Documenti dell'ANED di Milano
Raoul Pupo
Università di Trieste
L'eredità
del fascismo e della guerra: dalle foibe all'esodo dall'lstria
Le
foibe e l'esodo dei giuliano-dalmati come eredità del fascismo e della guerra.
Lo abbiamo detto e scritto un'infinità di volte: quella del fascismo è stata
una semina di violenza e di sangue, che la guerra ha poi moltiplicato e dilatato
su di un'area più vasta, al di là dei confini di Rapallo, attraverso il
meccanismo della guerra di aggressione, delle occupazioni e delle annessioni.
Una semina di violenza che generato un'abitudine alla violenza, esasperata
dalle esperienze limite vissute dalla società di frontiera nel periodo in cui
l'area giuliana fu parte della Zona di operazioni Litorale adriatico. Anche il
raccolto dunque non poteva essere che di violenza e di sangue. È una
conclusione abbastanza scontata, strano sarebbe stato se mai il contrario.
Tuttavia il problema non è questo. Il problema è quello di capire se le
tragedie delle foibe e dell'esodo rappresentano veramente e soltanto la
conclusione dei processi storici precedenti, e se, in ogni caso, possono venir
considerate solamente il lascito di morte che il fascismo e la sua guerra hanno
trasmesso al dopoguerra. La risposta credo debba essere articolata. Le foibe
costituiscono certamente uno dei picchi delle violenze registratesi nell'area
giuliana nella prima metà del secolo, ma non certo l'unico e nemmeno
particolarmente fuori scala rispetto ad altri eventi luttuosi che coinvolsero
la popolazione civile. Anche senza pensare ai bombardamenti aerei, pensiamo alle
migliaia di vittime dell'offensiva tedesca in Istria nell'autunno del 1943,
ovvero alle altre migliaia di uccisi nella Risiera di San Sabba. Senza
imbarcarsi in assurde gerarchie del dolore, possiamo limitarci a notare che
siamo in presenza di tragedie più o meno dello stesso ordine di grandezza.
L'impatto delle foibe fu enorme, all'epoca e poi ancora per decenni, fino ad
oggi, sul piano delle tragedie individuali e familiari, sul piano psicologico e
su quello politico, ma non si è trattato certo di un fenomeno conclusivo: non
si può dire cioè che abbia alterato sostanzialmente gli equilibri tra i gruppi
nazionali viventi nella regione Giulia. Quanto all'esodo invece, esso appare
effettivamente come la conclusione della crisi che si era aperta non con il
fascismo, ma nel 1918 - quando la sostituzione dell'impero asburgico con gli
stati nazionali italiano e degli slavi del sud innescò una seria di spostamenti
di popolazione di grandi dimensione - ma che, a dire il vero, era stata
preannunciata già nei decenni precedenti al finis Austriae, con
l'affermarsi dei nazionalismi di massa e della conseguente volontà di
possesso esclusivo dei territori da parte dei diversi gruppi nazionali. L'esodo
quindi fissa un nuovo assetto stabile degli equilibri nazionali nell'area
giuliana, ed è conseguenza diretta della guerra perduta, con la quale il
fascismo disperse dopo poco più di un ventennio i frutti della Grande guerra.
Tuttavia, se una qualche punizione territoriale risultava piuttosto ovvia, dal
momento che era stata l'Italia ad aggredire la Jugoslavia, la completa scomparsa
della presenza italiana dai territori ceduti era molto meno scontata.
Consequenzialità degli avvenimenti ed autonomia dei progetti e delle forme di
lotta sono dunque i due poli che fissano le coordinate al nostro ragionamento
storico. Cominciamo quindi con il vedere sinteticamente quali sono i connotati
essenziali dei due fenomeni di cui ci occupiamo - foibe ed esodo - e poi
vedremo come interagiscono con quelli precedenti. Per foibe intendiamo le
violenze di massa, a danno principalmente, ma non esclusivamente, di italiani,
avvenute in due ondate, nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945; e ciò
a prescindere dalle modalità con cui avvennero le uccisioni
e le inumazioni. Naturalmente, questo non è l'unico significato possibile del
termine, ma è quello che in sede di ricostruzione storica ci consente di
cogliere le specificità del fenomeno. Il significato letterale infatti, indica
una tecnica di assassinio di massa, non specifica dell'area giuliana, e riguarda
solo una parte delle vittime delle due ondate, e soprattutto della seconda.
Specularmente, il significato estensivo che viene frequentemente adottato nel
linguaggio politico italiano, non più solo di destra, e che copre tutte le
vittime italiane cadute per mano del movimento di liberazione sloveno e croato
nell'area giuliana dal 1943 in poi, ha una valenza ideologica e non storica, e
impedisce di comprendere la specificità dei fenomeni verificatisi nei due
momenti di violenze di massa. Quanto ai criteri di lettura di quegli
avvenimenti, il punto di partenza rimane la distinzione proposta ancora alla
fine degli anni Ottanta da Elio Apih, fra "scenario" e "sostanza
politica" delle stragi¹.
Dove per scenario si intende il
clima di "furore
popolare" e di "resa dei conti", che è ben visibile in entrambe
le fasi: con maggior evidenza nell'autunno del 1943 e comunque nel contesto
istriano, ma in ogni caso con sufficiente chiarezza anche nella primavera del
1945 e nelle aree urbane di Trieste e Gorizia. Da questo punto di vista, gli
episodi
cruenti e le vendette perpetrate a danno di fascisti, collaborazionisti dei
tedeschi e così via, non differiscono sostanzialmente da tante altre vicende
dei dopoguerra europei, nelle fasi cruciali del crollo del potere nazifascista:
un crollo che nella regione Giulia avviene non una ma due volte, dopo
l'armistizio dell'Italia e dopo la cacciata dei tedeschi, e duplice quindi è
anche l'esplosione di violenza. Naturalmente, nel caso giuliano agli antagonismi
politici si saldano quelli nazionali, perché l'oppressione ha avuto
entrambi i caratteri, ed anche perché all'interno del movimento di liberazione
sloveno e croato l'animus nazionalista è molto forte: in alcune
circostanze quindi si hanno scoppi di furore nazionale che travolgono ogni
argine. Nello stesso quadro di deragliamento della violenza, rientrano i casi,
tutt'altro che infrequenti, di errori, eccessi, commistione di rappresaglie
politiche e personali, inserimento della criminalità comune, e così via.
