Documenti dell'ANED di Milano

Teodoro Sala

Università di Trieste

L'occupazione italiana nei Balcani

Centralità dello scacchiere balcanico nella vicenda bellica italiana (1939-1943)

Lo stesso rinnovato invito del presidente Ciampi ad una riconsiderazione dei valori fondativi per la nostra democrazia derivanti dai fatti di Cefalonia del settembre 1943, si colloca in una più ampia riflessione storiografica: la natura dell'alleanza italo-tedesca, la guerra fascista d'aggressione alla Grecia, la complessiva anche se articolata politica d'intervento dei governi di Roma nel settore danubiano-balcanico. E specialmente le conseguenze corruttrici, i segni cioè di un profondo imbarbarimento, introdotti dai sistemi di gestione politica, amministrativa e militare dei territori annessi o occupati. Sin dalla aggressione alla Jugoslavia nell' aprile 1941, del resto, Germania e Italia (e gli stati minori coinvolti: Ungheria e Bulgaria) calpestarono ancora una volta i princìpi del diritto internazionale. La Germania attaccando dall'aria Belgrado senza dichiarazione di guerra:

"Domenica mattina mentre i sacri bronzi invitavano i fedeli alle funzioni religiose, un bombardamento che sorpassa in orrore ogni immaginazione è stato scatenato dall'aviazione tedesca. Un vero diluvio di bombe incendiarie ed esplosive ha trasformato la città in un ammasso di rovine e in un focolaio di incendi, mentre tutte le vie di Belgrado erano coperte di cadaveri di bambini, di donne e di vecchi".

L'Italia (come i suoi alleati), con le annessioni di ampi territori della Jugoslavia sconfitta, lese il principio che avrebbe imposto un trattato di pace per procedere alla delimitazione di confini tra ex belligeranti. La fretta con cui il governo di Roma impose il connubio di amministrazione civile e militare nelle terre conquistate, fu oggetto di critiche da parte degli stessi comandi militari. "Colossale errore" veniva definito quello compiuto in Adriatico dove "si è voluto, bruciando le tappe, proclamare l'annessione e ... successivamente il sollecito procedere verso la normalizzazione".

L' "errore" veniva denunciato anche da osservatori politici operanti nella "provincia" di Lubiana.

L'influenza delle questioni balcaniche nei rapporti italo-tedeschi

Fin dagli accordi politici dell' Asse Roma-Berlino nel 1936, sono ben presenti le prospettive (nelle speranze italiane) di una composizione degli interessi italo-tedeschi nell'Europa sudorientale. Rimase il grande equivoco dell' atteggiamento di Berlino che, al di là di assicurazioni alquanto generiche circa lo spazio riconosciuto all'Italia nell' area, non accettò mai la definizione di atti formali che riconoscessero nei suoi vari aspetti la sfera degli interessi italiani nei Balcani. L'occupazione dell' Albania nel 1939 da parte italiana non rappresentò un atto di generica concorrenza nei confronti della Germania quanto un intervento cautelativo per i progetti del governo di Roma verso la Jugoslavia. La disastrosa campagna contro la Grecia dall' ottobre 1940 compromise definitivamente la fiducia che Hitler e i suoi potevano nutrire circa la tenuta militare del fascismo. Con un sol colpo Berlino dall'aprile 1941, oltre a soccorrere l'alleato pericolante e ad assestare il colpo di grazia alla Grecia, con l'azione coordinata politico-militare, stabilì una ferrea egemonia su Ungheria, Bulgaria e Romania avendo ormai il controllo delle due centrali strategiche, Vienna e Praga. Un dominio sulle risorse umane ed economiche dell' area danubiano-balcanica tanto più essenziale alla vigilia dell' aggressione all'Unione Sovietica. Chi segua gli sviluppi delle relazioni italo-tedesche nello spazio balcanico tra la primavera del 1941 e il settembre del 1943 deve constatare la progressiva emarginazione della presenza politica e militare italiana nel settore sotto la spinta degli interessi tedeschi e della pressione esercitata dai movimenti di liberazione dalla Grecia, all'Albania, alle regioni jugoslave.

