Documenti dell'ANED di Milano

«Un imperativo: Non dimenticare!»

di Raoul Elia

Dieci anni or sono, nella fase culminante della «caccia all'Ebreo», quando la vita di coloro che non avevano potuto raggiungere la Svizzera era legata al filo di un'omertà che, se ha avuto i suoi eroi, spesso ha pure ceduto alla minaccia ed al terrore; dieci anni or sono, quando l'ombra dei «campi di eliminazione» planava, compagna inseparabile, su quanti nei nascondigli paventavano la zampata della belva scatenata; dieci anni or sono l'invocazione, l'imperativo di non dimenticare sarebbe sembrato assurdo. Si credeva profondamente che i superstiti nella loro carne, i fuggiaschi nel loro spirito, i testimoni nella loro memoria avrebbero portato fino alla tomba il ricordo incancellabile dei misfatti nazisti e del compiacente lenocinio dei fascisti venduti. Troppo incideva nelle carni e nelle menti la tragedia senza fine, che nella sua ferocia, nella sua implacabilità, nella sua fredda e teutonica barbarie, aveva spazzato secoli e secoli di civiltà e di educazione, aveva demolito principi e leggi, riportando sulla scena della storia quanto di più basso, di più vile, di più spregevole albergava nei cuori della gente germanica; troppo incideva la tragedia perché si potesse pensare che il tempo risanatore avrebbe cicatrizzato le ferite, materiali e morali, fino all'oblio... Hanno detto i poeti che l'oblio è un dono di Dio, ma noi aggiungiamo, quando esso tende a tramutarsi da anestetico in afrodisiaco, quando sull'altare di una dubbia pacificazione lo si vuole artificialmente lievitare, è un tradimento: verso i morti e verso i superstiti piagati. Nel diario del suo ultimo viaggio in Germania, il notissimo scrittore (non ebreo) antinazista Thomas Mann ha scritto: «La sua bandiera (della Germania nazista), quando la vedevamo all'estero, ci faceva inorridire perché voleva dire per noi essere trascinati verso sicura e orribile morte. Tutto ciò non si dimentica dall'oggi al domani; è difficile toglierselo dal sangue e spiega il ritegno che mi ha indotto a lasciar trascorrere quattro anni prima di rivedere questo paese vinto e liberato... Penso che oggi vivrei in Germania come ci vivevo nel 1930:... odiato e bollato  come non-tedesco, antitedesco e traditore della patria   da una larga massa di gente cocciuta, che è ritornata  già da qualche tempo ad uno sfacciato nazionalismo... Ē pienamente fallito il nostro tentativo di rieducare la  massa... La massa... nulla vuol sapere e sentire delle nefandezze compiute dal regime nazista...». Questa testimonianza di un uomo superiore come Mann, che ha profondamente sofferto nel suo spirito ma ha avuto almeno la fortuna di sfuggire per tempo a quelle nefandezze, ha un significato altissimo: inutile farsi illusioni sul risanamento morale di quanti, sollecitati nei loro più bassi istinti, sembra non attendano che l'occasione di ricominciare. E se proprio non vogliamo disperare del genere umano, dobbiamo pur rimettere alle future generazioni ogni speranza di miglioramento. Nel frattempo, la necessità di vigilare deve sostanziarsi nel ricordo. I primi racconti delle atrocità in Polonia, giunti in Italia attraverso i superstiti dell'Armir; le voci più precise e circostanziate, che arrivavano ai profughi in Svizzera o nei nascondigli italiani, riferivano di cose talmente feroci e dolorose che sembravano, a noi stessi, incredibili; e non era, no, una incosciente difesa dal terrore di cadere, domani, tra quelle stesse crudelissime mani: era l'incredulità di chi aveva creduto nella civiltà e nell'educazione di un popolo, delle quali non si afferrava ancora l'inconsistenza. Oggi, che la dolorosa esperienza è risaputa, il ricordo costante potrà tenerci desti, solleciti a reagire ad ogni minaccia, affinché quella massa che nulla vuol sapere, nulla possa, in rinnovati accessi di