Documenti dell'ANED di Milano
Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano
Il diario di Berto Perotti
Berto Perotti, nato a Verona nel 1911, fin dagli anni del liceo manifestò convinzioni e ideali in contrasto con il fascismo. Terminati gli studi universitari (Lettere all’Università di Padova) e il servizio militare, fu oggetto delle "cure" del Segretario Politico del PNF di Verona, che gli negò la possibilità di insegnare al Ginnasio, in quanto non era in possesso della tessera del partito. Ottenuto il passaporto per la Germania, raggiunse alcuni amici a Düsseldorf, dove riuscì ad ottenere una cattedra alle scuole Berlitz. In quella città entrò in contatto con gli ambienti dell’antinazismo, soprattutto con intellettuali ed artisti che si opponevano al regime. Al momento della caduta del fascismo, nel luglio del 1943, partì da Dresda, dove si trovava e fece ritorno in Italia. Fermato ed imprigionato una prima volta a Vercelli nel maggio del 1944, venne arrestato definitivamente a Milano il 6 novembre dello stesso anno. Dopo un soggiorno nelle carceri di S. Vittore e in quelle di Verona, fu trasportato e internato nel Lager di Bolzano il 15 febbraio 1945. Fu liberato il 1° maggio 1945. Membro del Comitato di Liberazione Provinciale di Verona, insegnò all’Università di Padova. Tra le sue numerose pubblicazioni, anche scritti, resoconti e testimonianze su fascismo, nazismo, lotta di liberazione e deportazione. Nel periodo del suo internamento nel Durchgangslager di Bolzano (15 febbraio - 1° maggio 1945) Berto Perotti riuscì a tenere un diario della prigionia, che oggi ci consegna un importante spaccato della vita nel campo di concentramento di via Resia. In questa memoria, dove i numeri di matricola dei prigionieri tornano ad essere uomini e donne con un nome ed una storia, riemerge la sofferta esistenza di quanti hanno cercato di sopravvivere, spesso senza riuscirci, alle angherie, alle torture e alle disumane condizioni di vita in cui versavano. Sono pagine in cui la scrittura, a tratti spezzata, acquista il ritmo di un respiro inquieto, che scandisce con secco realismo i momenti dello smarrimento e dell’affanno, dentro lo spazio angusto e opprimente del blocco; lì, dove hanno domicilio la morte, la rabbia, l’abbrutimento, l’esasperazione, la fame, lo sfinimento. Viste dal piano della ricostruzione storica, le annotazioni di Perotti fanno luce sulle modalità in cui si sviluppava e resisteva una rete organizzativa interna, tenuta in piedi soprattutto dai prigionieri politici. Una struttura capace di provvedere, nel bisogno, all’assistenza dei compagni in difficoltà e di esprimersi nel segno della partecipazione e della solidarietà, nel luogo in cui la dittatura esprimeva in pieno l’arbitrarietà del suo potere. Accanto alla dimensione della "sofferenza" e alla ricostruzione dei "fatti", ciò che colpisce di questo diario è l’immagine di un vissuto concentrazionario, che talvolta risulta apparentemente lontano da quell’universo di dolore e di morte che furono i campi di concentramento. Lo stesso sguardo di Perotti, che ci aiuta a osservare da dentro la realtà dell’internamento, sembra a volte filtrato dalla ricerca - dal bisogno? - di un distacco dalle cose, dalle persone, come se avesse scelto di rappresentare, di raccontare, attraverso un "io" che riesce a far dimenticare, che lì, nel Pol.[izeiliches]-Durchgangslager-Bozen, quell’"io" è morto, sostituito dalla matricola numero 9589. Innanzitutto va detto che chi, come Perotti, teneva un diario della vita nel Lager, doveva farlo con mille cautele, sia per non esporsi al pericolo di essere scoperto, sia per tutelare l’incolumità dei compagni. In secondo luogo, quelle che potrebbero sembrare delle apparenti non corrispondenze con la realtà dell’internamento, permettono al contrario di definire con più chiari contorni un quotidiano, in cui il cui presente è lo spazio-tempo, dove diviene condizione "normale" godere la vista della fioritura dei meli e, l’istante dopo, assistere all’agonia di un compagno; è "normale" fare una partita a poker nella fureria del campo e partire il giorno seguente, accalcati come bestie nei vagoni merci, per un viaggio senza ritorno; è "normale" chiacchierare sotto il sole d’aprile e, sotto lo stesso sole, guardare attoniti il cadavere di un prigioniero freddato dalle SS, che giace in mezzo al campo, mentre ci si rammenta che ci vuole molto poco per essere al suo posto. La traccia più vivida di questa memoria di due mesi e mezzo di internamento, sono sicuramente i segni lasciati dall’esperienza di una vita sospesa; di molte vite sospese e negate. Una schiera di uomini, donne e bambini che non sono più padroni della loro storia. Ciò che resta loro della speranza, è aggrappato al destino e ai suoi poveri e improvvisati profeti, a cui ci si appella per sapere cosa accadrà domani. Appare, così, in primo piano la figura del "mago": il "mago" Cester, citato da Perotti, che ritroviamo anche nella memoria di Aldo Pantozzi, Sotto gli occhi della morte. Da Bolzano a Mauthausen, e il "mago" ebreo, ricordato in questo volume nella testimonianza di Mischi. Spogliati questi personaggi dell’improbabile dono di prevedere il futuro, che gli viene attribuito, ciò che incarnano non è altro che l’angoscia e lo smarrimento, vissuti da chi è stato di colpo privato del futuro, ormai bandito dalla grammatica del vivere umano. Rappresentano emblematicamente il simulacro, a cui i ricordi dei sopravvissuti allo sterminio restano ancora appesi. Il diario di Berto Perotti è contenuto in tre quaderni, di cui l’autore ci ha cortesemente inviato la sua posteriore trascrizione manoscritta (187 fogli). Il documento raccoglie anche degli "abbozzi di liriche" e una piccola galleria di compagni internati, presentati attraverso brevi note descrittive. Presentiamo questo diario attraverso alcune pagine scelte, riservandoci in futuro di prevederne la pubblicazione integrale. Nella selezione degli estratti abbiamo seguito un criterio tematico, privilegiando quelle parti che, a nostro avviso, meglio ricostruiscono i diversi aspetti della vita e del quotidiano nel Lager di Bolzano, oltre ad alcuni "fatti" accaduti. Nel presente testo le parti non riportate della versione completa del diario di Perotti sono state contrassegnate con [...] nel caso in cui si tratti di giorni interi, mentre la segnatura (...) indica che si è proceduto ad un salto all’interno della narrazione di quella stessa giornata. Nello scritto ricorrono frequentemente nomi di internati, seguiti con un punto di domanda, probabilmente annotato dall’autore in fase di trascrizione. Per un eventuale confronto, rimandiamo al volume di Luciano Happacher, che contiene alcune liste dei prigionieri. Si è ritenuto opportuno, inoltre, corredare il testo di un piccolo apparato di note, per fornire alcune finestre esplicative anche ai lettori che hanno poca dimestichezza con il tema. Per quanto solo la versione integrale si possa prestare ad una compiuta analisi del testo dal punto di vista documentario, abbiamo cercato di non alterare la prospettiva e la profondità dello sguardo dell’io narrante, che costituiscono importanti chiavi di lettura per l’interpretazione storica.
Berto Perotti
Cappelli su, cappelli giù
15 febbraio 1945
Partenza in camion da Verona. Rannicchiati in poco spazio sotto gli occhi delle guardie armate. Anche donne. Guai a chi si leva in piedi. Sofferenza fisica alle gambe e alle ginocchia. Liti per questioni di spazio. Il problema dell’orinare. Bel tempo. Panorama sempre più bello. Adige. Tracce di bombardamenti. Mitragliamento di un paese. Tutti i tedeschi scendono e si riposano. Nessuno deve scendere. Popolazione che assiste in silenzio. Ripresa del viaggio. Strade insolite. Arrivo a Bolzano. Arrivo al campo. I primi prigionieri fuori dal campo. Ingresso. Le donne. Taglio capelli. Bagno. Consegna indumenti per la disinfezione. Distribuzione numeri e attribuzione posti nei blocchi. Distribuzione mele.
