Ē un'alba grigia e gelida: sui settemila scheletri
allineati sull'«Appelplatz» coi piedi immersi nel fango, piove. Come in un
cimitero dove tutte le tombe si siano silenziosamente scoperchiate e gli
scheletri si siano silenziosamente rizzati in piedi, stupiti di vedersi in
quella luce crepuscolare, con quel berretto tondo sul teschio e quella lurida
uniforme a righe, cascante sulle ossa, immobili e muti per la pietà e l'orrore,
sull'immenso campo essi non odono che il fruscio della pioggia attraverso l'aria
livida e il picchiettio delle gocce che rimbalzano nelle pozzanghere. Per due o tre ore, in quell'immobilità di cadavere, vigilati
dai loro custodi e carnefici, attendono l'arrivo del comandante del campo. Una
parola, un movimento sono delitti punibili con la morte. Poiché piove e la
temperatura è di molti gradi sotto lo zero, il comandante ordina che vengano
sull’ «Appelplatz» anche i moribondi. E questi vengono trascinandosi o
trascinati, ignudi, a morire sotto la pioggia gelata. Muoiono silenziosamente,
senza un rantolo, come se fossero già morti prima dell’ultimo respiro. Gli altri, i vivi, come automi, a branchi di cento e cento,
si avviano al lavoro sotto la sferza. Sono Francesi, Russi, Cecoslovacchi,
Iugoslavi, Greci, Belgi, Spagnoli, Olandesi, Polacchi, Italiani; e per compiere
tra di loro la quotidiana strage li accompagnano centinaia di aguzzini armati di
nervi di bue, di bastoni, di pistole, di fucili mitragliatori. La sera
ritorneranno al campo portando su barelle di ramaglia o sulle spalle i compagni
col cranio spaccato o uccisi dalla fatica, dalla fame o dalla più atroce di
tutte le morti: quella per disperazione. Chi non è stato nei campi di sterminio tedeschi, sa che vi
si moriva di fame, di fatica, di dissenteria, di tifo e di ogni altro morbo; a
colpi di bastone o di pistola, fucilati o impiccati; col cranio o col petto
schiacciati a colpi di tacco o di pietra, assiderati, sbranati dai cani; per
asfissia, iniezioni di benzina o inoculazione di germi micidiali; per
soffocazione o affogamento, con tratti di corda o lancio nel precipizi, per
folgorazione e cremazione, maciullati o lapidati; ma non sa che più orribile di
ogni altra vi era la morte per disperazione, non sa che tal genere di morte fu
inflitto con una tecnica che gli stessi fascisti nostrani più faziosi e
seviziatori non avrebbero saputo ideare né applicare con così raffinata
perizia. Non vi è certezza di morte imminente o sofferenza fisica che equivalga
il tormento di sapere di dover morire in un modo non prevedibile ma straziante,
tra un mese, un giorno o all'istante, senza possibile difesa, senza discussione
possibile, per decisione di uno qualsiasi degli ufficiali, sottufficiali,
soldati, capi baracca, sorveglianti o di un loro favorito, ciascuno dei quali
aveva il diritto di uccidere e uccideva: chi voleva, come voleva, quando voleva,
per malumore, per capriccio, per giuoco, per scherno. Entrato nel Lager il prigioniero sapeva che per lui non vi
ora più via di scampo, non c'era più possibilità di salvezza: così gli
diceva la ragione e ciò gli confermava l'esperienza di ogni giorno, di ogni
momento. Capiva di essere stato aggredito da un mostro immane, di ferocia
implacabile, che aveva già azzannato la sua carne più profonda e non l'avrebbe
più abbandonata. Tuttavia la speranza sopravviveva in lui; una speranza assurda
ma che prodigiosamente resisteva alla ragione e gli sorreggeva ancora il cuore
esausto. Per distruggere il conforto di quell'estrema speranza che mai abbandona
neppure i morituri, la speranza di riuscire miracolosamente a sfuggire alla
rappresaglia. alla violenza improvvisa, al capriccio crudele e mortale, non
bastavano la fame e la fatica estenuante; occorreva che il campo fosse
