Documenti dell'ANED di Milano

Raoul Pupo

Università di Trieste

L'eredità del fascismo e della guerra: dalle foibe all'esodo dall'lstria

Le foibe e l'esodo dei giuliano-dalmati come eredità del fascismo e della guerra. Lo abbiamo detto e scritto un'infinità di volte: quella del fascismo è stata una semina di violenza e di sangue, che la guerra ha poi moltiplicato e dilatato su di un'area più vasta, al di là dei confini di Rapallo, attraverso il meccanismo della guerra di aggressione, delle occupazioni e delle annessioni. Una semina di violenza che generato un'abitudine alla violenza, esasperata dalle esperienze limite vissute dalla società di frontiera nel periodo in cui l'area giuliana fu parte della Zona di operazioni Litorale adriatico. Anche il raccolto dunque non poteva essere che di violenza e di sangue. È una conclusione abbastanza scontata, strano sarebbe stato se mai il contrario. Tuttavia il problema non è questo. Il problema è quello di capire se le tragedie delle foibe e dell'esodo rappresentano veramente e soltanto la conclusione dei processi storici precedenti, e se, in ogni caso, possono venir considerate solamente il lascito di morte che il fascismo e la sua guerra hanno trasmesso al dopoguerra. La risposta credo debba essere articolata. Le foibe costituiscono certamente uno dei picchi delle violenze registratesi nell'area giuliana nella prima metà del secolo, ma non certo l'unico e nemmeno particolarmente fuori scala rispetto ad altri eventi luttuosi che coinvolsero la popolazione civile. Anche senza pensare ai bombardamenti aerei, pensiamo alle migliaia di vittime dell'offensiva tedesca in Istria nell'autunno del 1943, ovvero alle altre migliaia di uccisi nella Risiera di San Sabba. Senza imbarcarsi in assurde gerarchie del dolore, possiamo limitarci a notare che siamo in presenza di tragedie più o meno dello stesso ordine di grandezza. L'impatto delle foibe fu enorme, all'epoca e poi ancora per decenni, fino ad oggi, sul piano delle tragedie individuali e familiari, sul piano psicologico e su quello politico, ma non si è trattato certo di un fenomeno conclusivo: non si può dire cioè che abbia alterato sostanzialmente gli equilibri tra i gruppi nazionali viventi nella regione Giulia. Quanto all'esodo invece, esso appare effettivamente come la conclusione della crisi che si era aperta non con il fascismo, ma nel 1918 - quando la sostituzione dell'impero asburgico con gli stati nazionali italiano e degli slavi del sud innescò una seria di spostamenti di popolazione di grandi dimensione - ma che, a dire il vero, era stata preannunciata già nei decenni precedenti al finis Austriae, con l'affermarsi dei nazionalismi di massa e della conseguente volontà di possesso esclusivo dei territori da parte dei diversi gruppi nazionali. L'esodo quindi fissa un nuovo assetto stabile degli equilibri nazionali nell'area giuliana, ed è conseguenza diretta della guerra perduta, con la quale il fascismo disperse dopo poco più di un ventennio i frutti della Grande guerra. Tuttavia, se una qualche punizione territoriale risultava piuttosto ovvia, dal momento che era stata l'Italia ad aggredire la Jugoslavia, la completa scomparsa della presenza italiana dai territori ceduti era molto meno scontata. Consequenzialità degli avvenimenti ed autonomia dei progetti e delle forme di lotta sono dunque i due poli che fissano le coordinate al nostro ragionamento storico. Cominciamo quindi con il vedere sinteticamente quali sono i connotati essenziali dei due fenomeni di cui ci occupiamo - foibe ed esodo - e poi vedremo come interagiscono con quelli precedenti. Per foibe intendiamo le violenze di massa, a danno principalmente, ma non esclusivamente, di italiani, avvenute in due ondate, nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945; e ciò a prescindere dalle modalità con cui avvennero le uccisioni e le inumazioni. Naturalmente, questo non è l'unico significato possibile del termine, ma è quello che in sede di ricostruzione storica ci consente di cogliere le specificità del fenomeno. Il significato letterale infatti, indica una tecnica di assassinio di massa, non specifica dell'area giuliana, e riguarda solo una parte delle vittime delle due ondate, e soprattutto della seconda. Specularmente, il significato estensivo che viene frequentemente adottato nel linguaggio politico italiano, non più solo di destra, e che copre tutte le vittime italiane cadute per mano del movimento di liberazione sloveno e croato nell'area giuliana dal 1943 in poi, ha una valenza ideologica e non storica, e impedisce di comprendere la specificità dei fenomeni verificatisi nei due momenti di violenze di massa. Quanto ai criteri di lettura di quegli avvenimenti, il punto di partenza rimane la distinzione proposta ancora alla fine degli anni Ottanta da Elio Apih, fra "scenario" e "sostanza politica" delle stragi¹. Dove per scenario si intende il clima di "furore popolare" e di "resa dei conti", che è ben visibile in entrambe le fasi: con maggior evidenza nell'autunno del 1943 e comunque nel contesto istriano, ma in ogni caso con sufficiente chiarezza anche nella primavera del 1945 e nelle aree urbane di Trieste e Gorizia. Da questo punto di vista, gli episodi cruenti e le vendette perpetrate a danno di fascisti, collaborazionisti dei tedeschi e così via, non differiscono sostanzialmente da tante altre vicende dei dopoguerra europei, nelle fasi cruciali del crollo del potere nazifascista: un crollo che nella regione Giulia avviene non una ma due volte, dopo l'armistizio dell'Italia e dopo la cacciata dei tedeschi, e duplice quindi è anche l'esplosione di violenza. Naturalmente, nel caso giuliano agli antagonismi politici si saldano quelli nazionali, perché l'oppressione ha avuto entrambi i caratteri, ed anche perché all'interno del movimento di liberazione sloveno e croato l'animus nazionalista è molto forte: in alcune circostanze quindi si hanno scoppi di furore nazionale che travolgono ogni argine. Nello stesso quadro di deragliamento della violenza, rientrano i casi, tutt'altro che infrequenti, di errori, eccessi, commistione di rappresaglie politiche e personali, inserimento della criminalità comune, e così via. Tutto questo però, è ancora soltanto lo scenario, il clima