16 febbraio
Sveglia. Caffè. Coda. Liti per la precedenza. Oscurità dell’ambiente. Afa. Mancanza d’aria. Lotta per il posto. Abbiamo dormito sulla tavola. Pietro. Ci raccogliamo intorno al posto di Amico, lo scopino. Atmosfera opprimente. Grida. Imprecazioni. Sputi per terra. Qualcuno scavalca la rete. Il megafono. Appello contro la borsa nera e il furto. La fureria. Adunata. Attenti. Cappelli giù! Il capocampo. Arriva il maresciallo, riposo. I blocchi rientrano. Ritorno nella semioscurità e nella oppressione. Raccoglimento tra i castelli, intorno al pagliericcio di Dante. Gruppo di veronesi: Imba, Gianni, Zigiotti (Caino), Faccioli, Carreri. Il triestino. Gente che cala dall’alto i corpi penzolanti. Polvere dei pagliericci. Imprecazioni. La fame. Visi pallidi sparuti. Lotta per il pane. Furti. I ladri vengono esposti con un cartello sul petto. Sei veronese? Sì. Però sono stato molto tempo nella provincia di Belluno. Avvicinamento con alcuni elementi della fureria. Il dottore è comunista. C’è in vendita qualche cosa. Salamini, cioccolato, scatolame. Che prezzi, per dio! Distribuzioni di soldi. Carreri ha comprato tre salamini. Il bagaglio di Nino: una valigia voluminosa, un gran sacco da montagna, via lassù! Fate attenzione. Scarpe schiodate penzolanti. Qualcuno sputa per terra. Che ti venga un cancro. Fate attenzione, che sto facendo pulizia. Amico scopa tra i piedi della gente assiepata. Una lite scoppia in un castello. Su! Forza! Botte! Gli altri gridano e spingono. Carreri ha mal di testa. È molto giù. È un poco stordito. Caino passeggia con le mani in tasca e la testa serena dondolante. Perbellini gli ha regalato il suo berretto verde. Caino dal berretto verde. Imba col soprabito del colonnello. Ricca, pieno di pillacchere e di strappi. Gianni è un uomo di cuore. Ha diviso il suo salamino in parti uguali e lo ha diviso coi compagni. La marea umana in subbuglio sui castelli, nelle brande, nelle corsie. Per andare al cesso bisogna fare la coda. La distribuzione del rancio, per numeri. Ressa intorno alle marmitte. Un mestolo e mezzo per persona. Qualcuno si insinua nella calca per la seconda volta. L’ha già presa! L’ha già presa! Tutti gli si scagliano addosso. Voleva due volte la minestra. Ma no! Ma no! Ero in attesa della stecca. Un uomo magro e sparuto, faccia asciutta color terracotta, si avvicina all’uno e all’altro per aver qualche cosa da mangiare. È sempre presente dappertutto. Guarda silenziosamente quelli che mangiano, segue con lo sguardo le loro mosse. Figure di straccioni, pittoreschi nei loro cenci. Partigiani vestiti di tutte le fogge.
17-18 febbraio
Sempre la stessa vita. Caffè, rancio, aria, cappelli giù, cappelli su, aria; è stato scoperto un ladro. Inchiesta, perquisizione. Due ladri in piedi sulla tavola. Ingiurie dalla folla. Uno ammette. L’altro protesta. Non sono un ladro. Non ho rubato nulla. Commenti dalla folla. Qualcuno vorrebbe picchiarli, ma il capoblocco si oppone. È ora proibito di picchiare i ladri. Domani saranno messi fuori col cartello sul petto. Opprimente atmosfera. Mi pare che manchi l’aria. Nino ha mal di testa. Correri ha mal di testa. Qui si crepa. Non si può resistere. Aria! Aria!
In cerca di un posto per sdraiarsi. Questa notte ho dormito per terra. Gli altri hanno trovato posto, io no. Dante mi cede il suo posto nell’oscurità del castello, a pian terreno. Gli altri sono seduti assiepati intorno a me, su di me. Gianni sommerso in un mare di umanità. Dormiveglia nel rigurgito delle parole, degli sguardi, delle ossessioni altrui, dei gesti delle mani. Tutta l’umanità grava su di me, sul mio leggero sognare, mentre lontani ricordi si staccano come foglie secche dalla tenebra del passato. Qualcuno mangia, rosica del pane secco, guardando lontano con occhi assorti. Imprecazioni. Scarponi chiodati si agitano in alto, discendono minacciosi seguiti da lunghe braccia che annaspano nel vuoto. Umanità che discende dall’alto, minacciosa e proterva, che scende e si sprofonda in altra umanità. Si esce all’aperto. I volti sparuti si rivelano, torvi, nella luce del sole. Stracci, scarponi, sputi, occhi stanchi che cercano intorno, fermati dal ferro spinato che limita i nostri passi. Sì, è vero, noi siamo i pericolosi. Maledizione a noi, maledetti fra i maledetti.
Di nuovo si parla di partenza. Oggi qualcuno ha assicurato che lunedì si parte. Per dove? Per qualche campo di concentramento? Per Mauthausen? Per Dachau? Ci lasceranno la roba? I vestiti? I soldi? Bisogna nasconderli, dice uno, sotto le calze o nella fodera della giacca. "Conosco un posto - dice un altro - dove potrei nasconderli meglio, nessuno li troverebbe" ride dicendo così, ride un riso sguaiato e osceno. Da dove viene tutta questa gente? Si sentono parlare parecchi dialetti, parmigiano, lombardo, piemontese. Ma si scorgono delle fisionomie oscure e torve. Non sono tutti politici, ha detto uno poco fa. Ci sono anche delle canaglie fra di noi, dei ladri, dei truffatori, dei delinquenti. È un amalgama umano formato dai più disparati elementi. La virtù e la nobiltà sono state buttate nello stesso crogiuolo insieme con la perversità e la delinquenza. Si parla di nuovo di partenza. Nubi appaiono all’orizzonte. Che cosa ci riserva il domani?
19 febbraio
Ormai sappiamo dove andremo a finire. Subito dopo l’adunata veniamo chiamati fuori uno dopo l’altro e inquadrati fuori dalla rete. Poi tutti rientriamo per preparare la roba. Io ho scritto una lettera a casa per annunciare la mia partenza per la Germania. Viene qualcuno ad avvertire che non occorre più prepararsi. La partenza è rimandata. Perché? È stata interrotta la linea ferroviaria? Così si congettura.
[...]
