Documenti dell'ANED di Milano
Milica
Kacin Wohinz
Istituto
di Storia contemporanea di Ljubljana
Le
minoranze sloveno-croate sotto il fascismo
L'
Italia, vincitrice nella prima guerra mondiale, concluse il proprio processo di
unificazione nazionale inglobando nel contempo circa mezzo milione di
popolazione slava nella Venezia Giulia. La popolazione slava, chiamata
ufficialmente allogena, era composta secondo il censimento del 1910 da circa
327.000 sloveni e 152.000 croati. Assieme ai 34.000 sloveni della
Slavia veneta, già presenti nello stato italiano dal 1866 e censiti nel 1921,
gli sloveni in Italia erano 360.000 e rappresentavano quasi un quarto
dell'intero popolo sloveno con altrettanto territorio. Queste terre (assieme
alla città di Zara e al Sud Tirolo con circa 200.000 tedeschi) vennero
attribuite all'Italia con il patto di Londra, concluso, con gli alleati,
nell’aprile del 1915. Con il patto il governo italiano adottò un programma
di espansione che accanto ai motivi nazionali includeva anche ragioni di
carattere geografico e strategico. Da ciò, credo, scaturirono tutti i conflitti
tra i due popoli e tutte le tragiche conseguenze, di cui nemmeno oggi ci si
rende completamente conto. Per gli sloveni della Slavia veneta la crescita del
numero di sloveni presenti in Italia non influì sulla loro situazione
politico-nazionale. Ritenuti ormai assimilati, non venne pertanto loro
riconosciuto alcun diritto nazionale. Nel 1934, con un decreto prefettizio, fu
loro tolto anche il diritto alla preghiera nella lingua materna. Nel periodo
di occupazione militare della Venezia Giulia, tra il novembre 1918 e
l'annessione del gennaio 1921, le autorità italiane presero numerosi
provvedimenti restrittivi, che penalizzarono la ripresa della vita culturale e
politica della componente slovena e croata. L'Italia non era preparata ad
affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati,
abitati anche da sloveni e croati che aspiravano all'unione con la propria
"madrepatria" e che avevano già compiuto la propria acculturazione
socio-politica nel plurinazionale stato asburgico. Nel 1918, finita la guerra,
il capo di Stato maggiore generale Pietro Badoglio diede istruzioni politiche
per il trattamento della popolazione slava in tre progetti riservati, elaborati
per ordine del ministro degli Esteri Sidney Sonnino. Da una parte veniva decisa
l'azione concreta mirante alla dissoluzione del nuovo stato jugoslavo - il Regno
dei serbi, croati e sloveni -, dall'altra si forniva alle trattative per la
definizione del nuovo confine tra i due stati un quadro politicamente italiano
della regione. Al terzo punto delle istruzioni del 29 novembre si leggeva: "Escluso
ogni riconoscimento esteriore dello Stato jugoslavo e dei suoi pretesi organi,
tale Stato, il suo territorio e i suoi organi in quanto tengono un contegno
contrario agli interessi e ai diritti dell'Italia e dell'Esercito occupante,
saranno
considerati come nemici coi quali è in vigore un armistizio e saranno
trattati in conformità". L'irremovibilità delle delegazioni italiana
e jugoslava alla conferenza di Parigi ritardò la stabilizzazione dei
territori occupati acuendo i contrasti nazionali e costruendo il terreno
ideale per l'affermazione del "fascismo di confine", che coagulò le
forze nazionaliste sul piano dell'antislavismo combinato con l'antibolscevismo.
L'incendio del Narodni dom a Trieste nel luglio 1920, non fu che il primo
atto di una lunga serie di violenze nella Venezia Giulia. Secondo lo storico
triestino Carlo Schiffrer fu compiuto nell'intento di mettere in difficoltà le
trattative; secondo il socialista Aldo Oberdorfer distrusse per un lungo periodo
tutti i ponti che esistevano per una convivenza pacifica tra i due gruppi
nazionali. Al comizio elettorale del Blocco nazionale italiano, il primo maggio
1921, il leader fascista Francesco Giunta si presentò così: "Il mio
programma lo conoscete... Per me è iniziato... con l'incendio del Balcan...
Oggi non si tratta solo di vincere la battaglia politica... bensì dobbiamo
vincere alle porte orientali d'Italia la battaglia nazionale... Il nemico sta
solo due passi fuori dalle mura della città”
Il trattato di Rapallo,
stipulato tra i due stati il 12 novembre 1920, non vincolò l'Italia al rispetto
delle minoranze slovena e croata; diede però tutti i diritti alla minoranza
italiana in Dalmazia rimasta nella Jugoslavia. Più tardi, nel 1923, il ministro
degli Esteri Carlo Sforza in una lettera a Giovanni Giolitti scrisse: "A
Rapallo gli jugoslavi erano sull'orlo della disperazione... Con il consenso
dei vicini abbiamo trasformato in italiani mezzo milione di jugoslavi, ottenendo
privilegi specifici per alcune migliaia di italiani rimasti in Dalmazia. Mi
chiedevano precise garanzie per gli slavi in Italia. Rifiutai decisamente.
