Documenti dell'ANED di Milano
Tristano Matta
Istituto
per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli - Venezia Giulia
Le
deportazioni dalla
Risiera di San Sabba
Il
mio intervento si riallaccia per molti aspetti alle considerazioni che
svolgeva questa mattina Enzo Collotti sulla vicenda del Litorale adriatico,
per cui dovrò più volte, probabilmente, anche fare riferimento alle cose da
lui dette, anche se mi sforzerò di evitare ripetizioni. Tengo conto anche della
presenza di studenti e, quindi, cercherò di non limitarmi solo agli aspetti
problematici, ma anche di richiamare sommariamente alcuni dati di fondo fattuali
e alcune indicazioni bibliografiche sull'argomento che mi è stato assegnato.
Non c'è dubbio che la vicenda della Risiera, questo Lager che costituisce per
certi aspetti un unicum nella storia del nostro Paese, si colloca
pienamente proprio in quel contesto di violenza diffusa, di cui parlava
stamattina Enzo Collotti, riferendosi sia alla fase precedente all'8
settembre, sia, successivamente, alla stessa politica di repressione avviata
dai nazisti dopo l'occupazione. Va rilevato preliminarmente che le percezioni
di tale violenza diffusa probabilmente erano diverse (anzi, sicuramente erano
diverse) tra la realtà della città di Trieste e quella del circondario. Nel
circondario, in ampie aree dell'interno della regione, la violenza provocata
dallo scontro tra la controguerriglia italiana e l'attività partigiana,
conseguente
all'occupazione italiana della Jugoslavia, con tutto il suo corollario di
rappresaglie, violenze sui civili, deportazioni, istituzione di campi di
internamento, era già una realtà tristemente sperimentata, ma di essa fino
all'8 settembre sicuramente la città di Trieste era a conoscenza senza
esservi direttamente coinvolta. È solo dopo l'instaurarsi della dominazione
nazista e l'istituzione della Operationszone Adriatisches Küstenland che
anch'essa venne direttamente coinvolta in quella violenza diffusa. Di questa
violenza il capitolo Risiera costituisce l'aspetto macroscopico, che si colloca
nell'ambito del sistema di repressione e di controllo poliziesco che i nazisti
rapidamente crearono, a capo del quale il supremo commissario Rainer, Gauleiter
della Carinizia, aveva chiamato proprio un altro nazista austriaco, il suo
vecchio camerata Odilo Lotario Globocnik, il Gruppenführer delle SS già
responsabile della Aktion Reinhard a Lublino, l'operazione di sterminio
di oltre 1,7 milioni di ebrei del Governatorato polacco. Una volta nominato Höherer
SS - und Polizeiführer del Litorale, Globocnik - com'è noto - fece
affluire a Trieste un gruppo di "specialisti", circa una novantina,
molti dei quali avevano proprio partecipato alle attività dell' Einsatzkommando
Reinhard in Polonia e gestito anche alcuni dei campi di sterminio di quella
operazione (Sobibor, Belzec, Treblinka), e inoltre, accanto ad essi, alcuni
militi ucraini che provenivano dal campo polacco di Trawniki, sede di un
centro di addestramento di elementi collaborazionisti aggregati alle SS. Va
inoltre ricordato che molti elementi di primo piano di questo gruppo di
specialisti avevano in precedenza preso parte all'"operazione
eutanasia", la cosiddetta Aktion T4, il programma di sterminio degli
handicappati e dei disabili messo in atto dal regime nazista, che Henry
Friedlander ha efficacemente definito come preludio al genocidio. Proprio a
questi burocrati della morte, autentici funzionari del crimine di Stato, tra i
quali compaiono alcuni tra i criminali di guerra più tristemente noti, come
Christian Wirth, venne affidato il compito di gestire il Lager della Risiera di
San Sabba destinato in breve a diventare il fulcro della politica di repressione
nazista nel Litorale. Dal punto di vista formale San Sabba è definibile come un
Polizeihaftlager, cioè un campo di detenzione di polizia e questa è
la denominazione, per esempio, con cui esso è indicato nell'Indice provvisorio
dei campi di concentramento della Croce rossa internazionale. Si trattava - e
questo è il primo punto che voglio mettere in evidenza in questa breve sintesi
di un Lager di tipo particolare, che funzionava come campo "misto".