25 febbraio
Sì, è avvenuto quello che doveva avvenire. Questa mattina ci hanno chiamato fuori, dopo il caffè, con tutta la roba. Abbiamo dovuto consegnare coperte, numeri e gavette e, dopo una lunga attesa nel campo, siamo stati portati alla stazione e pigiati nei vagoni di un treno. Siamo qui, chiusi nella semioscurità di un vagone ermeticamente chiuso, senza un raggio di luce, senza uno spiraglio di aria, in cento e due prigionieri. Otto di noi sono ammanettati, lì in fondo al vagone. Li sentiamo muoversi ogni tanto e lamentarsi. Sono quelli delle celle. C’è anche l’ex capocampo. "C’è qualcuno qui – chiede ad un tratto lui - che faccia il fabbro e che sia capace di rompere le manette?" "Silenzio!" impone una voce autoritaria dall’oscurità. Aspettiamo prima di essere in movimento. Poi si vedrà. Il problema dello spazio. Tu metti i piedi qui. Io li metto qua. Risse. Imprecazioni. Dobbiamo fissare il posto per andare di corpo. In fondo nell’angolo. No, protesta uno, meglio davanti alla porta. Parecchi hanno già preso posto, si sono seduti. Altri sono in piedi e lottano per trovarsi un posto. Di fuori si parla in tedesco. Rombo di motore. Risate di soldati. Parte una motocicletta. Deve essere il comandante del campo. Dante si è messo in fondo dall’altra parte e mi chiama ogni tanto dall’oscurità. E’ fornito di ferri. Starà forse già saggiando la parete. Quanti sono quelli che hanno pensato alla stessa cosa senza parlarne! Il triestino è seduto accanto a me. Ogni tanto mi parla, con la faccia vicino alla mia. Mi respira sulla bocca. Maurizio alla mia sinistra. Nino è installato sul suo enorme sacco da montagna, mentre Carreri si serve della sua valigia come di sedia. Perché il treno non si mette in movimento, per dio? Perché non partiamo? Ci manca l’aria, ci manca lo spazio. Sembra che anche lo spazio diminuisca mano a mano che il tempo passa. Il cieco brancola nel buio, nel doppio buio della sua cecità e dell’ambiente, cercando un posto (crudeltà dell’uomo immiserito e privato della vista). Nessuno si muove e la sua voce si fa implorante. Un po’ di umanità soltanto. Un po’ di posto per sedermi. Bisogna imporsi con la violenza affinché tutti si spostino e ne esca un po’ di posto per lui. Orrore dell’attesa e dell’immobilità. La fame e la sete si fanno sentire. Da ieri non mangiamo nulla. Aprite almeno uno spiraglio. Wache! Etwas Luft! Wir krepieren! Voci lontane rispondono. Non possiamo. Domanderemo. Problema della defecazione. Il malato di diarrea, Romano. Sua voce implorante. Nessuno vuol fargli posto. La natura è più forte di lui. Imprecazioni e bestemmie nell’oscurità. Porco! Mi hai sporcato. Che cosa hai fatto? Scusatemi, ma non ne potevo più. Qualche risata cinica. Problema del dormire. Passeremo la notte vegliando. Purché il treno si muova e ci tolga da questa tremenda immobilità. Notte tremenda, piena di imprecazioni e di risse. Di fuori i passi cadenzati della guardia. Qualche cosa da bere, da mangiare. Un po’ d’aria. Perché non si parte? Quando si partirà? Il problema del fumo. Guai a chi fuma. Abbiamo l’aria limitata. Qualcuno accende un cerino per vedere l’ambiente o per cercare i propri piedi. C’è uno che fuma là in fondo. Chi è quell’insensato. Nino si infuria ridicolmente, perde il controllo di se stesso. Verso mattino l’oscurità si assottiglia. È passata anche la notte e noi siamo ancora qui. Che cosa avverrà di noi? Perché non si parte. Tutto è pronto per rompere, per saltare, per scappare, ma il treno non si muove. Ognuno è impaziente di fare il drammatico balzo verso l’aria, verso la libertà, anche a costo di arrischiare la vita. Qualcuno vuole attraversare il vagone. Imprecazioni. Risse. La fame si fa minacciosa. Bisogna spartire quello che c’è. Occhi pieni di odio fissano le facce di coloro che mangiano di nascosto un pezzo di pane. È svenuto uno. Fate largo. Portiamolo davanti allo spiraglio della porta. Non c’è posto per farlo sdraiare. Qualcuno indietreggia. È quello della scabbia, lo scabbioso. Sì, è proprio lui che è svenuto. Si è appoggiato alla parete e tutti lo guardano, i vicini con un misto di compassione, di ripugnanza e di curiosità. Ieri mattina si era messo in un angolo, a torso nudo, al sole, con le mani penzoloni, e tutti avevano visto l’aspetto orrido della sua pelle, delle sue mani. Bussate! Chiamate. Dite che c’è uno svenuto. Chi è che sa il tedesco? Silenzio! State a sentire! Stanno parlando fuori, i tedeschi. Chissà cosa dicono. Macché! Non dicono nulla. Parlano del loro servizio. Qualcuno gratta una parete in un angolo. Lasciate stare! Per dio. Non cominciate ora a rompere. Se se ne accorgono stiamo freschi. Si apre la porta. Scendono a prendere il caffè. Pane e caffè. Poi più tardi si apre una finestra. Si respira un poco. Salta fuori un pentolino per pisciare e cacare. Esso gira da un punto all’altro. Il contenuto viene gettato dal finestrino. Più tardi portano la minestra. Avidità di chi mangia (l’incidente del mezzo pane sottratto, il triestino, lite, cazzotti fra Franco e altri). Atmosfera eccitata. Crescendo di esasperazione. Sale un ucraino e chiama l’ex capocampo, lo trova con le manette sciolte. Du bist ein Schweinehund. Richiusa la porta sul tumulto dei sentimenti. Il caldo aumenta enormemente. Qualcuno si mette a torso nudo. Si confabula in fondo dove sono gli ammalati. Perché non si parte? Perché ci lasciano qui? Luft! Luft! Man krepiert hier. Nessuno risponde. Si odono allontanarsi i passi della sentinella. Pomeriggio di astio e di risse. Finche qualche cosa avviene. Dei vagoni vengono aperti. Voci di prigionieri, li fanno uscire? Anche noi usciamo e nel crepuscolo della sera veniamo caricati su un carro e riportati nel campo. Linea interrotta. Impossibile partire.
[...]
2-3-4-5 marzo
Partenza dei pericolosissimi per la Germania. Anche l’ex capocampo. Si parla anche di fucilazione. Li hanno portati via ammanettati. Anche due del nostro blocco, l’amico di Brambilla e quello della Muti, in camicia rossa. Vi è qualche cosa di misterioso, quasi di lugubre in questa partenza. Brambilla è come sempre perplesso e stordito. Fra il suo gruppo e quello dei parmigiani vi è un senso di ostilità. Troppo sfoggio fanno delle loro provviste e dei loro mezzi. Cinquecento lire al giorno di cioccolata. Quinto chiama Pernecche (Pernechele) sui castelli e si prepara un piano di attacco. Franco mi chiama su, al posto dei bellunesi. Li metteremo fuori col cartello, dice ironicamente. Pernecche (Pernechele) cerca di giustificarsi, quantunque, in fondo, non abbia tutti i torti. Anch’io penso che il furto in questo caso non sarebbe che un atto di giustizia, ma capisco che non è né opportuno né tattico adottare sistemi simili. Cerco di sedare i malumori fra partigiani e P.d’A (Partito d’Azione ndr). Si definisce la piccola costellazione di uomini intorno a Brambilla. Ulesi regista, americanamente bracato, Dino, il conservatore e qualche altro ancora sfumato. Cesare e Turrina (?) dall’altra parte. Turrina sempre incerto e tentennante chiede delucidazioni politiche. È ancora immaturo. Abbiamo un colloquio durante l’aria. Gli faccio presente la sua scorrettezza nei nostri riguardi. (...) Amici che si affacciano ai reticolati. Canestrari, Perbellini, Bini. Stanno bene, meglio di noi ma non sono tutti contenti. Bini ha un aspetto sparuto, quasi spaventato. Dice che vorrebbe essere chiuso con noi. Ha sempre qualche cosa di segreto e di importantissimo da comunicare. Però ha una tremenda paura dei tedeschi. Quasi non osa avvicinarsi al reticolato. I Fezzi ricevono molti aiuti ma non si dimostrano buoni camerati. Si dice che vendano pagnotte a cinquanta lire il pezzo. Il mercato nero si impone nel campo come triste necessità che si cerca di eliminare ma non si riuscirà mai a estirpare del tutto. Anche i furti sono molto frequenti. Quasi ogni giorno si vedono dei ladri in mezzo al campo, esposti al pubblico ludibrio, col cartello infamante sul petto. Sono immobili, a testa bassa, sfiorati a malapena dagli sguardi negligenti dei compagni. (...)