politico e psicologico entro il quale maturano le stragi, e di per sé non è sufficiente a spiegare dimensioni e valenza del fenomeno delle foibe. La sostanza del dramma, come diceva Apih, è riconducibile ad una progettualità politica, che ha lasciato tracce evidenti. Sono tracce meno clamorose nel 1943, vista la grande confusione della realtà istriana del tempo, ma ugualmente chiare nelle fonti, che parlano in maniera esplicita di una repressione pianificata - anche se poi realizzata un po' alla carlona - dei "nemici del popolo" ². Questa è una categoria, come sapete benissimo, estensibile a piacere e che nel concreto della situazione jugoslava del tempo indicava tutti gli avversari, reali o anche soltanto potenziali, dal punto di vista politico e di classe, del movimento di liberazione. Molto più palese è l'importanza del disegno strategico di annichilimento di ogni forma di possibile contropotere, o anche soltanto di nuclei di dissenzienti, nelle vicende della primavera del 1945 ed in particolare nei centri urbani: Trieste, Gorizia, Fiume. A questo riguardo, non lavoriamo ormai soltanto su ipotesi, derivanti dall'analisi dei comportamenti concreti delle autorità di occupazione jugoslave, ma possiamo verificarle su di una documentazione che - quantomeno per la parte slovena - è molto ricca e significativa ³. Ecco allora emergere piuttosto bene gli elementi portanti del progetto repressivo. In primo luogo la repressione per categorie, ad esempio gli uomini in armi, che vengono trattati tutti allo stesso modo - tedeschi, soldati della Rsi, combattenti del Cvl o del Cil - perché l'unica discriminante è quella di essere o meno agli ordini del comando di città dell'esercito popolare di liberazione jugoslavo. Chi non risponde a quegli ordini è un nemico, e se dice di non esserlo, cioè di essere un antifascista, è ancora peggio, perché viene considerato un fomentatore di guerra civile, che va "smascherato" ed eliminato. In questi casi - che fortunatamente non sono moltissimi, perché non bisogna credere che nelle foibe ci siano soprattutto gli antifascisti - vediamo senza ombra di dubbio un movimento resistenziale che ne divora un altro. Altre categorie/bersaglio sono alcune piuttosto ovvie - i componenti l'apparato di polizia, i rappresentanti dello Stato italiano e fascista - altre ancora invece appaiono un po' meno scontate, almeno dal punto di vista dell'antifascismo italiano: ad esempio, gli autonomisti fiumani, che vengono colpiti subito e con grande durezza, proprio perché hanno un'indubbia legittimità antifascista, che potrebbe mettere in discussione la pretesa di monopolio dell'antifascismo, che è tipica del fronte di liberazione sloveno e di quello croato. Ci sono poi altri aspetti significativi da tenere in conto, come la repressione sulla base del semplice sospetto e la larga indifferenza per l'accertamento della responsabilità personali, che rimandano ad un modello d'intervento di matrice staliniana, che è ben presente nell'operato dei poteri popolari, ed ancor più nella prassi degli organi di sicurezza di quello che è oramai il nuovo stato jugoslavo. Non vorrei però in questa sede addentrarmi nei dettagli, ma piuttosto sottolineare come nel loro insieme tutti gli elementi rimandino ad alcuni criteri generali di intervento, la cui comprensione costituisce il no­do centrale sul piano del giudizio storico. Elio Apih parlava di "epurazione preventiva" della società giuliana, altri di "presa del potere comunista" : sono tutti modi per dire la stessa cosa. Nella Venezia Giulia non c'è soltanto un'occupazione militare, che trova più o meno consenzienti parti diverse della popolazione, ma - portata dalle baio­nette jugoslave - è in corso una rivoluzione, che si afferma con i modi propri delle rivoluzioni, e cioè con il bagno di sangue. È soprattutto - anche se non esclusivamente - sangue italiano, non solo perché italiana è circa la metà della popolazione della regione e la grande maggioranza dei centri urbani, che rappresentano il fulcro della lotta per il potere, ma perché all'interno della componente italiana è largamente diffusa l'ostilità verso il progetto politico di cui i nuovi poteri sono i portatori: e cioè, l'annessione del territorio alla Jugoslavia socialista. Viceversa, tra la popolazione slovena e croata, la prospettiva dell'annessione del Litorale e dell'lstria alla Jugoslavia fa in genere passare in secondo piano le perplessità, o addirittura le contrarietà, che in altre parti della Slovenia e della Croazia sono piuttosto frequenti, nei confronti del movimento di liberazione a guida comunista e del regime di stampo stalinista che si sta formando. Questo ragionamento ci porta all'acquisizione storiografica forse più importante degli ultimi anni, secondo la quale il fenomeno delle foibe non è pienamente comprensibile se si rimane all'interno delle logiche che muovono la storia italiana del tempo. Bisogna cambiare storia, perché quella che ha coperto l'intera frontiera orientale italiana nelle fasi finali del conflitto è stata la storia della Jugoslavia e del suo movimento partigiano, impegnato in una lotta che era ad un tempo guerra di liberazione ed affermazione nazionale, guerra civile e rivoluzione. Sono quindi le categorie forgiate in quella lotta che trovano applicazione anche nella Venezia Giulia: una concezione dell'antifascismo che rimanda ad un contesto strategico radicalmente diverso, vale a dire alla prospettiva di uno scontro a breve distanza con il fronte "imperialista", secondo una lettura delle relazioni Est-Ovest che anticipa largamente il clima della guerra fredda e le stesse scelte della politica estera sovietica 6. Ancora, una visione del ruolo egemonico del partito comunista sul movimento resistenziale, che non ammette alcun altro centro autonomo di produzione di scelte politiche. Conseguentemente, una divisione manichea dei soggetti politici, tra "i nostri" e gli altri, che diviene il criterio guida per il lancio delle politiche repressive, dirette a sbaragliare i nemici del passato - gli occupatori - i nemici del presente - gli oppositori del movimento di liberazione – ed anche i nemici del futuro, cioè i soggetti che si potrebbero rivelare pericolosi per il consolidamento del nuovo ordine. Nella Venezia