiretto, milioni di persone. Peraltro, lo storico in questione, immessosi in questa china, è giunto ad affermare che in molte zone del Nord Italia la Resistenza ebbe tra la gente un consenso non superiore a quello della repubblica di Mussolini. Su tutt'altro versante ­ e a nostro giudizio giustamente - "uno che c'era", Giorgio Bocca invece ha scritto: « Il fatto nuovo, decisivo, non ignorabile non era solo e tanto quello militare, ma il consenso di popolo. In tutte le guerre di liberazione del pianeta, in tutti i continenti il consenso popolare è stato l'elemento determinante, ha sconfitto tanto le grandi ideologie imperialistiche nel Vietnam come le comuniste nell'Afghanistan, ha avuto la meglio sulle armi più potenti, sugli eserciti più organizzati, è stato l"'acqua" in cui la ribellione ha potuto nuotare. Qui si può dire che solo chi c'è stato ha potuto sentire la protezione decisiva di questo consenso. Un solo esempio, una sola citazione personale: 1° dell'anno del 1945. Con una brigata di Giustizia e Libertà ci trasferiamo, di notte, dalla Valgrana alle Langhe, un'ottantina di chilometri a piedi nella neve, passando davanti a decine di cascine, fermandoci a riposare, ospiti di contadini sconosciuti, sicuri che non avrebbero parlato. E lo confermano i fascisti di Salò che si sentivano "stranieri in patria" e lo dicevano nelle loro canzoni: "Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia nera"». Ma c'è di più. L'Italia è l'unico Paese sotto occupazione tedesca in cui si svolgano scioperi di massa. Di fronte a questa realtà non smentibile, gli storici revisionisti hanno subito scoperto che quelle agitazioni avevano ragioni esclusivamente economiche e salariali. Come se fosse credibile che decine di migliaia di persone abbiano rischiato la pelle, o quanto meno la deportazione in Germania - perché queste erano le conseguenze concrete e dichiarate dall’occupante, che spesso non ebbero seguito soltanto data l'imponenza dei fenomeni - solo per una manciata di lire in più. Matera insorge quando gli alleati sono ormai a un tiro di schioppo. Il popolo napoletano, famoso in tutto il mondo per la sua capacità di "arrangiarsi", fa la stessa cosa mentre sono udibili in città i colpi di cannone della linea del fronte che si sta avvicinando. E ancora Nola e tante altre località in circostanze analoghe. Che senso avrebbe tutto questo? Sarebbe bastato aspettare qualche giorno, e talvolta addirittura solo poche ore, perché gli anglo-americani risolvessero il problema, senza dolorosi costi aggiuntivi per una popolazione che aveva abbondantemente "già dato". Che in un Paese abitato da milioni di persone ci sia una "zona grigia" è inevitabile e assolutamente normale. Ma che questo sia l'elemento distintivo di una situazione non è supportato da nessun elemento di fatto. Quello della "zona grigia" è un teorema che assolutamente non regge alla più elementare delle verifiche. Ancora De Felice sostiene che, dopo un periodo, per così dire, di "luna di miele", i partigiani, cresciuti notevolmente di numero, ebbero problemi con la popolazione civile, soprattutto dal punto di vista di un difficile approvvigionamento, che poteva realizzarsi soltanto attraverso la divisione tra la popolazione stessa e i protagonisti della Resistenza delle scarse risorse disponibili. Questo tipo di rilievo fu fatto anche dagli Alleati, sia pure sotto angolazioni almeno in parte diverse. Il 16 agosto 1944 l'inglese John McCaffery, incaricato dei rapporti con i partigiani, scrisse a Ferruccio Parri: «Molto tempo fa ho detto che il più grande contributo militare che potevate portare alla causa alleata era il sabotaggio continuo, diffuso, su vasta scala. Avete voluto delle bande. Ho appoggiato questo vostro desiderio, perché riconoscevo il valore morale di esso per l'Italia. Le bande hanno lavorato bene. Lo sappiamo. Ma avete voluto fare degli eserciti. Chi vi ha chiesto di fare così? Non noi». Gli alleati avevano il problema di rifornire di armi e di altri generi formazioni sempre più consistenti. Ma avevano anche l'esigenza di non trovarsi di fronte, per il dopo, per la fissazione delle condizioni del trattato di pace, un movimento partigiano troppo forte e autorevole, che avrebbe indubbiamente giocato un ruolo importante nei rapporti tra i vincitori della guerra e un Paese, prima nemico, poi cobelligerante e anch'esso impegnato all'abbattimento del nazismo e del fascismo. Ma, tornando a noi, e senza sottovalutare minimamente quanto scritto dall'illustre storico reatino, come si sarebbe giustificata la decisione dei vertici della Resistenza di passare dallo schema delle "bande" a quello delle "formazioni" che tendevano a liberare - e liberarono - talvolta in modo permanente porzioni del territorio nazionale con il varo di governi e di "repubbliche" locali? Questa linea di tendenza sarebbe stata praticamente impossibile, oltre che suicida, se non avesse potuto contare sulla solidarietà attiva e operante della grande maggioranza della popolazione e, soprattutto, data la dislocazione delle formazioni partigiane, della popolazione contadina. C'è un'altra considerazione, per così dire, "a posteriori", sempre di De Felice, sulla quale vorremmo fermarci un momento. È quella secondo la quale una popolazione stanca, scontenta e non più in grande sintonia con il movimento resistenziale, avrebbe voltato sostanzialmente le spalle a questo movimento, votando nel 1946 in modo massiccio per la Democrazia Cristiana e penalizzando i partiti che si erano impegnati in modo più diretto e massiccio nella Resistenza stessa e che ad essa avevano dato il maggior contributo. Anche questo rilievo mostra la corda, se si riflette che l'ondata di voti democristiani ha riguardato, nel 1946, soprattutto le regioni meridionali, e non quelle del Centro Nord nelle quali si era svolta prevalentemente la lotta armata. Se fosse vera la tesi dello storico, sarebbe dovuto avvenire il contrario le forze resistenziali avrebbero dovuto essere penalizzate soprattutto là dove più marcata era stata la loro presenza e inevitabilmente maggiori, quindi, le asserite incomprensioni e i conflitti con il mondo civile. Allora, delle due l'una: o la tesi del mondo contadino impermeabile alle novità e intimamente conservatore e reazionario non è mai stata vera, oppure essa riceve una smentita palese ed aperta proprio dalla Resistenza. Che, quindi, avrebbe operato nei confronti di questo mondo con caratteristiche sostanziali di "rivelazione", facendo emergere da una scorza diffusa in superficie, tendenze, aspirazioni e valori rimasti sopiti nelle campagne nelle esperienze precedenti. Ci sforzeremo di sciogliere questo interrogativo proprio partendo dal significato di una vicenda come quella dei fratelli Cervi.