6-12 marzo
Acquisto sempre maggiore libertà di movimento. Esco all’aperto e passeggio coi compagni. Il tempo rimane magnifico. Lontano le ultime nevi del Rosengarten. Siamo contornati da monti. Sulle colline dirimpetto al Rosengarten troneggia il Castello (Castel Firmiano ndr) di Bolzano. Tempo fa durante un bombardamento per poco non è stato distrutto da una bomba che gli è caduta vicino. Eravamo tutti nel blocco e si sentivano vicinissime le esplosioni degli spezzoni e delle granate antiaeree. Ad un tratto parve che il campo stesso fosse preso di mira. Vi fu un momento di grande panico quando la parete principale del capannone si scosse e parve stesse per crollare. Sul tetto vi sono le strisce bianche che contraddistinguono i campi di concentramento. Speriamo che gli angloamericani non siano tanto ciechi da non vederli. Attraverso i reticolati vedo ogni giorno la sorella e l’impiegata di Giovanni. Poverette! È capitata loro una grana che certo non si aspettavano, senza aver fatto nulla. La Maria ha anche male al piede. La vedo andare spesso, sorretta dalle compagne, alla visita medica. È diventata più bella, più matura. È proprio una ragazza d’oro. È terribile che essa abbia avuto una influenza sull’atto fatale di Gino. Con lei c’è anche la moglie di Melloni. L’ho riconosciuta ma non so se lei mi abbia visto. (...) Fureria del blocco D. Viavai di scopini, di gente che chiede, di gente che protesta. 314 nel blocco che ha una capacità di 140. Tremenda oppressione del superpopolamento. Gente che dorme per terra. Impossibilità di passare di notte senza calpestare qualche dormiente. Gambe che penzolano dai castelli, di giorno. Gente che sale, gente che scende. Un uomo sta scavalcando la rete. Una altro mette la testa fra i fili spinati. Appare la faccia ridente di Baroncini dall’altra parte. Ha in mano il bastone e guarda sempre sorridendo, il torbido fluttuare della folla. Fermentare di pensieri e di sentimenti. Ire, impazienza, rancori. Baroncini parla ridendo al crocchio degli amici che pendono dalle sue labbra. Un uomo si arrampica con in mano una pagnotta ammuffita. Sembra un uccello da preda che ritorna al suo nido. Avidità degli sguardi appuntati sulla pagnotta. È mia! È mia! par che pensi disperatamente l’uomo. Fermentare di desideri, di passioni. Ondate di furore urtano contro le pareti. Qualcuno si affaccia al finestrino della fureria e guarda tranquillo i due feltrini che mangiano silenziosamente pezzi di formaggio. Tristezza profonda scorante degli sguardi tranquilli che guardano gli altri mangiare. Dionisio si china sotto il banco, sopra il suo enorme sacco pieno di ogni ben di dio, e mangia, rannicchiato, nella penombra, senza che altri vedano. È un uovo sodo? È del salame? Ognuno lo osserva, inosservato. Lo osservano tranquilli, i giovani occhi dal finestrino e anch’essi chiedono, senza disturbare: Salame? Uova? Formaggio? Credo che sia un pezzo di torta. Poi appare fra le sue mani una grossa mela ed egli si alza in tutta la sua enorme statura, mentre Bassanello sminuzza il pane nella gavetta e lo mette in bocca prudentemente. Pare un uccello davanti al becchime. È un uomo fragile e mite, lui, veramente come un uccello. E mangia anche lui di nascosto. È terribile che si debba nascondersi per mangiare, che si debba vergognarsi di avere in mano qualcosa di commestibile. È terribile vedersi spiato, mangiando, da quegli occhi tranquilli, sempre gli stessi, che paiono mestamente sfiorare, accarezzare ogni boccone che ti porti alla bocca.
13.3
Un cadavere disteso in mezzo al campo. Una pallottola sulla fronte, una nello stomaco, altre disseminate per il corpo. Lo hanno buttato lì come si butta un fardello molesto, ed ora è lì, con la testa insaccata e le gambe larghe, orrido a vedersi nella sua ineluttabile immobilità. I prigionieri passano accanto e si fermano a guardarlo. Era uno dei nostri, pensano. Ieri era qui, lavorava nel bosco. Ha tentato di scappare. Ed ora è qui, freddo e rigido, come un oggetto usato, come qualche cosa di inutile, di passato. Come si chiamava? Domando a Tizio e a Caio! Ma nessuno sa dirmi il suo nome. Un numero. Il numero tale. (...) è lì, in mezzo al campo, davanti all’ingresso dell’infermeria colla fronte forata da una pallottola. Altre cinque pallottole nel corpo e le gambe larghe. Un crocchio di prigionieri si è soffermato a guardarlo. Fa proprio impressione vedere lì, morto, uno che ieri camminava per il campo, come gli altri, come noi e agli altri è riuscito di scappare, a lui invece no. Era scritto nel suo destino che doveva andare così. Qualcuno scuote il capo, pensoso. Un vecchio ebreo si toglie il berretto. Un uomo sparuto guarda dal fondo del campo, capisce, si toglie il berretto e ritorna indietro, nella sua baracca. "Vedi, fa uno, indicando il morto col dito, gli è andato il sangue in un occhio. Ha un occhio otturato dal proprio sangue." "Sì, fa eco un altro, continuando a guardare, ha un occhio otturato. Però - aggiunge subito - anche non otturato quell’occhio non vedrebbe nulla lo stesso." Osserva ancora un istante il cadavere, poi si allontana, borbottando: "Lo hanno conciato proprio male. Che macello!" Il fischio dell’adunata. Una volta. Un’altra volta. Formicolare di uomini davanti all’uscita dei blocchi. Fuori tutti! Presto! Adunata. Piove! Piove! Alcuni si soffermano davanti al morto, passano oltre e si mettono al loro posto. Arrivano squadre di lavoratori. Attenti! Destr riga. Allinearsi. Blocco D! Blocco E! Blocco G! Fuori! Fuori! Vi è già un po’ di grigio-verde tedesco in mezzo al campo. Il capocampo col foglio in mano. "I capiblocco a rapporto". Pizzini! Pizzini! Poi compaiono due lavoratori in tuta, con una cassa greggia, che depongono accanto al morto. Anche la cassa gli hanno fatto: che trattamento. Qui il morto, al suo fianco la cassa. Tutto appuntino come una morte decente, regolare. Poi arriva lui, il maresciallo, con passo leggero, guardando severamente le file. Affollarsi di capiblocco nel centro del campo. Cici arriva ma passa dietro una squadra, per non vedere il morto. È piccola e fragile la Cici. Forse l’immagine della morte potrebbe turbarla. Un uomo viene trasportato, svenuto, fuori dalla sua squadra davanti alla cella affollata dell’infermeria. Un altro uomo crolla, viene portato sulle spalle da uno e via difilato all’infermeria. Passando la testa gli cade e va a sbattere contro lo stipite. "Ohimè! ghignano, che botta!". "Sono tutte femminucce - fa un altro - hanno paura di un morto?". "Io - fa Dante accanto a me – non sento niente. Ne ho visti tanti di morti, peggio anche di questo. Dei mucchi ne ho visti, in Jugoslavia, sui monti; e tutti squartati, mutilati. Nessuna impressione mi fa un morto, ormai". Il capocampo ascolta le parole del maresciallo. "Attenzione! Attenzione! - fa poi e traduce – Qui davanti a voi c’è il vostro compagno che ha tentato di scappare". E così parla, lui il capocampo, per spiegare, con parole comprensibili, il detto oscuro del maresciallo. E accanto a lui giace il morto, mostruoso e silente, con a fianco la sua cassa greggia, col coperchio capovolto e si chiodi in su. Un vivo, una cassa, un morto. Tutto intorno tanti e tanti uomini, cappelli giù, attenti, riposo, tanti uomini come lui, ancora vivi che vorrebbero andarsene, tornare a casa, mangiare, mangiare, ma non possono. "Vedete - fa il capocampo ancora - lui è lì stecchito; così sarete anche voi se tenterete di scappare".(...) è stato cancellato dalla terra, con un piccolo gesto della mano. Un piccolo cenno della mano di un piccolo uomo, un maresciallo, e lui è scomparso per sempre dalla terra. Chi era, come si chiamava? Ma! Non saprei. Dicono che lavorasse in galleria. Ha tentato di scappare passando per il bosco. Il capocampo si sposta in mezzo al campo. "Tutti! - fa poi guardandosi intorno - Tutti - ripete - Attenti! Cappelli...giù!". Poi presenta la forza. Tanti e tanti prigionieri; dirà forse 2000 o giù di lì, meno uno che è morto, è stato accoppato. Domani una minestra e una pagnotta di meno. (...)