Presentava, quindi, una complessità particolare che va rilevata. Esso era,
infatti, utilizzato come centro di raccolta per la deportazione degli ebrei, la
deportazione razziale verso i campi di sterminio di Auschwitz, prima, e di
Ravensbrück, poi, e quindi da questo punto di vista fungeva prevalentemente da
campo di transito, con le eccezioni che vedremo più avanti. Allo stesso tempo
la Risiera funzionava come campo di detenzione e di polizia per
l'imprigionamento, la tortura, l'eliminazione di esponenti della Resistenza,
quindi di partigiani catturati, ma anche di ostaggi civili e anche - vedremo -
di altre figure. Per questa ultima finalità il Lager, come è noto, venne
dotato anche di un forno crematorio per l'incenerimento dei cadaveri delle
vittime, ottenuto mediante la trasformazione dell'impianto precedente
dell'essiccatoio del riso, secondo il progetto realizzato da Erwin Lambert,
l'esperto delle SS che aveva lavorato in precedenza nella costruzione delle
camere a gas di Hartheim, Hadamar, Treblinka e Sobibor. È questa presenza del
forno crematorio a far sì che la Risiera costituisca un unicum in
Italia. Essa può essere dunque considerata per queste sue caratteristiche un
"luogo tipico" del sistema di terrore creato dagli occupatori
nazisti per realizzare nel corso del conflitto il loro disegno molteplice che
mirava, da una parte, alla punizione spietata dei ribelli (dei Banditen, come
venivano definiti) e, dall'altra parte, allo sfruttamento sistematico e
violento della popolazione civile (mediante la rapina delle risorse economiche
e lo sfruttamento del lavoro coatto) oltre, certo non ultima per importanza,
come si è detto, alla cosiddetta "soluzione finale" della questione
ebraica. Direi che la sintesi più efficace che si può leggere di questo
carattere complesso della Risiera, secondo me, rimane ancora quella, formulata a
suo tempo da Elio Apih, che compare anche nella guida alla Mostra storica
distribuita nel Museo della Risiera, nella quale l'eminente storico triestino
definisce il Lager triestino un microcosmo delle forme e dei modi della politica
nazista di repressione e di sterminio, dove ebbero luogo: a) l'applicazione
delle principali tecniche di uccisione su ampia scala, proprie della logica
delle SS; b) l'applicazione della tecnica delle SS per le deportazioni politiche
e razziali (clausura, avvio alla stazione per il vagonamento e per l'inoltro
verso i campi maggiori); c) lo sfruttamento della forza lavoro dei prigionieri
ai fini dell'economia di guerra; d) tutta la presenza di quei comportamenti
tipici dell'universo concentrazionario (tortura, sadismo, corruzione,
spionaggio, collaborazionismo volontario o coatto), che si vanno determinando
in situazioni così estreme; e) non ultimo, la Risiera operò come centro per
la predisposizione di vere e proprie azioni militari di rastrellamento e di
terrore della popolazione civile, nell'area della Venezia Giulia, dell'lstria,
del Fiumano, spesso seguite anche da depredazione e dall'uccisione dei
rastrellati nella Risiera stessa. Questo carattere complesso (e sottolineo
questo aggettivo) del microcosmo Risiera è proprio una delle acquisizioni più
chiare ed inoppugnabili anche dell'inchiesta giudiziaria che venne svolta
all'epoca del processo ed è stata efficacemente sintetizzata in questi
termini proprio nella sentenza di condanna di Oberhauser del 1976. Queste le
parole dell'estensore della sentenza, il giudice dr. Domenico Maltese:
"…appare evidente, pertanto, che il Lager di San Sabba fu per le vittime
della persecuzione razziale prevalentemente un campo di transito, mentre per
le vittime della persecuzione politica o di crimini commessi in violazione
delle leggi e degli usi di guerra rappresentò un carcere o un braccio della
morte senza processo né giudici". L'ammontare
complessivo delle vittime della Risiera, come è noto, è oggetto di
discussione. Sono state proposte stime diverse che vanno da un minimo di 2000,
stabilito in base alle testimonianze rese all'epoca del processo, fino ad un
massimo di 5000 (cifra che alcuni ritengono improbabile) ipotizzato nel suo
pionieristico studio da Ferruccio Fölkel (La Risiera di San Sabba) sulla
base della stima dell'attività del forno crematorio. Il giornalista sloveno