continuamente percosso e terrificato dall'imperversare di un uragano di
criminale follia. Questo fu il capolavoro dei torturatori nazisti, la
distruzione della speranza prima della morte della carne, come mezzo anzi, e il
più scellerato, per accelerare e provocare la morte fisica. Essi seppero creare
la Disperazione perché questa si insediasse nel prigioniero a rodergli i
muscoli e i nervi, il cuore e il cervello. E la disperazione, come un serpe
sottile lento e cauto si apriva la strada dentro al prigioniero insinuandosi
quasi di soppiatto, annidandosi nel suo cranio e acquistando via via sempre più
nettamente la figura di una particolare demenza. Il prigioniero che stava per
diventarne preda, si sentiva sempre più sprofondare in un’angoscia che non
ora più soltanto la sua, ma quella di tutti i suoi compagni, di tutti gli
uomini della sua patria invasa, di tutti gli uomini viventi sulla faccia della
terra; un’angoscia universale, cosmica che opprimeva e schiacciava il mondo,
senza rifugio ormai per nessuna perché tutti ormai dannati alla dissoluzione
dell’anima e del corpo. E man mano che l'incubo spaventevole progrediva, il
prigioniero sentiva l’orrore scavargli dentro ai visceri e consumarli, intuiva
di diventare egli stesso una figura di incubo, percepiva lucidamente la
disgregazione della propria coscienza alla quale si sostituiva il dominio di «un’altra
cosa» di cui atterrito spiava i progressi nel proprio volto che gli diventava
petroso e gelido, nella propria voce che gli usciva dalla bocca tagliente e
sconosciuta. L'uccisione del corpo nei Lager politici era uno dei modi
sbrigativi di soppressione dei patrioti, che se disonorava la nazione germanica,
restava pur sempre nell'orbita della barbara tradizione militare tedesca, ma il
nazismo andò assai più lontano inventando un'uccisione più efferata ed empia:
l'uccisione dello spirito prima di quella della carne; creò la scienza della
distruzione della personalità umana. L'immobilità per due o tre ore sotto la pioggia a dieci o
venti gradi sotto zero, non aveva soltanto lo scopo di sopprimere rapidamente i
meno resistenti al lavora, ma era una delle innumerevoli sevizie morali che
miravano a degradare lo spirito. Il salto della rana protratto per ore e la
marcia sulle ginocchia e sui gomiti erano uno spettacolo particolarmente
divertente per i fieri araldi della civiltà nazista perché era un modo di
torturare dileggiando. Il lancio del berretto sul reticolato ad alta tensione
con l'ordine di riportarlo, non era soltanto un modo di uccidere per
folgorazione. ma voleva essere piuttosto una beffa accompagnato da scrosci di
risa. La tragica esposizione dei morti ignudi accatastati per giorni intorno
alle baracche prima del trasporto ai crematori e il calcio nel ventre al primo
che capitasse a tiro di uno stivale tedesco, la gassazione di migliaia di malati
che si ostinavano a vivere e la lacerazione delle camicie prima di distribuirle
ai prigionieri. le lunghe soste notturne all'aperto sotto la neve a corpo ignudo
e il divieto di usare un pezzo di carta per pulirsi il naso, il bagno gelido ai
deliranti per la febbre e la fanfara che un'ora ogni settimana, con grande
strepito di trombe e tamburi, suonava «Lillì Marlène » nella baracca degli
agonizzanti. la marcia di cinquanta chilometri per sperimentare una nuova qualità
di suole per scarpe e la rasatura di una striscia di cuoio capelluto dalla
fronte all'occipite; la marcia a piedi scalzi su frantumi di vetro e gli zoccoli
col tomaio di ritagli rossi, gialli e azzurri, l'immersione nell'acqua gelida o
bollente per studiare la reazione dei tessuti umani o le ferite prodotte per
introdurvi pezzetti di vetro, schegge dì legno o di metallo, pezzi di stoffa,
terra infetta di tetano, per studiare metodi di cura delle ferite causate da