14-15-16 marzo
Nino sbloccato. Dante sbloccato. Piero divenuto aiutante del capoblocco E se la cava bene e non desidera muoversi. Vedo vecchi compagni di cella e di blocco attraverso la rete di filo spinato. Nino goffo e magro con la papalina in testa. Ossuto e dinoccolato, con gli occhi da pazzo, pare ogni tanto andare in rapimento. Lontano, in fondo al campo, si vedono le bocche da lupo delle celle. Davanti alle celle passeggiano per qualche minuto i detenuti. Lento corteo di uomini e di donne sparuti, silenziosi si guardano intorno. Lì accanto le guardie ucraine osservano i loro movimenti. È la casa del terrore, dove tante grida e tanti dolori si sono accumulati. La casa del terrore e del mistero, là in fondo, dietro la figura goffa e sottile di Nino, accanto al quale appare ad un tratto Zaccaria dal volto emaciato e dai baffi incolti.. E noi restiamo al di qua della rete, sempre miseri, chiusi come belve in gabbia che gli altri vengono a vedere ogni tanto, i pericolosi. Blocco D, blocco E, rientrare. Uscire e rientrare al cenno del domatore. Attenti, riposo, cappelli giù! Cappelli su, la coda del rancio, la coda per la pagnotta, il caffè fatto con le bucce di patata, la distribuzione di mele agli indigenti. Siamo tutti indigenti. Non abbiamo nulla, nulla abbiamo al di fuori dei terribili ricordi che ci addentano le carni, che ci attanagliano come morse. E tutto ciò dalla mattina alla sera, ogni giorno. Di notte invece l’incubo dei sogni che gravitano spaventosi su di noi: figure macabre vacillanti sul nostro penoso dormiveglia, lì, sul sottile pagliericcio deposto per terra. Uomini camminano ed incespicano in noi, sdraiati per terra. Non passano attraverso il nostro corpo i passi solidi e lesti di chi se ne va traballando verso la latrina. Vigliacco, mascalzone, mi hai pestato, guarda dove metti i piedi. E così ogni notte, così ogni giorno, finché qualche cosa di nuovo avvenga, che cosa? la morte, la partenza, una bomba? Ohimè! (...) Il mago del blocco E. Anche lì hanno il loro stregone. Noi abbiamo il nostro, Maurizio, ed essi hanno il loro, Cester. Un vecchione canuto e greve, quasi paterno, sporco, pieno di pidocchi. Si mette a sedere sul pagliericcio, alza il capo a guardare, domanda bonario come va. Sembra pieno di acciacchi. Durante l’aria gironzola per il cortile, curioso, chiede a Tizio e a Caio che cosa c’è di nuovo. Pizzini lo onora e protegge. "Lo conosco da 23 anni - dice lui. - Ha fatto miracoli quest’uomo. Domandate a me che cosa ha fatto Cester". È lì seduto sul pagliericcio. Cerca per tutte le tasche. "L’avevo qui – dice - il foglio, la mia patente, il documento della mia miniera". Scopre infine un foglio unto in una tasca. Lo dispiega, lo legge a mezza voce. "Miniera Cester, Società per Azioni. L’ho scoperta io, perché sono anche rabdomante. So trovare l’acqua, i metalli, i tesori nascosti. Ero impiegato del governo". Guarda da una parte e dall’altra. Pizzini sta litigando nella fureria. "Fuori tutti da qui, andatevene". Si vuol mangiare indisturbato un bel panino imbottito. Non ama gli occhi indiscreti. È iroso, seccato, impaziente. Uff! Uff! Uff! fa poi. Non ne posso più. Cester lo guarda, astratto, come se non lo udisse. Poi si alza dalla branda, esce nella fureria, palpandosi una coscia. "Ah - fa, dolente - la mia sciatica". Rusconi si china sul mio orecchio dal suo pagliericcio. Ha gli occhi torvi, come il solito. Dice, con voce cupa: "È un gran mago, Cester. Dice delle fesserie, ma ogni tanto ne azzecca una. Io per me non ci credo un cazzo (?) a tutte le sue stregonerie". Frocco (?) sta gridando, in mezzo alla ressa, vuole spiegare qualche cosa, ma come sempre si mette a questionare. Un clamore di malcontento accoglie le sue parole. Poi anche lui entra nella fureria e impreca, guardandomi, "Sono una massa di canaglie". "Sì" commenta Rusconi. "Qui ci sono molti ladri. Scommetto che l’ottanta per cento sono ladri". Non è vero dottore - aggiunge poi, serio, ad alta voce, rivolto al dottore Cervelloni (?), quello dalla gamba di legno. Costui si volta, e lo osserva, quasi iroso. "Ma sì, ma sì - fa Rusconi, disinvolto - non siete della mia opinione? Qui ci sarà l’80% di ladri e speculatori. Anche voi non siete un politico. Cosa dite? Siete un politico o non lo siete?". "Io non ho detto nulla!" risponde l’altro seccato, voltandosi dall’altra parte. "Dunque - fa Rusconi - come dicevo, non siete un politico". Il medico si volta a guardarlo. "Sì - fa - non sono un politico. Mi hanno preso così, ma non ho fatto niente". "E allora - soggiunge Rusconi strizzandoci l’occhio - bisognerà farvi il processo, domani, perché non avete fatto niente. Che ve ne pare, Cester?" Cester scuote il capo, ma non dice nulla, come se non avesse capito bene. "È un fesso - mi mormora Rusconi all’orecchio - dice che è medico, ma io credo che abbia fatto l’infermiere e nulla più. È un povero fesso". Cester è lì in piedi indeciso. Si tira su i pantaloni e non si accorge che li ha ancora sbottonati. "Va a lavarti" - gli dice Pizzini, il suo protettore. Cester resta lì, stordito, nicchia, poi si mette in movimento verso il gabinetto. "Uhè! - gli fa Pizzini - non prendi il sapone?". "Sì - fa lui, tornando indietro, assorto, - adesso prendo il sapone." Fruga sotto il pagliericcio, tira fuori uno straccio sporco. "Vedi un po’ - fa Pizzini - quello sarebbe l’asciugamani". "E non lo è forse?" brontola Cester, il mago, poi esce di nuovo, col sapone in mano e l’asciugatoio sotto il braccio. "È uno sporcaccione – commenta Pizzini, seccato - se non fosse per la sua telepatia non varrebbe un cavolo. Ma in quello bisogna rispettarlo. Domandatelo a me, che lo conosco da 23 anni". Il pasto delle belve. Rancio al blocco E. Ressa di gavette e di occhi avidi intorno alla marmitta del rancio. La stecca. Le ultime cucchiaiate di minestra. Lotta aspra per le ultime gocce di brodo raschiate col cucchiaio dal fondo della marmitta. Le belve affamate in gabbia. Spettatori vagolanti davanti alle gabbie. Occhi pensosi che guardano cercano in mezzo alla ressa. Coperte sbattute. Pan! Pan! Un vecchio allunga il braccio attraverso la rete, con un tozzo di pane in mano. La calca subitanea, furiosa, delle belve affamate. Invescarsi (?) dei corpi nei fili spinati. Braccia tese attraverso le reti per carpire il tozzo di pane. Qualche cosa vola per aria, cade per terra. Pane? Pane? Zuffa di corpi che si avvinghiano, si graffiano, mani rattrappite su briciole, su croste, su sassi, su terra. Una mano si alza e si apre piena di sassi e di terra. Un uomo si allontana, con passi felini, rincorso immediatamente da due o tre compagni. Dammi il pane! Su! Dammi il pane! L’avevo già in mano. Me lo hai preso. Ladro! Dammi il pane. L’altro si allontana di corsa e addenta nascostamente un pezzo di pane nero e ammuffito. Un vecchio guarda dal blocco F, sorpreso, avvilito, avvolto in uno scialle nero. Resta immobile e guarda, poi si allontana, pensoso, e rientra nel blocco. (...)
17-21 marzo (primo quaderno lager - il rovescio delle pagine)
Scavalco ogni sera la rete per trovare altrove un giaciglio, un posto per dormire. Groviglio di corpi. Parecchi distesi per terra, uno accanto all’altro, non si può camminare senza correre il rischio di pestare qualche gamba o qualche testa. Scavalco la rete ed evado nel blocco C di Achille e Basso. Sandro (?) dall’alto del suo posto, con la testa lucida, getta osservazioni ironiche addosso al suo capoblocco. Discussione con Ermann (?) Baffetti biondi, occhi cinerei, pantaloni militari, espressione seria, volontà e tenacia. Discussione serrata in mezzo al gruppetto degli ascoltanti. P.d’A. (Partito d’Azione) contro P.C. (Partito Comunista). Fervore di parole e di fedi. Vibrare di parole. Nello sfondo i rumori degli altri blocchi. La voce grossa e bassa di Achille. Schermaglia di parole e di idee. Poi più tardi ci si arrampica sul castello. Ritrovo il mio posto. (...)
(2° quaderno)
22 marzo 1945
Ieri c’è stata una nuova partenza per la Germania. Circa una ventina di persone. Ammanettati e messi in camion. Anche un ragazzo. Le donne appollaiate dietro lo steccato per salutare i parenti. Anche Jim se n’è andato. Saluti e abbracci commossi di compagni. È sempre come se un brandello di carne fosse strappato dal nostro corpo. Uomini che partono verso l’ignoto. Dachau? Mauthausen? Incognita di chi non è più se stesso, di chi è diventato un numero, uno dei tanti. Viene il capocampo alla porta del blocco e chiama. Un numero. Un altro numero. Con tutta la roba. Sì, mettersi in borghese. Dove si va? A casa, dice qualcuno. Poi la doccia fredda: non a casa ma in Germania. Erano là in fondo, schierati, con i loro grami bagagli davanti al muro del carcere. Dalle celle sono partiti tutti, anche il ragazzo che faceva lo scopino. E Jim sorrideva, sereno, come sempre, e rispondeva ai cenni di saluto degli altri. Poi sono montati sul camion e se ne sono andati. Il camion è uscito traballando dal cancello, macchiato di grigio-verde dei poliziotti trentini. Tutti sono rimasti pensierosi, quasi cupi. Ricominciare? Poi è riapparso Dante, sorridente, coi denti bianchi. Sono ancora qui, dice; non siamo ancora partiti. Rimugina certi piani diabolici di fuga. Il solito Dante. Partono per Sarentino, loro, e sono una cinquantina. Per loro il pericolo è passato. E per noi? Si vedrà. Intanto la guerra non sarà mica eterna. E poi e poi siamo in circa duemila, e queste piccole e rare spedizioni di pericolosissimi non sono certo un grande pericolo per la massa. Ieri sera ci sono state le elezioni del consigliere di baracca. Sono stato eletto con 120 voti. La prima elezione democratica della mia vita. C’era qualche cosa di commovente, di appassionante nella foga elettorale di questi ragazzi. Poi hanno voluto anche il discorso. (...)
