Documenti dell'ANED di Milano

«Vittime di un'idea»

di Marco Gatti

Ē l'ultimo giorno del marzo 1944. Il più tremendo marzo della mia vita. Il cielo è grigio come sempre. Fa molto freddo, come al solito. Stiamo costruendo un nuovo campo di concentramento,al di là della zona dove sorge Gusen. Gusen è una squallida dipendenza di Mauthausen e qui ci hanno mandati a trascorrere la cosiddetta quarantena. lo sto riempiendo con altri grossi vagonetti di pietre. Ci diamo dentro come dannati mentre ogni tanto la schiena viene accarezzata dalla pesante gomma dei capoccia. La gomma è un nuovo tipo di scudiscio e consiste nient'altro che in cinquanta centimetri di tubo del diametro di 30-40 mm. Quando non ti cade sulle spalle il suo sibilo è pur sempre lì nell'aria, terrorizzante e sinistro. Coraggio, non sempre cade sulla medesima schiena... Non ho lacrime per piangere la mia disperazione, non ho armi per difendermi, non ho panni sufficienti a , ripararmi, non ho più forze per spingere questo vagonetto. Stamani al solito ci hanno sbattuto giù dai castelli alle quattro. Ci eravamo coricati alle 10 della sera prima e per ben due volte nella notte ci hanno fatto alzare. Una volta per asportarci i peli da determinate parti del corpo e una seconda per dare una passatina di rasoio alla riga larga due centimetri che divide a metà la nostra testa pelata. Sono riuscito a lavarmi e a prendere la mia razione di caffè senza buscare frustate. Che fortuna! Toccava a me riordinare la brandina di mezzo del castello... ho impiegato alla bisogna tutta la mia scienza. Speriamo che sia andata bene se no stasera rientrando... Ieri i tre possessori delle singole brandine di ogni castello (i castelli sono a tre piani) che furono scoperti colpevoli di aver lasciato qualche impercettibile piega, invece delle cinque gommate sul sedere nudo di ciascuno, si sono sorbiti - belli e freschi com'erano dopo il lavoro quotidiano - un'oretta di ginnastica ritmica che in nessuna palestra manco la sognano. Roba da far rimpiangere non cinque ma venticinque scudisciate. Ogni mattino aumenta il numero dei morti che trovo ammonticchiati nel gabinetto. Domani a chi toccherà? I pensieri si accavallano uno all'altro. Tristi come questi giorni. Più avvilenti della schiavitù stessa. Penso che sarà forse l'ultimo marzo della mia vita. Rivado con la mente ai primi giorni di questo mese. Come mi sembrano già lontani. Vi rivedo cari giorni pieni di struggente ardore e di speranza. Il mio cuore era allora sereno e fiducioso. Spingo questo dannato vagonetto e tra i morsi della fame, della sete, del freddo vi rivivo o giorni, ad uno ad uno per ritrovare quella forza e quella passione che, come allora mi animava, oggi mi rianimi. Il vostro pensiero scende nel profondo dell'animo scuote i nervi sfiniti dalla fatica e mi riscalda il cuore come il sorso benefico di un liquore. La vostra visione riempie di luce questo paesaggio squallido allontanando e disperdendo i carnefici, strappando questo numero dal petto per ridarmi la personalità perduta. Sì, sono ancora Gatti Marco di professione meccanico ed ho lavorato alla FIAT di Torino. Nel momento della sempre più imponente riscossa del mio popolo anch'io come lavoratore ho fatto sentire il grido di protesta all'oppressore, e lo slancio solidale a chi combatteva sui monti. Scioperammo finalmente! Uniti e compatti per dire ai partigiani in lotta per riscattare l'Italia dalla vergogna in cui era stata gettata e ridarle con dignità la pace a cui fu costretta rinunciare che anche i lavoratori sono dei resistenti. Per dire ai prepotenti che Torino, la mia città, la città che forse fu la più insofferente all'arbitrio, al sopruso ed alla dittatura è ormai percorsa dal fremito purificatore della ribellione. Questo il significato degli scioperi. Tutto fu tentato per soffocare quell'insorgere. L'intimidazione, le minacce, le armi. Ma tutto fu vano. Alla FIAT quei giorni non si lavorò. E quel grido di protesta s'ingigantì, lo risento divenire assordante clamore di folle e spargere ovunque il seme della fede ritrovata. L'eco corse in ogni  dove, sgomentò lo stesso nemico e portò al mondo la novella del secondo risorgimento italiano. Ma se il nemico per un attimo rimase sbigottito, di poi fece tesoro delle proprie armi ed eccolo a cercare spietato le vittime da immolare all'altare del suo cieco furore. E l'altare è qui in questo campo di concentramento. Gli fu facile trovare le proprie vittime. Oh, come gli fu facile! Quanti e chi furono i delatori alla FIAT che denunciarono quelli che come me si trovano ora in questo luogo mentre i carnefici attendono con sadico piacere alla lenta procedura dell'esecuzione? Ora i ricordi si fanno più vicini alla mia mente, ed anche più tristi. Ripenso a quando vennero ad avvertirmi di essere desiderato in questura. Quanta amarezza nel rivedermi ingenuamente salutare la famiglia dando loro l'arrivederci per l'ora di pranzo. Giungerà mai quell'ora? Lentamente svaniscono le ombre lontane, i cari volti si dissolvono dinnanzi ai miei occhi. La gomma schiocca sulle spalle ed è un duro risveglio. Tutto quanto mi circonda è ormai il mio passato, il mio presente, il mio domani. Più in là ci sono Zanni, padre e figlio che lavorano accanto. C'è niente di più crudele al mondo che assistere impotenti a veder battere il proprio padre o il proprio figlio? Non ho più lacrime per piangere. Il cuore è gelido come l'aria che respiro. Frugo con lo sguardo intorno a me per scorgere il volto del delatore. E lo vedo, lo riconosco finalmente. Ē il volto del mio aguzzino.  

Dal fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico, s.d., per gentile concessione

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