Dissi che i nuovi stati devono garantire la tutela delle minoranze ma per uno
stato forte come è l'Italia la garanzia sta nella sua propria civiltà e
tolleranza. (Avevo enormemente sbagliato! Eppure era uno sbaglio
fortunato)." Perciò alla Camera, a Roma, i deputati dei partiti
democratici protestarono chiedendo la reciprocità nel trattamento delle due
minoranze. Solo dopo questo intervento la Camera dei deputati italiana approvò
un ordine del giorno con cui si assicurava ai gruppi etnici slavi il rispetto
della propria identità e ampie garanzie per la promozione della propria lingua
e della propria cultura. Garanzie verbali vennero offerte da diversi statisti e
dallo stesso sovrano. L'aspetto più rilevante della mozione era senz'altro
il riconoscimento formale della presenza di una seconda etnia nella Venezia
Giulia. Clausole riguardanti la tutela degli slavi nella Venezia Giulia non
vennero incluse nemmeno nei successivi atti, nelle convenzioni di Nettuno del
1925, o nei trattati politici del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte
jugoslava buoni rapporti con il potente vicino. L'accordo di amicizia e
collaborazione tra l'Italia e la Jugoslavia del gennaio 1924 fu il premio,
diciamo
un riconoscimento, alla Jugoslavia per aver ceduto lo Stato indipendente di
Fiume all'Italia, ma non arrestò l'azione snazionalizzatrice degli jugoslavi
in Italia, colpiti proprio allora dalla riforma Gentile che segnò la fine di
tutte le scuole in lingua slovena e croata nella Venezia Giulia. La politica
estera del fascismo s'incamminò sulla via dell'egemonia adriatica e del
revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi. Tale orientamento
fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, decisi a
espandersi nei Balcani e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana
della Venezia Giulia. Nel periodo dell'amministrazione militare e nella prima
metà degli anni Venti gli sloveni ed i croati non opposero resistenza. Essa
invece prese a manifestarsi all'interno del movimento rivoluzionario operaio,
al quale gli sloveni avevano aderito massicciamente, nella convinzione che la
rivoluzione in Italia avrebbe risolto con la questione sociale anche quella
nazionale. Tale fatto contribuì a unificare nella definizione di "slavocomunisti"
o "slavo-bolscevichi" i due concetti di "slavo", riferito
all'etnia, e "comunista", riferito all'ideologia politica, inducendo
il fascismo a giustificare contemporaneamente e pretestuosamente il terrore
contro due avversari. Il fascismo cementò le forze nazionaliste italiane della
Venezia Giulia richiamandosi all'antislavismo e al ruolo di tutore degli
interessi italiani al confine orientale. Intendeva così identificarsi con
l'italianità e a sua volta identificare lo slavismo con l'antifascismo. Ancor
prima dell'annessione ufficiale, nella regione si erano create le condizioni che
poi avrebbero accompagnato tutto il ventennio. Le forze politiche si
polarizzarono su base nazionale, il movimento operaio si radicalizzò in gran
parte nel movimento comunista. A questa radicalizzazione lo avrebbero portato,
secondo le autorità italiane, gli slavi che ancor prima dell'annessione avevano
aderito al Partito socialista italiano. La politica degli esponenti
sloveno-croati della Venezia Giulia fu improntata al lealismo nei confronti
dello Stato italiano. I cinque parlamentari della lista “jugoslava”, eletti
nel 1921 alla Camera dei deputati di Roma, ebbero a dichiarare: "Come
abbiamo
il diritto di chiedere la cura più gelosa e il rispetto per quanto attiene la
nostra coscienza nazionale, così ne assumimo anche tutti gli obblighi, non
solo quelli imposti dalle leggi, ma pure quelli derivanti dal fatto della
convivenza statale... Vogliamo e ci sentiamo in dovere di essere il ponte di
riconciliazione tra la Jugoslavia e l'Italia, l'elemento spirituale che possa
ravvivare in queste terre i sentimenti di una superiore solidarietà
umana." A questa politica di lealismo rimasero fedeli anche dopo
l'avvento del fascismo. Non aderirono nemmeno all'opposizione dell'Aventino,
ritenendo che la comunità sloveno-croata avrebbe dovuto affermare i propri
interessi nazionali nel rapporto diretto con il popolo italiano e non con i
partiti politici. I politici sloveni, di sentimenti irredentisti ed
antifascisti, videro nell'appello al principio della lealtà e della legalità
la sola possibilità di conservare l'identità nazionale della propria
minoranza, anche dopo la soppressione di tutte le proprie istituzioni, compresa
la rappresentanza al parlamento, e fecero sentire la propria voce a livello del
Congresso delle nazionalità europee. Il Congresso, istituito nel 1924 dalla
Lega delle nazioni, adottò nel 1935 il principio di collaborazione in materia
di tutela delle minoranze con tutti, anche con i regimi totalitari, a patto che
questi riconoscessero la loro esistenza. Fu il triestino Josip Wilfan a
presiedere il Congresso, per tutta la sua durata, appunto per la sua esperienza
acquisita nella politica minoritaria in un regime totalitario. La storia del
Congresso delle nazionalità europee (che ha funzionato sino al 1938) è stata
purtroppo trascurata nella storiografia europea del periodo tra le due guerre.