Albin Bubnič dedicò molto impegno nell'identificazione delle vittime ivi
soppresse. Sforzo il cui esito fu solo parziale, poiché consentì di
individuare solo un primo elenco di poco più di trecento nomi. Si tratta in
massima parte di partigiani e ostaggi, prevalentemente sloveni e croati, ma
anche di esponenti di primo piano della resistenza italiana, di un limitato
numero di ebrei che non vennero deportati e, per varie ragioni, vennero uccisi
in Risiera o di semplici vittime catturate nei rastrellamenti o in altro modo in
città. Se esaminiamo l'utilizzo della Risiera come ingranaggio della Shoah, dobbiamo
ricordare che vi furono imprigionati, in attesa dei convogli verso Auschwitz o
altri campi del Reich, oltre 1450 ebrei, provenienti dalla regione, dal Veneto e
dalla Croazia. Tra questi, 700 circa furono i deportati razziali triestini,
una ventina soltanto dei quali, come è noto, fece ritorno dai campi della
morte. Di 28 ebrei è stata accertata l'uccisione all'interno del Lager in
quanto considerati non in grado di affrontare il trasporto perché vecchi o
malati o perché accusati, in qualche caso, di infrazioni alla disciplina. Va
tuttavia tenuto conto anche del fatto che non tutti gli ebrei triestini
deportati ad Auschwitz o in altri campi della morte, transitarono comunque
dalla Risiera. Ve ne furono anche raccolti direttamente a Fossoli perché
catturati in altre località d'Italia, dove avevano cercato di nascondersi o di
fuggire. Le informazioni essenziali per la ricostruzione della deportazione
ebraica attraverso la Risiera sono quelle contenute nei lavori più generali
di Liliana Picciotto sulla deportazione ebraica dall'Italia (Il libro della
memoria, soprattutto, che l'autrice ha recentemente aggiornato) e di Marco
Coslovich sulla deportazione dal Litorale adriatico (I percorsi della
sopravvivenza). Ma occorre anche ricordare qui brevemente i lavori di
inquadramento generale sulla persecuzione degli ebrei triestini di Silva Bon (Gli
Ebrei a Trieste 1930-1945), accanto ad alcune importanti memorie di ex
deportati a partire da quella degli anni Cinquanta di Bruno Piazza (Perché
gli altri dimenticano) fino ad arrivare a quelle più recenti, come quella
di Marta Ascoli (Auschwitz è di tutti), pubblicata alla fine degli anni
Novanta. Le retate con cui furono prelevati le donne e gli uomini destinati
alla deportazione per motivi razziali ebbero inizio immediatamente dopo la
costituzione del potere nazista a Trieste, il 9 ottobre 1943, il giorno di Yom
Kippur, e finirono solo nel febbraio del 1945. Esse coinvolsero la gran parte di
quella componente della numerosa Comunità ebraica triestina, che non era
riuscita a lasciare la città, non era riuscita ad occultarsi, compresi
soprattutto i più deboli, i più indifesi, come, per esempio, gli anziani della
Casa di riposo Gentilomo o i malati degli ospedali. Nel puntuale e feroce
perseguimento dell'obiettivo di rendere Judenfrei, cioè priva di
ebrei, anche questa città che era - è il caso di ricordarlo - sede di una
delle più fiorenti comunità ebraiche d'Italia. Ma, accanto agli ebrei
triestini, transitarono per la Risiera anche, come si è detto, ebrei
provenienti
da altre regioni, in particolare dal Litorale, dal Friuli, dal Goriziano,
dall'Istria, da Fiume. E anche alcuni ebrei prelevati in Veneto, cioè in zone
che erano al di fuori dell' area di pertinenza delle attività della polizia e
delle SS del Litorale adriatico. Per i deportati non razziali, invece, per gli
uomini della Resistenza, per gli ostaggi catturati nei rastrellamenti, per i
prigionieri
civili e militari, la Risiera fu solo in parte un Lager di transito. Come si è
detto, in essa questi ultimi patirono anche la tortura, !'imprigionamento e in
molti, in troppi casi, una morte oscura. È doveroso - ripeto - ricordare che la
maggior parte delle vittime proveniva da retate compiute dai nazisti nell'ambito
della repressione dell'attività partigiana, di quella Bandenkampf di cui
ci parlava Collotti, da aree dove era molto viva la resistenza. Quindi
dall'Istria, in particolare l'Istria interna settentrionale, dalla regione dei
Brkini, ma anche dal Friuli, dal Carso e dalla città stessa. Tra essi alcuni
tra gli esponenti più in vista della resistenza slovena, croata ed italiana.