Una riflessione e una proposta

Prima di tentare di riassumere per i lettori di Patria indipendente le vicende che hanno impresso in modo indelebile il nome dei Cervi nella storia del nostro Paese, vorremmo porre un'esigenza. Purtroppo, allo stato delle fonti, poco o niente sappiamo dei sette martiri presi individualmente, della loro personalità, del loro carattere, delle differenze che tra loro dovevano esserci, pure in un contesto familiare eccezionalmente unito. In effetti, mentre la figura del padre si staglia con grande nettezza, probabilmente anche in ragione della sua longevità (è morto nel 1970, a 95 anni), si parla sempre dei sette frate quasi fossero un'unica entità. Non c'è dubbio che da questo punto di vista abbia inciso la sorte tragica che li ha accomunati. Ma un certo influsso l'hanno esercitato anche gli interpreti e quanti hanno scritto su di loro. Forse è inevitabile che sia così, di fronte a una tragedia di queste dimensioni. Tuttavia, anche uomini di immenso spessore culturale hanno contribuito, nella creazione di quello che - a nostro parere con termine inadeguato ­ qualcuno ha definito il "mito" dei sette fratelli emiliani. Nulla è da concedere al mito. Come ha scritto Salvatore Quasimodo, non si tratta di cantare le sette stelle dell’Orsa, ma i "sette emiliani dei campi". Che vogliamo riuscire a vedere uomini fino in fondo, al lavoro sulla terra e in azione contro i fascisti e i nazisti. Insomma, i Cervi sono rappresenta­ti come una sorta di entità unica e indistinta. Sappiamo abbastanza di Aldo, il leader della famiglia, il sognatore, il più aperto alle curiosità culturali, in questo, probabilmente, erede dell'inventiva e della fantasia materna. Sappiamo qualcosa di Gelindo, bonario e scherzoso. Quasi niente degli altri cinque. È un tema che vorremmo suggerire all'Istituto Cervi, per una ricerca ­ forse ancora possibile anche a livello di testimonianze - più puntuale e mirata sulle individualità che non possono e non debbono essere offuscate e cancellate dal fatto che tutti e sette insieme i fratelli sono stati abbattuti dal piombo di quelli che Luigi Einaudi ha definito «nemici degli uomini».

Una famiglia contadina del Reggiano

È il 1934 quando i Cervi giungono al podere "Campi Rossi" di Gattatico. Il padre, Alcide, è già anziano, ha 59 anni. Sono con lui la moglie, Genoveffa Cocconi, chiamata familiarmente "Genoeffa", e ben nove figli: Gelindo 33 anni, Antenore 30, Diomira 28, Aldo 25, Ferdinando 23, Rina 22, Agostino 18, Ovidio 16, Ettore 13. È una famiglia patriarcale di contadini emiliani come allora ce n'erano tante e come oggi è difficile trovare. Ma già con qualche peculiarità degna di nota. Il padre, Alcide, racconta di aver fatto tanti "San Martino", alludendo con questo ai cambiamenti di poderi che di solito avvenivano in novembre, in coincidenza, appunto, con la festa del santo. Prima di divenire mezzadro, Alcide è stato bracciante agricolo e il più delle volte gli spostamenti, i "San Martino" sono avvenuti in seguito al rifiuto dei proprietari di apportare ai terreni le migliorie suggerite dal contadino, secondo la miope visione dei "padroni", questi sì spesso sordi nei confronti del progresso e legati alla filosofia dei soldi, magari pochi, maledetti, ma subito. È accaduto così anche nella precedente destinazione dei Cervi. L'arrivo ai "Campi Rossi" è importante non soltanto perché in questo luogo si è consumata la tragedia di cui ci stiamo occupando, ma perché con esso si realizza un'aspirazione di fondo dei lavoratori della terra, vale a dire la liberazione dal giogo immediato della dipendenza diretta dal padrone. Infatti, i Cervi lavorano questo appezzamento come affittuari, non più come mezzadri.