Dall' "arte dei ripieghi" alla" riduzione alla costa"

L'Italia entra in guerra contro la Jugoslavia il 6 aprile 1941 sull'onda dell'aggressione tedesca, ma nel momento a lei meno favorevole per il logoramento a cui è sottoposta sul fronte greco-albanese. TI concorso italiano - si pensi alle precedenti ambizioni belliche di Mussolini - apparve quasi un'operazione di rincalzo, paragonabile più all'intervento bulgaro e ungherese che non all'impegno germanico. Notò l'allora comandante della il armata italiana, Vittorio Ambrosio, in una relazione finale sulla campagna, come fosse stato necessario usare "un'arte di ripieghi... ricorrere a degli espedienti meno ortodossi dal punto di vista organico e più imprevedibili, per fronteggiare con i mezzi disponibili, relativamente scarsi come quantità, e inadeguati come qualità, le sempre nuove esigenze". È un'osservazione (e una denuncia) che può essere estesa all'intero ciclo di permanenza italiana oltre Adriatico e Jonio. Rientra nel novero degli "espedienti" anche l'uso che i comandi vollero fare dei cetnici (le formazioni di guerriglieri antico­munisti fedeli al governo monarchico in esilio). Si trattava di farli combattere contro i partigiani di Tito, desti­nati a costituire il nerbo di un vero e proprio esercito di libera­zione praticante la guerriglia ma anche lo scontro in campo aperto: la dispersione in una miriade di presidi su un territorio vastissimo logorava gravemente la macchina militare italiana. Dall'inizio del 1942 il generale Mario Roatta era giunto al ver­tice della II annata, la grande unità operante dalla Slovenia al confine col Montenegro, nel momento in cui venivano decisa­mente rafforzate le competenze dei militari nelle terre annesse. Roatta era un sostenitore convinto della collaborazione con i cetnici, fonte questa di aspri contrasti con i tedeschi destinati a crescere tra il 1942 e il 1943. Il generale proponeva a Roma di "sostenere i cetnici tanto da farli combattere contro i comunisti, ma non tanto da dare grande ampiezza alla loro azione... lasciare che operino contro i comunisti per contro proprio. Si sgozzino fra di loro". Il bottino ottenuto (così lo definiva Galeazzo Ciano) - conquistato grazie al pesante beneplacito tedesco - fu il più cospicuo territorialmente parlando, tra le acquisizioni italiane nella seconda guerra mondiale. Annessa all'Italia buona parte della Slovenia con il capoluogo Lubiana, eretta a provincia; ingrandita a spese della Croazia la vecchia provincia di Fiume; creato un governatorato della Dalmazia con le nuove province annesse di Spalato e Cattaro, mentre nuove terre venivano aggiunte al vecchio capoluogo Zara. Incerta la sistemazione politica del Montenegro assegnato all'Italia e retto da un governatore. Allargati i confini dell' Albania con parte del Kossovo e della Macedonia. Con lo sviluppo dell'insurrezione contro gli occupanti (a partire dal Montenegro già nell'estate del 1941), l'Italia passerà al controllo di larghe fasce del territorio del nuovo stato satellite croato dominato dagli ustascia (rapidamente Zagabria passerà nell'orbita tedesca). Ai danni della Grecia l'Italia procederà all'annessione di fatto della isole Ionie. Già alla metà del 1942 sono evidenti i sintomi crescenti di una disfatta che in Adriatico, al confine orientale, significherà perdita di gran parte della Venezia Giulia e sofferenze pesantissime per centinaia di migliaia di italiani, ma anche di croati e di sloveni di quelle province. Elementi costitutivi di quella incipiente crisi saranno soprattutto due. Intanto l'insediamento permanente alle porte di Fiume del comando della II armata significherà il coinvolgimento nella risorgente guerra balcanica dello stesso territorio nazionale. Le vicende delle truppe d'occupazione nelle nuove province e nelle terre controllate si ripercuotono più direttamente sul vecchio territorio metropolitano (specialmente nelle province di Fiume e Pola). Poi: per quanto riguarda in particolare le province di Trieste e Gorizia dove vivono oppresse dal fascismo forti comunità slovene, la creazione, senza soluzione di continuità rispetto al precedente confine, della "provincia" di Lubiana, crea un unico spazio politico-nazionale in cui, pur tra contraddizioni e divisioni interne, tendono ad unificarsi le ragioni esistenziali degli sloveni, la loro ribellione, gli elementi organizzativi di una riscossa che sa di poter contare sul grande schieramento antifascista internazionale. Non solo: tra il 1942 e il 1943, la capacità di mobilitazione del Fronte di liberazione sloveno (Of) si mostra in grado di penetrare soprattutto nelle concentrazioni operaie della costa a maggioranza italiane. Il nuovo fronte balcanico presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente dagli altri scacchieri (ad eccezione, forse, di quello nell'Unione Sovietica). Intanto le conseguenze nefaste sul morale delle truppe che, contro il loro ruolo militare, si vedono coinvolte in una grande e defatigante operazione di polizia: ne è un segnale significativo l'insistenza della propaganda dei comandi che vuol convincere i soldati che quello è un fronte come gli altri, anche se si combatte contro un nemico che spesso non si vede, che colpisce e si nasconde. Dove sono numerose le donne in armi. L'altro fenomeno che ha caratteri più prettamente politici è quello che vede lo scollamento tra autorità militari e quelle civili nelle zone annesse (significativi i casi di Zara e Lubiana). I militari accusano i civili (prefetti, questori) di frapporsi con poco costrutto nelle attività repressive. I civili lamentano la scarsa combattività delle truppe. È notevole il fatto che tali polemiche si manifestino anche al di qua del vecchio confine, nel Goriziano, sin dalla seconda metà del 1942. Cresce in tale periodo sul Carso goriziano e triestino un secondo fronte partigiano, grazie allo sfilamento di nuclei armati dal territorio di Lubiana (investito da operazioni draconiane di rastrellamento e antiguerriglia che coinvolgono duramente la popolazione civile). Tra il 1942 e il 1943 il tessuto civile delle zone rurali della provincia di Trieste è sconvolto, per cui, a poche decine di chilometri dal capoluogo, in centri minori, viene introdotto il coprifuoco e sospeso il servizio scolastico.