Tutto questo però, è ancora soltanto lo scenario, il clima politico e
psicologico entro il quale maturano le stragi, e di per sé non è sufficiente a
spiegare dimensioni e valenza del fenomeno delle foibe. La sostanza del
dramma, come diceva Apih, è riconducibile ad una progettualità politica, che
ha lasciato tracce evidenti. Sono tracce meno clamorose nel 1943, vista la
grande confusione della realtà istriana del tempo, ma ugualmente chiare nelle
fonti, che parlano in maniera esplicita di una repressione pianificata - anche
se poi realizzata un po' alla carlona - dei "nemici del popolo" ².
Questa è una categoria, come sapete benissimo, estensibile a piacere e che nel
concreto della situazione jugoslava del tempo indicava tutti gli avversari,
reali o anche soltanto potenziali, dal punto di vista politico e di classe, del
movimento di liberazione. Molto più palese è l'importanza del disegno
strategico di annichilimento di ogni forma di possibile contropotere, o anche
soltanto di nuclei di dissenzienti, nelle vicende della primavera del 1945 ed
in particolare nei centri urbani: Trieste, Gorizia, Fiume. A questo riguardo,
non lavoriamo ormai soltanto su ipotesi, derivanti dall'analisi dei
comportamenti concreti delle autorità di occupazione jugoslave, ma possiamo
verificarle su di una documentazione che - quantomeno per la parte slovena - è
molto ricca e significativa ³. Ecco allora emergere piuttosto bene gli elementi
portanti del progetto repressivo. In primo luogo la repressione per
categorie,
ad esempio gli uomini in armi, che vengono trattati tutti allo stesso modo -
tedeschi, soldati della Rsi, combattenti del Cvl o del Cil - perché l'unica
discriminante è quella di essere o meno agli ordini del comando di città
dell'esercito popolare di liberazione jugoslavo. Chi non risponde a quegli
ordini è un nemico, e se dice di non esserlo, cioè di essere un antifascista,
è ancora peggio, perché viene considerato un fomentatore di guerra civile,
che va "smascherato" ed eliminato. In questi casi - che fortunatamente
non sono moltissimi, perché non bisogna credere che nelle foibe ci siano
soprattutto gli antifascisti - vediamo senza ombra di dubbio un movimento
resistenziale che ne divora un altro. Altre categorie/bersaglio sono alcune
piuttosto ovvie - i componenti l'apparato di polizia, i rappresentanti dello
Stato italiano e fascista - altre ancora invece appaiono un po' meno scontate,
almeno dal punto di vista dell'antifascismo italiano: ad esempio, gli
autonomisti fiumani, che vengono colpiti subito e con grande durezza, proprio
perché hanno un'indubbia legittimità antifascista, che potrebbe mettere in
discussione la pretesa di monopolio dell'antifascismo, che è tipica del fronte
di liberazione sloveno e di quello croato. Ci sono poi altri aspetti
significativi da tenere in conto, come la repressione sulla base del semplice
sospetto e la larga indifferenza per l'accertamento della responsabilità
personali, che rimandano ad un modello d'intervento di matrice staliniana, che
è ben presente nell'operato dei poteri popolari, ed ancor più nella prassi
degli organi di sicurezza di quello che è oramai il nuovo stato jugoslavo. Non
vorrei però in questa sede addentrarmi nei dettagli, ma piuttosto sottolineare
come nel loro insieme tutti gli elementi rimandino ad alcuni criteri generali di
intervento, la cui comprensione costituisce il nodo centrale sul piano del
giudizio storico. Elio Apih parlava di "epurazione preventiva" della
società giuliana, altri di "presa del potere comunista" : sono tutti
modi per dire la stessa cosa. Nella Venezia Giulia non c'è soltanto
un'occupazione militare, che trova più o meno consenzienti parti diverse della
popolazione, ma - portata dalle baionette jugoslave - è in corso una
rivoluzione, che si afferma con i modi propri delle rivoluzioni, e cioè con il
bagno di sangue. È soprattutto - anche se non esclusivamente - sangue
italiano, non solo perché italiana è circa la metà della popolazione della
regione e la grande maggioranza dei centri urbani, che rappresentano il fulcro
della lotta per il potere, ma perché all'interno della componente italiana è
largamente diffusa l'ostilità verso il progetto politico di cui i nuovi poteri
sono i portatori: e cioè, l'annessione del territorio alla Jugoslavia
socialista. Viceversa, tra la popolazione slovena e croata, la prospettiva
dell'annessione del Litorale e dell'lstria alla Jugoslavia fa in genere passare
in secondo piano le perplessità, o addirittura le contrarietà, che in altre
parti della Slovenia e della Croazia sono piuttosto frequenti, nei confronti
del movimento di liberazione a guida comunista e del regime di stampo stalinista
che si sta formando. Questo ragionamento ci porta all'acquisizione storiografica forse più
importante degli ultimi anni, secondo la quale il fenomeno delle foibe non è
pienamente comprensibile se si rimane all'interno delle logiche che muovono la
storia italiana del tempo. Bisogna cambiare storia, perché quella che ha
coperto l'intera frontiera orientale italiana nelle fasi finali del conflitto
è stata la storia della Jugoslavia e del suo movimento partigiano, impegnato
in una lotta che era ad un tempo guerra di liberazione ed affermazione
nazionale, guerra civile e rivoluzione. Sono quindi le categorie forgiate in
quella lotta che trovano applicazione anche nella Venezia Giulia: una concezione
dell'antifascismo che rimanda ad un contesto strategico radicalmente diverso,
vale a dire alla prospettiva di uno scontro a breve distanza con il fronte
"imperialista", secondo una lettura delle relazioni Est-Ovest che
anticipa largamente il clima della guerra fredda e le stesse scelte della
politica estera sovietica 6. Ancora, una visione del ruolo egemonico
del partito comunista sul movimento resistenziale, che non ammette alcun altro
centro autonomo di produzione di scelte politiche. Conseguentemente, una
divisione manichea dei soggetti politici, tra "i nostri" e gli altri,
che diviene il criterio guida per il lancio delle politiche repressive,
dirette a sbaragliare i nemici del passato - gli occupatori - i nemici del
presente - gli oppositori del movimento di liberazione – ed anche i nemici del
futuro, cioè i soggetti che si potrebbero rivelare pericolosi per il