23 marzo
(...) L’assistenza oggi è andata bene. Marmellata, pane e minestra. I compagni sono rimasti contenti. Speriamo che continui. Oggi mi è giunta la seconda lettera da casa mia, vi si parla di due pacchi inviatimi, ma all’ufficio pacchi non ne sanno nulla. Anche Baroncini non sa cosa dirmi. Speriamo che nei prossimi giorni qualche cosa arrivi. Devo parlare con Cici per regolare la faccenda del mastello di minestra. Lo spettacolo dei ragazzi che si sbranano per un tozzo di pane deve pure cessare. Alcuni oggi si sono abbattuti contro il filo spinato, strappandosi i panni, per raccogliere il pane. Le notizie militari sono ottime. Il fronte occidentale è in pieno movimento. Ho rivisto Dante, che non è ancora partito. Nel blocco A le cose non vanno, dice Giordano, abbiamo perso la fureria. Però i consiglieri eletti sono quasi tutti dei nostri. (...)
24 marzo
È giunta una nuova spedizione da Verona. Dal finestrino riconosco Morabito, il compagno di Pippo. Qualcuno riconosce il prof. Meneghetti, del regionale veneto. Barba brizzolata, aspetto sano e gioviale. Occhiali spessi. Ora stanno tagliandogli i capelli. Brambilla è entusiasta. Speriamo che lo mettano con noi. Si potranno discutere e chiarire molte cose. (...)
[...]
26 marzo
Ieri domenica alle ore 15 riunione del nuovo consiglio di campo nella camera del capocampo. Questi ci ha trattati come dei ragazzi, non ci ha lasciati dire nulla e anziché far procedere alla elezione del consigliere di campo ha nominato lui il consigliere di campo nella persona di un anziano del blocco A. Era presente l’intendente, che ci ha fatto una relazione sul bilancio. D’ora in poi settimanalmente il consiglio controlla l’amministrazione dell’intendenza. Ho l’impressione che il capocampo sia un uomo di tempra prussianamente solida, di tendenza autoritaria, malgrado la sua professione di antifascismo. Il consigliere del blocco 13 Sacchetta (?), il mutilato, è rimasto molto male; egli si riprometteva si essere eletto consigliere di campo, per sfruttare la sua conoscenza di Hans e del campo. Noi gli avevamo promesso di appoggiarlo, malgrado la nostra superiorità numerica nel consiglio (9-2) di fronte ai socialisti che in realtà hanno ottenuto un solo blocco. (...) La domenica è passata bene. Ci hanno dato una ottima minestra, carne e marmellata. Alla sera regnava un senso di soddisfazione tale che ci ha permesso di iniziare un torneo di scopa e di bandire una specie di concorso per una rappresentazione di varietà. Se salta fuori qualche virtuoso o qualche dilettante organizzeremo qualcosa di bello. Intanto le notizie diventano sempre migliori. Questa sera, lunedì, ho tradotto dal Bozener Zeitung il bollettino di ieri, che parla della nuova offensiva sul basso Reno e dello sbarco di truppe aerotrasportate dietro il fronte. Oggi dalle celle provenivano lamenti e grida di dolore. La solita storia, il lavoro delle guardie ucraine. Dicono che un prigioniero delle celle sia morto oggi. La commissione del blocco ha dovuto procedere a qualche riforma. Stranieri si è dimesso e ha lasciato il suo posto al suo amico già in lista dei compagni da assistere. Bisognerà pensare ad escludere gli elementi poco meritevoli e quelli di provenienza dubbia. (...) Ore 18,30 dopo l’adunata Fame. Un uomo magro scheletrito seduto sulla tavola, al sole. Si guarda intorno, triste. Una folla di volti sparuti. Il capocampo indica un prigioniero e lo chiama porco. Costui ha frugato nelle immondizie. Bisogna punirlo. Orrore di uomini che brancolano sul margine vago del loro essere. Sopravviveremo? Ritorneremo? Pane, minestra. Passa una guardia col nervo in mano. Uscire! Uscire! Fuori tutti. Il capoblocco grida nel camerone semivuoto. Dal cancello entra un autocarro carico di casse e di sacchi. Mille occhi atterriti guardano frugano nelle casse nei sacchi. Che cosa ci sarà? Mele, pane, patate? Sulla baracca centrale sta scritto Kantina (Kantine ndr). Davanti a noi si apre la finestra del magazzino. Si scorgono delle file di pagnotte. Qualcuno sfonda con un pugno la parete di carta pesta. Altri si arrampicano e allungano il braccio. Penzolano tante braccia magre da corpi sfatti. Nei castelli, avvolti nelle coperte, giacciono i corpi di quelli che più non escono. (...)
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28.3
La triste processione dei prigionieri delle celle. Ci sono donne, giovani, c’è anche un prete. Di Giovanni ha riconosciuto fra di essi la figlia del maestro Mascagni. Morabito mi ha chiesto passandomi accanto come va. Davanti al muro delle celle si vedono i due del blocco D che il capocampo ha sorpresi mentre frugavano nei rifiuti della cucina. Ho fatto visita a Nino, nel blocco I. È sempre intento a elucubrare o a stendere per iscritto i suoi pensieri. Ha fatto dei proseliti. Dionisio in fureria. Discussione con Di Minerbe del P.A. (Partito d’Azione ndr) di Milano. Non conosce Arturo. Baroncini dormiva. L’ho svegliato e gli ho fatto a bruciapelo una domanda indiscreta. Bucci mi ha chiamato, nel campo, per chiedermi le solite tranquillizzazioni. E’ sempre preoccupato sul contegno dei compagni. Anche oggi si diffondono notizie sensazionali. Se è vero non ci sarà molto da attendere. Se è vero...
