Documenti dell'ANED di Milano 

IMI:  INTERNATI MILITARI ITALIANI

Il rifiuto della collaborazione

Il 10 giugno 1940, sulla base degli impegni assunti col "Patto d'acciaio" Mussolini coinvolgeva l'Italia nella guerra di Hitler perché, secondo le sue stesse parole, avevano bisogno di 10.000 morti per potersi sedere, un giorno, al tavolo della pace. Sappiamo tutti come è andata: l'impreparazione, l'insufficienza dei mezzi e delle riserve, la superiorità militare e industriale del nemico furono la causa di una catastrofe. Il 9 luglio 1943 gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Il 25 luglio, avendo oramai il nemico in casa, con un paese disastrato fisicamente e moralmente, il Gran Consiglio del Fascismo metteva il Duce in minoranza e provocava la fine del regime fascista. Facendo arrestare Mussolini e nominando Badoglio al suo posto, il re tentò di illudere l'alleato nazista che avrebbe continuato la guerra al suo fianco ma, nello stesso tempo avviava, segretamente, trattative per una pace separata. Sin dal momento in cui Mussolini uscì di scena Hitler, temendo il peggio, aveva dato ordine di aumentare e migliorare la dislocazione delle sue truppe in Italia, in modo da restare padrone della situazione qualunque cosa potesse accadere. La sera stessa dell'8 settembre, quando la radio non aveva ancora finito di annunciare l'armistizio, la Wehrmacht e l'S.D. (Sicherheitsdienst) cioè il Servizio di Sicurezza davano inizio alle operazioni di scioglimento e disarmo della forze armate italiane di stanza sul territorio nazionale e delle 40 Divisioni dislocate in Francia, Grecia, Jugoslavia e nel Dodecaneso. L'armistizio di Cassabile non colse quindi di contropiede i comandi nazisti quando si trovarono a fronteggiare un esercito, un'aviazione, una marina che ancora pochi giorni, poche ore prima operavano in stretta sintonia con loro. Fu un improvviso, completo rovesciamento dei rapporti. D'un tratto gli alleati erano diventati nemici. Ma anche gli italiani, colti di sorpresa, del tutto impreparati rispetto alla situazione, dovettero prendere una decisione angosciosa: restare fedeli al giuramento prestato al re e quindi abbandonare alla sua sorte l'alleato o viceversa? Quanti si schierarono dall'una o dall'altra parte, in quali condizioni e con quali conseguenze? I dati, diciamo ufficiali, sono controversi e, come sempre, le statistiche non offrono che un quadro matematico. Ma quello psicologico è certamente terribile. Si consumarono in quei giorni, in quelle ore, drammi personali e familiari, eccidi e suicidi, ribellioni disperate e generose, delusioni cocenti in un paese sconvolto dagli avvenimenti e schiacciato da una realtà catastrofica. Furono giorni caotici nei quali nessuno sapeva a chi dar retta, a chi impartire ordini, da chi riceverli. Ci si interrogava sul da fare, si aspettava da un momento all'altro un nuovo sbarco alleato che avrebbe d­terminato nuovi schieramenti, si cercava di capire che cosa stesse succedendo sui vari fronti. La quotidiana necessità del sopravvivere presentava aspetti imprevisti. Tutti si sentivano in balia degli avvenimenti ed ognuno era costretto ad arrangiarsi senza sapere che cosa lo aspettava.  Il “Tutti a casa!” determinò l'affannosa ricerca di una bicicletta, di abiti borghesi, di un mezzo qualsiasi pur di allontanarsi dalle caserme presidiate dai nazisti. Chi non poteva raggiungere la propria casa, magari situata oltre il fronte, cercava di mimetizzarsi. Molti salirono sui monti, dando vita alle prime formazioni partigiane. È cominciata così la Resistenza armata contro l'occupazione nazista. Ma le vere protagoniste di quei giorni furono le donne che cercavano di aiutare e proteggere chi ne aveva bisogno, mentre pesava su loro l'angoscia per la sorte dei loro uomini lontani. Naturalmente, grazie alla tempestività e meticolosità teutonica e alla chiarezza e decisione con la quale gli ordini vennero impartiti ed eseguiti, Hitler ebbe il sopravvento. E scatenò la sua vendetta. Ai militari italiani, ufficiali, graduati, soldati, marinai ed avieri, fu imposto di scegliere, senza esitazioni, dato che la situazione non concedeva alternative: o con noi o contro di noi. Dalla "Tana del lupo" di Rastenburg dove Hitler aveva stabilito il suo quartiere generale, l'ordine suonava esplicito: procedere con la massima energia, senza riguardo per nessuno. Esso fu interpretato alla lettera e magari con qualche eccesso addizionale. La brutalità della rea­zione, era alimentata dal disprezzo per i “traditori”. Interi reparti dovettero