consolidamento del nuovo ordine. Nella Venezia Giulia naturalmente, questo nuovo
ordine presenta due facce, tra loro inscindibili: la costruzione del regime
e l'annessione alla Jugoslavia, e questa duplicità moltiplica dissenzienti e
bersagli. Infine, un uso larghissimo della violenza come strumento di elezione
per la conquista e il rafforzamento del potere, che conduce alla liquidazione
fisica e su larga scala degli avversari: le stragi della Venezia Giulia possono
sembrare un unicum nella storia italiana di quei mesi, ma non certo in
quella della Jugoslavia, che conosce massacri anche maggiori. Conclusivamente,
la tragedia delle foibe appare come prevalentemente come un fenomeno di violenza
dall'alto, che perlomeno nei suoi intendimenti strategici, perché poi a
livello
di quadri, i piani facilmente si sovrappongono - non ha come obiettivo la
"pulizia etnica" della Venezia Giulia dagli italiani, come spesso
viene detto - confondendo fra l'altro con una certa disinvoltura etnia e nazione
- ma in primo luogo, l'eliminazione di ogni ostacolo sulla via della costruzione
del nuovo potere jugoslavo e comunista, e - in secondo luogo - anche
l'intimidazione generale del gruppo nazionale italiano, non già per forzarlo ad
abbandonare il territorio perché ciò non attiene alle finalità della
politica jugoslava nella primavera del 1945 - bensì per mostrare l'inutilità e
la pericolosità di qualsiasi forma di opposizione all'annessione. Veniamo
all'esodo, che rispetto alle foibe è un fenomeno meno cruento, ma di
dimensioni incomparabilmente maggiori: al di là delle discussioni abbastanza
sterili sulle cifre, quando si ragiona come minimo di un quarto di milione di
persone, più o meno la metà degli abitanti dei territori interessati, è
chiaro che si tratta di un fenomeno quantitativamente importante. È un fenomeno lungo, perché dura oltre dieci anni, concentrato dal 1944 al
1956, ma con alcune partenze prima e dopo tali date. È un fenomeno
periodizzante - e questo è il suo aspetto più significativo - perché la
scomparsa quasi integrale del gruppo nazionale italiano da alcune delle sue
regioni
di insediamento storico, rappresenta una frattura epocale per l'area alto
adriatica, che ha spezzato una continuità che durava dall'epoca della
romanizzazione. Per tutte queste ragioni, e per altre ancora, l'esodo è un
fenomeno ancora largamente da studiare, sia sul versante della storia
politica, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi decisionali jugoslavi,
sia e molto abbondantemente, sul versante della storia sociale. Dal punto di
vista storiografico quindi, quello dell'esodo è un cantiere aperto, molto più
di quanto non lo sia la tragedia delle foibe, dove oramai la dimensione
prevalente della ricerca è quella della pietà, cioè del dare risposta per
quanto sarà possibile dopo mezzo secolo, alle tante domande dei
familiari degli scomparsi. Anche
nel caso dell'esodo comunque, possiamo individuare abbastanza rapidamente i suoi
tratti cruciali, anche se dobbiamo dire che su alcuni nodi lo stato delle
fonti non ci consente risposte certe, ma solo ipotesi da verificare. La prima
caratteristica importante, è che si tratta di un esodo totale: non di tutta la
popolazione residente nell'area - e cioè i territori già facenti parte del
regno d'Italia e a diverso titolo passati sotto il controllo jugoslavo - ma di
un'intera componente nazionale, quella italiana. Quando si parla
dell'allontanamento
dell'85-90% degli italiani, vuol dire che a prendere la via dell'esilio è stato
un gruppo nazionale al completo delle sue articolazioni sociali, cui si sono
aggregati anche nuclei di popolazione slovena e croata la cui dimensione è
difficile da definire. È un esodo a tappe, i cui picchi si dispongono a seguito
dei due momenti in cui viene decisa la sorte della Venezia Giulia, vale a dire
il trattato di pace e il memorandum d'intesa. Il significato di una scansione
del genere è abbastanza trasparente. Al di là dello stillicidio continuo di
fughe individuali, e di casi anomali come quello di Zara 8 , ciò che muove
le decisioni collettive di esodare, che riguardano intere comunità
paesi o addirittura città - non
è l'instaurazione del potere jugoslavo, ma la consapevolezza che tale potere
è divenuto definitivo. Fino a quando esiste una speranza di cambiamento, la
popolazione italiana in genere resiste sulla sua terra, nonostante
l'oppressione cui viene sottoposta sia assai dura fin dall'inizio. Nel caso
della zona B del mai costituito Tlt, questa speranza rimane addirittura fino
all'autunno del 1953, e quindi il "grande esodo" comincia solo
successivamente. Viceversa, quando le comunità italiane si rendono conto che la
dominazione jugoslava non verrà meno, niente riesce a trattenerle. Le
perplessità di De Gasperi e la mancanza di strutture per ospitarli ed anche
solo per trasportarli in Italia, non scalfiscono la volontà dei polesani di
abbandonare Pola prima dell'entrata in vigore del trattato di pace, tant'è che
l'esodo parte in pieno inverno. Le mille angherie cui le autorità jugoslave
sottopongono gli istriani che hanno optato per la cittadinanza italiana dopo il
1947, riescono solo a ritardare il flusso delle partenze. Gli ultimi dubbi delle
autorità italiane alla fine del 1953 sull'opportunità di svuotare la zona B,
spingono i rappresentanti istriani a chiarire che ritardi nella predisposizione
dell'accoglienza non fermeranno l'esodo, ma getteranno soltanto nella
disperazione gli italiani che hanno deciso di andarsene. Si tratta quindi di
decisioni inarrestabili, ma come vanno intese, come frutto di libere scelte o
di una pressione espulsiva irresistibile? Qui siamo di fronte a quello che
costituisce probabilmente il nodo interpretativo di fondo dell'intera vicenda
dell'esodo. È un nodo che non può venir risolto rimanendo sul piano formale,
perché è ben vero che contro gli italiani non viene mai messa in opera una
legislazione di tipo espulsivo, come accade invece per i tedeschi, nella
stessa Jugoslavia ed in altri Paesi europei; ma è vero anche che il meccanismo
delle opzioni fa sì che per provocare l'allontanamento in massa del gruppo
nazionale italiano siano sufficienti le pressioni ambientali, e che queste ci
siano state, e ben massicce, ce lo conferma un'infinità di testimonianze.
