Dieci anni or sono, nella fase culminante della «caccia
all'Ebreo», quando la vita di coloro che non avevano potuto raggiungere la
Svizzera era legata al filo di un'omertà che, se ha avuto i suoi eroi, spesso
ha pure ceduto alla minaccia ed al terrore; dieci anni or sono, quando l'ombra
dei «campi di eliminazione» planava, compagna inseparabile, su quanti nei
nascondigli paventavano la zampata della belva scatenata; dieci anni or sono
l'invocazione, l'imperativo di non dimenticare sarebbe sembrato assurdo. Si credeva profondamente che i superstiti nella loro carne, i
fuggiaschi nel loro spirito, i testimoni nella loro memoria avrebbero portato
fino alla tomba il ricordo incancellabile dei misfatti nazisti e del compiacente
lenocinio dei fascisti venduti. Troppo incideva nelle carni e nelle menti la
tragedia senza fine, che nella sua ferocia, nella sua implacabilità, nella sua
fredda e teutonica barbarie, aveva spazzato secoli e secoli di civiltà e di
educazione, aveva demolito principi e leggi, riportando sulla scena della storia
quanto di più basso, di più vile, di più spregevole albergava nei cuori della
gente germanica; troppo incideva la tragedia perché si potesse pensare che il
tempo risanatore avrebbe cicatrizzato le ferite, materiali e morali, fino
all'oblio... Hanno detto i poeti che l'oblio è un dono di Dio, ma noi
aggiungiamo, quando esso tende a tramutarsi da anestetico in afrodisiaco, quando
sull'altare di una dubbia pacificazione lo si vuole artificialmente lievitare,
è un tradimento: verso i morti e verso i superstiti piagati. Nel diario del suo
ultimo viaggio in Germania, il notissimo scrittore (non ebreo) antinazista
Thomas Mann ha scritto: «La sua bandiera (della Germania nazista), quando la
vedevamo all'estero, ci faceva inorridire perché voleva dire per noi essere
trascinati verso sicura e orribile morte. Tutto ciò non si dimentica dall'oggi
al domani; è difficile toglierselo dal sangue e spiega il ritegno che mi ha
indotto a lasciar trascorrere quattro anni prima di rivedere questo paese vinto
e liberato... Penso che oggi vivrei in Germania come ci vivevo nel 1930:...
odiato e bollatocome non-tedesco,
antitedesco e traditore della patriada una larga massa di gente cocciuta, che è ritornatagià da qualche tempo ad uno sfacciato nazionalismo... Ē pienamente
fallito il nostro tentativo di rieducare lamassa... La massa... nulla vuol sapere e sentire delle nefandezze
compiute dal regime nazista...». Questa testimonianza di un uomo superiore come Mann, che ha
profondamente sofferto nel suo spirito ma ha avuto almeno la fortuna di sfuggire
per tempo a quelle nefandezze, ha un significato altissimo: inutile farsi
illusioni sul risanamento morale di quanti, sollecitati nei loro più bassi
istinti, sembra non attendano che l'occasione di ricominciare. E se proprio non
vogliamo disperare del genere umano, dobbiamo pur rimettere alle future
generazioni ogni speranza di miglioramento. Nel frattempo, la necessità di vigilare deve sostanziarsi
nel ricordo. I primi racconti delle atrocità in Polonia, giunti in Italia
attraverso i superstiti dell'Armir; le voci più precise e circostanziate, che
arrivavano ai profughi in Svizzera o nei nascondigli italiani, riferivano di
cose talmente feroci e dolorose che sembravano, a noi stessi, incredibili; e non
era, no, una incosciente difesa dal terrore di cadere, domani, tra quelle stesse
crudelissime mani: era l'incredulità di chi aveva creduto nella civiltà e
nell'educazione di un popolo, delle quali non si afferrava ancora
l'inconsistenza. Oggi, che la dolorosa esperienza è risaputa, il ricordo
costante potrà tenerci desti, solleciti a reagire ad ogni minaccia, affinché
quella massa che nulla vuol sapere, nulla possa, in rinnovati accessi di