Altrettanto nella storiografia jugoslava. Eppure il Congresso significava,
secondo la definizione di Wilfan: "l'embrione della futura Europa
unita", che soltanto oggi si è realizzata. La battaglia parlamentare
dei rappresentanti della minoranza sloveno-croata per la tutela dei diritti
nazionali, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dell'Alto
Adige, non diede alcun risultato, anzi il regime fascista si impegnò a fondo,
anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze
nazionali. Durante i governi democratici in Italia queste avevano rinnovato le
proprie istituzioni dell'anteguerra, comprese le rappresentanze politiche ed amministrative.
Nel rinnovo delle istituzioni autonome comuni esisteva una garanzia per uno
sviluppo libero, in particolare nell'Isontino dove nella rinnovata Dieta
straordinaria provinciale, presieduta da Luigi Pettarin, il rapporto fra gli
italiani e gli sloveni era di 6 a 5. Minori erano le prospettive per gli sloveni
a Trieste ed i croati in Istria già nel periodo dei governi democratici. Con
l'avvento del fascismo invece, grazie alla violenza esercitata da questo con il
sostegno delle autorità statali, le prospettive per la minoranza nazionale
divennero drammatiche, poiché la distruzione del patrimonio esistente veniva
sistematicamente perpetrata sin dal 1922. Le prime a risentirne furono proprio
le Diete straordinarie di Gorizia e di Bolzano. Sino al 1928 nella Venezia
Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene
e croate, tutte le scuole furono italianizzate, gli insegnanti furono, in gran
parte, trasferiti, pensionati o costretti ad emigrare. Vennero posti limiti agli
slavi per l'accesso al pubblico impiego, così come vennero soppresse
centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali,
professionali, centinaia di cooperative economiche e istituzioni finanziarie,
case del popolo, biblioteche e proibito l'uso pubblico della lingua materna.
I partiti politici, cioè le associazioni "Edinost" di Trieste e di
Gorizia - la prima di matrice nazional-liberale, la seconda cristiano-sociale -
e tutta la stampa periodica, vennero posti fuori legge alla fine dell'anno 1928.
E solo in virtù dell'accordo politico del 1924 con la Jugoslavia, ancora in
vigore, ma che Mussolini non voleva prolungare, sopravvissero per altri due anni
alla soppressione, decretata nel 1926, degli altri partiti non fascisti in
Italia. Per lo stesso motivo i due deputati sloveni alla Camera di Roma,
Wilfan e Besednjak, non furono espulsi nel novembre 1926 quando, in conseguenza
delle leggi speciali per la difesa dello Stato, furono defenestrati tutti i
deputati
oppositori e proibiti i loro partiti. Gli sloveni, come anche i tedeschi,
cessarono il proprio mandato alla fine del 1928 con la scadenza dell'ultima (XVII)
legislatura eletta. I due deputati non si stancarono mai di esprimere la loro
fiducia nella democrazia del popolo italiano e nella ragionevolezza degli
statisti. Ancora nel novembre 1926, dopo le leggi eccezionali, Wilfan cercò di
convincere Mussolini a trasformare la politica di assimilazione in politica di
conservazione della minoranza, argomentando che essa avrebbe favorito gli
interessi supremi italiani aprendo al paese la strada verso i Balcani. Pochi
statisti italiani, Carlo Schiffrer li definì "mosche bianche", si
rendevano conto di quanto fosse controproducente la violenza di stato.