Tutto questo però non è sufficiente per affermare che l'esodo sia frutto di un
disegno preordinato di espulsione della componente italiana da parte delle
autorità jugoslave. Al di là degli indizi contraddittori, per sostenere una
tesi del genere dovremmo poter ricostruire il processo decisionale jugoslavo, ma
questo oggi non siamo in grado di farlo. Per superare l'impasse, negli
ultimi anni si è fatto strada un approccio diverso, potremmo dire di tipo
funzionalista, che sposta il discorso dal piano delle intenzioni recondite, a ciò
che venne detto e a ciò che venne fatto, scoprendo in tal modo che quanto
emerge è già sufficiente per delineare una progettualità politica che
implicava l'esodo, anche se attraverso un'evoluzione che non necessariamente
poteva venir prevista a priori 9. Il nucleo dell'analisi è
costituito dallo studio della politica della cosiddetta "fratellanza
italo-jugoslava", delle sue ragioni, dei suoi limiti e del suo fallimento.
La prima cosa da notare, è che quella politica viene elaborata nella seconda
metà del 1944, in riferimento ad un gruppo nazionale italiano completamente
diverso da quello cui viene poi realmente applicata: e questo perché alla fine
del 1944 la prospettiva jugoslava è quella di annettere tutta la Venezia
Giulia, vale a dire anche Trieste e Monfalcone, con le loro grandi
concentrazioni di classe operaia. In questo caso, quello italiano sarebbe un
gruppo nazionale assai numeroso, con un profilo sociale estremamente
interesante
per un paese come la Jugoslavia, che vive una rivoluzione bolscevica, ma che
di classe operaia ne ha assai poca, e con attitudini politiche abbastanza
favorevoli, perché la classe operaia, anche di lingua italiana, si sta
orientando in favore dell'annessione alla Jugoslavia, in quanto patria
socialista,
piuttosto che alla permanenza in Italia, dove è molto difficile che il
socialismo possa affermarsi. Quanto ai contenuti della "fratellanza",
si tratta di una politica fortemente selettiva: una politica cioè, che non si
fa illusioni sull'atteggiamento delle borghesie urbane portatrici dell'idea
nazionale italiana, ed è pronta a trattarle con grande rudezza, ma che crede
invece di poter isolare alcuni nuclei consistenti di popolazione e di classe
dirigente italiana, disponibili non solo all' annessione, ma anche a vivere
tutte le trasformazioni necessarie per adeguarsi alla nuova realtà
istituzionale,
sociale e politica. Possiamo dire quindi che si tratta di una politica in cui
fin dal primo momento sono impliciti un ridimensionamento e una forte
trasformazione del gruppo nazionale italiano, ma non necessariamente la sua
completa sparizione. Allo stesso problema possiamo guardare anche in termini
diversi: mentre i tedeschi nel dopoguerra vengono tutti espulsi, agli italiani
viene offerta invece una seconda opportunità, ma solo nella misura in cui si
mostrano disponibili a fare proprio fino in fondo il modello di rapporti
nazionali, sociali e politici proposto dal regime. Ciò significa, fra
l'altro, rifiutare l'esperienza storica dello stato unitario italiano,
culminata necessariamente con il fascismo; significa considerare come peggior
nemico l'Italia del tempo, capitalista e revanscista; e infine significa anche
combattere i nemici della Jugoslavia, a cominciare dagli stessi italiani che non
ne vogliono sapere. Come vedete, si tratta di pretese piuttosto elevate, ma le
cose vanno in maniera abbastanza diversa: Trieste e Monfalcone non vengono
annesse e di conseguenza, il gruppo nazionale italiano in Jugoslavia risulta più
piccolo e composto soprattutto di ceti urbani e contadini, che si confermano
assolutamente ostili, sia all'inglobamento nello stato jugoslavo che al
comunismo, mentre soltanto qualche nucleo operaio si mostra inizialmente
favorevole. Verso chi non ci sta, le autorità popolari applicano immediatamente
una politica molto dura, che concede solo due possibilità: o piegarsi o
andarsene. Quanto invece alla classe operaia, soprattutto a Fiume e Pola,
l'impatto con la realtà del regime è assolutamente traumatico. Cito solo un
episodio emblematico: nell'autunno del 1945 i maggiori esponenti comunisti
italiani di Pirano spediscono a Togliatti una lettera clandestina, in cui
denunciano il nazionalismo slavo e chiedono l'autorizzazione a ricostituire il
"Cln cospirativo" 10. Oltre a questo, potremmo citare
molti altri episodi, tant'è che fra il 1946 e il 1947 la politica della
"fratellanza" è già in crisi, e a confermarlo sta il fatto che da
Pola e da Fiume gli operai alla fin fine partono per l'esilio come tutti gli
altri italiani. Di conseguenza, quando poi nel 1948 subentra anche la rottura
con il Cominform, che schiera i comunisti italiani per Stalin contro Tito - e
quindi li candida ai campi di rieducazione dell'Isola Calva - la crisi non
costituisce
tanto una svolta, come ha talvolta sostenuto parte della storiografia italiana,
quanto piuttosto la pietra tombale di una politica ormai fallita. A questo punto
- siamo alla fine del 1948 - le città maggiori sono già vuote e la popolazione
dei territori ceduti ha optato in blocco per l'Italia. Ciò significa però che
la penisola istriana è in procinto di perdere da un momento all'altro almeno
la metà della popolazione, e tutte le competenze professionali superiori,
prefigurando quindi un disastro economico che potrebbe innescare una reazione a
catena, capace di spingere all'esodo anche chi non ha motivazioni nazionali per
farlo. È questo probabilmente il motivo principale per cui le autorità
jugoslave tentano a modo loro di frenare l'esodo. Ci potrebbe essere però anche
un'altra ragione. La dimensione assunta dalle opzioni butta completamente
all'aria uno degli assunti fondamentali non solo della propaganda, ma anche
della cultura politica jugoslava, che è di tipo etnicista: e cioè la
convinzione che la maggior parte dell'italianità istriana sia fittizia,
frutto di processi di snazionalizzazione e quindi facilmente riportabile alla
sua origine etnica. Invece, a clamorosa smentita di tale previsione, e anche
di parte dell'impianto teorico che aveva supportato le rivendicazioni jugoslave
alla conferenza della pace, tutti i parlanti italiano, ed anche molti che lo
parlano piuttosto poco, proclamano, nero su bianco, di essere italiani, al punto
di volersene andare. Questo è ritenuto evidentemente intollerabile, tanto
intollerabile che poi per cinquant'anni, e in parte ancora oggi, la storiografia