Giulia naturalmente, questo nuovo ordine presenta due facce, tra loro inscindibili: la costruzione del regime e l'annessione alla Jugoslavia, e questa duplicità moltiplica dissenzienti e bersagli. Infine, un uso larghissimo della violenza come strumento di elezione per la conquista e il rafforzamento del potere, che conduce alla liquidazione fisica e su larga scala degli avversari: le stragi della Venezia Giulia possono sembrare un unicum nella storia italiana di quei mesi, ma non certo in quella della Jugoslavia, che conosce massacri anche maggiori. Conclusivamente, la tragedia delle foibe appare come prevalentemente come un fenomeno di violenza dall'alto, che ­ perlomeno nei suoi intendimenti strategici, perché poi a livello di quadri, i piani facilmente si sovrappongono - non ha come obiettivo la "pulizia etnica" della Venezia Giulia dagli italiani, come spesso viene detto - confondendo fra l'altro con una certa disinvoltura etnia e nazione - ma in primo luogo, l'eliminazione di ogni ostacolo sulla via della costruzione del nuovo potere jugoslavo e comunista, e - in secondo luogo - anche l'intimidazione generale del gruppo nazionale italiano, non già per forzarlo ad abbandonare il territorio ­ perché ciò non attiene alle finalità della politica jugoslava nella primavera del 1945 - bensì per mostrare l'inutilità e la pericolosità di qualsiasi forma di opposizione all'annessione. Veniamo all'esodo, che rispetto alle foibe è un fenomeno meno cruento, ma di dimensioni incomparabilmente maggiori: al di là delle discussioni abbastanza sterili sulle cifre, quando si ragiona come minimo di un quarto di milione di persone, più o meno la metà degli abitanti dei territori interessati, è chiaro che si tratta di un fenomeno quantitativamente importante. È un fenomeno lungo, perché dura oltre dieci anni, concentrato dal 1944 al 1956, ma con alcune partenze prima e dopo tali date. È un fenomeno periodizzante - e questo è il suo aspetto più significativo - perché la scomparsa quasi integrale del gruppo nazionale italiano da alcune delle sue regioni di insediamento storico, rappresenta una frattura epocale per l'area alto adriatica, che ha spezzato una continuità che durava dall'epoca della romanizzazione. Per tutte queste ragioni, e per altre ancora, l'esodo è un fenomeno ancora largamente da studiare, sia sul versante della storia politica, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi decisionali jugoslavi, sia e molto abbondantemente, sul versante della storia sociale. Dal punto di vista storiografico quindi, quello dell'esodo è un cantiere aperto, molto più di quanto non lo sia la tragedia delle foibe, dove oramai la dimensione prevalente della ricerca è quella della pietà, cioè del dare risposta per quanto sarà possibile dopo mezzo secolo, alle tante domande dei familiari degli scomparsi. Anche nel caso dell'esodo comunque, possiamo individuare abbastanza rapidamente i suoi tratti cruciali, anche se dobbiamo dire che su alcuni nodi lo stato delle fonti non ci consente risposte certe, ma solo ipotesi da verificare. La prima caratteristica importante, è che si tratta di un esodo totale: non di tutta la popolazione residente nell'area - e cioè i territori già facenti parte del regno d'Italia e a diverso titolo passati sotto il controllo jugoslavo - ma di un'intera componente nazionale, quella italiana. Quando si parla dell'allontanamento dell'85-90% degli italiani, vuol dire che a prendere la via dell'esilio è stato un gruppo nazionale al completo delle sue articolazioni sociali, cui si sono aggregati anche nuclei di popolazione slovena e croata la cui dimensione è difficile da definire. È un esodo a tappe, i cui picchi si dispongono a seguito dei due momenti in cui viene decisa la sorte della Venezia Giulia, vale a dire il trattato di pace e il memorandum d'intesa. Il significato di una scansione del genere è abbastanza trasparente. Al di là dello stillicidio continuo di fughe individuali, e di casi anomali come quello di Zara 8 , ciò che muove le decisioni collettive di esodare, che riguardano intere comunità ­ paesi o addirittura città - non è l'instaurazione del potere jugoslavo, ma la consapevolezza che tale potere è divenuto definitivo. Fino a quando esiste una speranza di cambiamento, la popolazione italiana in genere resiste sulla sua terra, nonostante l'oppressione cui viene sottoposta sia assai dura fin dall'inizio. Nel caso della zona B del mai costituito Tlt, questa speranza rimane addirittura fino all'autunno del 1953, e quindi il "grande esodo" comincia solo successivamente. Viceversa, quando le comunità italiane si rendono conto che la dominazione jugoslava non verrà meno, niente riesce a trattenerle. Le perplessità di De Gasperi e la mancanza di strutture per ospitarli ed anche solo per trasportarli in Italia, non scalfiscono la volontà dei polesani di abbandonare Pola prima dell'entrata in vigore del trattato di pace, tant'è che l'esodo parte in pieno inverno. Le mille angherie cui le autorità jugoslave sottopongono gli istriani che hanno optato per la cittadinanza italiana dopo il 1947, riescono solo a ritardare il flusso delle partenze. Gli ultimi dubbi delle autorità italiane alla fine del 1953 sull'opportunità di svuotare la zona B, spingono i rappresentanti istriani a chiarire che ritardi nella predisposizione dell'accoglienza non fermeranno l'esodo, ma getteranno soltanto nella disperazione gli italiani che hanno deciso di andarsene. Si tratta quindi di decisioni inarrestabili, ma come vanno intese, come frutto di libere scelte o di una pressione espulsiva irresistibile? Qui siamo di fronte a quello che costituisce probabilmente il nodo interpretativo di fondo dell'intera vicenda dell'esodo. È un nodo che non può venir risolto rimanendo sul piano formale, perché è ben vero che contro gli italiani non viene mai messa in opera una legislazione di tipo espulsivo, come accade invece per i tedeschi, nella stessa Jugoslavia ed in altri Paesi europei; ma è vero anche che il meccanismo delle opzioni fa sì che per provocare l'allontanamento in massa del gruppo nazionale italiano siano sufficienti le pressioni ambientali, e che queste ci siano state, e ben massicce, ce lo con­ferma un'infinità di testimonianze. Tutto questo