I prodromi di Cefalonia.

Alla metà del 1943 crescono a Roma le preoccupazioni per un'offensiva diretta degli Alleati contro l'Italia: anche per questo motivo si pone la prospettiva se non di uno sganciamento del settore balcanico almeno,di una "riduzione alla costa" (è il termine tecnico utilizzato dagli alti comandi) cioè di un concentramento più o meno ampio del contingente militare italiano lungo la costa adriatica. Certamente, però, allo scadere della primavera 1943, sono dislocati nell'area balcanica 655.000 soldati italiani (il 43% dell'intera forza terrestre mobilitata all'epoca dall'Italia). Nel marzo un rapporto interno dal Comando supremo - carico di presagi - si domandava:

"Quali ragioni sussistano ancora per giustificare l'impiego colà di così numerose forze. Le ragioni di ordine politico oggi non hanno più valore. Finché potevamo temere l'egemonia della Germania forte in Europa, era logico mantenersi in Croazia ed in Grecia per impedirle di installarsi in Adriatico. Ma adesso questo pericolo non esiste più perché anche se essa si affaccia sulla sponda orientale di quel mare dovrà in seguito contendere questo possesso non a noi, ma ai nostri avversari i quali detteranno essi legge nei Balcani... Sono di maggior valore quelle ragioni che consigliano di ridurre molto la nostra occupazione in Balcania. .. quelle forze non potranno essere adeguatamente rifornite per deficienze di trasporti e quindi non potranno resistere che per un tempo assai breve; quelle forze, ancora, saranno per noi definitivamente perdute senza che con il loro sacrificio abbiano allontanato il pericolo dalla Madre Patria".