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30.3
Tumulto nel blocco. E’ apparso un cartello dietro la rete sui castelli del blocco C. "Chi passerà per la rete sarà denunziato al capocampo". Tumulto nel blocco D. D contro C, di ritorno dalla adunata. Vergogna! Repubblicani! Fascisti! Dall’altra parte risponde il silenzio. Crescendo di ira e di clamore. Toglietelo! Ammazzali! Chi è stato? Alcuni si arrampicano e si affacciano sulla rete. Strappalo! Tiralo giù! E’ una vergogna. E’ stato il consigliere. La voce del consigliere, dall’altra parte. "Vedete, ragazzi, se passasse soltanto qualcuno, così, ma si tratta di gente che va e viene mille volte al giorno, per i suoi loschi affari". Clamore di malcontenti. "Macché! Macché! E’ una vergogna. Un compagno che denuncia un compagno". Battibecco vivace sui castelli al di qua e al di là della rete. Poi la voce del capoblocco della D. "Avete ragione. E’ una vergogna. Passate! Passate pure! Non preoccupatevi." Poi un vocione di giubilo. "Bravo! Bravo!" Gli ha dato fuoco. Il cartello in fiamme. La voce chioccia del consigliere del blocco C. "Capirete ragazzi, si faceva così per evitare che..." Poi, di dietro, la voce bassa di Achille; parla concitato, fra i suoi uomini. "Che idea vi è venuta in mente? Non l’avevo nemmeno visto io il cartello. Se fossimo noi al loro posto. Mettetevi nei loro panni". Un po’ alla volta si sgombrano i castelli superiori. Poi, più tardi, la porta del blocco si apre e viene avanti il capodisciplina, Piero, seguito da Lagari (?), col nervo in mano. Il capodisciplina ha sempre l’aria di voler tenere un gran discorso. Incomincia, si arresta, si impapera, si guarda intorno, fra il grave e l’imbarazzato. E’ un uomo convinto di essere importante. "Vedete, dice, i vostri compagni, di là, si lamentano. E’ apparso anche un cartello, di là, - e guarda verso la rete, senza saper trovare la parola - c’è qualcuno di là che è pronto a denunciare quelli che passano. E badate bene, se farà ciò, e avrà ragione di farlo, ne andrà di mezzo tutto il blocco". Una pausa carica di significato. Lagari (?) sorride, mite, nella sua uniforme tedesca, rosso di capelli e lentigginoso, col nervo in mano. Poi Piero prosegue: "Dunque - dice - ragazzi, è chiaro come sta la faccenda". "Sì, fa uno dalla folla, è chiaro". "E allora - prosegue lui - se è chiaro non resta nulla da aggiungere". Guarda la rete, gira lo sguardo intorno e se ne va, a fianco di Lagari (?) col nervo in mano. La porta si chiude dietro la loro ambiguità e la luce li ha riassorbiti. Vengono otto uomini nuovi dalle celle. Sparuti, timorosi, coi fagotti sudici e le coperte sotto il braccio. Si fermano nella ressa dei curiosi assiepati nella corsia, venite dalle celle? Sì, dalle celle. E ci guardano, seri, tutti con la stessa espressione. C’è anche un francese. "Per politica? Partigiani?" "No, sabotaggio". Sono incerti, titubanti. Li guardiamo intensamente, come se venissero da chissà dove. "Picchiano?" domandiamo. "Oh, se picchiano" risponde uno di loro, piccolo, fragile, esausto. Ha la barba bionda e gli occhi chiari. "Picchiano sì", fa ancora, guardandosi intorno, spavento! "Anche te hanno picchiato?" chiede un altro. "Me no", fa lui, subitamente, perplesso, quasi diffidente. "Ah – fa uno di noi - lo sappiamo bene, noi. Gli ucraini!" "Davvero! Gli ucraini! - conferma uno degli otto. Sono delle belve. Mai visti uomini simili" soggiunge un altro stringendosi un lurido involto sotto il braccio. E guarda in alto, osserva i pagliericci sopra i castelli, le facce affacciate sopra di lui. Poi mi guarda ad un tratto fino negli occhi e dice, di botto: "Un inferno è là dentro, un vero inferno. Uno è morto nelle loro mani, lo hanno finito". Resta muto a riflettere. "Un altro, soggiunge, è ancora vivo, ma bisogna vederlo". "Sì - fa un altro amaro - bisogna vederlo. Gli danno ora di nuovo da mangiare, perché non crepi, anche lui". "Abbiamo sentito - dice uno di noi - le urla e i lamenti. Sempre sentiamo, anche di notte, i gridi di quelli che picchiano. La notte scorsa chiamava aiuto una voce. Doveva essere una donna. Non era una donna?" "Sì, fa uno di loro, cupo, riflettendo, deve essere stata una donna". Gli otto si muovono, impacciati, in mezzo agli altri, non capendo ove assestarsi. "Sentite - dice il consigliere, montando sul banco della fureria - Blocco D, attenzione! Otto nuovi sono venuti. Vengono dalle celle. Dovete far loro posto. Cercate di stringervi sui pagliericci. Sono vostri compagni delle celle". Uno di essi sorride, commosso. "Grazie", dice al consigliere, mentre un suo compagno parla animatamente in francese con André, il parigino. "Avete anche un francese? Sei francese tu?" "Sì, dice lui, sono un francese, mi hanno preso con loro, ero scappato dalla Todt, sono andato sui monti, ho trovato questo amico, poi ci hanno presi, tutti insieme per la stessa cosa". Gli otto si disperdono per il blocco, alcuni si soffermano a parlare, ancora storditi, ancora indecisi, con altri compagni. Un uomo chiama un nome strano, forse francese, dall’altro blocco, al di là dalla rete. Il francese nuovo venuto si arrampica sui castelli e si fa alla rete, per parlare coll’altro. Il blocco assorbe intanto gli otto uomini nuovi, i loro cenci, le loro paure. Assorbe le loro fisionomie, le amalgama, le disperde. Forse assorbirà anche i loro ricordi, le tristi immagini di morte e di dolore, insieme con le innumerevoli altre immagini che si agitano e si confondono in questo grande crogiuolo di sofferenze e di passioni.
31.3
Luce in fureria sul gruppo di giocatori a carte. Il solito poker. Roncoletta, Di Giovanni, Turrina, Milan, il rapinatore, col berretto nero, di pelo. Il silenzio è già stato dato. Ogni tanto si levano le voci dei giocatori. "Silenzio i furieri; grida uno dall’alto dei castelli". "Beccamorto!". Le voci dei giocatori affievoliscono. Poi pare che la notte sia discesa, grande, e che il silenzio notturno abbia avvolto, incapsulato tutto, le voci sommesse, i gesti, la luce della fureria, le forme. Sono immerso in un sonno ancora leggero, ma che si ispessisce a poco a poco, si condensa, un vociare proveniente, mi pare, dal blocco E: "Morelli! Morelli! Il cieco ci vede. Luce! Luce!". Animazione nel blocco. Apro gli occhi e rivedo la luce sfacciata della fureria, risento, vicini, i giocatori a carte. "Che c’è? Che cosa è successo?". "Luce! Luce! Accendete la luce! Morelli ci vede". E’ come se una allegria intensa si fosse impadronita di tutti noi, avesse improvvisamente permeato l’atmosfera del blocco. I giocatori stanno in ascolto. Figure si levano, misteriosamente, sui pagliericci. Mormorii passano attraverso il silenzio. Nel blocco E si accende la luce. Si rispegne, poi si riaccende e rimane alcuni istanti accesa. "Morelli! Morelli!" grida qualcuno del nostro blocco. "Morelli ci vede" fa eco un’altra voce più lontana. "Bravo Morelli!". Poi la luce si rispegne definitivamente. Si ode ancora qualche mormorio, vicino e lontano. "È mai possibile?" osserva uno. Poi ritorna a poco a poco il silenzio, nel blocco e sugli spiriti. La lacerazione nel sonno si ricompone, il sonno ritorna intero, compatto, greve, e in esso tornano a muoversi a poco a poco le forme strane, le apparizioni dei sogni. Io rimango alcuni istanti assorto in pensieri. Morelli, il cieco, ha riacquistato la vista così, di notte gli altri dormivano, mentre qualcuno vegliava giocando a carte; nel silenzio e nell’oscurità della notte egli ha riacquistato improvvisamente la vista. Rivedere le stelle brillare in cielo, sorgere e tramontare il sole, rivedere sfumare le colline nella lontananza, sorridere le giovani donne, brillare la superficie delle acque lacustri, vedere il volto lacrimoso e gioioso di sua madre. Così penso io, rannicchiato nella mia cuccia, mentre accanto a me, in fureria, i giocatori continuano a giocare a poker, nella luce viva della lampada, finché il sonno si impadronisce anche di me, dei miei pensieri, delle mie membra, fonde le mie immagini e le fa colare come piombo fuso in un mare vasto e tenebroso or sì or no fosforescente, un mare profondo, in fondo al quale si agitano lente e pigre strane e misteriose forme non mai viste alla luce del sole. Questa mattina ho visto Morelli all’adunata. Ha voluto mettersi in prima fila. I compagni lo guardavano con gioia e simpatia, anche con meravigliata curiosità. Qualcuno gli stringeva ogni tanto la mano, congratulandosi. Ed egli guardava continuamente il cielo, ora a sinistra, verso il Rosengarten, ora a destra, in direzione del castello di Bolzano. Pareva non saziarsi di quella vista. Le colline iridate dai primi raggi del sole. Le cime ancora nevose delle montagne. Il trascorrere lento delle nubi sullo sfondo del cielo cristallino, le baracche chiare del campo, le cime degli alberi fuori dal campo, tutto egli guardava, senza stancarsi mai, estatico e raggiante. Dopo l’adunata molti gli hanno fatto ressa intorno per stringergli la mano. Qualcuno ha riconosciuto dalla voce. Ad altri ha chiesto chi fossero. Poi lo hanno fatto andare verso la rete delle donne. Al di là un gruppo di ragazze lo osservavano commosse. "Hai pregato?" gli ha chiesto una anziana. "Sì, dice lui, ridendo, ho pregato". Qualcuno vuol credere al miracolo, ma senza le punture del medico probabilmente il miracolo non sarebbe avvenuto. Morelli è mutilato di guerra. Ha un braccio anchilosato. Successe durante un bombardamento, che gli fece perdere temporaneamente la vista. Anche allora temporaneamente la riacquistò. Finché gli successe la seconda disgrazia, alla Spezia. "Non uscire! - gli diceva sua madre - Stanno facendo un rastrellamento. Potrebbero prenderti". Ma lui, ottimista: "Ma cosa vuoi che mi facciano, sono un mutilato di guerra". Aveva all’occhiello il distintivo dei mutilati. Per la strada lo fermano, lo portano, malgrado le sue proteste, in carcere. Interrogatorio, sevizie. Cade nella latrina, batte col capo per terra, emorragia e perdita della vista. Quattro mesi fa. Se fossimo partiti veramente per la Germania, la sua vista sarebbe stata perduta irrimediabilmente. Invece il ritorno al campo fu la sua salvezza. I medici si sono interessati di lui, lo hanno aiutato, gli hanno fatto delle iniezioni. Negli ultimi giorni già aveva cominciato a migliorare finché questa notte egli è tornato a vedere. "Era notte - dice Piero - Morelli si muove. Cosa vorrà fare? - penso io. Avrà bisogno di aiuto? Poi si alza e va, accompagnato dal suo amico, al gabinetto. Al ritorno questi mi dice all’orecchio: Sai, Piero, Morelli ci vede. Siamo andati al cesso, abbiamo acceso la luce, e lui ci vedeva. Allora sono scoppiati i clamori e tutti giubilavano, svegliati, di questo grande avvenimento".