armi da fuoco e la farandola a suono di tamburello e zufolo intorno a un
simulacro di albero natalizio la notte della nascita di Cristo Redentore; il
prelievo di duecento grammi di sangue ogni venti giorni a migliaia di
prigionieri e le giostre degli ebrei obbligati a correre in circolo per un'ora
cantando; l'impiccagione a nodo di canapo lento affinché l'agonia si
prolungasse e sordine dato a un infermo di correre per il campo abbaiando;
l'apertura dopo otto giorni di una baracca zeppa di prigionieri lasciati senza
viveri e la mimica delle SS imitante grottescamente i sopravvissuti che ne
uscirono impazziti... Codeste infamie atroci ed empie, alcune tra le infinite
che il nazismo ha commesso nel cuore dell'Europa e talora, se pure meno
sacrilegamente e satanicamente in questa stessa nostra Italia che fu sempre
celebrata terra di civiltà prima che la malavita nazionale venisse dal fascismo
glorificata; tutte codeste abominevoli nefandezze che il nazismo ha commesso
dalla Francia alle soglie del Caucaso, dalla Norvegia all'isola di Creta,
ovunque, avido di conquista e cupido di strage, lo portò il suo sogno di
dominazione del mondo, avevano deliberatamente un duplice scopo: uccidere prima
lo spirito, luce di Dio e potenza dell'uomo, con l'umiliazione, l’avvilimento,
il terrore e poi spegnere il corpo. Ben può dirsi che mai nel corso dei
millenni fu neppure concepito un così diabolico piano di distruzione totale
degli esseri umani. Nel Lager di Belsen, di Auschwitz, di Mauthausen, di
Buchenwald, mentre dunque da una parte si combatteva una lotta disperata e
stupenda di difesa: dello spirito che comandava alla carne «resisti » e della
carne che rispondeva allo spirito «sorreggimi»; dall'altra i nazisti vi
combattevano una lotta facile e vile, turpe e satanica per ridurre ogni
prigioniero allo stato di bruto distruggendo in lui, con lo spirito, ogni
speranza di salvezza e ogni potere di resistenza. Quando la disperazione
sopraggiungeva, il prigioniero veniva ucciso dalla tortura della stessa sua
disperazione e non gli restava che di attendere inerte il fatale, prossimo
istante della morte carnale. La demenza cesarea che in Hitler fu congenita e che
si accrebbe col crescere della potenza militare germanica oltrepassando ogni
precedente esempio di paranoia di dominio, non basta a spiegare la raffinatezza
dei supplizi che il nazismo ideò, eresse a sistema ed organizzò in modo
uniforme in tutti i Lager politici; né giova a spiegare i misfatti delle
camicie brune l'argomento che la Germania doveva difendersi alle spalle da
milioni di uomini decisi ad ostacolarne la egemonia sul mondo perché tal sogno
era già di per sé scellerato. Non so quanti in quella Germania che se fosse riuscita
vittoriosa avrebbe trasformato l'Europa in un immenso Lager, abbiano
rimproverato ai nazisti la loro arroganza, la loro truculenza, la loro
criminalità, non so quanti abbiano piuttosto rimproverato a Hitler
semplicemente di non aver saputo vincere la guerra. Certo è che la spaventevole
macchina torturatrice messa in moto da Hitler fu so- spinta per tutte le
contrade d'Europa da una forza creata dalla suggestione prestigiosa e quasi
mitica che Hitler esercitava sulla nazione germanica la quale infatti resistette
intorno a lui, con tutto il suo formidabile apparato amministrativo, militare e
poliziesco fino al giorno della irreparabile, sconfitta. Quella forza ha un solo
nome che la definisce e la spiega. «Odio»: l'eredità di Caino moltiplicata
dall'esercizio della malvagità nei secoli, arricchita da una particolare
attitudine e intelligenza nativa a torturare. La catastrofe di Hitler fu la salvezza dell'Europa e del
mondo. Il mostro nazista, dopo avere lacerato tante anime, distrutti infiniti
focolari, inceneriti milioni e milioni di uomini, di donne, di bambini.