L'ambasciatore a Belgrado generale Bodrero fu buon profeta nello scrivere
al capo della polizia Crispo Moncada (primo prefetto della Venezia Giulia): "Se
continueremo in questo modo... ci troveremo di fronte a qualche amara
delusione; il rispetto dei diritti nazionali, invece, avrebbe creato simpatie
anche tra gli sloveni in Jugoslavia e avremmo trovato in loro un magnifico
veicolo di penetrazione nostra nel centro Europa." Di uguale
parere fu il ministro degli Esteri Dino Grandi. Ogni anno i deputati
delle minoranze nazionali sfruttavano l'occasione dell'approvazione del bilancio
per attaccare la politica del governo. Non si stancarono di attaccare la
riforma scolastica del 1923 giacché "una conquista culturale raggiunta
dal nostro popolo dopo mezzo secolo di lotte e di sacrifici
immensi e continui e stata distrutta nel volgere di 24 ore con un
decreto-legge... Non si tratta solo di violazione dei diritti
naturali ma bensì violazione dei diritti dell' umanità". A simili
accuse il ministro dell'Istruzione Casati nell'agosto del 1924 rispondeva che
esistono "mete politiche perfettamente definite, e cioè la
snazionalizzazione delle minoranze nazionali. Meta... non e forse che tutta la
generazione a venire impari l'italiano, ma bensì di fare degli alunni degli
italiani nazionalmente
coscienti." Ancora nel
1927 seguirono le parole profetiche di Besednjak: "Abolite le nostre
scuole e destituiti i maestri ogni famiglia si trasformerà in una
scuola, e tutti, madri e padri di famiglia diventeranno
maestri che tramanderanno di generazione in generazione
la nostra lingua... e la coscienza della stirpe. Le leggi degli
stati sono mutevoli, i popoli vivono in eterno". Nell'ultimo
intervento alla Camera, nel marzo del 1927, Besednjak concluse così: "Resisteremo
come nel passato. Se ci siamo difesi vittoriosamente contro la
secolare germanizzazione austriaca, siate sicuri che... sopporteremo oggi
con successo più sicuro anche il peso della vostra politica
snazionalizzatrice". Nel dicembre dello stesso anno consegnarono al
governo un memoriale suddiviso in più capitoli riguardanti tutte le questioni e
ben 21 richieste concrete. Tra l'altro leggiamo: "Sopprimendo le società
non si è soppresso il bisogno di associazione degli slavi che si
radunano cionondimeno in forma privata e senza controllo alcuno da parte
dello Stato." Allora Mussolini ordinò a Francesco Giunta di ricevere
i deputati slavi e, separatamente, i due tedeschi Tinzel e Sterbach. Poi, il 10
febbraio 1928, radunò al palazzo del Viminale "tutte le autorità
che possano apportare elementi di giudizio per la soluzione della
questione". Il testo del verbale di questa riunione purtroppo non è
noto, sono noti solo i suoi risultati, e cioè: nessun ripristino dei diritti
nazionali. Eliminata la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze
nazionali, queste cessarono di esistere come forza politica e i loro
rappresentanti fuoriusciti continuarono ad operare in esilio nel menzionato
Congresso delle minoranze europee ed in Jugoslavia, cooperando così
all'impostazione di una politica generale per la soluzione delle problematiche
minoritarie. L'impeto snazionalizzatore però andò oltre la persecuzione
politica,
nell'intento di arrivare alla "bonifica etnica", che su scala
nazionale significava il complesso dei provvedimenti antislavi, provvedimenti
miranti a semplificare drasticamente la struttura della società sloveno-croata.
Negli archivi centrali di Roma esiste un vastissimo materiale che testimonia
l'opera del regime sotto diverse terminologie: "assimilazione",
"italianizzazione", "penetrazione",
"nazionalizzazione", "snazionalizzazione", "bonifica
nazionale", "bonifica etnica", "bonifica morale" ma
anche "epurazione etnica". Sono termini riportati nei documenti, nelle
relazioni dei prefetti e dei gerarchi fascisti delle Nuove province, nelle
circolari governative riservate, nei progetti, consigli, telegrammi, nelle
proposte e nelle richieste a livello locale e nazionale. La commissione mista
storico-culturale italo-slovena nella relazione finale così definì
quest'opera: "Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella
Venezia Giulia fu un proprio programma di distruzione integrale dell'identità
nazionale slovena e croata." Un primo programma del governo riguardante
le Nuove province è stato riprodotto da Renzo De Felice nella sua storia del
fascismo. Si tratta della circolare riservata di Mussolini del 10 novembre 1925
nella quale il Duce critica la politica dei governi liberali, poiché avrebbero
considerato il confine orientale soltanto come confine strategico e sarebbero
stati perciò favorevoli all'autonomia delle Nuove province, accontentandosi
di avere lì una popolazione docile e sottomessa, anche se estranea alla
nazione. Al contrario il governo fascista "pose a base del suo programma
verso le popolazioni allogene... il fatto che sia per la geografia che per la
storia tutte le terre che in seguito alla guerra sono state annesse all'Italia
fanno parte integrale dell'Italia e che soltanto per un'arbitraria e violenta
azione di governi stranieri da una parte di tali terre venne in vari modi tolto
il carattere dell'italianità, il quale ora che lo Stato italiano ha acquistato
la forza del suo diritto, deve essere pienamente integrato." Per
realizzare tale programma era necessario, secondo Mussolini, da una parte
reprimere le manifestazioni anti-italiane, dall'altra invece suscitare nella
popolazione, con adeguate concessioni e atteggiamenti benevoli, il senso della
convenienza della loro appartenenza all'Italia. La politica del fascismo nei
confronti degli slavi appartenenti nazionalmente a uno stato debole ed odiato
come quello jugoslavo era diversa da quella prevista nei confronti dei
200.000 tedeschi del Sud Tirolo/
Alto Adige, che avevano alle spalle una nazione potente. Lo dimostra una diversa
circolare di Mussolini dedicata all'Alto Adige, anche pubblicata da De Felice,
con la quale veniva pianificata la modifica della struttura etnica attraverso
l'immigrazione di popolazione italiana, mentre per la Venezia Giulia era
prevista la più completa italianizzazione. Così l'italianizzazione dei
toponomi, dei cognomi e nomi personali sloveni o croati si accompagnava alla
promozione dell'emigrazione, a trasferimenti di professionisti ed operai
nell'interno del paese e nelle colonie, all'avvio di progetti di
colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, a provvedimenti
economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società
sloveno-croata, eliminandone gli strati superiori in modo di renderla conforme
allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente
assimilabile dalla superiore civiltà italiana. A tali disegni di più ampio
respiro si accompagnava una politica repressiva assai brutale anche perché
l'intolleranza nazionale si aggiungeva alle misure totalitarie del regime.