 “Contadini di scienza”

Ci siamo fermati su queste circostanze, in apparenza secondarie, perché la famiglia Cervi si contraddistingue per un'ansia di miglioramento, una "curiosità" verso i nuovi ritrovati della tecnica, una particolare sete di apprendimento. In casa loro non si trovano soltanto i romanzi d'appendice come il Guerin meschino o I reali di Francia cui per tanto tempo si sono limitate le letture dei nostri contadini, ma I promessi sposi, La divina commedia, la Bibbia ed anche opere di autori russi, di Victor Hugo e di altri scrittori stranieri. È soprattutto la madre, Genoveffa, a intrattenere la famiglia, nelle lunghe serate d'inverno, con le "fole", che in realtà non sono soltanto favole, ma anche letture di lavori di indubbio spessore. Ma quello che soprattutto colpisce è il fatto che la famiglia Cervi è abbonata anche a riviste scientifiche, come La riforma sociale diretta da Luigi Einaudi. La famiglia intanto cresce. Quattro dei fratelli si sposano e portano in casa le nuore, nascono i primi nipoti. Il podere è grande, più di 20 ettari, e se è vero che non mancano le braccia, c'è il problema che il terreno è tutto a buche e dossi, dove l'acqua ristagna, facendo infradiciare i raccolti. Allora i Cervi concepiscono un piano avveniristico: bisogna livellare, dare la pendenza giusta perché l'acqua possa defluire, scavare adeguati canali di irrigazione. È un programma temerario, guardato con scettica e divertita incredulità dai vicini, i quali assistono all'impresa scotendo la testa e dicendo, sia pure bonariamente, che i Cervi "sono usciti pazzi". È interessante notare che Luigi Einaudi, allora presidente della Repubblica, in un articolo pubblicato da Il Mondo nel 1954, dopo l'incontro con Alcide, ha ricordato che anch'egli, da proprietario, aveva vissuto un'esperienza simile e che anche di lui si diceva che avesse perso la testa. Il piano riesce, gli scettici sono smentiti e il podere diviene un appezzamento modello, con una produzione che aumenta a forte ritmo anno dopo anno e con i vicini che si sforzano di seguire l'esempio di quella famiglia di "scombinati". E ancora, i Cervi sono tra i primi, nella zona, ad acquistare un trattore sul quale Aldo innalza un mappamondo, simbolo, appunto, di una singolare ansia di conoscere e di sapere.

La bonaria ironia di Alcide

Fonte fondamentale per ricostruire le vicende di questa famiglia è il libro di memorie che Alcide Cervi ha dettato nel 1954 a Renato Nicolai. Noi l'abbiamo letto in una delle tante ristampe (I miei sette figli, Editori riuniti 1989). È un volumetto che si legge tutto d'un fiato, come un romanzo. Sandro Pertini, nella prefazione, ne ha scritto: «Ciò che colpisce ancora oggi, in questo racconto è in primo luogo l'arguzia, l'allegria, direi la virile felicità con cui la famiglia Cervi visse dal principio alla fine la sua tragica avventura. Non c'è una riga del libro che tradisca un atteggiamento vittimistico, un rimpianto, un compiacimento eroico». Anche a noi pare così. Soprattutto c'è un'arguzia bonaria che ritroviamo in tutte le pagine. Alcide racconta che, quand'era militare, il suo reggimento doveva partire alla volta della Cina per la spedizione contro i boxer. Ma la destinazione non si conosce. Il nome boxer viene immediatamente storpiato, non si sa come, in quello di "boeri". Ma nessuno sa chi siano e dove siano i boeri. Finché un commilitone, equivocando, scrive alla famiglia dicendo che lo mandano a combattere contro i "boari". Chissà quale allarme tra i suoi congiunti contadini, perché i "boari" si sa bene chi sono ed è tutt'altro che facile capire la logica di una guerra contro di loro. Un altro episodio gustoso riguarda il suo incontro con il vescovo di Reggio, che non voleva riceverlo perché aveva da fare. Allora Alcide dice a un attonito segretario che deve parlare con l'alto prelato per chiedergli la dispensa a prendere una seconda moglie, dato che con una sola, ormai attempata, la notte sente freddo. Così, in prosieguo, quando i fratelli Cervi fanno saltare un palo dell'alta tensione e i fascisti si danno a una certosina ricerca degli autori partendo dalle orme (i Cervi avevano messo scarpe "da Camera", il pugile dotato di una stazza fisica eccezionale, per fuorviare le indagini), i contadini del luogo godono nel vedere i rappresentanti dell'autorità costituita in divisa inginocchiati davanti a loro e molti - dice Alcide - lasciano i piedi "stantii" aggiungendo a questo rito quasi di umiliazione un contributo di effluvi non proprio gradevoli. Così, quando ci sarà - ne parleremo più diffusamente in seguito - la pastasciutta per tutto il paese, «il bollire - dice ancora il vecchio Cervi - suonava come una sinfonia». E casa Cervi, rifugio ospitale per tanti militari alleati, diventa una specie di «Società delle Nazioni». Una sera ognuno canta arie del proprio Paese - ci sono russi, americani, sudafricani - finché qualcuno non intona l'Internazionale. E allora diventa un coro, perché è un inno che tutti conoscono e nel quale tutti si riconoscono. Oltre all'interesse storico e documentario, questo è uno dei pregi maggiori del libro di memorie di Alcide, come di quello di una delle nuore, Margherita (Non c'era tempo di piangere, Istituto Alcide Cervi, 2001, ma riproduzione anastatica dell'edizione curata nel 1994 dalla Camera del Lavoro territoriale di Reggio Emilia.