schiacciato sotto il peso dei suoi delitti è riprecipitato nell'infernale
abisso dal quale era uscito. Nei tempi moderni, quando la tirannia ripudia e
sopprime gli istituti politici fondati sui diritti imprescrittibili dell'uomo,
prima o poi ma fatalmente, la reazione si abbatte inesorabile per ristabilire
l'impero della libertà e della giustizia che sono il fondamento necessario e
insopprimibile delle società umane. La disfatta dell'hitlerismo, come il fosco
tramonto e il crollo miserabile del fascismo in Italia, ne sono una nuova,
decisiva e tragica conferma, tanto più decisiva e tragica quanto più
cinicamente nazismo e fascismo irrisero, violarono e distrussero ogni norma di
vita morale e civile. Il trascorrere del tempo sanerà le ferite tuttora
sanguinanti, e bisogna credere e volere che sulle rovine e le distruzioni sorga
un'età nuova e migliore, ma vi sono documenti e monumenti sparsi sul
paesaggio mortifero del nazifascismo che debbono restare non solo come testimonianza
storica del passato, ma soprattutto come ammonimento per l'avvenire. Debbono
restare, più di ogni altro, vivi nella memoria e perenni allo sguardo e alla
meditazione delle genti di ogni paese i campi di sterminio dove i sicari della
tirannide hitleriana, ben più feroci delle belve, si esercitarono
nell'assassinio quotidiano balzando sulla vittima nella luce spettrale delle
albe invernali, nel crepuscolo delle sere estive, nelle tenebre della notte,
nella piena luce del sole, con un urlo selvaggio o una bieca risata. Questi luoghi sacri alla morte più orrenda debbono restare
con le loro camere a gas, i loro forni crematori, i loro attrezzi di tortura, le
loro baracche per gli esperimenti di medici criminali, con le loro teche dove,
dopo la liberazione, furono raccolte capigliature bionde e brune di donne,
scarpine, bambole e ninnoli portati dagli ultimi bimbi arrivati fin lassù da
ogni paese d'Europa e, dopo viaggi di dieci, quindici giorni nei carri piombati,
immediatamente gettati nei forni. Debbono restare intatte le scale della morte e
le cave di pietra, le «attrezzature cliniche»del «Krankenbaus» di Mauthausen con le sue cuccette dove il corpo dei
morti era il guanciale degli agonizzanti. Debbono restare intatti gli uffici dei
Comandi dove si decretavano gli eccidi in massa e dove le SS portavano a
gozzovigliare le loro donne sotto i paralumi di pelle umana. Devono restare le
lapidi di esecrazione della barbariee quelle di esaltazione della virtù
e dei sacrificio, le bandiere delle nazioni suppliziate e gli omaggi recati
dalle donne e dagli uomini di tutta l'Europa ai luoghi dove, se delle vittime
non esistono più neppure le ceneri, alita però perenne il loro spirito
risorto. Tutto deve restare come era tra la fine dell'aprile e i primi di maggio
del 1945 quando i superstiti videro fuggire le SS prima che avessero avuto il
tempo di eseguire il sempre minacciato «die letzte Niedermetzelung»: il
massacro finale. Non per recarci in quei luoghi santificati dal martirio a
covarvi vendette, ma per meditare sulla stoltezza e sulla malvagità degli
uomini e per meglio capire e sentire su quelle zolle e in quegli edifici dove i
nazisti si inebriavano dell'odore del sangue e assaporavano il gusto della
tortura, che la malvagità mai si disgiunge dalla stoltezza; per rendere più
vigorosa e più fiera la nostra volontà di contribuire con tutte le nostre
forze affinché la storia non debba più registrare i crimini che il
nazifascismo consumò nei «Konzentrationlager»: i carnai dove ogni cento
suppliziatiitalianisi contano sette vivi e novantatre cadaveri.
Dal
fascicolo «L'oblio è colpa», a cura dell'ANED di Milano, numero unico,
s.d., per gentile concessione