Dopo lo scioglimento di tutte le istituzioni nazionali slave il Popolo di
Trieste scrisse in settembre 1927 che le ultime offensive contro le
istituzioni slave non erano state decise in risposta a cospirazioni degli
allogeni che, a suo parere, gli slavi non erano nemmeno in grado da fare, ma
dalla pura esigenza di eliminare una minoranza per la quale nell'Italia
fascista non c'era posto perché la nazione italiana vuole essere armonica,
monolitica, con una sola disciplina, senza eccezioni. (Ecco, ad esempio,
qualche frase o titolo dai programmi dei leader fascisti locali: l'udinese
Piero Pisenti elaborò nel 1925 un intero volume Problemi di confine: il
clero slavo; il triestino Giuseppe Cobol Gigli nel 1927 nella rivista Gerarchia
scrisse: "Non esiste un problema allogeno... ma invece un problema
di penetrazione italiana fascista, c'è la necessita di affermare in pieno
l'autorità dello stato...", Il goriziano Giorgio Bombig: "Di
una politica verso gli allogeni non si dovrebbe più parlare; non perché il
problema non esista, ma perché si correrebbe il rischio di dare a una
popolazione, che per numero è meno di un terzo di quella totale della regione,
e per valore morale, politico, sociale conta molto meno ancora, un'importanza
che certamente non merita."). Nel 1929 nel noto volume Politica di
confine del triestino Livio Ragusin Righi, analizzato da Elio Apih già
negli anni Sessanta, si affermò che al confine orientale non esisteva alcuna
minoranza nazionale, ma soltanto gruppi sparsi di allogeni, di popolazione "che
non ha una propria storia né è legata ad alcuna civiltà, come non ha un
proprio sentimento di nazionalità e non ha una cultura nazionale; essa è
costituita da raggruppamenti rurali e vi si nota subito l' assenza di una
classe intellettuale e della più modesta istruzione... Privi di una propria
convinzione e di qualsiasi coscienza nazionale, essi sono sempre guidati o con
la forza e l'intimidazione oppure con le lusinghe e le illusioni. E così le
cose dovrebbero restare anche in futuro." La soluzione gli sembrava
semplice: colonizzazione sull'esempio di Roma antica realizzabile in tre fasi:
ripulire l'ambiente di tutte le influenze esterne, insediamento di funzionari
italiani scelti e di militari nei centri più grossi e trasformazione etnica
della regione, ossia assimilazione completa con la diminuzione del numero degli
allogeni in seguito alloro trasferimento nell'interno dell'Italia. Il direttorio
del Pnf triestino, ossia Carlo Perusino, nel 1930, dopo il primo processo di
Trieste contro l'organizzazione clandestina nazional-rivoluzionaria, che
provocò le fucilazioni di quattro patrioti sloveni a Basovizza constato che "la
scoperta del complotto e le rivelazioni del processo hanno spazzato le illusioni
e le speranze... di una facile opera di assimilazione degli slavi... Quest'opera
di assimilazione ha rivelato in tutti i settori un bilancio meschino se non
addirittura negativo: il problema etnico della Giulia si riaffaccia nella sua
integrità sì da rendere necessaria un profonda revisione della politica sin
qui seguita... L'Italia... deve per forza di cose accettare lo scontro di
razza". Proponeva l'azione da svolgersi in due direzioni: al di là
del confine, in Jugoslavia, per impedire lo sviluppo del nazionalismo slavo e
al di qua del confine, in Italia, con misure forti per "bonificare la
regione". Simile era il programma del segretario del Fascio per l'Istria
Giovanni Relli che chiedeva mezzi energici e forti, quali lo sfruttamento della
situazione economica, cioè l'estrema miseria e l'indebitamento dei contadini
slavi pretendendo il pagamento in blocco di tutti i debiti. Cosi le proprietà
ipotecarie andrebbero all'incanto e potrebbero essere comperate a prezzi
bassi. Sicuramente questi programmi sollecitarono il governo che il 14 agosto
1931 costituì l'Ente per la rinascita agraria delle tre Venezie col compito di
espropriare le proprietà temere che si trovavano in possesso degli allogeni
per poi cederle ad agricoltori ex combattenti o fascisti. Riguardo la scuola
apprendiamo, dal Popolo di Trieste dello stesso periodo, che la
popolazione allogena ha una forte coscienza nazionale, non ha analfabeti, ogni
famiglia ha giornali, almanacchi, romanzi ecc. e che i padri sono in grado di
impartire ai figli l'istruzione elementare, per questa ragione l'istruzione
scolastica viene annullata nelle famiglie. La scuola media italiana, invece,
secondo la stessa fonte, educa gli avanguardisti del movimento nazionale
sloveno, crea degli intellettuali slavi anziché degli italiani. Dalla scuola
escono apparentemente italianizzati, ma in realtà sono spiritualmente pronti