assistere, impotenti ed inermi, alla fucilazi­ne dei propri ufficiali o alla decimazione dei propri effettivi. A Cefalonia la Divisione “Acqui” comandata dal generale Azzi si rifiutò di ar­rendersi deponendo le armi e tanto meno di continuare a combattere nel segno della svastica. Dei suoi 11.000 uomini, 400 ufficiali e 5.000 graduati e semplici soldati furono fucilati dopo un aspro scontro al quale dovettero soccombere l'enorme disparità delle forze. Gli altri furono catturati e spediti in Polonia. Ma in Montenegro due Divisioni, la “Venezia” e la “Taurinense”, si unirono all’Esercito Popolare di Liberazione di Tito nella lotta contro i nazisti e si fusero in un'unica formazione denominata "Divisione partigiana italiana Garibaldi" che continuò ad operare fino alla conclusione del conflitto. Gran parte della flotta, al comando dell'ammiraglio Yacino prese il mare rifugiandosi a Malta. Solo la corazzata "Roma" salpata da La Spezia venne individuata e affondata al largo della Sardegna. Più di mille ufficiali e marinai, sacrificarono così la loro vita. Naturalmente vi furono anche reazioni diverse. Singoli individui e interi reparti preferirono schierarsi dalla parte dei nazisti ed alcuni di essi divennero esagitati collaboratori. Basti pensare alla X Mas di Valerio Borghese e alle Brigate nere di Pavolini. Per coloro che erano stati costretti ad arrendersi, deponendo le armi, si prospettava un'odissea piena di incognite, a cominciare dal loro stato giuridico. Non erano veri prigionieri di guerra, catturati dopo un combattimento nel quale erano stati sopraffatti dal nemico; non erano internati civili trattati come ostaggi, non erano deportati politici. Per loro non vigevano le norme protettive delle Convenzioni di internazionali di Ginevra. La privazione della libertà, nella sua realtà, offriva rari spiragli di speranza per un trattamento rispettoso della loro personalità. Uomini che avevano lealmente assolto il proprio dovere erano adesso alla mercé di coloro che li avevano costretti a compierlo. Così gli uomini dell'IMI - gli Internati Militari Italiani - formarono l'armata che si rifiutava di collaborare. Per loro la sola prospettiva, la sola speranza era rivolta alla fine di quella guerra alla quale avevano partecipato malvolentieri e sul cui esito, dopo Stalingrado ed El Alamein, essi non avevano più dubbi. La sola cosa che essi volevano era la pace. Il rifiuto della guerra germogliò in essi nel giro di quelle poche ore drammatiche, assieme alla presa di coscienza delle responsabilità del fascismo. No, essi con i nazisti non volevano aver più nulla da spartire. E subivano mortificati i loro insulti: "Italiener, maccaroni, Badoglio, Scheisse!" Lunghi treni di vagoni merci, nei quali decine di uomini erano stipati fino all'inverosimile vagarono per giorni e giorni per l'Europa. Nella maggioranza erano diretti verso la Polonia. Una volta arrivati a desti­nazione ufficiali e militari vennero sistemati in campi di raccolta, per esser poi divisi, gli ufficiali negli O-Lag (Offizierslager) graduati e truppa negli Stalag (Stamm-Lager). Cosa fossero, come funzionassero, come venivano gestiti i campi di internamento dei militari catturati dai nazisti, lo sanno oramai tutti. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: la disciplina rigida e vessatoria, le fucilazioni, le sadiche punizioni, la fame, il rigore del clima, le malat­tie, la mancanza di notizie da casa e le incertezze sull'andamento della guerra. A differenza dei KZ i Konzentrationslager politici, nei Lager militari non vennero istallate le camere a gas, né i forni crematori. I morti vennero sepolti ed ebbero, nella maggioranza dei casi, un segno di ricordo. Vi furono, certamente, massacri in discriminati sui quali ancora oggi si tenta, con fatica, di far luce. L'esistenza di una imponente massa di uomini, il cui passaggio al nemico è stato evitato per un pelo, ha creato spinosi problemi anche fra fascisti e nazisti quando venne costituita la Repubblica sociale italiana che questi ultimi controllavano. Hitler aveva bisogno di manodopera, Mussolini s'illudeva di recuperare nuove forze combattenti da mandare allo sbaraglio. Di lavorare per Hitler gli IMI non se la sentivano per niente, di andare a combattere per Mussolini non se lo sognavano davvero. Ma nel quarto anno di guerra, il 1943, avendo oramai chiamato alle armi tutti gli uomini validi ed arruolato perfino molte donne, il Terzo Reich aveva estremo bisogno di manodopera per le industrie e l'agricoltura. C'erano, è vero, i prigionieri