Nell’antifascismo

I Cervi, questi «contadini di scienza», non si limitano a combattere ­ e vincere - la battaglia per il miglioramento della terra. Essi si cimentano in una lotta molto più impegnativa contro il regime che si è impadronito dell'Italia, con un antifascismo istintivo quanto radicale. La famiglia ha qualche tradizione di impegno politico. Il padre di Alcide, Agostino, aveva avuto un ruolo nelle manifestazioni per l'abolizione della tassa sul macinato, una delle imposte più inique e odiose che colpiva soprattutto con effetti devastanti i ceti più deboli. Alcide, prima del fascismo, si era iscritto al partito popolare. La prima influenza sulle loro posizioni politiche era stata d'impronta cattolica, ma di un cattolicesimo pervaso da una tensione profonda verso la giustizia sociale. L'approdo successivo sarà il comunismo e comincerà a maturare sotto l'influsso dei grandi del socialismo emiliano, Prampolini e Massarenti, e anche per lo scontento suscitato da posizioni di prudente tartufismo verso il regime assunte da parte del clero locale, le cui risposte a interrogativi elementari che non poteva non porsi qualsiasi persona dotata di un minimo di sensibilità erano tutt'altro che esaurienti e convincenti. Ma soprattutto protagonista e orientatore della svolta è uno dei figli, del quale il padre dice: «Aldo mi ha dato quel poco che ho d'intelligenza politica, e io a lui ho dato il senso della protesta. Aldo è sempre stato la testa della famiglia». Nella stessa sua formazione, esercita un'influenza determinante una vicenda nella quale rimane coinvolto nel periodo del servizio militare, durante un turno di sentinella. All'avvicinarsi di un sergente, il giovane gli chiede - come di norma - di dire la parola d'ordine. Il sottufficiale non risponde a successive intimazioni e Aldo spara, colpendolo di striscio a una mano. In modo del tutto inopinato e contro ogni regola, invece di ricevere un encomio per la serietà con cui aveva adempiuto alla consegna, il soldato si vede appioppare cinque anni di prigione, ridotti poi in appello a tre. Così Aldo assapora l'«università del carcere», dove maturano le sue prime scelte politiche verso il comunismo, scelte che sarebbero poi state condivise da tutta la famiglia. Tornato a casa, il giovane si immerge con grande impegno nel lavoro clandestino per l'organizzazione del partito nella zona, il cui primo nucleo viene costituito nel 1933. Il passo successivo è la creazione di una biblioteca circolante, con opere di letteratura sociale e scritti proibitissimi, come Il capitale di Carlo Marx e La concezione materialistica della storia di Antonio Labriola. A cavallo di queste attività, che si svolgono con qualche problema, ma senza gravi conseguenze, avviene il trasferimento della famiglia al podere dei "Campi Rossi". Un altro aspetto dell'azione sempre più aperta in senso antifascista dei fratelli Cervi è quello dell'aiuto ai confinati politici. Ecco come lo descrive Alcide: «Intanto Aldo fa sempre attività politica, e adesso ha un altro sistema per organizzare la gente. Ci sono i confinati politici, tanti in quella epoca, che là dove stavano gli davano poco da mangiare, così Aldo va nelle case dei contadini, a Campegine, e chiede se vogliono mandare un pacco a persone bisognose che lottano anche per loro, e lì approfittava per fare la predica. Gli emiliani sono stati sempre di cuore per queste cose, anche gente non politica, e quasi sempre il pacco veniva fuori. Così la popolazione si affezionava e veniva all’antifascismo. Poi Aldo faceva le collette, le sottoscrizioni, e tutti volevano che andasse alla casa loro, perché gli piaceva sentirlo parlare». Tutto questo non poteva alle lunghe passare inosservato. I fascisti della zona fremono per una sfida abbastanza inusuale e sicuramente provocatoria e decidono a loro volta di passare all'azione. Ma, preoccupati per i possibili costi di uno scontro diretto con i sette fratelli, se la prendono con un loro giovane cugino che aveva avuto l'ingenuità di scrivere su un muro «Viva Stalin» mettendoci sotto la firma, e che è fatto oggetto di una feroce bastonatura.