Aprire ai tedeschi le porte dell' Adriatico, sia pure in una nota che non sappiamo quanto condivisa a Roma dai vertici militari, e quando in uno scenario diverso si dovevano ancora fare i conti con la sciagurata gestione regia dell'armistizio, preludeva di fatto alla costituzione di quell'Adriatisches Kiistenland, prima tappa di una tragedia nell'Italia nordorientale preparata dal fascismo. Gli estensori della nota di marzo non potevano prevedere la vendetta immane calata dai tedeschi su Cefalonia: ma la solitudine della divisione Acqui, come quella dei tanti soldati abbandonati nella penisola balcanica, aveva radici lontane. Dell'intero contingente di catturati e avviati all'internamento in Germania, più della metà, cioè 393.000, provenivano da quell'area.

Violenza codificata.

Riprendo i termini della repressione messa in atto dall'Italia fascista durante l'occupazione nei Balcani: prelievo di ostaggi e frequente loro sbrigativa soppressione in caso di rappresaglia, distruzione o sequestro di beni materiali, incendio di molti centri abitati, rastrellamenti indiscriminati di civili di ogni età e sesso, deportazione di intere fasce di popolazione (il 6% dalla sola provincia di Lubiana), riti giudiziari sommari nei confronti di semplici sospetti, uccisione di prigionieri e di feriti rimasti sul campo dopo i combattimenti. Un esempio soltanto: una relazione del governatore del Montenegro, generale Pirzio Biroli, dava conto il 14 luglio 1943 in termini ottimistici dell'esito di una della battaglie più note con l'esercito di Tito (Sutjeska: i partigiani riuscirono a sganciarsi dal nemico malgrado le fortissime perdite):

"Le formazioni partigiane... infine accerchiate, furono quasi completamente distrutte... Le perdite nemiche ascendono a circa 12.000 morti, giacché la maggior parte dei prigionieri fu passata per le armi".

In base agli ultimi studi sull'occupazione si può constatare che l'azione repressiva italiana ebbe sistematicità e fu in certo senso "codificata". Ne è testimonianza la circolare 3 C emanata da Roatta nel 1942 (e riprodotta anche in edizione a stampa), capace di generare una serie assai ampia di disposizioni ancor più severe da parte dei comandi sottoposti. Dalla più recente storiografia italiana emerge un dato che appare ormai consolidato: i metodi "coloniali" adottati dalle amministrazioni civili e militari ebbero un carattere di continuità e di omogeneità dalla Grecia, all'Albania, ai territori ex jugoslavi. Non va dimenticato il grande contributo dato anche alla nostra storiografia dal compianto storico sloveno Tone Ferenc. Infine una considerazione e un interrogativo. A chi ha denunciato l'indubbia crudezza (o la crudeltà) della risposta data dai movimenti di liberazione balcanici agli occupatori va ricordato non tanto e solo il primato della violenza subito introdotta nella grande area sudorientale dall' intervento armato tedesco e italiano. Ancora più peso, perché di lunga durata, ebbe, lo ripetiamo, il conseguente tratto di imbarbarimento che colpiva vittime ma anche aggressori. Ci si può interrogare su quanta consapevolezza fosse diffusa tra i vertici politici e militari italiani sulla fine dell'avventura balcanica che significava chiusura fallimentare di un intero ciclo della politica estera nazionale. Un segnale di carattere generale può essere considerato il citato rapporto di marzo del 1943. Un altro più settoriale riguarda l'Albania ed è una nota del febbraio precedente. Proveniva dal Servizio informazioni esercito. (Sie): vi si denunciava come "L'insofferenza delle popolazioni nei confronti dell'Italia può oggi dirsi pressoché generale... La presenza delle truppe italiane sul suolo albanese, che durante la guerra italo-greca tramutarono l'Albania in conteso teatro di operazioni, ha radicato nell'animo delle popolazioni il convincimento che la loro patria costituisca terra di occupazione per l'Italia, e che la creazione dell'Albania in Stato libero e indipendente sia soltanto una finzione giuridic ... In sostanza gli interessi italiani ed albanesi si dimostrano disassociati, spesso divergenti e contrastanti, così nelle manifestazioni di vita più elevate come in quelle più umili. La premessa d'ordine spiritua­le, su cui doveva poggiare l'organizzazione politica imposta all' Albania, si è pertanto dimostrata fallace"

da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004

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