Pur consapevole che si tratta di un'elencazione parziale, senza far torto ai
numerosi altri, è necessario che io ricordi qui qualche nome: i dirigenti
comunisti Luigi Frausin, Natale Colarich, Vincenzo Gigante, Luigia Cattaruzzi, i
dirigenti della resistenza slovena Anton Velušček, Franc Segulin, Zorko
Kovačič, esponenti della resistenza croata come Vera Bratonja, Rudolf
Mandić, e anche numerosi esponenti delle altre forze della resistenza
politiche e militari italiane come Cecilia Deganutti, Giovanni Battista Berghinz,
Vlfginia Tonelli, il giellista Ottorino Pesenti, il democristiano Paolo Reti,
come i membri delle missioni militari inviate a Trieste dal Regno del Sud,
guidate dal capitano Valentino Molina, e dal tenente Rodolfo Sartori. Tutte
queste persone scomparvero nel campo della morte ricavato all'interno del
secondo ampio cortile dello stabilimento, dove era ubicato anche il fabbricato
che ospitava il forno crematorio e dove furono ricavate anche le 17 microcelle
che funzionarono spesso da anticamere della morte, in ognuna delle quali
furono rinchiusi, talvolta per un giorno o per pochi giorni, talvolta anche
per settimane, anche sei prigionieri per cella in attesa della esecuzione. Gli
ebrei e i prigionieri militari o civili che erano destinati, invece, alla
deportazione verso il Reich venivano imprigionati nel fabbricato adiacente e nei
cameroni in attesa di intraprendere il terribile viaggio verso Auschwitz,
Mauthausen, successivamente Ravensbrück. Alcuni di loro, al ritorno della
deportazione hanno potuto testimoniare sugli eccidi avvenuti durante la loro
permanenza in Risiera. Nel medesimo settore interno del Lager era rinchiuso
anche un gruppo di ebrei: in prevalenza ebrei bosniaci o fiumani (ma ce
n'erano anche alcuni triestini) che costituivano una sorta di Kommando interno
di lavoro, addetto ai servizi e ai lavori di fatica. Come giungevano le
vittime alla Risiera? Per vie diverse. Molto spesso vi pervenivano trasferiti
dalle carceri del Coroneo dove erano stati incarcerati dopo la cattura o, anche,
dalle celle di piazza Oberdan, dove avevano sede la Gestapo ed il SD-SIPO, ma
molti di loro (per questo è quasi impossibile quantificarli e identificarli)
venivano direttamente dai luoghi dove erano stati catturati, trasportati con una
corriera ed uccisi immediatamente al loro arrivo. Nel corso del processo,
soprattutto
dalle testimonianze rese dalle stesse SS ai giudici tedeschi in fase
istruttoria, sulle modalità di esecuzione sono emerse diverse ipotesi che
rispecchiano anche l'intrecciarsi delle diverse tipologie della violenza:
dalla gassazione con i gas di scarico del mezzo di trasporto, all'abbattimento
con corpi contundenti, all'uccisione (ma meno frequente) con l'uso di armi da
fuoco. Le ceneri delle vittime, arse nel forno crematorio, venivano scaricate
in mare nella vicina baia di Muggia. La parte rimanente dello stabilimento, che
non fu adibita a campo di eliminazione, ma prevalentemente a caserme e deposito
(anche dei beni mobili razziati) fu comunque anche utilizzata
- nel complesso sistema della Risiera -
con finalità evidentemente repressive. In essa, oltre ai membri della gruppo
locale (R I) della sezione nota come Aktion Reinhard (il reparto retto
da Wirth prima, e da Allers poi, dal quale dipendeva l'attività della Risiera)
vennero acquartierati infatti, in diversi momenti, anche reparti o battaglioni
di soldati italiani sospettati di volersi sottrarre all'impiego militare a
fianco dei tedeschi e considerati non del tutto fidati. È il caso, per esempio,
degli uomini del cosiddetto "battaglione Davide" che formalmente aveva
aderito alle forze della Repubblica sociale italiana, una parte dei quali venne
utilizzata dai tedeschi forzatamente come forza di collaborazione in alcune
azioni di rastrellamento oppure come guardia allo stabilimento, mentre altri,
riusciti a disertare, si aggregarono alle forze partigiane, altri ancora
furono avviati alla deportazione. Si tratta, dunque, di esperienze diverse,
come quella di due compagnie di giovani alpini che provenivano da Fiume, che
furono rinchiusi in Risiera con l'accusa di aver tentato la diserzione. In
particolare, fra gli internati di questo settore va ricordato un folto gruppo di
giovanissimi lavoratori coatti, poco più che adolescenti, trasferiti in Risiera
dal Carso nel dicembre del 1944 e costretti ad una forma di militarizzazione
forzata, vittime inconsapevoli anch'essi di quel disegno folle nazista di
reperire fino all'ultimo e utilizzare nella fase finale del conflitto
possibili forze ausiliarie o, comunque, strumenti da asservire alla propria