La protesta del silenzio

Siamo al 1936. Il 9 maggio viene organizzata a Campegine una grande adunata per festeggiare la proclamazione dell'impero. L’azione svolta fino a quel momento tra i contadini evidentemente ha conseguito risultati di una certa importanza. Tanto è vero che è possibile dar vita a una specie di contromanifestazione, organizzata proprio da Aldo. Al culmine della solenne cerimonia, all'invito del federale di salutare il duce fondatore dell'impero, fa eco un silenzio assordante dei presenti. In questo periodo avviene l'incontro, di grande importanza, con i Sarzi, teatranti girovaghi che recitano drammi a sfondo sociale, inviati nella zona dal partito comunista per aiutare l'organizzazione clandestina. Casa Cervi è sempre più un centro operante di antifascismo. Si dà ospitalità a ricercati politici, si diffonde stampa clandestina, si passa dalla diffusione alla creazione di foglietti antifascisti tramite l'acquisizione di un ciclostile. I Cervi si rifiutano di conferire i generi di loro produzione all'ammasso e, con l'avanzare della guerra, cominciano a pensare alla raccolta di armi per passare alla vera e propria lotta armata contro il fascismo. Prima del 25 luglio 1943, quando, con il voto di sfiducia del Gran Consiglio, Mussolini è destituito e fatto arrestare dal re, il primo atto di sabotaggio: l'abbattimento di un palo dell'alta tensione, con il seguito aneddotico cui abbiamo già fatto riferimento. Il 25 luglio, per festeggiare la caduta del fascismo, la famiglia decide di offrire una pastasciutta a tutto il paese. Tradizione che sarà rinnovata negli anni in questo dopoguerra. Ci siamo diffusi su questi episodi perché essi indicano che quello dei Cervi è un caso abbastanza raro di azione antifascista su diversi piani che risale a periodi di parecchio antecedenti rispetto all'inizio della Resistenza. Il periodo successivo risponde di più a un'esperienza comune e diffusa. I Cervi vanno in montagna, combattono, si cimentano in tutta una serie di audaci colpi di mano. Finché tornano alla loro casa, che si trasforma in rifugio ospitale per i militari alleati sbandati, i quali tentano di raggiungere la linea del fronte o di aggregarsi alle formazioni partigiane. Finché i prigionieri rifugiati ai "Campi Rossi" saranno persino una trentina contemporaneamente, delle più disparate nazionalità. Alcide ricorda con commozione un episodio di cui abbiamo già parlato: «... c'erano tutti gli alleati. Una sera dopo cena, ci mettiamo a cantare canzoni ognuno del proprio paese e d'improvviso viene fuori il canto dell'Internazionale. La sapevano tutti e la cantavano nella loro lingua, ma quella sera c'era una lingua sola e un cuore solo: l'Internazionale».

L’assalto a casa Cervi e l’epilogo della tragedia

Sarà proprio questa ospitalità generosa quanto rischiosa offerta ai militari alleati e a italiani ricercati, come il giovane Quarto Camurri, che aveva gettato alle ortiche la divisa di Salò per unirsi ai partigiani, a causare la tragedia della famiglia Cervi. Un tentativo di trasferire gli scomodi ospiti in una casa disabitata delle vicinanze fallisce per l'opposizione del proprietario. Allora è inevitabile continuare a correre il rischio. Verso l'alba del 25 novembre 1943 150 fascisti in armi, messi sull'avviso da una spiata, circondano la masseria, intimando inutilmente ai Cervi di arrendersi. Segue una sparatoria, finché i fascisti cominciano a incendiare il fienile. La resa diventa inevitabile per non mettere a rischio la vita delle donne e dei bambini e anche perché le munizioni sono ormai finite. Così i sette fratelli e il padre sono catturati con due russi, un inglese, un sudafricano, un australiano e due italiani ricercati e rinchiusi nel carcere dei Servi. I giovani sono sottoposti a percosse e torture fisiche, ma rifiutano l'offerta di aderire alla repubblica sociale dicendo che in quel caso avrebbero l'impressione di «sporcarsi». Due tentativi di fuga falliscono per altrettanti improvvisi trasferimenti. Finché, il 28 dicembre, i sette fratelli Cervi sono fucilati insieme a Quarto Camurri. L'epilogo drammatico è riassunto dal giornale Il Solco Fascista in due scarni comunicati. Ecco il primo: «Ieri sera alle ore 18 circa nei pressi della stazione ferroviaria di Bagnolo in Piano è stato proditoriamente assassinato il Fascista Repubblicano Onfiani Vincenzo, Segretario Comunale di Bagnolo stesso». L'altro segue di poche ore: «Questa notte si è riunito di urgenza il Tribunale Straordinario il quale ha pronunciato la sentenza capitale a carico di otto detenuti, rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti, di sovvertimento dell'ordine nazionale condotto con la propaganda e con l'uso delle armi. La sentenza è stata eseguita all'alba di oggi 28 dicembre». Da notare il tentativo ignobile di far passare i Cervi anche per delinquenti "comuni". Ancora una volta, come alle Fosse Ardeatine, come in decine di altre situazioni, la presunta giustificazione per la ferocia fascista è la rappresaglia, ingiusta quanto inutile, perché essa, per essere determinante e decisiva, avrebbe dovuto colpire milioni di italiani.