anch'essa di stampo etnicista ha continuato ad almanaccare sul problema: ma
quanti fra gli esuli erano "realmente" italiani? È questo un
quesito che, nei termini schematici in cui viene solitamente posto, è
destinato probabilmente a rimanere senza risposta, perché trascura il fatto piuttotosto banale - già rilevato da Ernesto Sestan fin dal 1944 11
- che in alcune aree mistilingui dell'lstria interna i processi di
nazionalizzazione non avevano ancora coinvolto la generalità della popolazione,
e che pertanto l'appartenenza nazionale risultava "non dato di natura ma
atto di elezione", fortemente influenzato dalle condizioni politiche del
momento. Quando Sestan scrisse queste osservazioni, sotto l'impressione della debacle
italiana e ben consapevole del triste ricordo lasciato dall'Italia fascista,
era convinto che - nel caso di un plebiscito - i nazionalmente incerti
avrebbero finito per votare per la Jugoslavia. Invece, la durezza del regime
jugoslavo riesce là dove la propaganda italiana mai avrebbe potuto arrivare, e
le opzioni si trasformano in una sorta di plebiscito con i piedi, in cui una
parte imprevedibilmente elevata della popolazione istriana, al posto della
Jugoslavia di Tito sceglie l'Italia di De Gasperi. Qui il nostro ragionamento può
anche concludersi, perché scomparsa con tutta evidenza qualsiasi possibilità
che nuclei consistenti di popolazione italiana accettino di farsi "jugoslavizzare"
- le poche decine di migliaia di italiani residuali, quelli della zona B, a
partire dai primi anni Cinquanta vengono trattati come un mero ostaggio nei
negoziati con l'Italia. Proviamo allora a rovesciare il punto di vista, non più
quello del potere, ma quello delle vittime, vale a dire, delle motivazioni che
conducono gli istriani alle decisione di esodare. Non c'è alcun dubbio che,
nella memoria, il primo posto è tenuto dalla paura legata ai ricordi delle
foibe e rafforzata dal continuo stillicidio di violenze che punteggia il
dopoguerra istriano: una paura che rappresenta l'aspetto più evidente
dell'oppressione esercitata da un regime, la cui natura totalitaria impedisce
anche ogni libera espressione dell'identità nazionale. Non è affatto detto
però, che in realtà la paura sia stata la molla principale dell'esodo: diciamo
piuttosto, che influisce in maniera diretta nei casi degli espatri clandestini
combinati per salvare la vita, che non sono certo pochi, ma che soprattutto
prepara il terreno in cui matura la scelta dell'esodo da parte delle comunità.
Più sostanziali quindi ci appaiono altri elementi. Il sovvertimento delle
tradizionali gerarchie, che erano ad un tempo nazionali e sociali, e che
avevano visto il gruppo italiano storicamente egemone in Istria. Allo stesso
modo, pesa il ribaltamento dei rapporti di potere fra città e campagna, che
fino a quel momento, avevano visto la dipendenza economica, politica e
culturale delle aree agricole dai centri urbani, com'è usuale in Italia. Un
altro elemento importante, che vale soprattutto per la zona B, dove il
processo si trascina più a lungo, è la progressiva eliminazione dei punti di
riferimento culturali e morali del gruppo nazionale italiano, come gli
insegnanti
e i sacerdoti. Ancora, il peggioramento delle condizioni di vita degli
italiani a seguito delle scelte politiche ed economiche del regime. Infine,
dobbiamo tenere presente anche altri aspetti, apparentemente più immateriali,
ma non per questo meno importanti: la negazione dei valori tradizionali,
l'imposizione di nuovi criteri di misura del lavoro e del prestigio sociale,
il sovvertimento di abitudini consolidate da generazioni e l'introduzione di
nuove regole di comportamento - nei rapporti sociali come nella gestione della
terra la necessità di servirsi di una nuova lingua, pressoché sconosciuta,
e di inserirsi in una cultura, che fino ad allora non era stata nemmeno presa in
considerazione come tale. Tutti questi fattori combinati tra loro e sommati ai
precedenti, suscitano una crescente sensazione di estraneità, rispetto ad una
realtà che sta cambiando velocemente e nella quale c'è sempre meno posto per
gli italiani. Per descrivere quel tipo di percezione collettiva, la storiografia
italiana più recente - e qui il riferimento è soprattutto ai lavori di Gloria
Nemec 12 - ha introdotto il concetto di "spaesamento",
che è divenuto la chiave interpretativa privilegiata cui far ricorso per
comprendere l'atmosfera in cui sono costretti a vivere nel dopoguerra gli
istriani di lingua, di cultura e di sentimenti italiani. lstriani che - anche
quando resistono più a lungo alle ondate repressive ed alle pressioni politiche
del regime - finiscono per sentirsi "stranieri in patria": questa è
l'espressione che ricorre più frequentemente nelle fonti della memoria; e si
tratta evidentemente di una condizione lacerante, che getta le fondamenta
psicologiche per la scelta dell'abbandono del luogo d'origine. Legando quindi
assieme - per concludere questa parte del discorso - tutti i diversi aspetti di
cui abbiamo fatto menzione vediamo, come attraverso diverse vie e con ritmi
diversi, le comunità italiane dell'lstria finiscono per arrivare tutte alla
medesima conclusione: vale a dire, l'impossibilità di mantenere - nelle
condizioni
offerte dallo Stato jugoslavo - la propria identità nazionale. Dove il
termine identità nazionale - e questo mi permetto di sottolinearlo, perché
credo sia importante - va inteso ben oltre la sola dimensione
politico-ideologica, ma come complesso di modi di vivere e di sentire,
secolarmente sedimentati, che danno significato all'esistenza di una comunità.
È solo muovendo da tale conclusione, che ha senso porsi in maniera non
astratta il problema dell'effettiva libertà di scelta di cui possono disporre
gli italiani di Fiume e dell'lstria, al di là del riconoscimento formale del
diritto di opzione. Il punto infatti, è costituito dalla valutazione delle
alternative concrete a disposizione di chi, in una situazione specifica,
riluttante a prendere la via dell'esilio, e in questo senso con grande chiarezza
si è espresso ancora nel 1967 Theodor Veiter:
La
fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare
un'espulsione di massa. È vero che tale fuga si configura come un atto
apparentemente
volontario, ma già l'opzione pressoché completa dei sudtirolesi per il
trasferimento nel Reich germanico
dopo il 1939 mostra come
dietro la volontarietà possa esserci una costrizione assoluta e ineludibile.
Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra, si
troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica,
religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende
senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la
scelta dell' emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio paese 13.
Questa
è una conclusione che io mi sento ancor oggi di sottoscrivere, anzi, della
quale sono sempre più convinto, però logicamente - è soltanto un'opinione
su di una materia ancora abbastanza fluida. Ultimo punto: se questi di cui
abbiamo parlato sono i tratti essenziali delle foibe e dell'esodo intesi come
problemi di interpretazione storica, cerchiamo conclusivamente di vedere in
quale rapporto stanno con alcuni dei fenomeni precedenti e sui quali si sono
soffermate le altre relazioni di oggi. Alcuni legami sono piuttosto trasparenti.
Le crisi di violenza del 1943 e del 1945 costituiscono anche la risposta alle
violenze precedenti, quelle legate alla presa del potere fascista, alla politica
del regime ed agli orrori delle occupazioni. Nelle due fasi parossistiche delle
uccisioni di massa, si chiudono molti conti che si erano aperti nelle fasi
precedenti e ci sono anche delle sovrapposizioni terribili: parenti di vittime
delle foibe del '43 diventano durante l'occupazione tedesca persecutori degli
assassini dei loro congiunti, e poi vittime essi stessi della seconda ondata di
vendette. Un altro filo di continuità piuttosto noto è quello che unisce le
persecuzioni fasciste, la conseguente emigrazione politica in Jugoslavia, e la
resistenza contro gli italiani: pensiamo ad esempio al ruolo importante giocato
dai "rivoluzionari di professione", figli di emigrati, nella
costruzione del movimento di liberazione in Istria 14. Ci sono poi
ulteriori connessioni che assumono la forma di veri e propri parallelismi, ma
che spesso sono sfuggiti, in parte per distrazione degli storici, ma
soprattutto perché sono caduti vittime di una sorta di rigetto ideologico,
che soprattutto nel discorso pubblico, porta a ritenere incomparabili i
soprusi sofferti dalla parte con cui ci si identifica. Eppure, i parallelismi ci
sono, eccome, perché alcuni dei problemi che si pongono nei due dopoguerra
sono assai simili, e fondamentalmente riconducibili alla resistenza che parte
della società locale oppone, in forme molto varie, ai progetti dei poteri che
assumono il controllo del territorio. Ad esempio, nel 1918 come nel 1945 la
priorità assoluta, per l'Italia e per la Jugoslavia, è l'annessione, e ciò
comporta che le prime vittime della nuova situazione siano coloro o che si
oppongono attivamente, o che comunque vengono ritenuti capaci di contrastare i
progetti annessionisti. Di conseguenza, le prime categorie ad essere colpite
dai provvedimenti repressivi sono, tanto per cominciare, le autorità che
impersonano il precedente regime: ma non solo le autorità dello stato - il che
è abbastanza ovvio - ma anche le autorità religiose, che di quel regime
vengono considerate - a torto o a ragione - essere state espressione e puntello.
Nel 1918 il vescovo sloveno di Trieste si vede la curia devastata (tenete
presente che non ci sono ancora i fascisti), e l'anno dopo è costretto a
scappare a Lubiana, e viene sostituito dall'ordinario militare italiano. Con
maggior tempestività, nel 1945 il vescovo italiano di Gorizia viene quasi
immediatamente arrestato dalle autorità jugoslave e poi espulso in Italia. Un
secondo gruppo è costituito, in entrambe le fasi, dai militanti dell'idea
nazionale sbagliata, che si esprimono - o anche soltanto che potrebbero
esprimersi - contro i progetti annessionisti. Un'ulteriore categoria parallela
è rappresentata da quanti occupano professionalmente ruoli di elevato profilo
strategico e quindi di potenziale grande pericolosità: non pensate solo alle
forze di polizia - che è scontato - ma ad esempio ai ferrovieri, che vengono
epurati con grande rapidità. E infine, gli intellettuali, razza pericolosissima
per antonomasia e buon diritto: la coscienza nazionale l'hanno inventata loro,
come insegnanti la trasmettono alle giovani generazioni, come giornalisti la
diffondono, come portavoce dell'identità nazionale costituiscono i punti di
riferimento per le comunità in epoca di crisi. Maestri e sacerdoti della
nazionalità sbagliata entrano quindi istantaneamente, dopo la prima e dopo la
seconda guerra mondiale, nel mirino delle politiche repressive: di suo, il
regime comunista jugoslavo metterà poi, non subito ma a partire dal 1947, la
persecuzione religiosa generalizzata. Ci sono anche altri parallelismi
storicamente rilevanti, che riguardano però non tanto i fatti, quanto la
mentalità e i ragionamenti che stanno dietro alle logiche di violenza. Ad
esempio, assolutamente comune - ma ovviamente incrociata, a vantaggio dei
propri connazionali e a danno degli altri - è la negazione di autoctonia nei
confronti degli immigrati recenti. Nel primo dopoguerra sono gli slavi
immigrati negli ultimi decenni dell'impero asburgico, soprattutto in
concomitanza
con la costruzione di grandi infrastrutture ferroviarie, portuali e militari;
nel secondo dopoguerra sono i cosiddetti "regnicoli", cioè
provenienti da altre parti d'Italia ed impiegati soprattutto nella pubblica
amministrazione. In entrambi i casi, i nazionalisti delle due parti
vedono in questi soggetti, che sono decine di migliaia, la prova tangibile di
progetti di modifica degli assetti etnici "naturali" del territorio, e
quindi cominciano con espungerli dai risultati dei censimenti, per cercare poi
di farli allontanare rapidamente dal territorio. Un altro parallelismo
importante riguarda la negazione di legittimità all'espressione pubblica della
propria appartenenza nazionale. È una negazione che si concretizza in una
normativa
molto diversificata nei diversi regimi, ma che si sostanzia di alcuni
atteggiamenti di fondo. Di fronte alla lingua straniera, e nemica, parlata nel
luogo sbagliato, scatta il rimprovero: se vuoi parlare slavo - o italiano
vent'anni dopo tornatene a casa tua, perché la casa di chi parla un'altra
lingua
non può essere la stessa della maggioranza. Su un altro piano pensiamo ai
profughi, che sono fra le vittime più evidenti delle oscillazioni della
frontiera in un'epoca di nazionalismi di massa: non parlo qui solo dei disagi,
delle lunghe odissee e delle umiliazioni che sono tipiche della profuganza, in
entrambi i dopoguerra, ma mi riferisco anche dell'uso politico dei profughi come
massa di manovra per la nazionalizzazione di spazi strategici per lo stato. Nel
primo dopoguerra, molti profughi sloveni dalla Venezia Giulia vanno a Marburg,
appena abbandonata dalla popolazione tedesca, per trasformarla in Maribor,
oppure vengono spediti nel Prekmurje ex ungherese, ovvero in Kossovo e Macedonia
15.