condotta della guerra. Questo utilizzo della Risiera come campo di detenzione ed
eliminazione, e quindi come strumento repressivo "locale", non
toglie tuttavia rilievo al ruolo che la medesima ha ricoperto come ingranaggio
nell'ambito più generale della deportazione verso i campi di concentramento del
Reich. Si può dire, invece, che essa abbia costituito il fulcro dell'esteso e
complesso sistema di violenza, sopraffazione, spoliazione e sfruttamento delle
risorse, anche umane, messo in atto da parte nazista nel Litorale, area questa
che, come ha messo bene in luce nei suoi lavori Marco Coslovich, ha fornito un
contributo estremamente rilevante al dramma della deportazione italiana nel
Reich. La pluriennale ricerca di Coslovich infatti ha consentito di
identificare, uno per uno, oltre 8200 deportati nei Lager del Reich provenienti
dall'area dell'Adriatisches Küstenland. Cifra che comunque rappresenta
senza dubbio un dato approssimato per difetto, sia per la difficoltà di
calcolare esattamente il numero dei deportati originari dei territori
dell'Istria e del Fiumano ceduti nel dopoguerra e, soprattutto, anche per la
eccessiva distanza temporale con cui questa ricerca è stata svolta (negli
anni '90) rispetto all'epoca della deportazione. In ogni caso questi deportati
identificati costituiscono una percentuale estremamente rilevante, potremmo dire
circa un terzo, del totale della deportazione stimata dall'Italia verso i
Lager nazisti. Il fatto che la maggior parte di essi siano stati avviati alla
deportazione senza transitare dalla Risiera, per esempio partendo direttamente
dal Coroneo o dalle altre prigioni della zona, come quelle di Gorizia o di
Udine, non deve sorprendere. La Risiera - la cui capienza tra l'altro non poteva
per ragioni strutturali raggiungere quella dei grandi Lager di baracche, ma
comunque consentì la detenzione di un considerevole numero di prigionieri (Bubnic
identificò i nomi di 525 sopravvissuti, ma altri ne sono emersi
successivamente) - era probabilmente destinata ai casi ritenuti più pericolosi,
agli uomini ed alle donne che vi venivano rinchiusi per essere eliminati subito
o per essere sottoposti ad un regime carcerario particolarmente violento. Lo
dimostra indirettamente il fatto che persone catturate dalle SS nella stessa
retata siano andate incontro nell'immediato ad un destino diverso. Abbiamo qui
tra noi oggi l'amico Mario Tardivo di Ronchi. Mario e il fratello Giacomo,
subito dopo la cattura, furono portati alle carceri del Coroneo per essere poi
deportati a Dachau. L'altro loro fratello, Arcù, arrestato nella stessa
operazione, scomparve invece nella Risiera. Del resto dell'esistenza di una
gradualità nelle misure repressive, che andavano dalla morte per i dirigenti
della Resistenza, per i partigiani catturati con le armi, per gli ostaggi
catturati nei rastrellamenti, alla deportazione in Germania o anche all'avvio al
lavoro coatto per i casi che i nazisti ritenevano più miti, vi è una precisa
conferma proprio nei documenti cui si riferiva questa mattina Enzo Collotti e
da lui analiticamente studiati già a partire dagli anni Sessanta. Per esempio,
il noto ordine del responsabile della lotta contro le formazioni partigiane del
Litorale, generale Kübler, del 24 febbraio 1944 ("Terrore contro terrore,
occhio per occhio, dente per dente!), citato stamattina da Enzo Collotti,
prevedeva una distinzione tra la durezza estrema, che prevedeva l'impiccagione o
la fucilazione, e invece, per i casi più miti, soluzioni come l'avvio al
lavoro coatto. È evidente che si trattava quindi di una graduazione diversa
delle misure repressive, prevista nell'ambito, però, di un unico progetto
complessivo, se se ne teneva conto anche negli ordini di portata generale
predisposti per l'intera operazione. Non si trattava probabilmente di una guerra
di annientamento, così come era stata realizzata sul fronte orientale, ma
evidentemente c'era più di un presupposto - ha scritto lo stesso Collotti
perché
anche in questa zona si arrivasse a proclamare una lotta senza clemenza contro
la Resistenza ma anche contro la popolazione civile, che è quindi ampiamente
coinvolta. Tali principi generali trovarono applicazione, per esempio, nelle due
ondate di reclutamenti coatti per l'organizzazione Todt del marzo e di fine
luglio del 1944. Questi massicci reclutamenti si accompagnarono infatti a
retate ed altre misure repressive, comprese deportazioni in Germania per quanti
cercavano di sottrarsi al
servizio di guerra. In
questo quadro di violenza sistematica e di brutalità senza limiti non c'è