«Dopo un raccolto ne viene un altro»

Il vecchio Alcide, che era stato separato dai figli in carcere, ne ignora la sorte tragica. Il 7 gennaio 1944 un bombardamento alleato fa crollare le mura della prigione in cui egli è rinchiuso. Alcide torna a casa ed anche i familiari gli nascondono per un certo tempo pietosamente la verità. Finché è la moglie a doverla rivelare. Ma seguiamo il racconto di papà Cervi: «Per un mese e mezzo non mi disse parola sui figli. Aspettava sempre che mi rimettessi dall'ulcera e dalla prigione, e così ogni sera andava a letto con il segreto nel cuore e in più con me che non capivo e parlavo di loro come se fossero vivi. Dicevo, quando torna Ferdinando bisogna dirgli che gli alveari vanno rinnovati, e Aldo lo mando a cercare un capo di bestiame svizzero, e Gelindo deve trovare il concentrato che è finito. La madre taceva mentre io la torturavo. Un giorno provò a farmi capire di più, mi disse: "I nostri figli non torneranno, non vedi quanti morti per le strade che non si riconoscono, tra loro ci saranno anche i nostri figli". E io cocciuto: "Tu sempre a far male profezie, sei stata sempre così tu". Allora la moglie ruppe la pazienza e disse: "I nostri figli non torneranno più. Sono stati fucilati tutti e sette". lo rimasi fermo e zitto, poi chiesi senza chiedere: "Non torneranno più?". E la moglie: "No, non torneranno più, sono morti tutti e sette". Le nuore mi si avvicinarono, e io piansi i figli miei. Poi, dopo il pianto, dissi: "Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti"».

Con quattro nuore e undici nipoti

Altrettanto importante e meritevole di riflessione è la vicenda successiva. Il vecchio Cervi si trova a gestire un podere di oltre 20 ettari con quattro donne e undici nipoti bambini. Per la prima volta, nella storia dei Cervi, si profila un'emergenza inedita: mancano le braccia. Tuttavia, bisogna salvare la terra e ricostituire su basi diverse la famiglia. Non c'è davvero tempo di piangere. In questa fase emerge in tutto il suo significato la personalità eccezionale di Alcide. Sulle sue spalle grava una condizione estremamente difficile: proseguire, per quanto possibile, senza soluzioni di continuità, anche con tutto il peso della tragedia che ha colpito la famiglia. La madre, Genoveffa, non regge e si spegne di crepacuore un anno dopo la scomparsa dei figli. Alcide, quindi, in certo senso è solo a vivere una vita che, in modo del tutto inopinato, lo porta, dopo la Liberazione, anche a quotidiano contatto con personalità politiche, uomini di cultura, presidenti della Repubblica. Si può immaginare l'impatto che tutto questo esercita su un vecchio contadino povero d'istruzione anche se non di cultu­ra, che da tutto questo avrebbe potuto essere travolto. Invece, non gli vengono mai meno quelle doti native di serenità, modestia, senso del limite e umorismo, con tratti notevoli di autoironia, che abbiamo già visto emergere anche nei momenti di maggiore drammaticità.