però non è sufficiente per affermare che l'esodo sia frutto di un disegno preordinato di espulsione della componente italiana da parte delle autorità jugoslave. Al di là degli indizi contraddittori, per sostenere una tesi del genere dovremmo poter ricostruire il processo decisionale jugoslavo, ma questo oggi non siamo in grado di farlo. Per superare l'impasse, negli ultimi anni si è fatto strada un approccio diverso, potremmo dire di tipo funzionalista, che sposta il discorso dal piano delle intenzioni recondite, a ciò che venne detto e a ciò che venne fatto, scoprendo in tal modo che quanto emerge è già sufficiente per delineare una progettualità politica che implicava l'esodo, anche se attraverso un'evoluzione che non necessariamente poteva venir prevista a priori 9. Il nucleo dell'analisi è costituito dallo studio della politica della cosiddetta "fratellanza italo-jugoslava", delle sue ragioni, dei suoi limiti e del suo fallimento. La prima cosa da notare, è che quella politica viene elaborata nella seconda metà del 1944, in riferimento ad un gruppo nazionale italiano completamente diverso da quello cui viene poi realmente applicata: e questo perché alla fine del 1944 la prospettiva jugoslava è quella di annettere tutta la Venezia Giulia, vale a dire anche Trieste e Monfalcone, con le loro grandi concentrazioni di classe operaia. In questo caso, quello italiano sarebbe un gruppo nazionale assai numeroso, con un profilo sociale estremamente interes­ante per un paese come la Jugoslavia, che vive una rivoluzione bolscevica, ma che di classe operaia ne ha assai poca, e con attitudini politiche abbastanza favorevoli, perché la classe operaia, anche di lingua italiana, si sta orientando in favore dell'annessione alla Jugoslavia, in quanto patria socialista, piuttosto che alla permanenza in Italia, dove è molto difficile che il socialismo possa affermarsi. Quanto ai contenuti della "fratellanza", si tratta di una politica fortemente selettiva: una politica cioè, che non si fa illusioni sull'atteggiamento delle borghesie urbane portatrici dell'idea nazionale italiana, ed è pronta a trattarle con grande rudezza, ma che crede invece di poter isolare alcuni nuclei consistenti di popolazione e di classe dirigente italiana, disponibili non solo all' annessione, ma anche a vivere tutte le trasformazioni necessarie per adeguarsi alla nuova realtà istituzionale, sociale e politica. Possiamo dire quindi che si tratta di una politica in cui fin dal primo momento sono impliciti un ridimensionamento e una forte trasformazione del gruppo nazionale italiano, ma non necessariamente la sua completa sparizione. Allo stesso problema possiamo guardare anche in termini diversi: mentre i tedeschi nel dopoguerra vengono tutti espulsi, agli italiani viene offerta invece una seconda opportunità, ma solo nella misura in cui si mostrano disponibili a fare proprio fino in fondo il modello di rapporti nazionali, sociali e politici proposto dal regime. Ciò significa, fra l'altro, rifiutare l'esperienza storica dello stato unitario italiano, culminata necessariamente con il fascismo; significa considerare come peggior nemico l'Italia del tempo, capitalista e revanscista; e infine significa anche combattere i nemici della Jugoslavia, a cominciare dagli stessi italiani che non ne vogliono sapere. Come vedete, si tratta di pretese piuttosto elevate, ma le cose vanno in maniera abbastanza diversa: Trieste e Monfalcone non vengono annesse e di conseguenza, il gruppo nazionale italiano in Jugoslavia risulta più piccolo e composto soprattutto di ceti urbani e contadini, che si confermano assolutamente ostili, sia all'inglobamento nello stato jugoslavo che al comunismo, mentre soltanto qualche nucleo operaio si mostra inizialmente favorevole. Verso chi non ci sta, le autorità popolari applicano immediatamente una politica molto dura, che concede solo due possibilità: o piegarsi o andarsene. Quanto invece alla classe operaia, soprattutto a Fiume e Pola, l'impatto con la realtà del regime è assolutamente traumatico. Cito solo un episodio emblematico: nell'autunno del 1945 i maggiori esponenti comunisti italiani di Pirano spediscono a Togliatti una lettera clandestina, in cui denunciano il nazionalismo slavo e chiedono l'autorizzazione a ricostituire il "Cln cospirati­vo" 10. Oltre a questo, potremmo citare molti altri episodi, tant'è che fra il 1946 e il 1947 la politica della "fratellanza" è già in crisi, e a confermarlo sta il fatto che da Pola e da Fiume gli operai alla fin fine partono per l'esilio come tutti gli altri italiani. Di conseguenza, quando poi nel 1948 subentra anche la rottura con il Cominform, che schiera i comunisti italiani per Stalin contro Tito - e quindi li candida ai campi di rieducazione dell'Isola Calva - la crisi non costituisce tanto una svolta, come ha talvolta sostenuto parte della storiografia italiana, quanto piuttosto la pietra tombale di una politica ormai fallita. A questo punto - siamo alla fine del 1948 - le città maggiori sono già vuote e la popolazione dei territori ceduti ha optato in blocco per l'Italia. Ciò significa però che la penisola istriana è in procinto di perdere da un momento all'altro almeno la metà della popolazione, e tutte le competenze professiona­li superiori, prefigurando quindi un disastro economico che potrebbe innescare una reazione a catena, capace di spingere all'esodo anche chi non ha motivazioni nazionali per farlo. È questo probabilmente il motivo principale per cui le autorità jugoslave tentano a modo loro di frenare l'esodo. Ci potrebbe essere però anche un'altra ragione. La dimensione assunta dalle opzioni butta completamente all'aria uno degli assunti fondamentali non solo della propaganda, ma anche della cultura politica jugoslava, che è di tipo etnicista: e cioè la convinzione che la maggior parte dell'italianità istriana sia fittizia, frutto di processi di snazionalizzazione e quindi facilmente riportabile alla sua origine etnica. Invece, a clamorosa smentita di tale previsione, e anche di parte dell'impianto teorico che aveva supportato le rivendicazioni jugoslave alla conferenza della pace, tutti i parlanti italiano, ed anche molti che lo parlano piuttosto poco, proclamano, nero su bianco, di essere italiani, al