a sacrificarsi per la patria slava. Rari sono i neutrali, ancora più rari sono
i filoitaliani. Perciò, secondo Il Popolo, "non dobbiamo in nessun
costo favorire l'istruzione media fra i nostri sloveni... Abbandoniamo... ogni
idea di diffondere per ora la cultura media e universitaria tra gli sloveni
e concentriamo sull'incontro tutti i nostri sforzi per dare incremento alla
cultura elementare." Quanto modesti fossero i risultati di questi
intenti lo dimostrano i nuovi programmi elaborati all'inizio del secondo
conflitto mondiale. Nel 1938 il triestino Angelo Scocchi scriveva: "L'applicazione
del criterio linguistico nelle recenti modificazioni delle frontiere
cecoslovacche... crea un precedente non favorevole al nostro Paese... si rende
più urgente la necessità di provvedere che i nostri confini politici
rispondano non soltanto ai concetti geografici, storici, economici e
strategici, ma anche a una realtà linguistica". Per raggiungere lo
scopo prevedeva anche di mandare le ragazze slave quali domestiche presso le
famiglie italiane, dato che secondo Scocchi erano "generalmente
apprezzate per robustezza, laboriosità, ordine, disciplina, e quindi
tutelarle moralmente e materialmente presso i loro padroni a scopo
matrimoniale." Gli ultimi suggerimenti al Duce li fece il
capodistriano Italo Sauro raccomandando: "Quello che più importa -
premesso che a noi non necessita la pacificazione degli slavi e tanto meno
il loro isolamento – è l'italianizzazione del confine orientale,
giacché fino a quando vi saranno gli slavi su questo confine, si avrà ragione
di temere disordini e perturbazioni... Forza e giustizia sono gli elementi sui
quali gli slavi, come i popoli primitivi, fanno poggiare i troni; la forza
soprattutto dovrà essere presente per reprimere con la massima severità: con
gli slavi la clemenza è debolezza." L'azione snazionalizzatrice si
diresse anche contro la Chiesa cattolica giacché fra gli sloveni, dopo l'esilio
dei quadri dirigenti e intellettuali, fu il clero ad assumere il ruolo di
conservare la coscienza nazionale. Riguardo la lingua prescritta nella scuola
i sacerdoti sloveni decisero che "non si presteranno mai a
snazionalizzare bambini sloveni mediante l'istruzione religiosa in una lingua
straniera" e che "Le autorità statali non hanno nessun diritto
di degradare l'istruzione religiosa a mezzo per la snazionalizzazione e
l'italianizzazione". Secondo le relazioni dei prefetti delle Nuove
provincie al ministero degli Interni tutto lo slavismo, tutto l'irredentismo,
tutta l'opposizione alle organizzazioni fasciste e alla penetrazione sarebbe
stata opera del clero sloveno. Perciò il basso clero divenne oggetto di
aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero dirette
anche nei confronti della gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, nella
quale i nazionalisti italiani vedevano una solida forma di austriacantismo e
filo-slavismo. Tappe fondamentali dell'addomesticamento della Chiesa di confine
furono la rimozione del vescovo di Trieste Andrea Carlin (nel 1919),
dell'arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedei, nel 1931, e del vescovo di
Trieste-Capodistria Luigi Fogar nel 1936. I loro successori applicarono le
difettive "romanizzatrici" del Vaticano, in conformità con quanto
avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità
alloglotte, come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di
fenomeni simili: tali difettive infatti miravano ad offrire il minimo di
occasioni di ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non,
e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici, che la
Santa Sede riteneva minacciati dalla civiltà moderna. Nella Venezia Giulia
questi provvedimenti comportavano in via di principio l'abolizione dell'uso
della lingua slovena e croata nella liturgia e nella catechesi; essa tuttavia
fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei
sacerdoti organizzati nella corrente cristiano-sociale. Tale situazione provocò
gravi tensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi vescovi
dall'altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo d'intendere il ruolo
del clero, al quale gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella
difesa dell'identità nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani
italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si
formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di fatto
collaborando con il regime ad un'opera di italianizzazione che investiva ogni
campo della vita sociale. D'altro lato il regime fascista cercava il consenso
tramite enti sociali, culturali e di beneficenza. La fascistizzazione di ampi
strati della popolazione delle campagne fu il principale strumento per