La nascita e l’evoluzione del museo

Casa Cervi diventa mèta di un continuo pellegrinaggio: uomini della Resistenza, artisti, scrittori, e tante, tante persone per così dire comuni vengono qui, nella Bassa tra Parma e Reggio Emilia, a dare testimonianza, a voler vedere da vicino e direttamente i luoghi, a voler ricostruire i lineamenti di una vicenda tragica che non ha precedenti, che si staglia in tutta la sua statura a colpire cuore e immaginazione. Ognuno vuole legare la visita a un ricordo vivo. Gli artisti lasciano testimonianze del loro passaggio. Gli scrittori e i poeti esprimono il loro debito a questa famiglia di contadini della quale è quasi riduttivo dire che è divenuta il simbolo di un'Italia che vuole cambiare e che, soprattutto, non vuole ripetere le dolorose esperienze di un passato di cui sono ancora aperte tutte le ferite. Casa Cervi diviene così, con un termine che non le rende completamente giustizia, un Museo. Per germinazione spontanea, senza che qualcuno l'abbia ­ deciso a priori, quasi per volontà comune. Essa ancora oggi è quanto di più lontano si possa concepire rispetto all'immagine che abbiamo tradizionalmente di un Museo, che di norma ospita le vestigia di un passato ormai chiuso e lontano. Qui c'è materia viva, dell'oggi, c'è passione e sangue e una vena infinita di umanità. Per questo ci è difficile frenare l'indignazione quando sentiamo un ministro in carica della nostra sventurata Repubblica esaltare i valori della tradizione classica contrapposti strumentalmente a quelli che all'incirca definisce i fatti dell'ultimo minuto. L'Italia non ha il problema degli Stati Uniti d'America in cui ­ per dirla con Umberto Eco - al massimo nello studio della storia si risale a George Washington. Noi siamo abituati a studiare le nostre radici, ma esse non si esauriscono in Giulio Cesare o nei fratelli Orazi e Curiazi. Le nostre radici sono anche qui. Qui sono le testimonianze in base alle quali i giovani possano diventare non soltanto donne e uomini colti, ma cittadine e cittadini della Repubblica, consapevoli di quale bene incommensurabile e infinito siano la libertà, la dignità umana, il rispetto di sé e degli altri. Per questo è di grande importanza la decisione dell'Istituto Alcide Cervi di rinnovare il Museo, ampliandolo, affidandogli il segno dell'evoluzione contadina nel secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle e in quello che è appena cominciato. Ugo Benassi, che dell'Istituto è presidente, ha così sintetizzato il significato della scelta fatta e preannunciato i passi successivi: «... il nostro Istituto aveva lavorato nel corso degli anni per trasformare la vecchia casa contadina nella quale vissero Papà e Genoeffa Cervi e i loro sette figli in un vero e proprio Museo dell'antifascismo e della Resistenza nelle campagne, in un moderno laboratorio di storia, di ricerca e di iniziativa capace di raccontare lo straordinario cammino di emancipazione sociale e civile compiuto nel '900 dai lavoratori italiani, con particolare riguardo ai progressi di civiltà nelle campagne, alla evoluzione sociale nel rapporto uomo-terra, alle grandi trasformazioni del paesaggio agrario nelle campagne italiane ed europee. Il progetto di un Museo vivo, perciò, ristrutturato e arricchito di nuovi spazi, capace di conservare, studiare e raccomandare la memoria dei fatti accaduti a Casa Cervi e le tracce concrete (oggetti, pitture, archivi, fondi librari), per arricchire e rendere più produttiva una permanente attività di didattica e di ricerca. Oggi, mentre inauguriamo questa mostra, possiamo indicare alcuni segni tangibili del nuovo Museo che sta nascendo, e più precisamente: l'apertura del nuovo percorso museale collocato al pianterreno e dedicato alla storia della famiglia Cervi, alla Resistenza e alle lotte sociali del '900, la trasformazione in "aula didattica" della sala già intitolata alla madre Genoeffa e ora a disposizione delle migliaia di studenti e dei loro insegnanti che ogni anno frequentano il nostro Museo; la costruzione di un Parco agronomico-ambientale che abbraccia le 56 biolche del vecchio podere della Casa e che intende ripristinare - ricorrendo anche all'allestimento di una mostra modulare permanente - gli elementi tipici del paesaggio agrario della media e bassa pianura padana dell'inizio del '900». Il percorso del rinnovato Museo è di grande interesse. Parte dalla descrizione della famiglia per ampliare l'orizzonte alla vita nelle campagne tra Ottocento e Novecento. Affronta il tema del territorio, dei legami dei lavoratori con esso, degli strumenti e della loro evoluzione negli anni, in rapporto al progresso della tecnica. Grazie alla tecnica l'agricoltura evolve da un'economia di autosufficienza ed autoalimentazione a una crescente presenza nel mercato, con le attività connesse, a cavallo tra l'agricolo e l'artigianale, se non l'industriale: filatura, tessitura. Un altro aspetto fondamentale è l'incremento della stalla, dell'allevamento del bestiame, non più limitato alle esigenze della lavorazione del podere, ma progressivamente destinato alla vendita, al mercato. Da questo punto di vista l'esperienza della famiglia Cervi è esemplare. Si passa, infatti, dopo la sistemazione del terreno, da una presenza nella stalla di qualche unità alle decine di capi. Naturalmente collegata a questa trasformazione è l'aumentata produzione di latte e dei suoi derivati, burro, formaggi. Si passa poi a un terreno più politico in cui trovano posto le tradizioni della campagna, la penetrazione tra i contadini dei primi messaggi di giustizia sociale ad opera della Chiesa e della crescente presenza e predicazione socialista, particolarmente viva e significativa in questa zona dell'Emilia e del Reggiano. Una predicazione che conduce quasi al traguardo obbligato dell'opposizione al fascismo, antitesi di ogni messaggio che tende all'affrancamento della posizione contadina dalla subordinazione più completa all'aspirazione per il possesso della terra. La famiglia Cervi incontra l'antifascismo in modo istintivo e - come si è rilevato anche nelle pagine precedenti - passa dalla insoddisfazione alla protesta, all'iniziativa politica e alla lotta armata. Un'iniziativa che si articola su diversi piani, dall'assistenza ai perseguitati politici alla diffusione e alla creazione di stampa clandestina. Nella zona sorge una rudimentale tipografia, che continua e perfeziona l'opera, già estremamente efficace, compiuta con la "biblioteca circolante" che ha seminato tra i contadini i primi dubbi, gli interrogativi, che agli interrogativi ha cominciato a fornire risposte. Ora le risposte sono più esplicite. È l'inizio della Resistenza contro il tedesco occupante e contro un fascismo che il 25 luglio 1943 si era dissolto e che si ricompone come strumento alle dipendenze delle armate hitleriane. Nel Museo sono descritte le azioni compiute dai fratelli Cervi fino al loro arresto e all'epilogo della tragedia. Sono descritti anche i luoghi della Resistenza, quelli in cui si riunivano clandestinamente gli antifascisti, quelli in cui venivano detenuti, torturati e uccisi. La parte conclusiva del percorso è dedicata al rapporto tra Resistenza e territorio e alle vicende della famiglia Cervi dopo l'eccidio dei sette fratelli e di Quarto Camurri. Il vecchio Alcide riprende le redini di una comunità dolorosamente mutilata in tutta una generazione, ma in cui sono germinate le nuove energie potenziali dei nipoti, in una linea di continuità che rappresenta una efficace e coerente tra­duzione nella realtà della frase detta dall'anziano contadino reggiano nel momento terribile in cui apprende la sorte subita dai figli: «Dopo un raccolto ne viene un altro». Il "nuovo raccolto" è nelle lotte del dopoguerra per l'emancipazione contadina, nel culto della memoria, della sua valorizzazione nel nuovo contesto di una democrazia nascente che si sforza di individuare un percorso coerente con i princìpi di una Costituzione tra le più avanzate. Fino alla scomparsa, nel 1970, del novantacinquenne Alcide, davvero esempio di una virtù civile che deve caratterizzare la nuova storia dell'Italia repubblicana nata dalla Resistenza.