punto di volersene andare. Questo è ritenuto evidentemente intollerabile, tanto intollerabile che poi per cinquant'anni, e in parte ancora oggi, la sto­riografia anch'essa di stampo etnicista ha continuato ad almanaccare sul problema: ma quanti fra gli esuli erano "realmente" italiani? È questo un quesito che, nei termini schematici in cui viene solitamente posto, è destinato probabilmente a rimanere senza risposta, perché trascura il fatto piuttotosto banale - già rilevato da Ernesto Sestan fin dal 1944 11 ­- che in alcune aree mistilingui dell'lstria interna i processi di nazionalizzazione non avevano ancora coinvolto la generalità della popolazione, e che pertanto l'appartenenza nazionale risultava "non dato di natura ma atto di elezione", fortemente influenzato dalle condizioni politiche del momento. Quando Sestan scrisse queste osservazioni, sotto l'impressione della debacle italiana e ben consapevole del triste ricordo lasciato dall'Italia fascista, era convinto che - nel caso di un plebiscito - i nazionalmente incerti avrebbero finito per votare per la Jugoslavia. Invece, la durezza del regime jugoslavo riesce là dove la propaganda italiana mai avrebbe potuto arrivare, e le opzioni si trasformano in una sorta di plebiscito con i piedi, in cui una parte imprevedibilmente elevata della popolazione istriana, al posto della Jugoslavia di Tito sceglie l'Italia di De Gasperi. Qui il nostro ragionamento può anche concludersi, perché ­ scomparsa con tutta evidenza qualsiasi possibilità che nuclei consistenti di popolazione italiana accettino di farsi "jugoslavizzare" - le poche decine di migliaia di italiani residuali, quelli della zona B, a partire dai primi anni Cinquanta vengono trattati come un mero ostaggio nei negoziati con l'Italia. Proviamo allora a rovesciare il punto di vista, non più quello del potere, ma quello delle vittime, vale a dire, delle motivazioni che conducono gli istriani alle decisione di esodare. Non c'è alcun dubbio che, nella memoria, il primo posto è tenuto dalla paura legata ai ricordi delle foibe e rafforzata dal continuo stillicidio di violenze che punteggia il dopoguerra istriano: una paura che rappresenta l'aspetto più evidente dell'oppressione esercitata da un regime, la cui natura totalitaria impedisce anche ogni libera espressione dell'identità nazionale. Non è affatto detto però, che in realtà la paura sia stata la molla principale dell'esodo: diciamo piuttosto, che influisce in maniera diretta nei casi degli espatri clandestini combinati per salvare la vita, che non sono certo pochi, ma che soprattutto prepara il terreno in cui matura la scelta dell'esodo da parte delle comunità. Più sostanziali quindi ci appaiono altri elementi. Il sovvertimento delle tradizionali gerarchie, che erano ad un tempo nazionali e sociali, e che avevano visto il gruppo italiano storicamente egemone in Istria. Allo stesso modo, pesa il ribaltamento dei rapporti di potere fra città e campagna, che fino a quel momento, avevano visto la dipendenza economica, politica e culturale delle aree agricole dai centri urbani, com'è usuale in Italia. Un altro elemento importante, che vale soprattutto per la zona B, dove il processo si trascina più a lungo, è la progressiva eliminazione dei punti di riferimento culturali e morali del gruppo nazionale italiano, come gli insegnanti e i sacerdoti. Ancora, il peggioramento delle condizioni di vita degli italiani a seguito delle scelte politiche ed economiche del regime. Infine, dobbiamo tenere presente anche altri aspetti, apparentemente più immateriali, ma non per questo meno importanti: la negazione dei valori tradizionali, l'imposizione di nuovi criteri di misura del lavoro e del prestigio sociale, il sovvertimento di abitudini consolidate da generazioni e l'introduzione di nuove regole di comportamento - nei rapporti sociali come nella gestione della terra ­ la necessità di servirsi di una nuova lingua, pressoché scono­sciuta, e di inserirsi in una cultura, che fino ad allora non era stata nemmeno presa in considerazione come tale. Tutti questi fattori combinati tra loro e sommati ai precedenti, suscitano una crescente sensazione di estraneità, rispetto ad una realtà che sta cambiando velocemente e nella quale c'è sempre meno posto per gli italiani. Per descrivere quel tipo di percezione collettiva, la storiografia italiana più recente - e qui il riferimento è soprattutto ai lavori di Gloria Nemec 12 - ha introdotto il concetto di "spaesamento", che è divenuto la chiave interpretativa privilegiata cui far ricorso per comprendere l'atmosfera in cui sono costretti a vivere nel dopoguerra gli istriani di lingua, di cultura e di sentimenti italiani. lstriani che - anche quando resistono più a lungo alle ondate repressive ed alle pressioni politiche del regime - finiscono per sentirsi "stranieri in patria": questa è l'espressione che ricorre più frequentemente nelle fonti della memoria; e si tratta evidentemente di una condizione lacerante, che getta le fondamenta psicologiche per la scelta dell'abbandono del luogo d'origine. Legando quindi assieme - per concludere questa parte del discorso - tutti i diversi aspetti di cui abbiamo fatto menzione vediamo, come attraverso diverse vie e con ritmi diversi, le comunità italiane dell'lstria finiscono per arrivare tutte alla medesima conclusione: vale a dire, l'impossibilità di mantenere - nelle condizioni offerte dallo Stato jugoslavo - la propria identità nazionale. Dove il termine identità nazionale - e questo mi permetto di sottolinearlo, perché credo sia importante - va inteso ben oltre la sola dimensione politico-ideologica, ma come complesso di modi di vivere e di sentire, secolarmente sedimentati, che danno significato all'esistenza di una comunità. È solo muovendo da tale conclusione, che ha senso porsi in maniera non astratta il problema dell'effettiva libertà di scelta di cui possono disporre gli italiani di Fiume e dell'lstria, al di là del riconoscimento formale del diritto di opzione. Il punto infatti, è costituito dalla valutazione delle alternative concrete a disposizione di chi, in una situazione specifica, riluttante a prendere la via dell'esilio, e in questo senso con grande chiarezza si è espresso ancora nel 1967 Theodor Veiter:

La fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare un'espulsione di massa. È vero che tale fuga si configura come un atto apparentemente volontario, ma già l'opzione pressoché completa dei sudtirolesi per il trasferimento nel Reich germanico dopo il 1939 mostra come dietro la volontarietà possa esserci una costrizione assoluta e ineludibile. Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dell' emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio paese 13.

Questa è una conclusione che io mi sento ancor oggi di sottoscrivere, anzi, della quale sono sempre più convinto, però ­ logicamente - è soltanto un'opinione su di una materia ancora abbastanza fluida. Ultimo punto: se questi di cui abbiamo parlato sono i tratti essenziali delle foibe e dell'esodo intesi come problemi di interpretazione storica, cerchiamo conclusivamente di vedere in quale rapporto stanno con alcuni dei fenomeni precedenti e sui quali si sono soffermate le altre relazioni di oggi. Alcuni legami sono piuttosto trasparenti. Le crisi di violenza del 1943 e del 1945 costituiscono anche la risposta alle violenze precedenti, quelle legate alla presa del potere fascista, alla politica del regime ed agli orrori delle occupazioni. Nelle due fasi parossistiche delle uccisioni di massa, si chiudono molti conti che si erano aperti nelle fasi precedenti e ci sono anche delle sovrapposizioni terribili: parenti di vittime delle foibe del '43 diventano durante l'occupazione tedesca persecutori degli assassini dei loro congiunti, e poi vittime essi stessi della seconda ondata di vendette. Un altro filo di continuità piuttosto noto è quello che unisce le persecuzioni fasciste, la conseguente emigrazione politica in Jugoslavia, e la resistenza contro gli italiani: pensiamo ad esempio al ruolo importante giocato dai "rivoluzionari di professione", figli di emigrati, nella costruzione del movimento di liberazione in Istria 14. Ci sono poi ulteriori connessioni che assumono la forma di veri e propri parallelismi, ma che spesso sono sfuggiti, in parte per distrazione degli storici, ma soprattutto perché sono caduti vittime di una sorta di rigetto ideologico, che soprattutto nel discorso pubblico, porta a ritenere incomparabili i soprusi sofferti dalla parte con cui ci si identifica. Eppure, i parallelismi ci sono, eccome, perché alcuni dei problemi che si pongono nei due dopoguerra sono assai simili, e fondamentalmente riconducibili alla resistenza che parte della società locale oppone, in forme molto varie, ai progetti dei poteri che assumono il controllo del territorio. Ad esempio, nel 1918 come nel 1945 la priorità assoluta, per l'Italia e per la Jugoslavia, è l'annessione, e ciò comporta che le prime vittime della nuova situazione siano coloro o che si oppongono attivamente, o che comunque vengono ritenuti capaci di contrastare i progetti annessionisti. Di conseguenza, le prime categorie ad essere colpite dai provvedimenti repressivi sono, tanto per cominciare, le autorità che impersonano il precedente regime: ma non solo le autorità dello stato - il che è abbastanza ovvio - ma anche le autorità religiose, che di quel regime vengono considerate - a torto o a ragione - essere state espressione e puntello. Nel 1918 il vescovo sloveno di Trieste si vede la curia devastata (tenete presente che non ci sono ancora i fascisti), e l'anno dopo è costretto a scappare a Lubiana, e viene sostituito dall'ordinario militare italiano. Con maggior tempestività, nel 1945 il vescovo italiano di Gorizia viene quasi immediatamente arrestato dalle autorità jugoslave e poi espulso in Italia. Un secondo gruppo è costituito, in entrambe le fasi, dai militanti dell'idea nazionale sbagliata, che si esprimono - o anche soltanto che potrebbero esprimersi - contro i progetti annessionisti. Un'ulteriore categoria parallela è rappresentata da quanti occupano professionalmente ruoli di elevato profilo strategico e quindi di potenziale grande pericolosità: non pensate solo alle forze di polizia - che è scontato - ma ad esempio ai ferrovieri, che vengono epurati con grande rapidità. E infine, gli intellettuali, razza pericolosissima per antonomasia e buon diritto: la coscienza nazionale l'hanno inventata loro, come insegnanti la trasmettono alle giovani generazioni, come giornalisti la diffondono, come portavoce dell'identità nazionale costituiscono i punti di riferimento per le comunità in epoca di crisi. Maestri e sacerdoti della nazionalità sbagliata entrano quindi istantaneamente, dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale, nel mirino delle politiche repressive: di suo, il regime comunista jugoslavo metterà poi, non subito ma a partire dal 1947, la persecuzione religiosa generalizzata. Ci sono anche altri parallelismi storicamente rilevanti, che riguardano però non tanto i fatti, quanto la mentalità e i ragionamenti che stanno dietro alle logiche di violenza. Ad esempio, assolutamente comune - ma ovviamente incrociata, a vantaggio dei propri connazionali e a danno degli altri - è la negazione di autoctonia nei confronti degli immigrati recenti. Nel primo dopoguerra sono gli slavi immigrati negli ultimi decenni dell'impero asburgico, soprattutto in concomitanza con la costruzione di grandi infrastrutture ferroviarie, portuali e militari; nel secondo dopoguerra sono i cosiddetti "regnicoli", cioè provenienti da altre parti d'Italia ed impiegati soprattutto nella pubblica amministrazione. In entrambi i casi, i nazionalisti delle due parti vedono in questi soggetti, che sono decine di migliaia, la prova tangibile di progetti di modifica degli assetti etnici "naturali" del territorio, e quindi cominciano con espungerli dai risultati dei censimenti, per cercare poi di farli allontanare rapidamente dal territorio. Un altro parallelismo importante riguarda la negazione di legittimità all'espressione pubblica della propria appartenenza nazionale. È una negazione che si concretizza in una normativa molto diversificata nei diversi regimi, ma che si sostanzia di alcuni atteggiamenti di fondo. Di fronte alla lingua straniera, e nemica, parlata nel luogo sbagliato, scatta il rimprovero: se vuoi parlare slavo - o italiano vent'anni dopo ­ tornatene a casa tua, perché la casa di chi parla un'altra lingua non può essere la stessa della maggioranza. Su un altro piano pensiamo ai profughi, che sono fra le vittime più evidenti delle oscillazioni della frontiera in un'epoca di nazionalismi di massa: non parlo qui solo dei disagi, delle lunghe odissee e delle umiliazioni che sono tipiche della profuganza, in entrambi i dopoguerra, ma mi riferisco anche dell'uso politico dei profughi come massa di manovra per la nazionalizzazione di spazi strategici per lo stato. Nel primo dopoguerra, molti profughi sloveni dalla Venezia Giulia van­no a Marburg, appena abbandonata dalla popolazione