dubbio che quest'ultimo aspetto testé richiamato, quello del lavoro coatto,
costituisca un fenomeno che per il suo minor impatto, come ha rilevato Roberto
Spazzali, rischia di scomparire davanti alle tragedie rappresentate dalla Shoah
e dalla deportazione. Pur tuttavia dal punto di vista storico, a mio
giudizio, anch'esso rientra pienamente come variante nel contesto del sistema
scientifico di sfruttamento dell'uomo posto in essere dal nazismo in queste
terre e, come tale, va pienamente analizzato. Bene ha fatto, quindi, lo stesso
Spazzali a colmare questa lacuna con la sua dettagliata ricerca sul lavoro
coatto nel Litorale adriatico (Sotto la Todt. Affari, servizio obbligatorio
del lavoro, deportazioni nella Zona d'operazioni "Litorale Adriatico" 1943-1945),
nella quale ha opportunamente messo in luce il suo carattere di metodologia di
controllo radicale della popolazione da parte degli occupanti tedeschi ed anche
l'interdipendenza fra i campi del Sonderauftrag Poll allestiti per la
costruzione della linea difensiva fortificata in Istria e la stessa Risiera. Ma,
per tornare al tema della deportazione, non c'è dubbio che l'alta incidenza
della deportazione dal Litorale adriatico sul totale nazionale sia da porre in
stretta relazione con il ruolo che Trieste ebbe come centro nevralgico della
repressione nazifascista della resistenza italiana, slovena e croata e, nello
stesso tempo, al fatto di essere, come dicevo prima, sede di una tra le più
numerose e vitali comunità ebraiche in Italia. Anche se, certamente, non va
dimenticato il fatto che il Centro e il Mezzogiorno d'Italia vennero liberati
prima e, quindi, in quelle regioni l'incidenza della deportazione fu minore
anche perché più limitato fu il periodo entro cui essa poteva essere
realizzata. Ciò detto, resta, secondo me, sempre rilevante ed aperta la
domanda sul perché solo qui abbia operato una struttura di repressione così
specifica e così qualificata quale quella messa in atto da Goblocnik con il suo
peculiare sistema poliziesco, ben analizzato all'epoca del processo per i
crimini della Risiera dallo storico sloveno Tone Ferenc (La polizia tedesca
nella Zona d'Operazioni "Litorale Adriatico" 1943-1945). Questa
domanda, che ne implica altre più specifiche (Perché la Risiera a Trieste?
Perché un campo della morte in questa città?) ha sollecitato diverse
risposte nel tempo da parte degli storici che se ne sono occupati, da Carlo
Schiffrer a Elio Apih, fino a Galliano Fogar, a Enzo Collotti ed altri ancora.
Esse si richiamano soprattutto ai caratteri del quadro politico, sociale e
militare di quel tragico periodo, come è stato proprio delineato negli
interventi di questa mattina. Si sono quindi presi in considerazione, innanzi
tutto, l'inserimento istituzionale di fatto della regione nell'orbita del Reich
con l'istituzione del Litorale adriatico e i disegni di espansione secondo il
progetto "neoasburgico", che richiamava oggi Enzo Collotti. Ed il
fatto che questa area fosse geograficamente più vicina al modello della guerra
ad est che non a quello seguito invece nei Paesi occidentali occupati. Si è
posta, quindi, attenzione allo specifico ruolo svolto dai leader nazisti
carinziani nel progetto di creazione di questa nuova propaggine del Reich in
territorio italiano. Si sono sottolineati anche gli aspetti militari: in
particolare Elio Apih ha sottolineato il fatto che l'Adriatico costituiva il
braccio di mare più vicino al confine del Terzo Reich e, quindi, quello
militarmente più delicato da proteggere, dove qualunque attività partigiana,
soprattutto quelle che intervenivano sulle vie di comunicazione e di trasporto,
costituiva una seria minaccia. Si è sottolineata anche opportunamente - lo ha
fatto soprattutto Silva Bon - la specificità della questione ebraica in una
città come la nostra che contava una comunità non solo numericamente
importante, ma anche dal forte peso economico e sociale, che già dopo le
leggi razziali del 1938 era stata investita da tutta una serie di provvedimenti
discriminatori che mettevano in gioco forti interessi economico-sociali. E di
questa specificità locale era stata manifestazione evidente proprio
nell'ultima fase del regime fascista, la creazione del ben noto Centro triestino
per lo studio del problema ebraico, fondato da Ettore Martinoli. Tutti aspetti,
questi fin qui citati, che devono essere correlati con la specificità della
pratica dell'antiguerriglia tedesca, della quale l'apparato poliziesco
costituiva, come ha rilevato Ferenc, un elemento importante accanto a quello
militare rappresentato dai reparti della Wehrrnacht e delle SS combattenti.
