Documenti dell'ANED di Milano

«Una giornata al campo di Gusen II»

di Eridano Bazzarelli (115369 "KZ")  

Cerco di ricostruire una giornata tipo passata nel campo di Gusen II, succursale di Mauthausen. I deportati di Gusen andavano a lavorare nelle officine di S. Giorgio. Bisognava alzarsi presto la mattina, quando non ci si era ancora addormentati, perché troppo stanchi, sfiniti dalla fame, e dal disagio del giaciglio. Nei castelli i più fortunati erano quelli che dormivano nelle cuccette superiori e con la testa verso la parete, perché i vari aguzzini del blocco passavano per dare la sveglia e picchiavano i più comodi. Appena alzati ci si metteva in fila in attesa del caffè, una specie di acqua sporca e amara che però aveva la virtù di essere calda; chi era riuscito a conservare un pezzetto di pane si faceva la zuppa. Bisognava mangiare in fretta, uscire mezzo vestiti e disporsi per l'appello. Il primo incontro che si faceva nell'uscire era quello con i cadaveri dei morti durante la notte, ammonticchiati fuori delle baracche. Morti perché sfiniti di fame o di dissenteria, o perché strangolati da qualche capoblocco, o perché avevano avuto l'imprudenza di uscire per le loro necessità corporali, ed erano passati vicini a un capoblocco o a una SS che li aveva finiti, e qualche volta affogati nell'enorme barile dell'urina. L'appello era interminabile, e bisognava star fermi al freddo e attendere i comodi dei capi. Il sottufficiale contava e ricontava, poi di corsa bisognava raggiungere il treno saltando gli ostacoli lungo il percorso, e guai a chi cadeva: molti deportati anziani finirono così miseramente la loro vita perché cadendo erano schiacciati dagli altri oppure finiti a calci dalle SS o morsicati dai cani. Caricati sul treno merci, in vagoni chiusi, si era continuamente sotto il controllo dei cani e dei fucili mitragliatori delle sentinelle. Vicino al punto d'arrivo c'era una linda casetta austriaca col camino che fumava: la gente che l'abitava era indifferente alla nostra angoscia. Dal treno alle fabbriche sotterranee bisognava fare un tratto di strada sempre di corsa, resa molte volte difficile dagli zoccoli pesanti che si affondavano nella neve o nel fango. La vita nella fabbrica, se era meno pesante per gli operai qualificati, era durissima soprattutto per gli intellettuali che erano sottoposti ad enormi fatiche, come portare sacchi di cemento, trasportare rottami di ferro o pietre, sempre sotto lo sguardo degli aguzzini che aspettavano il momento buono per finire i meno diligenti. Molti deportati cercavano di alimentarsi con le erbe che crescevano vicino alla fabbrica o con cortecce di alberi e pezzi di carbone che si ritenevano rimedi per la cura della dissenteria, dalla quale quasi tutti erano colpiti. A mezzogiorno il lavoro veniva interrotto per un'ora, che serviva per il pasto formato da zuppa di rape e bucce di patata. Si riprendeva il lungo lavoro sempre tra i pericoli di essere scoperti a commettere qualche atto di sabotaggio, che voleva dire frustate a sangue e spesso anche la morte. Il lavoro, iniziato alle sei della mattina, finiva alle sei di sera. Si rifaceva,la corsa per arrivare al treno (spesso bisognava aiutare i moribondi o trasportare addirittura i compagni morti durante la giornata, per poterli presentare all'appello) e si ritornava al campo dove bisognava mettersi in fila, sfilare davanti alle torrette delle SS a passo cadenzato e togliersi il cappello davanti ai capi. Il pasto della sera era formato da un pezzo di pane con un po' di margarina e una fettina di salame fatto chissà con quali prodotti sintetici. Cominciavano altri appelli e contro-appelli, alcun dei quali angosciosi, perché si poteva essere compresi fra i destinati all'eliminazione nelle camere dei gas, o ai blocchi della morte. Si dormiva in cuccette in due, in tre e qualche volta persino in quattro. La mattina ci si poteva accorrere che uno dei compagni di letto era morte. Ogni tanto aveva luogo il controllo medico, e pur essendo tutti in condizioni fisiche disastrose, ci si sforzava di sembrare sani e si nascondevano edemi, bubboni, ferite, per non essere mandati all'infermeria. All'infermeria bisognava stare nudi sotto le intemperie e in baracche peggiori, frammisti ad ammalati di tutte le forme infettive più ripugnanti, col cibo più scarso e con infermieri che si preoccupavano più di far morire che di guarire. Centinaia di malati morirono nei mesi di marzo e aprile in queste infermerie. Molti hanno scritto sulla vita dei campi di concentramento e molti ne hanno parlato, cosicché la mia breve descrizione non riferirà cose tanto nuove, ma non importa. Ciò che si dice di Mauthausen e di tutti gli altri campi è sempre nuovo, perché non deve essere mai dimenticato.  

Dal fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico, s.d., per gentile concessione

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