l'assimilazione. Tra gli sloveni le maggiori adesioni alle organizzazioni
fasciste ci furono negli anni Trenta ed avvennero soprattutto per la necessità
di sopravvivere. Secondo le fonti italiane nel 1940 il 49,8% dell'intera
popolazione della Venezia Giulia aderiva alle organizzazioni fasciste, tra le
quali la Gioventù italiana del Littorio-Gil includeva circa il 95% dei giovani
in età scolare. Il segretario federale del Pnf della provincia di Trieste
Emilio Grazioli scriveva, nel 1933, che nel Carso la rete dei fasci era quasi
completata, che di essa faceva parte il 45,2% della popolazione e che la
penetrazione del Pnf era costante e decisa; aggiungeva però che l'
organizzazione
dei scolari-Balilla, durante le vacanze estive, non funzionava, perché la
gioventù era sviata dai genitori e dai sacerdoti, tanto che l'organizzazione
registrava una perdita del 79% e quindi il lavoro svolto "non dà quasi
nessun frutto". Ci furono anche esempi di collaborazionismo. All'indomani
della marcia su Roma a Gorizia venne creato il partito fascista sloveno - Vladna
stranka (Partito governativo), con il giornale Nova doba - (Epoca
nuova), che sosteneva l'allineamento ideologico al fascismo ma non
l'assimilazione linguistica. Probabilmente il fascismo aveva avuto il torto di
non inserire qualcuno dei rappresentanti di questo partito nella sua lista alle
elezioni politiche del 1924 e fu anche grazie a questo errore che il Partito
governativo scomparve già nel 1925 ed i suoi membri entrarono direttamente nel
Pnf. Un diverso tipo di collaborazionismo fu invece rappresentato dai giovani
disoccupati che entravano a far parte della Milizia volontaria per la sicurezza
dello Stato, specialmente nella legione del Carso. A loro e ai confidenti
sloveni erano rivolte in primo luogo le minacce e gli attentati messi in atto
dall'organizzazione clandestina nazional-rivoluzionaria - Tigr (che significa
Trieste-Istra- Gorica-Rijeka). È difficile valutare quanti sloveni e croati
abbiano aderito al partito fascista. Dalle fonti a mia disposizione è possibile
rilevare soltanto che tra i segretari locali del partito e tra i podestà ce
n'erano ben pochi con un cognome d'origine slovena. Che il regime non si
fidasse degli allogeni fu del resto confermato anche da numerosi confidenti, tra
cui vi erano molti ex carcerati costretti a tale attività.
Difficoltà economiche e
pesantezza del clima politico favorirono un robusto flusso migratorio dalla
Venezia Giulia. Emigrarono 105.000 sloveni e croati (il 20%) di cui 70.000 in
Jugoslavia. Eppure i risultati della politica fascista di confine furono
modesti, soprattutto per la carenza di risorse. La politica snazionalizzatrice
riuscì a decimare la popolazione slava nelle città e a proletarizzare la
popolazione rurale che però rimase insediata sulla propria terra. Il
risultato più duraturo fu quello di consolidare, agli occhi di sloveni e
croati, l'equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte di
loro al rifiuto di quasi tutto quello che appariva italiano. Analogo
atteggiamento fu assunto dagli sloveni e croati in Jugoslavia. Al livello dei
rapporti personali, come pure in campo culturale, continuarono a sussistere
ambiti di convivenza e collaborazione mantenendo preziosi germi per lo
sviluppo dell'antifascismo. Ma in linea generale il solco fra i due gruppi
nazionali si approfondì e si svilupparono varie forme di resistenza contro
l'oppressione fascista, mantenendo i contatti con antifascisti italiani in
esilio. Ad esempio con il Partito comunista d'Italia, con la Concentrazione
antifascista e in special modo con il movimento di Carlo Rosselli Giustizia e
Libertà che nel 1933 pubblicò l'opuscolo Il fascismo e il martirio
delle minoranze. Attiva fu specialmente la gioventù slovena di orientamento
nazionalista organizzata clandestinamente nella Tigr e collegata anche ai
servizi jugoslavi e britannici. Questo gruppo di giovani decise di reagire
alla violenza con la violenza, sviluppando azioni dimostrative e atti di
terrorismo. La risposta della corrente radicale nazionalista fu terribile. Si
legge nei loro giornali clandestini, per esempio: Non è solo una lotta per
cose attinenti alla scuola, alla grammatica... ma è innanzitutto lotta per il
pane, per la salvezza dei patrimoni, per un posto di lavoro nel paese natio...
Il governo fascista ha distrutto tutte le passerelle che portavano all'intesa,
spingendoci nell'irredentismo... Ci atterremo ai metodi rivoluzionari
estremi... La nostra strada è quella di tutte quelle minoranze che sono
sproletarizzate e nazionalmente oppresse… Ci hanno costretto alla lotta, ci
hanno destinato alla morte, noi però non vogliamo morire: che muoiano loro...