Essa operava in una realtà, quella del Litorale adriatico, in cui agiva un
movimento partigiano tra i più radicati ed organizzati, quel movimento di
liberazione jugoslavo, l'Oslobodilna fronta, che si era organizzato nella
regione fin dall'epoca dell'aggressione nazifascista alla Jugoslavia, avviando
un progetto di lotta di liberazione nazionale che coinvolgeva ampiamente anche
la gestione del territorio, non limitandosi al piano della resistenza militare,
ma avviando il controllo politico di ampie aree rurali dell'Istria, del Carso,
della Carniola e che poneva fortemente in discussione anche la questione
dell'appartenenza nazionale (di questo parlerà dopo Pupo) della città di
Trieste, dell'intera Venezia Giulia. Esso costituiva, quindi, un serio ostacolo
a quei programmi espansionistici elaborati in particolare dal nazismo austriaco,
di cui ci ha detto Collotti, ed andava quindi schiacciato facendo ricorso,
come si è detto, ai mezzi più radicali. Da parte mia, ho più volte, sostenuto
inoltre la tesi che l'applicazione di un metodo di eliminazione dei
prigionieri e dei resistenti così brutale, così radicale, analogo per certi
aspetti (sia pure su scala ridotta) a quelli adottati dai nazisti contro i
partigiani
polacchi, per esempio, o contro i bolscevichi sul fronte orientale, fosse da
mettere in una certa relazione anche con quei pregiudizi razziali, che ha così
ben illustrato stamattina Collotti, con la concezione, cioè, di una
collocazione subordinata, nel nuovo ordine nazista, dei rappresentanti di
queste "razze inferiori": gli ebrei da eliminare, gli slavi e anche
gli italiani (i "traditori" italiani) da frazionare, dividere e
anche delocalizzare. Questo aspetto, così tipicamente razzistico poi,
ovviamente, era aggravato dal fatto che il movimento di riscossa nazionale
jugoslavo era egemonizzato dai comunisti, ciò che rendeva assolutamente
prevalente anche l'elemento della guerra ideologica (la guerra contro il
bolscevismo), qual era presente sul fronte orientale. Questi a me sembrano i
fattori essenziali che dobbiamo tenere presente per inquadrare in una luce il più
possibilmente completa il fenomeno della deportazione, dell'internamento e dei
massacri in Risiera, e anche quello della deportazione da Trieste verso i campi
di sterminio polacchi e della Germania. C'è un'ultima considerazione che vorrei
qui sottoporre alla vostra attenzione, avviandomi alla conclusione, e concerne
il piano storiografico. In questi ultimi anni, certo con il grande ritardo che
sottolineavo prima, soprattutto a partire dagli anni Novanta, per merito degli
studiosi che ho citato, le conoscenze che noi possediamo sulla vicenda della
deportazione dal Litorale adriatico si sono notevolmente accresciute. Credo,
soprattutto, che sia stata dedicata giustamente un'attenzione speciale alla
tutela ed alla conservazione della memoria dei protagonisti e delle vittime di
quelle vicende per evitare che con il trascorrere del tempo di essi rimanessero
soltanto alcuni nomi. Le pagine di storie di vita così pazientemente raccolte,
costituiscono oggi un affresco complessivo ed analitico di una vicenda terribile
che altrimenti sarebbe stata destinata all'oblio. In questa occasione, sento il
dovere di sottolineare il ruolo particolare che ha svolto in proposito il
progetto "Ultimo appello" promosso dall'Istituto regionale per la
Storia del Movimento di Liberazione, in collaborazione con l'Aned, progetto che
sotto la direzione di Marco Coslovich ha condotto alla realizzazione di 50
video-interviste di livello professionale, che costituiranno una fonte preziosa,
oltre che un archivio incancellabile della memoria dei deportati (uomini, donne,
italiani, sloveni, croati, ebrei, politici e non) dalle nostre terre. Sulla
scorta di questo imponente materiale che ammonta ormai ad oltre 90 ore di girato
e che è ancora in corso di produzione e di sistemazione, è stato già prodotto
il documentario Gli anni negati, dedicato alla deportazione ebraica, che
è stato presentato qui a Trieste in occasione della Giornata della Memoria del
27 gennaio 2004. Un secondo documentario è ora in corso di realizzazione. Mi
sembrano risultati di rilievo che in questa sede è opportuno ricordare e
valorizzare, come è altrettanto doveroso riconoscere le acquisizioni
importanti delle ricerche di storia orale condotte da Coslovich.
