Documenti dell'ANED di Milano

Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano

Giannino Revere

Abbiamo visto solo passare il feretro

 

Giannino Revere è nato nell’ottobre 1927 a Mantova. Di religione ebraica, fu arrestato con la sua famiglia a Milano nel dicembre 1944 da tedeschi ed italiani e incarcerato a San Vittore. Fra il dicembre 1944 ed il gennaio 1945 tutta la famiglia venne trasferita nel campo di Bolzano, ove rimase fino alla liberazione. L’intervista a Giannino Revere è stata effettuata il 23 febbraio 1996 da Cinzia Villani.

 

Fino al dicembre 1943 abitavo con la mia famiglia a Mantova, dove sono nato; siamo stati avvisati dell’imminente arresto e abbiamo deciso di rifugiarci a Milano, presso un nostro parente, nella speranza di riuscire ad oltrepassare il confine e a rifugiarci in Svizzera. I miei genitori, mio fratello ed io siamo stati catturati nel dicembre 1944: l’arresto è stato eseguito da tedeschi ed italiani in borghese, fra i quali Otto Koch, famoso per aver catturato molti ebrei in tutta la provincia lombarda. Dopo circa 15, 20 giorni trascorsi nel carcere di S. Vittore, siamo partiti alla volta di Bolzano: non avevamo alcuna idea di quale sarebbe stata la nostra destinazione. Arrivati al campo siamo stati spogliati di tutto, rasati: ci hanno dato un paio di pantaloni, una casacca, entrambi di tela e un paio di zoccoli. Niente altro per riparaci dal freddo, che a Bolzano nel mese di dicembre era veramente terribile! Mio padre, mio fratello ed io eravamo insieme nel blocco C. La nostra giornata iniziava al mattino molto presto: ci si lavava, come colazione si riceveva della specie di caffè d’orzo caldo, quindi venivano formate le squadre, perché molti internati andavano all’esterno del campo per lavorare. Per pranzo ci davano una ciotola con dell’orzo o del brodo oppure brodo con dentro delle rape, tutto senza sale e molto annacquato; mangiavamo anche un piccolo pezzo di pane. La cena, consistente in un po’ di pane nero, veniva distribuita solo a chi lavorava; vecchi e bambini erano ancora meno nutriti di noi. Il lavoro forzato era duro, anche perché noi internati eravamo sottoposti a continua sorveglianza; solo la domenica pomeriggio potevamo riposare un poco. Giungeva in campo un prete a dir messa e il tenore Vasco Campagnano, un altro ebreo internato, cantava l’Ave Maria. Ho fatto parte di molte squadre di lavoro: sono stato impiegato alla stazione ferroviaria per mettere a posto i binari, le traversine. Quando bombardavano ci potevamo riparare solo sotto i vagoni, non potevamo rifugiarci in altri luoghi. Ricordo che nelle vicinanze c’era un tunnel, al cui interno sono rimaste uccise molte persone a causa di una bomba. Ho lavorato anche in una chiesa sconsacrata adibita a magazzino di scarpe, nella zona nuova della città; noi prigionieri avevamo il compito di scaricare i camion di scarpe appena arrivati oppure di caricare la merce su altri convogli. Un giorno è arrivato nelle vicinanze un altro gruppo di internati; mentre noi stavamo lavorando, questi hanno piantato in un piccolo campo vicino alla chiesa delle patate. Appena loro se ne sono andati, noi ci siamo precipitati a dissotterrarle; non avevamo però l’occorrente per cuocerle, per cui, d’accordo con i nostri sorveglianti, affamati pure loro, abbiamo chiesto a degli italiani che abitavano nella casa di fronte di cucinarle, dietro compenso di alcune paia di scarpe. Gli abitanti di Bolzano che ci vedevano passare per la città ci buttavano spesso qualcosa, del pane o delle mele, che noi portavamo in campo. Ho assistito a degli episodi particolarmente drammatici: fra i prigionieri c’era un ragazzo epilettico, era da solo in campo, non aveva parenti e non so neppure da quale zona d’Italia arrivasse. Proprio per la sua malattia non ubbidiva alle regole del campo, ad esempio non si toglieva il berretto quando passava un tedesco. Quante botte ha preso! È stato rinchiuso nelle celle e da lì non è più uscito, abbiamo visto solo passare il feretro. È stato ucciso da due sorveglianti ucraini: fisicamente molto diversi fra loro - uno era enorme, l’altro piuttosto mingherlino -, estremamente crudeli, erano terribili... terribili! Rammento anche che un internato ha tentato la fuga, è stato ripreso e ucciso a frustate. Gli episodi di violenza gratuita erano quotidiani: schiaffi, pugni, frustate... Guai se non ci toglievamo il cappello quando vedevamo passare un tedesco! Molto spesso però non riuscivamo a vederli in tempo, non ce ne accorgevamo subito! Nel febbraio 1945 i tedeschi hanno deciso che i miei genitori dovevano essere deportati, mentre io e mio fratello siamo stati esclusi dall’ordine: non volevamo abbandonare i nostri congiunti e abbiamo deciso di condividerne la sorte. Siamo andati così a parlare col capoblocco il quale ci ha detto: "Non c’è problema, se volete seguire i vostri genitori potete farlo!". Siamo stati veramente incoscienti, anche perché restando a Bolzano avevamo una possibilità di salvarci, mentre andando in Germania... Dal campo abbiamo raggiunto a piedi la stazione ferroviaria, siamo stati caricati sui vagoni piombati; il treno però non è partito a causa dei bombardamenti che quotidianamente danneggiavano la linea ferroviaria: siamo stati fermi sul binario per più di 24 ore, quindi abbiamo fatto ritorno nel campo. Sono rimasto nel campo fino alla Liberazione: il 29 aprile è arrivata la Croce Rossa; eravamo in cortile, pronti per l’appello, come ogni mattina ed ogni sera, quando qualcuno della Croce Rossa ha chiamato il nostro capo blocco affinché si recasse negli uffici del campo. Quando lui è ritornato ci ha comunicato che eravamo liberi! Il giorno seguente io e tutta la mia famiglia, insieme ad una settantina di altri internati, quasi tutti ebrei, siamo stati condotti con due camion in una villa a Merano: noi eravamo alloggiati al secondo piano, mentre il primo piano dello stabile era colmo di casse vuote, abitualmente adibite al trasporto di mele. Ci hanno raccomandato di non muoverci di là e di non uscire; una mattina è arrivata una pattuglia di tedeschi che, non so per quale motivo, ha cominciato a sparare contro di noi. Ci sono stati anche alcuni morti e feriti. Per fortuna alcuni di noi parlavano tedesco e sono riusciti a spiegare chi eravamo. Sono rimasto a Merano circa otto giorni: poi sono giunti in città alcuni partigiani milanesi e con loro, viaggiando in camion, ho fatto ritorno a Milano. Ricordo che per il viaggio i funzionari della Croce Rosa mi hanno dato del burro, della cioccolata e 500 lire.

da www.deportati.it

sommario