Perciò viva l'estrema lotta senza riguardi del popolo sloveno e croato in
Italia. Libertà o morte... Morte al fascismo". Negli anni Trenta però
incontriamo anche diverse posizioni: "Soltanto in quanto un italiano
nella nostra terra s'identifica col fascismo... vale anche contro di lui la
lotta rivoluzionaria...", In ottobre 1935 il Pcd'I invitò "tutti
i fautori della Venezia Giulia, tutti i combattenti per la libertà delle
popolazioni slave ad unirsi a noi, a marciare con noi contro il
fascismo...". Seguì il noto Patto di unità d'azione con il movimento
nazional-rivoluzionario dei sloveni e croati della Venezia Giulia
(l'organizzazione Tigr) in cui il Pcd'l riaffermava il principio del diritto
della minoranza slava all'autodecisione e al distacco dallo stato italiano.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale l'organizzazione collaborò con
l'Ufficio speciale-SOE (Special Operation Executive), creato da Winston
Churchill e svolse attività propagandistiche e di sabotaggio dietro le linee
delle forze occupatrici nazi-fasciste. Queste azioni provocarono repressioni
durissime. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato in tre processi
penali svoltisi a Pola (1929) e a Trieste (1930 e 1941) emanò quattordici pene
capitali, di cui dieci eseguite. Dopo l'occupazione della Jugoslavia la lotta di
liberazione nazionale si estese alla popolazione slava della Venezia Giulia, il
che riaprì la questione dell'appartenenza statale di buona parte di questo
territorio e rese manifesto il fallimento generale della politica italiana sul
confine orientale. Con l'occupazione della Jugoslavia nell'aprile del 1941
l'Italia spostò il suo confine orientale dal monte Nevoso al fiume Sava. Con
l'annessione della provincia di Lubiana incluse nello stato altri 350.000
sloveni. La "minoranza slovena" in Italia dunque aumentò fino a
700.000 persone e rappresentò la metà del popolo sloveno. Una documentazione
esauriente sulla politica fascista nella provincia di Lubiana è stata
pubblicata dal collega scomparso Tone Ferenc, mentre dal diario del cappellano
militare don Pietro Brignoli: Santa messa per i miei fucilati apprendiamo
delle crudeli rappresaglie dell'esercito italiano contro la popolazione
civile. Simili furono le sorti dei croati d'lstria e della Dalmazia annessa
all'Italia nel 1941, la loro storia però viene trattata separatamente da parte
della storiografia croata. La lotta di liberazione capeggiata dal Partito
comunista jugoslavo trovò fra gli sloveni e croati della Venezia Giulia
terreno fertile perché aveva fatto proprie le loro tradizionali istanze
nazionali tese all'annessione alla Jugoslavia. Contro la popolazione slava
della Venezia Giulia erano stati adottati provvedimenti preventivi sin
dall'entrata dell'Italia in guerra nell'estate del 1940, mentre contro il
movimento armato di liberazione le autorità ricorsero ai metodi repressivi già
sperimentati nella Jugoslavia, ivi compresi incendi di villaggi e fucilazioni di
civili. Tra le regioni d'Italia dell'anteguerra ed anche tra le regioni della
Slovenia fu proprio la Venezia Giulia a risentire le più tragiche conseguenze
della guerra, ovviamente proprio per la presenza di una forte minoranza slava.
Da una ricerca in corso nell'Istituto per la storia contemporanea a Lubliana
riguardante
le vittime della seconda guerra mondiale risulta che dalla Primorska, cioè dal
territorio della ex Venezia Giulia che appartiene allo stato sloveno, nel
periodo tra giugno 1940 e gennaio 1946 persero la vita 14.700 persone, di cui il
97% di nazionalità slovena. Aggiungiamo le 1.000 vittime appartenenti ai
paesi sloveni dell'odierna Venezia Giulia (escluse Trieste e Gorizia). Dopo
l'armistizio le forze armate e l'amministrazione civile italiana lasciarono i
territori sloveni quasi indisturbati. Solo pochi incidenti si sono verificati
sull'altopiano carsico. Diversa era la sorte della popolazione italiana
autoctona ed immigrata dell'Istria e nella provincia di Zara dove già nel
settembre del 1943, prima dell'occupazione tedesca, iniziarono le tragiche
vicende denominate "foibe" che nel maggio 1945 si estesero non solo
alle città miste di Trieste, Gorizia e Capodistria ma anche all'interno delle
repubbliche dello stato jugoslavo. Non si tratta infatti di azioni che
riguardano solamente i rapporti italo-jugoslavi, esse coinvolgono anche la
discordia tra gli sloveni e croati stessi, come anche degli altri popoli
jugoslavi. Questa prepotenza non era condizionata solamente dai nazionalismi o
dai problemi di confine e nemmeno quale "resa dei conti", ma era
condizionata anzitutto in funzione dell'avvento di un regime totalitario nel
nuovo stato jugoslavo. La menzionata commissione storico-culturale
italo-slovena così interpretò questi fatti: "Tali avvenimenti si
verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra
ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, a cui
confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture
ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo,
alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme
ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o
presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista e dell'annessione
della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione
partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime,
convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica
diffusa nei quadri partigiani." Se il controllo jugoslavo di tutta la
Venezia Giulia nel maggio 1945 fu considerato dalla popolazione italiana come il
momento più buio della propria storia, per la minoranza slava, cioè slovena e
croata, si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo
Stato italiano.
da Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del Confine orientale, Atti del Convegno dell'ANED, Trieste - Teatro Miela, 23 settembre 2004