Personalmente, tengo particolarmente a evidenziare nei suoi lavori soprattutto
l'attenzione e la sensibilità dimostrate specificamente nei confronti della
deportazione femminile, attenzione e sensibilità che ci hanno donato, con la
sua Storia di Savina, un documento straordinario, un grande libro di
storia, uno spaccato analitico della realtà di queste terre in quei tragici
anni, e soprattutto una figura femminile indimenticabile, non letteraria, ma
autentica. Un aspetto che, invece, mi pare sul piano storiografico sia stato un
po' messo da parte e nel quale i lavori di riferimento continuano ad essere
ancora oggi quelli importanti, ma ormai inevitabilmente un po' datati,
pubblicati da Collotti negli anni Sessanta, Settanta e da Tone Ferenc, è quello
dello studio dei meccanismi specifici che precedettero la deportazione, cioè le
modalità secondo cui essa venne concretamente decisa e attuata. E proprio a
causa del permanere di molte lacune da questo punto di vista, che anche Liliana
Picciotto ha sottolineato nel suo lavoro, mi sembra importante segnalare in
questa sede il recente lavoro che la studiosa tedesca Gabriele Bergner ha
dedicato alla vicenda dei deportati italiani a Dachau (Aus dem Bündnis
hinter den Stacheldraht. ltalienische Häftlinge im KZ Dachau 1943-1945. Deportation
und Lebensbedingungen), nel quale un ampio capitolo è proprio dedicato alla
vicenda dell'Adriatisches Küstenland. È il caso di ricordare che il KZ di
Dachau era il campo di concentramento verso il quale fu diretta proprio la
maggioranza dei deportati dal Litorale adriatico, con 27 trasporti per un
totale di 4166
deportati identificati dalla
studiosa tedesca. Molti dei quali - tra l'altro - non compaiono negli elenchi
di Coslovich, fatto questo che conferma le difficoltà di quantificazione di cui
parlavo prima. Segnalo questa accurata ricerca perché in essa la Bergner ci
offre una prima analisi dettagliata proprio delle modalità del processo di
deportazione, dall'arresto al successivo interrogatorio, fino al momento
cruciale della decisione circa la destinazione finale del deportando, fornendoci
un quadro analitico degli attori delle diverse fasi e discutendo, quindi, i
criteri di assegnazione alle destinazioni. Un lavoro, dunque, che fornisce per
la prima volta un quadro più preciso, almeno per quanto riguarda le vicende del
Litorale adriatico, circa la "burocrazia" che sovrintendeva ai
trasporti dei deportati verso i KZ. L'immagine che si ricava dalla lettura dello
studio della Bergner mette in discussione il mito della precisione tedesca. C'è
invece parecchia confusione, anche sovrapposizione di competenze e, in certi
casi, alla fine si scopre che si poteva essere deportati anche semplicemente per
un vago sospetto che non veniva confermato da nessuno. Non credo che questo
lavoro abbia circolato molto in Germania, ma vista l'importanza del suo
contenuto per lo studio della deportazione italiana, mi sembrerebbe molto
opportuna una sua traduzione italiana. In conclusione sento il dovere, oggi,
alla presenza di voi ex deportati, che certo non avete bisogno di alcuna
sollecitazione in tal senso - ma l'appello è rivolto soprattutto ai giovani che
ci ascoltano ed ancor più a tutti i numerosi visitatori che ogni anno hanno la
sensibilità di includere nel programma di visite alla città una doverosa sosta
in Risiera - di sottolineare con forza il valore speciale che la memoria della
Risiera, come luogo di sofferenza, di morte e di deportazione ha non solo per la
nostra storia locale, ma per la storia nazionale italiana e per la storia di
tutte queste terre di frontiera. Un valore che le deriva proprio dal fatto che
nel complesso quadro di quella violenza qui perpetrata, che qui ho brevemente
cercato di delineare nei suoi aspetti essenziali, sono stati coinvolti uomini e
donne, italiani, sloveni, croati, di fede ebraica, di fede cattolica, laici, non
credenti, combattenti della Resistenza di diverso orientamento politico. Di
una resistenza che - non bisogna dimenticarlo - pur nell'aspetto unificante
della lotta contro l'oppressione nazifascista, qui era attraversata e
caratterizzata da aspre divisioni e da conflitti durissimi che vertevano non
solo sulle prospettive nazionali ma anche sociali della lotta di liberazione.
E quindi: comunisti, socialisti, osovani, democratici cristiani, azionisti, ma
accanto a questi anche semplici renitenti al lavoro coatto, militari che
tentavano di unirsi alle forze partigiane, ma anche militari che speravano
semplicemente di tornare a casa, gente che molto spesso si collocherebbe più
facilmente nella cosiddetta "zona grigia" che non nella zona nobile
dei triangoli rossi e della resistenza politica, giovani, vecchi, donne e uomini
anche rastrellati per caso. Un microcosmo, quello della Risiera, che riproduce
quella forzata vicinanza, caratteristica dell'intero universo concentrazionario,
tra uomini di fede, di nazionalità e di orientamento politico differente,
molto diversi fra loro, ma tutti accomunati dal fatto di essere innanzi tutto
vittime dell'oppressione nazista, accomunati quindi dall'esperienza di una
deportazione brutale, che però è stata - non dimentichiamolo - anche una sorta
di brodo di coltura in cui ha iniziato a delinearsi, al di là delle ideologie
e delle fedi diverse, proprio l'idea di un'Europa delle libertà, unita nei
valori della democrazia e della tolleranza. Parafrasando il bel titolo delle
memorie di una di voi ex deportati, l'Auschwitz è di tutti di Marta
Ascoli, voglio chiudere auspicando che noi si possa operare tutti, nella nostra
, città e nel Paese, perché la memoria della Risiera diventi sempre più una
memoria di tutti e sempre meno una memoria di parte.
Grazie.
da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004