tedesca, per trasformarla in Maribor, oppure vengono spediti nel Prekmurje ex ungherese, ovvero in Kossovo e Macedonia 15. Nel secondo dopoguerra molti profughi istriani che avevano trovato rifugio a Trieste, vengono insediati in una serie di borghi costruiti appositamente per loro nella striscia di territorio che collega Trieste al resto d'Italia e nella quale non esistevano in precedenza insediamenti italiani 16 . Fili di continuità e parallelismi dunque ci sono, più numerosi di quanto generalmente non si creda, tra i due lunghi dopoguerra giuliani, ma le differenze sono forse ancora più profonde. In primo luogo, troviamo un regime fascista che parla esplicitamente di "bonifica etnica" degli slavi, e che si impegna a realizzarla, ma alla fine del fascismo le comunità slovene e croate sono ancora lì, numericamente quasi stabili, anche se impoverite e decapitate della loro classe dirigente. Qualche anno dopo invece, troviamo il regime comunista jugoslavo, la cui politica ufficiale è quella della "fratellanza italo-slava", ma in capo a dieci anni gli italiani sono spariti. Questo è un bel problema, dal punto di vista interpretativo, che purtroppo è stato a lungo sprecato dall'approccio politico e ideologico, che riduceva tutto alla domanda: ma allora, qual era il regime peggiore? Ad una domanda del genere non possono che seguire polemiche senza costrutto, ma se invece utilizziamo questa apparente stranezza, come un grimaldello per capir meglio la natura dei processi storici, ci accorgiamo subito di alcune differenze importanti. In primo luogo, il crescendo della violenza tra il primo e il secondo dopoguerra. Quando abbiamo parlato di eliminazione di elementi ostili, e di epurazione da parte delle autorità italiane a partire dall'autunno del 1918, di solito ci si riferisce ad arresti, internamenti, licenziamenti ed espulsioni; nella primavera del 1945 parliamo invece di uccisioni. Negli anni venti i fascisti picchiano, devastano incendiano ed ammazzano, nel secondo dopoguerra abbiamo le stragi. Badate bene, che non è questione di buona volontà, che non è mai mancata da nessuna parte: piuttosto, possiamo parlare di un diverso uso della violenza di massa, che matura all'interno dei due regimi totalitari degli anni Trenta, quello nazista e quello stalinista, che esplode poi durante la guerra all'est - che è fin da subito guerra di sterminio - e che prosegue nel dopoguerra, che nell'Europa centrale e balcanica è luogo di stragi terribili. E la Venezia Giulia, come abbiamo visto, verso la fine del conflitto è tutta dentro quella storia dell'Europa di sud-est. La seconda differenza è legata al diverso grado di totalitarismo del fascismo italiano e del comunismo jugoslavo. Al fascismo non fa certo difetto la disponibilità all'uso della forza, anzi, le strutture dello stato vengono lanciate nella politica di snazionalizzazione: quello che manca sono le risorse. Mentre gli elementi estremisti preparano velleitari piani di insediamento di coloni italiani, di fatto, fuori dalle città non ci sono i mezzi per costruire il tessuto nazionalizzatorio: scuole, asili, ricreatori, case del fascio e così via. Manca anche un'analisi corretta del fenomeno nazionale nei cosiddetti "popoli senza storia": il pregiudizio culturale fondato sulla superiorità della civiltà latina, porta a non rendersi conto che le identità nazionali, una volta che si sono radicate, non si lasciano più sradicare, a meno di non sradicare anche le persone. Di conseguenza, il tentativo di riavviare a forza il processo di assimilazione degli slavi è destinato a fallire. Infine, il fascismo è un regime conservatore dal punto di vista sociale, e che quindi non ha alcun interesse a buttare all'aria le strutture delle società contadina slava. Se mai, al contrario, cerca di ripristinare gli assetti tradizionali, fondati sulla dipendenza degli slavi e il paternalismo degli italiani: ma in questo modo, nelle campagne rimangono larghi spazi per assorbire l'impatto del regime. Al contrario, quello comunista jugoslavo è un regime rivoluzionario, capace di entrare in tutte le pieghe della società e di porre a tutti, individui e comunità, l'alternativa senza scampo: o accettare di venire radicalmente trasformati, o sparire. A questo punto allora, credo che possiamo guardare complessivamente alle strategie rivolte verso le minoranze da parte dei due regimi, come a due politiche né ab origine radicalmente espulsive, né - tantomeno - genocide, ma fondamentalmente di integrazione selettiva: una parte della popolazione va eliminata, l'altra trasformata e quindi assorbita. C'è però una forte asimmetria. Il fascismo mira a distruggere la classe dirigente slovena e croata, di formazione abbastanza recente, in modo che le masse destrutturate siano facile preda del processo di italianizzazione. Il primo passo riesce, il secondo no, e di conseguenza, sloveni e croati - contrariamente alle intenzioni - non scompaiono. Il regime di Tito fa il contrario: individua all'interno della componente italiana una minoranza e - come abbiamo visto - ne fa l'interlocutore della politica della "fratellanza", che prevede una forma di integrazione subordinata. Al di fuori di questi italiani "buoni e onesti", ci sono i "residui del fascismo", per i quali non c'è spazio nella nuova Jugoslavia. I punti di partenza quindi sono diversi, e lo svolgersi degli avvenimenti allarga ulteriormente la forbice, perché le condizioni dell'integrazione nella realtà jugoslava risultano troppo pesanti non solo per gli strati urbani italiani non proletari, che costituiscono il nemico storico e di classe del nuovo regime e che erano comunque fuori dalla "fratellanza", ma anche per i gruppi sociali incerti, come i contadini, ed alla fin fine per la stessa classe operaia. Ecco allora, per concludere il nostro discorso di questa sera, che se noi rinunciamo agli schemi lineari e monocausali di lettura della storia giuliana del Novecento - sia che accettiamo o che respingiamo i loro capisaldi - e li sostituiamo con una rete di relazioni in cui alcuni fili si intrecciano strettamente, ed altri invece si svolgono in maniera autonoma, seguendo le grandi passioni del Novecento - gli antagonisti nazionali, le aspirazioni totalitarie, le politiche di potenza - se riusciamo ad entrare con una certa tranquillità in questa dimensione interpretativa, allora diventa molto più facile non tanto "prendere posizione", di fronte alle molte tragedie del Novecento alla nostra frontiera orientale (cosa che dobbiamo comunque fare, come cittadini e come democratici), quanto piuttosto capire il senso di quello che è successo. È proprio questo infatti che agli storici viene giustamente chiesto di provare a spiegare, anche per limitare i danni di un uso politico della storia talvolta più sensibile alle opportunità del momento, che al bisogno di verità.