Nel secondo dopoguerra molti profughi istriani che avevano trovato rifugio a
Trieste, vengono insediati in una serie di borghi costruiti appositamente per
loro nella striscia di territorio che collega Trieste al resto d'Italia e
nella quale non esistevano in precedenza insediamenti italiani 16
. Fili
di continuità e parallelismi dunque ci sono, più numerosi di quanto
generalmente non si creda, tra i due lunghi dopoguerra giuliani, ma le
differenze sono forse ancora più profonde. In primo luogo, troviamo un regime
fascista che parla esplicitamente di "bonifica etnica" degli slavi, e
che si impegna a realizzarla, ma alla fine del fascismo le comunità slovene
e croate sono ancora lì, numericamente quasi stabili, anche se impoverite e
decapitate della loro classe dirigente. Qualche anno dopo invece, troviamo il
regime comunista jugoslavo, la cui politica ufficiale è quella della
"fratellanza italo-slava", ma in capo a dieci anni gli italiani sono
spariti. Questo è un bel problema, dal punto di vista interpretativo, che
purtroppo è stato a lungo sprecato dall'approccio politico e ideologico, che
riduceva tutto alla domanda: ma allora, qual era il regime peggiore? Ad una
domanda del genere non possono che seguire polemiche senza costrutto, ma se
invece utilizziamo questa apparente stranezza, come un grimaldello per capir
meglio la natura dei processi storici, ci accorgiamo subito di alcune differenze
importanti. In primo luogo, il crescendo della violenza tra il primo e il
secondo dopoguerra. Quando abbiamo parlato di eliminazione di elementi ostili,
e di epurazione da parte delle autorità italiane a partire dall'autunno del
1918, di solito ci si riferisce ad arresti, internamenti, licenziamenti ed
espulsioni; nella primavera del 1945 parliamo invece di uccisioni. Negli anni
venti i fascisti picchiano, devastano incendiano ed ammazzano, nel secondo
dopoguerra abbiamo le stragi. Badate bene, che non è questione di buona
volontà, che non è mai mancata da nessuna parte: piuttosto, possiamo parlare
di un diverso uso della violenza di massa, che matura all'interno dei due
regimi totalitari degli anni Trenta, quello nazista e quello stalinista, che
esplode poi durante la guerra all'est - che è fin da subito guerra di sterminio
- e che prosegue nel dopoguerra, che nell'Europa centrale e balcanica è luogo
di stragi terribili. E la Venezia Giulia, come abbiamo visto, verso la fine del
conflitto è tutta dentro quella storia dell'Europa di sud-est. La seconda
differenza è legata al diverso grado di totalitarismo del fascismo italiano e
del comunismo jugoslavo. Al fascismo non fa certo difetto la disponibilità
all'uso della forza, anzi, le strutture dello stato vengono lanciate nella
politica di snazionalizzazione: quello che manca sono le risorse. Mentre gli
elementi estremisti preparano velleitari piani di insediamento di coloni
italiani, di fatto, fuori dalle città non ci sono i mezzi per costruire il
tessuto nazionalizzatorio: scuole, asili, ricreatori, case del fascio e così
via. Manca anche un'analisi corretta del fenomeno nazionale nei cosiddetti
"popoli senza storia": il pregiudizio culturale fondato sulla
superiorità della civiltà latina, porta a non rendersi conto che le identità
nazionali, una volta che si sono radicate, non si lasciano più sradicare, a
meno di non sradicare anche le persone. Di conseguenza, il tentativo di
riavviare a forza il processo di assimilazione degli slavi è destinato a
fallire. Infine, il fascismo è un regime conservatore dal punto di vista
sociale, e che quindi non ha alcun interesse a buttare all'aria le strutture
delle società contadina slava. Se mai, al contrario, cerca di ripristinare gli
assetti tradizionali, fondati sulla dipendenza degli slavi e il paternalismo
degli italiani: ma in questo modo, nelle campagne rimangono larghi spazi per
assorbire l'impatto del regime. Al contrario, quello comunista jugoslavo è un
regime rivoluzionario, capace
di entrare in tutte le pieghe
della società e di porre a tutti, individui e comunità, l'alternativa senza
scampo: o accettare di venire radicalmente trasformati, o sparire. A questo
punto allora, credo che possiamo guardare complessivamente alle strategie
rivolte verso le minoranze da parte dei due regimi, come a due politiche né
ab origine radicalmente espulsive, né - tantomeno - genocide, ma
fondamentalmente
di integrazione selettiva: una parte della popolazione va eliminata, l'altra
trasformata e quindi assorbita. C'è però una forte asimmetria. Il fascismo
mira a distruggere la classe dirigente slovena e croata, di formazione
abbastanza recente, in modo che le masse destrutturate siano facile preda del
processo di italianizzazione. Il primo passo riesce, il secondo no, e di
conseguenza, sloveni e croati - contrariamente alle intenzioni - non
scompaiono. Il regime di Tito fa il contrario: individua all'interno della
componente italiana una minoranza e - come abbiamo visto - ne fa l'interlocutore
della politica della "fratellanza", che prevede una forma di
integrazione subordinata. Al di fuori di questi italiani "buoni e
onesti", ci sono i "residui del fascismo", per i quali non c'è
spazio nella nuova Jugoslavia. I punti di partenza quindi sono diversi, e lo
svolgersi degli avvenimenti allarga ulteriormente la forbice, perché le
condizioni
dell'integrazione nella realtà jugoslava risultano troppo pesanti non solo
per gli strati urbani italiani non proletari, che costituiscono il nemico
storico e di classe del nuovo regime e che erano comunque fuori dalla
"fratellanza", ma anche per i gruppi sociali incerti, come i
contadini, ed alla fin fine per la stessa classe operaia. Ecco allora, per
concludere il nostro discorso di questa sera, che se noi rinunciamo agli schemi
lineari e monocausali di lettura della storia giuliana del Novecento - sia che
accettiamo o che respingiamo i loro capisaldi - e li sostituiamo con una rete
di relazioni in cui alcuni fili si intrecciano strettamente, ed altri invece
si svolgono in maniera autonoma, seguendo le grandi passioni del Novecento -
gli antagonisti nazionali, le aspirazioni totalitarie, le politiche di potenza -
se riusciamo ad entrare con una certa tranquillità in questa dimensione
interpretativa, allora diventa molto più facile non tanto "prendere
posizione", di fronte alle molte tragedie del Novecento alla nostra
frontiera orientale (cosa che dobbiamo comunque fare, come cittadini e come
democratici), quanto piuttosto capire il senso di quello che è successo. È
proprio questo infatti che agli storici viene giustamente chiesto di provare a
spiegare, anche per limitare i danni di un uso politico della storia talvolta più
sensibile alle opportunità del momento, che al bisogno di verità.