di guerra russi, francesi, inglesi; c'erano i cosiddetti lavoratori coatti oltre ai volontari provenienti dai diversi paesi occupati; c'erano gli schiavi, i deportati politici. Ma tutti questi non bastavano per le crescenti esigenze della guerra. Nella miriade di campi sparpagliati in Polonia, Bielorussia e nella stessa Germania, i prigionieri, che pur non avevano collegamenti fra loro, si divisero in tre gruppi, spesso in vivo contrasto fra loro. C'erano quelli che decisamente rifiutavano ogni rapporto con nazisti e fascisti; c'erano quelli che, nel tentativo di alleviare i rigori della prigionia erano disposti a lavorare e, c'era infine, una minoranza pronta a riprendere un posto nelle file del ricostituito esercito fascista. Per essi, inquadrati in reparti che venivano addestrati in Germania, che Mussolini continuava a passare in rivista, ma non furono mai impegnati seriamente in combattimento, vi fu anche l'amara sorpresa di dover vestire la divisa della Wehramcht o della FLAK, la contraerea. Nel complesso il morale di questi aderenti non ebbe molte soddisfazioni, se non quella di esser sfuggiti alla prigionia. Il rifiuto al lavoro veniva espresso soprattutto da parte degli ufficiali tenuti sotto pressione da una insistente propaganda fascista che tentava di blandirli con ogni mezzo per convincerli a riprendere il loro posto a fianco dei camerati che erano rimasti fedeli a Mussolini. Solo una minoranza si lasciò convincere. Ma anche a livello di graduati e di truppa le adesioni furono di modeste proporzioni. A questo punto Mussolini dovette negoziare con Hitler un ignobile accordo, congedando i militari rinchiusi nei Lager e riducendoli allo stato civile, che consentiva la loro precettazione al lavoro coatto. La reazione, specie fra gli ufficiali, fu vivissima. VaI la pena di menzionare quella dei 200 ufficiali, nella maggioranza di complemento, rinchiusi nell'OF.LAG di Witzensdorf che, sollecitati ad aderire alla Repubblica Sociale di Salò e minacciati di severe rappresaglie, si rifiutarono di lasciarsi ricattare. Quarantaquattro di essi furono privati dell'uniforme e trasferiti come deportati politici nel campo di punizione di Unterluss, con quello che questa condizione comportava. Dunque, anche in situazioni estreme vi furono uomini capaci di difendere la propria dignità. Fedeli allo stesso impegno, per cui un ufficiale deve almeno tentare la fuga dalla prigionia, se caduto in mano al nemico, approfittando di una marcia di trasferimento da un Lager all'altro, otto generali, età media sessant'anni, riuscirono a sfuggire alla loro scorta e, dopo varie peripezie, raggiungere le linee russe dove, dopo essersi qualificati con qualche difficoltà, furono trattati con rispetto da coloro che essi avevano fronteggiato pochi mesi prima. Una storia organica dell'IMI, questa entità anomala espressa dalle vicende italiane, resta ancora tutta da scrivere. Quello che sappiamo è dovuto soprattutto alle molte memorie individuali. Memorie di sofferenze, della grande dignità di uomini costretti ad affrontare un impervio destino. Diversamente dai deportati politici, soli con se stessi nella babilonia dei KZ e con la sola prospettiva di "passare per il camino", gli IMI ebbero il conforto del cameratismo e di quel minimo di difesa della propria personalità rappresentato dalla conservazione della divisa e degli averi personali e dai rari contatti epistolari con le famiglie. Nei campi di internamento militari maturò una presa di coscienza politica sulle responsabilità del fascismo, dunque una vera e propria Resistenza. Non solo il rifiuto di una guerra oramai perduta ed inutile, ma il giudizio storico e politico su coloro che l'avevano voluta e scatenata. Non si passa indenni per una prigionia durata lunghi anni, mentre le città erano rase al suolo, donne e bambini morivano sotto le macerie, mentre eserciti conclamati come invincibili subivano le più severe sconfitte, mentre ideali che pretendevano di cambiare il mondo rivelavano tutta l'iniquità nell'orrore dei crimini commessi. Prendere le distanze dagli uomini e dai regimi ai quali imputare cosi gravi responsabilità è stato un modo per esercitare non solo una critica, ma ipotizzare e prospettare un diverso destino al proprio paese. Gli uomini dell'IMI sono stati, nei lunghi seicento giorni di prigionia i protagonisti di una Resistenza scontata sulla propria pelle. Altro che i 10.000 morti sognati da Mussolini!

Da La libertà e i suoi costi, quaderni a cura dell'ANED di Milano e della Provincia di Milano, 1991

sommario