Note

1 Elio Apih, Trieste, Laterza, Bari 1988.

2 Vedi ad esempio il rapporto del capitano Zvonko Babic-Zulja al Centro informativo regionale per il litorale croato e l'Istria, della seconda metà di ottobre del 1943, pubblicato in Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp.58-61.

3 Vedi al riguardo le fonti consultabili presso l'Archivio della repubblica di Slovenia, largamente utilizzate in particolare da Nevenka Troha nei suoi numerosi contributi dedicati al problema delle foibe; in lingua italiana vedi in particolare Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l'occupazione jugoslava della Venezia Giulia, in Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943­1945, a cura di Giampaolo Valdevit, Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli­Venezia Giulia, Marsilio, Venezia 1997.

4 Vedi in particolare Giampaolo Valdevit, Foibe. L'eredità della sconfitta, in Foibe. Il peso del passato, cit.

5 Vedi al riguardo i riferimenti presenti in Katja Colja, Il collaborazionismo nell'Adriatisches Kiistenland: la vicenda dei domobranci (1943-1945), in Marta Verginella, Alessandro Volk, Katja Colja, Storia e memoria degli sloveni del Litorale. Fascismo, guerra e resistenza, Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli­Venezia Giulia, Trieste 1994.

6 Vedi al riguardo le indicazioni presenti in Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943-1947, Editori Riuniti, Roma 1995; Giampaolo Valdevit, Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli. Venezia Giulia, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1999; Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d'Italia (1938-1956), Del Bianco, Udine 1999.

7 Per una panoramica generale sul fenomeno dell'esodo, mi permetto di rinviare al mio Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio, Rizzoli, Milano 2005. Per una ricostruzione in alcuni tratti datata, ma assai puntuale, vedi Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1980. Per una prospettiva comparativa vedi Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, a cura di Marina Cattaruzza, Marco Dogo, Raoul Pupo.

8 Per una ricostruzione dettagliata della distruzione di Zara e delle sue motivazioni vedi Oddone Talpo, Dalmazia. Una cronaca per la storia, pp. 1360-1429 e, con ampia documentazione fotografica, Oddone Talpo, Sergio Brcic, ... Vennero dal cielo; Campobasso 2000. Per un'interpretazione alternativa vedi A. Seferovic, Le fortezze volanti sopra Zara, serie di sei articoli pubblicati sul quotidiano di Zara "Slobodna Dalmacija", nei giorni 19,20,21,23, 24 e 25 ottobre 1984.

9 Marina Cattaruzza, L'esodo istriano: questioni interpretative, in "Ricerche di Storia Politica", I (1999), pp. 27-48; Raoul Pupo, Il lungo esodo, cit.

10 Cfr. la Relazione sugli ultimi avvenimenti nella Venezia Giulia e sulle condizioni dei comunisti già membri delle sezioni locali del Partito Comunista Italiano, inviata clandestinamente a Togliatti nell'autunno del 1945. Il testo della relazione è stato pubblicato su "Tempi e culture", I (1997), n. 2, pp. 33-46.

11 Ernesto Sestan, Le argomentazioni e le pretese del dotto Smodlaka, in Id., Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, ora ripubblicato a cura e con postfazione di Giulio Cervani, Del Bianco, Udine 1997, pp.183-187.

12 Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio. Grisgnana d'lstria 1930-1960, LEG, Gorizia 1998; Ead., The Re-defini­tion of Gender Roles and Family Structures among Istrian Peasant Families Faced with Urban Society in Trieste (1954-1964), in "Journal of Modern Italy", Special Issue Gender and the Private Sphere in 1taly Since 1945 (voI. 9,1 Maggio 2004); Ead., Un lungo spaesamento. L'esperienza dei ceti rurali nel movimento dell'esodo dalla zona B, in "Qualestoria", XXXI (2003), 2, pp. 46-55.

13 Theodor Veiter, Soziale Aspekte der italienische Flucthtlinge aus den adriatischen Kustengebieten, in Theo Mayer Maly, Albert Nowak, Theodor Tomandl, Festschrift fur Hans Schmitz, Wien-­Munchen 1967, voI. II, p. 280.

14 Vedi al riguardo Ljubo Drndic, Le armi e la libertà dell'lstria 1941-1943, EDIT, Fiume 1981

15 Cfr. Aleksej Kalc, L'emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre ed il suo ruolo politico, in "Annales", VI (1996), n. 8.

16 Vedi al riguardo l'ampio studio di Sandi Volk, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell'italianità sul confine orientale, Kappa Vu, Udine 2004.

da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004

sommario