La punta di un iceberg

Ma torniamo alle considerazioni che facevamo all'inizio. Ci si potrà obiettare che l'esperienza della famiglia Cervi è unica, eccezionale e quindi non riferibile a un modo di sentire diffuso nel mondo contadino italiano. Certo, essa è unica per alcuni aspetti, come quello che ha visto cadere insieme sette persone appartenenti ad una stessa famiglia. Anche se, senza bisogno di allontanarsi di molto, proprio qui nel Reggiano abbiamo avuto vicende analoghe, come quella dei Manfredi, che ha visto cadere il padre e quattro figli e quella dei tre fratelli Miselli uccisi, gli uni e gli altri, dalle brigate nere di Salò. Rara, se non unica, per un antifascismo sempre coltivato istintivamente, dalle origini, e testimoniato con atti e iniziative ancor prima dell'inizio della Resistenza. Tuttavia, basta pensare - e la cosa non ci pare davvero smentibile ­ che non c'è antifascista, non c'è partigiano, non c'è perseguitato politico o razziale, non c'è militare alleato disperso che non debba la vita o non sia stato comunque assistito, aiutato, salvato da famiglie contadine che sapevano benissimo a quali conseguenze sarebbero andate incontro: la fucilazione o, quanto meno, l'incendio e la distruzione della casa. Come potremmo spiegare diversamente Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema e le decine e decine di massacri, perpetrati talvolta per il solo sospetto che la popolazione, soprattutto contadina, avesse in qualche modo dato rifugio ai partigiani o li avesse comunque magari rifocillati e aiutati? Oltre a tutto, gli storici che si affannano a negare o sminuire il consenso popolare attorno alla Resistenza, magari con l'intento di rivalutare il fascismo repubblichino, finiscono per rendere un pessimo servizio alla repubblica di Salò. Perché, se non c'era neppure il sostegno diffuso delle popolazioni ai partigiani, le infinite stragi perderebbero persino la abominevole giustificazione della rappresaglia e sarebbero soltanto atti di violenza gratuita e sadica, fine a se stessa. Il primo impulso nel mondo contadino può essere stato quello della carità cristiana. E anche questo, nei travagliati anni della conclusione della seconda guerra mondiale, è un valore né da sottacere né da sottovalutare. Ma su esso di frequente si è innestata una maturazione, una evoluzione che trascendeva il pur nobile intento iniziale e che si tra­sformava in coscienza antifascista, in odio alla guerra e alle dittature che della guerra soprattutto si alimentavano. Altro che "zona grigia"! La vicenda dei fratelli Cervi è come la punta di un iceberg, alla cui base c'è un mondo contadino che abbandona progressivamente l'antica paziente e sconsolata subordinazione e che partecipa in modo cosciente a scrivere una pagina elevata della storia italiana ed europea. E c'è la Resistenza, fattore quasi maieutico, che fa emergere questa nuova consapevolezza, che non sarà un fenomeno isolato, ma nel dopoguerra si tradurrà in lotte dure e sofferte per l'emancipazione sociale e una maggiore libertà. A noi pare che questo elemento sia stato colto in tutto il suo valore da Carlo Levi in un articolo pubblicato proprio dal nostro giornale, Patria indipendente il 12 aprile 1970. Lo scrittore di Cristo si è fermato ad Eboli diceva: «Perché questo, essenzialmente, è la Resistenza: l'atto di rottura e creazione rivoluzionaria nel quale, attraverso infinite diverse e solidali vicende individuali, il mondo nascosto dei Cervi, preesistente e antichissimo, ma celato e subalterno, si svela e si propone come protagonista, creatore attuale di valori e di cultura nuova, per tutti, negli avvenimenti che coinvolgono intero il popolo italiano e che vanno modificando i rapporti degli uomini e la faccia della terra».

 

«Perché vi dico che presto questi muri cadranno, e i tormentatori del popolo prenderanno il posto dei tormentati, e noi ritorneremo alle nostre case e col lavoro rifaremo tutto quello che ci hanno distrutto».

Alcide nella prigione di San Tommaso.

 

da Patria indipendente, 23 settembre 2001

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