fanatismo distruttore. Queste considerazioni valgono per tutti i popoli, che hanno conosciuto il nefando tallone nazista. Ma tanto più valgono per gli Ebrei, che all'isterico e latrante Moloch tedesco hanno dovuto far sacrificio di un terzo di tutto il popolo ebraico. Sei milioni di vittime innocenti; ottomila di esse erano Ebrei italiani: un terzo di tutto un popolo, ripetiamo, ed un quinto dell'Ebraismo italiano. Queste cifre sono state negate o discusse, e non solo dai carnefici grandi e piccoli, ma anche da gente che, sotto la vernice della meraviglia, mal nasconde il senso di corresponsabilità, per avere, sia pure in partenza, incoraggiato quei funesti movimenti, da cui tanto sangue doveva colare... Ma gli elenchi esistono, nella loro tragica aridità e nella tipica pedanteria teutonica; e i mucchi di denti d'oro strappati alle vittime, degli anelli, delle scarpe, delle vesti, di tutto ciò che copriva e ornava gli esseri senzienti oramai ridotti a mucchietti di cenere. Ognuno di noi, in questi momenti, rivede uno o più volti cari, che ancora sorriderebbero alla vita, se la nera barbarie di un popolo e delle sue appendici nei paesi soggiogati non li avesse sfigurati nel ghigno della morte per soffocazione, nel lamento per le torture sataniche: chi, anche solo per sentito dire, potrà dimenticare la «Villa Triste», l'Albergo Regina, Via Tasso, il «Quinto raggio» di San Vittore, il campo di  Bolzano, per limitarci all'Italia; chi potrà negare la strage di Meina, dove a vecchi e bambini, trucidati e gettati nel lago, fu negata perfino pietosa sepoltura; la deportazione di vecchi ultra ottantenni, di malati e  paralitici; i bimbi gettati in aria, bersaglio mobile dei tiratori imbestialiti; le violenze e gli oltraggi senza fine alle donne, giovani e vecchie? Solo la rievocazione di simili episodi fa ribollire il sangue. Eppure, oggi, al di là e al di qua della barricata, che si è innalzata tra gli alleati di ieri, si va a gara nell'onorare i grossi responsabili: se da una parte l'uomo delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto e di S. Anna viene accolto con deferenza nella visita ad un aeroporto americano in Germania, dall'altra il vinto di Stalingrado, annientatore delle Comunità ebraiche dell'Ucraina, è posto a capo della Polizia Popolare. Si dice e si ripete che le esigenze politiche fanno legge, ma chinarsi a tali esigenze è ingiusto e dannoso. È ingiusto, perché, se la giustizia umana colpisce l'autore e il mandante di un omicidio, non può assolvere, senza perdere il suo prestigio, gli autori di milioni di omicidi. È dannoso per l'umanità intera, perché l'impunità non ammansisce l'assassino ma lo spinge a ripetere i suoi delitti. Opporsi ad ogni indiscriminata generosità, opporvisi quanto meno come posizione mentale, giacché da un'amnistia all'altra i peggiori aguzzini hanno riguadagnato la libertà, non è dunque indulgere a criteri di bieca vendetta, ma a principi di equità, senza i quali il mondo crolla. Il popolo ebraico, nel suo complesso se non nei suoi singoli appartenenti, non dimenticherà. Il suo ricordo sarà ammonimento agli altri e, rinnovando la sua funzione di popolo-testimone (non certo nel senso deteriore di certa apologetica cristiana), Israele indicherà alle genti il male da rifuggire, bollerà i carnefici con il marchio dell'infamia, fustigherà ancora una volta i tiepidi vili, darà - con il suo esempio di mai smentita resistenza - forza ai deboli e agli oppressi. Il zechòr ebraico, corrispondente al latino memento, cioè l'imperativo di ricordare, rinnoverà in perpetuo l'inestinguibile anelito alla libertà di questo popolo indomito, contro il quale si sono spuntate le armi dei tiranni di ogni tempo.  

Dal fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico, s.d., per gentile concessione

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