fanatismo distruttore. Queste considerazioni valgono per tutti i popoli, che hanno
conosciuto il nefando tallone nazista. Ma tanto più valgono per gli Ebrei, che
all'isterico e latrante Moloch tedesco hanno dovuto far sacrificio di un terzo
di tutto il popolo ebraico. Sei milioni di vittime innocenti; ottomila di esse erano
Ebrei italiani: un terzo di tutto un popolo, ripetiamo, ed un quinto
dell'Ebraismo italiano. Queste cifre sono state negate o discusse, e non solo
dai carnefici grandi e piccoli, ma anche da gente che, sotto la vernice della
meraviglia, mal nasconde il senso di corresponsabilità, per avere, sia pure in
partenza, incoraggiato quei funesti movimenti, da cui tanto sangue doveva
colare... Ma gli elenchi esistono, nella loro tragica aridità e nella tipica
pedanteria teutonica; e i mucchi di denti d'oro strappati alle vittime, degli
anelli, delle scarpe, delle vesti, di tutto ciò che copriva e ornava gli esseri
senzienti oramai ridotti a mucchietti di cenere. Ognuno di noi, in questi momenti, rivede uno o più volti
cari, che ancora sorriderebbero alla vita, se la nera barbarie di un popolo e
delle sue appendici nei paesi soggiogati non li avesse sfigurati nel ghigno
della morte per soffocazione, nel lamento per le torture sataniche: chi, anche
solo per sentito dire, potrà dimenticare la «Villa Triste», l'Albergo Regina,
Via Tasso, il «Quinto raggio» di San Vittore, il campo diBolzano, per limitarci all'Italia; chi potrà negare la strage di Meina,
dove a vecchi e bambini, trucidati e gettati nel lago, fu negata perfino pietosa
sepoltura;la deportazione di
vecchi ultra ottantenni, di malati eparalitici;
i bimbi gettati in aria, bersaglio mobile dei tiratori imbestialiti; le violenze
e gli oltraggi senza fine alle donne, giovani e vecchie? Solo la rievocazione di simili episodi fa ribollire il
sangue. Eppure, oggi, al di là e al di qua della barricata, che si è innalzata
tra gli alleati di ieri, si va a gara nell'onorare i grossi responsabili: se da
una parte l'uomo delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto e di S. Anna viene accolto
con deferenza nella visita ad un aeroporto americano in Germania, dall'altra il
vinto di Stalingrado, annientatore delle Comunità ebraiche dell'Ucraina, è
posto a capo della Polizia Popolare. Si dice e si ripete che le esigenze
politiche fanno legge, ma chinarsi a tali esigenze è ingiusto e dannoso. È ingiusto, perché, se la giustizia umana colpisce
l'autore e il mandante di un omicidio, non può assolvere, senza perdere il suo
prestigio, gli autori di milioni di omicidi. È dannoso per l'umanità
intera, perché l'impunità non ammansisce l'assassino ma lo spinge a ripetere i
suoi delitti. Opporsi ad ogni indiscriminata generosità, opporvisi quanto meno
come posizione mentale, giacché da un'amnistia all'altra i peggiori aguzzini
hanno riguadagnato la libertà, non è dunque indulgere a criteri di bieca
vendetta, ma a principi di equità, senza i quali il mondo crolla. Il popolo ebraico, nel suo complesso se non nei suoi singoli
appartenenti, non dimenticherà. Il suo ricordo sarà ammonimento agli altri e,
rinnovando la sua funzione di popolo-testimone (non certo nel senso deteriore di
certa apologetica cristiana), Israele indicherà alle genti il male da
rifuggire, bollerà i carnefici con il marchio dell'infamia, fustigherà ancora
una volta i tiepidi vili, darà - con il suo esempio di mai smentita resistenza
- forza ai deboli e agli oppressi. Il zechòr ebraico, corrispondente al latino memento,
cioè l'imperativo di ricordare, rinnoverà in perpetuo l'inestinguibile anelito
alla libertà di questo popolo indomito, contro il quale si sono spuntate le
armi dei tiranni di ogni tempo.
Dal
fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico,
s.d., per gentile concessione