Note
1
Elio Apih, Trieste, Laterza,
Bari 1988.
2
Vedi ad esempio il rapporto
del capitano Zvonko Babic-Zulja al Centro informativo regionale per il
litorale croato e l'Istria, della seconda metà di ottobre del 1943, pubblicato
in Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003,
pp.58-61.
3
Vedi al riguardo le fonti
consultabili presso l'Archivio della repubblica di Slovenia, largamente
utilizzate in particolare da Nevenka Troha nei suoi numerosi contributi
dedicati al problema delle foibe; in lingua italiana vedi in particolare Fra
liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l'occupazione
jugoslava della Venezia Giulia, in Foibe. Il peso del passato. Venezia
Giulia 19431945, a cura di Giampaolo Valdevit, Istituto regionale per la
Storia del Movimento di Liberazione nel FriuliVenezia Giulia,
4
Vedi in particolare
Giampaolo Valdevit, Foibe. L'eredità della sconfitta, in Foibe. Il
peso del passato, cit.
5
Vedi al riguardo i
riferimenti presenti in Katja Colja, Il collaborazionismo nell'Adriatisches
Kiistenland: la vicenda dei domobranci (1943-1945), in Marta Verginella,
Alessandro Volk, Katja Colja, Storia e memoria degli sloveni del Litorale.
Fascismo, guerra e resistenza, Istituto regionale per la Storia del
Movimento di Liberazione nel FriuliVenezia Giulia, Trieste 1994.
6
Vedi al riguardo le
indicazioni presenti in Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera
italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943-1947, Editori Riuniti,
Roma 1995; Giampaolo Valdevit, Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno
scenario europeo, Istituto regionale per la Storia del Movimento di
Liberazione nel Friuli. Venezia Giulia, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia
1999; Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d'Italia (1938-1956),
Del Bianco, Udine 1999.
7
Per una panoramica generale sul
fenomeno dell'esodo, mi permetto di rinviare al mio Il lungo esodo. Istria:
le persecuzioni, le foibe, l'esilio, Rizzoli, Milano 2005. Per una
ricostruzione in alcuni tratti datata, ma assai puntuale, vedi Cristiana Colummi,
Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956,
Istituto regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel
Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1980. Per una prospettiva comparativa vedi Esodi.
Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 2000, a cura di Marina Cattaruzza, Marco Dogo,
Raoul Pupo.
8
Per una ricostruzione dettagliata
della distruzione di Zara e delle sue motivazioni vedi Oddone Talpo, Dalmazia.
Una cronaca per la storia, pp. 1360-1429 e, con ampia documentazione
fotografica, Oddone Talpo, Sergio Brcic, ... Vennero dal cielo; Campobasso
2000. Per un'interpretazione alternativa vedi A. Seferovic, Le fortezze
volanti sopra Zara, serie di sei articoli pubblicati sul quotidiano di Zara
"Slobodna Dalmacija", nei giorni 19,20,21,23, 24 e 25 ottobre 1984.
9
Marina Cattaruzza, L'esodo
istriano: questioni interpretative, in "Ricerche di Storia
Politica", I (1999), pp. 27-48; Raoul Pupo, Il lungo esodo, cit.
10
Cfr. la Relazione sugli
ultimi avvenimenti nella
Venezia Giulia e sulle condizioni
dei comunisti già membri delle sezioni locali del Partito Comunista Italiano,
inviata clandestinamente a
Togliatti nell'autunno del 1945. Il testo della relazione è
stato pubblicato su "Tempi e culture", I (1997), n. 2, pp. 33-46.
11
Ernesto Sestan, Le
argomentazioni e le pretese del dotto Smodlaka, in Id., Venezia Giulia.
Lineamenti di una storia etnica e culturale, ora ripubblicato a cura e con
postfazione di Giulio Cervani, Del Bianco, Udine 1997, pp.183-187.
12
Gloria Nemec, Un paese
perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio. Grisgnana
d'lstria 1930-1960, LEG,
Gorizia 1998; Ead., The Re-definition of Gender Roles and Family Structures
among Istrian Peasant Families Faced with Urban Society in Trieste (1954-1964),
in "Journal of Modern Italy", Special Issue Gender and the Private
Sphere in 1taly Since 1945 (voI. 9,1 Maggio 2004); Ead., Un lungo
spaesamento. L'esperienza
dei ceti rurali nel movimento dell'esodo dalla zona B, in
"Qualestoria", XXXI (2003), 2, pp. 46-55.
13
Theodor
Veiter, Soziale Aspekte der italienische Flucthtlinge aus den adriatischen
Kustengebieten, in Theo Mayer Maly, Albert Nowak, Theodor Tomandl, Festschrift
fur Hans Schmitz, Wien-Munchen 1967, voI. II,
p. 280.
14
Vedi al riguardo Ljubo
Drndic, Le armi e la libertà dell'lstria 1941-1943, EDIT, Fiume 1981
15
Cfr. Aleksej Kalc, L'emigrazione
slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre ed il suo ruolo
politico, in "Annales", VI (1996), n. 8.
16
Vedi al riguardo l'ampio studio
di Sandi Volk, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento
dell'italianità sul confine orientale, Kappa Vu, Udine 2004.
da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004