[...]
2 aprile 1945
Clamore nel blocco C. Un processo a due ladri. Dall’alto dei castelli, attraverso la rete, vediamo il capodisciplina, in fureria, che fa l’inchiesta. Affollamento di gente intorno a lui. Da noi perquisizione dei pagliericci in cerca della camicia di Ulesi. Ladri di qua, ladri di là. Siamo assediati dai ladri. Ulesi è esasperato. Prima i salamini, ora la camicia. 50 lire per chi riporta la camicia. Da una parte Di Giovanni, dall’altra io. Chiamo Oscar Franceschini, il biondo e robusto bolognese, per aiutarmi. Le grida nel blocco vicino aumentano. Grappoli di nostri compagni in corsia, sui castelli. Oscar vuol andare a vedere. "Qui, dico, perquisisci qui!" Poi improvvisamente un grande tumulto di botte e di imprecazioni Dagli! Dagli! I grappoli dei nostri compagni alla rete si fanno più fitti, più grevi. Preoccupazione dei vecchi abitanti al primo piano. Crollerà tutto. Fate attenzione! Dagli! Dagli! Botte da orbi dall’altra parte. Per dio! Come li conciano, sono due fascisti. Due ladri fascisti. Guarda! Guarda! Gettano in aria la fureria. La fureria, ripeto. (?) Dall’alto dei castelli accanto alla nostra porta qualcuno ha visto Hagen. Il maresciallo! Il maresciallo! Paura per tutto il nostro blocco. Il maresciallo! Hagen! Hagen! Dov’è? Dov’è? Scompiglio nel blocco C. Ritorna Roncoletta, scavalcando la rete, ansimante. Di là sta succedendo qualche cosa di grave. Hanno schiaffeggiato il capoblocco. Hagen ha schiaffeggiato Achille. Quelli in cima ai castelli spiano, poi si buttano giù, si distendono sulle brande. Via! CR (?)! Non fatevi vedere! Svuotarsi del blocco C. Tutti fuori! Tutti fuori! Hagen ha schiaffeggiato Achille, ha fatto uscire tutti nel cortile. Sull’attenti, al sole, senza cappello, per tutto il giorno. I due ladri in cella con quello che ha acquistato la roba rubata, un vestito. Venti vergate per uno. Erano già malconciati. Venti vergate e poi di ritorno in blocco. Il maresciallo. Il maresciallo non vuole saperne di giudizi fatti da noi. D’ora in poi i ladri devono essere denunciati a lui. (...) La perquisizione delle brande superiori non ha dato nessun risultato. Mi chiama Madalosso, il grosso padovano, nel suo ripostiglio. "Ho visto, mi dice, questa mattina presto uscire uno dal blocco. È rientrato poco dopo con due pagnotte. È quello lì. È andato al blocco B verso i padovani, l’ho visto io". Si apre la porta "Aria! Aria! Fuori! Fuori!" movimento nel blocco. In cortile tutti guardano attraverso i reticolati i compagni del blocco C, ancora fermi al sole, in punizione. C’è anche Achille, il capoblocco. Ha preso degli schiaffi. Deve essere furioso. Mi chiama qualcuno. È Franco, colla testa fra i reticolati. Vicino a lui vedo De Pellegrini. Già, dico, tu, che sei capodisciplina, va a vedere nel blocco D. Domanda se qualcuno ha venduto una camicia. De Pellegrini via (?)...Sai, mi dice Franco, l’affare di Poggi? Ne ho parlato con la contessa, quella del dentista. De Pellegrini torna, viene anche Zanini. Sì, ha offerto una camicia. Non l’aveva, ma l’ha offerta. Cerco vecia (?) e lo porto dentro. Ulesi! Ulesi! Vieni giù. Vecia mi porta da un suo amico. Dov’è la camicia? Me la mostra. Non è quella. Dopo l’adunata luce sul gioco di poker. Si sente una voce. "Attenzione, blocco D!" È Ulesi che parla. Sale sulla tavola e parla al popolo. "Blocco D, attenzione! Io non sono né un figlio di papà, né un capitalista. Sto consumando tutti i miei risparmi. Ho fatto il soldato, per tanto tempo. Ogni tanto venivo a casa e lavoravo. Allora facevo i risparmi. Poi ora li consumo. Però la camicia no, quella non dovevate portarmela via. I salamini sì, quelli, ma la camicia no. Invito il ladro a portarmela, gli do i soldi, io, venga da me in un angolo, mi dia la camicia, e io gli do i soldi. I salamini, sì, molti, ma la camicia no, per dio!". È finito il discorso dell’avvocato Ulesi. Qualcuno applaude, ma la camicia non esce. Ha detto anche: "Sono superstizioso, la camicia me l’ha regalata mia madre, era un regalo di mia madre, ed io sono superstizioso, ho creduto che mi portasse fortuna. Vi prego di riportarmela". Fu qui che la gente si commosse. Anche Oscar approvò, Oscar il biondino robusto bolognese. "Questa volta, dice Oscar, ha parlato bene anche lui". Monello tace e non fa commenti. Vediamo se salterà fuori il ladro. Adunata! Adunata! Capiblocco corrono. In fila! Attenti! Destr’ riga, blocco A! Blocco G! Posizione! Pizzini! Poi viene il maresciallo. Il capocampo col foglio in mano. Ss! Il capocampo si mette in mezzo al campo, volge il capo a destra e a sinistra. Tutti! Attenti! Cappelli giù. Poi il fervorino del maresciallo, tradotto in cattivo italiano "Rubare qui ai compagni è una porcheria. Una porcheria è anche comprare ciò che è stato rubato". Bene, mormora qualcuno nelle file. "Però d’ora in poi non dovete pensare voi alla punizione. Ci penserà il maresciallo. I ladri devono essere denunciati al maresciallo". "E poi, continua il capocampo, è una porcheria sfruttare una occasione simile per fare una rappresaglia politica". Sì, pensa qualcuno della fila. Tutto è una porcheria! Poi è finita la predica. I blocchi rientrano. Lagari (?) Pietro col bastoncino in mano che ci spinge dentro al blocco come delle mandrie di buoi. E il povero Ulesi non ha ancora trovato la sua camicia. La vecia in rissa, attraverso il reticolato, col capoblocco del B Zanini. Guai a te se ti vedo ancora nel blocco. Ti denuncio al capocampo e ti faccio mettere in cella. La vecia è bisbetico e recalcitrante. Protesta e lancia occhiate furiose a Zanini. "Io posso andare dove voglio." "Un cavolo! - grida l’altro - Ti farò andare in cella".
[...]
4 aprile 1945
Sole di primavera sul campo. Uomini a torso nudo dietro la legnaia. Roncoletta in cima al mucchio di legna, seminudo, col fazzoletto in testa. Siede massiccio come un vecchio re in trono. Alla mia destra i ramoscelli fioriti del melo. Girelliamo qui e là io e Bucci. Chiacchiere serie, chiacchiere amene. La fila cupa dei prigionieri delle celle, usciti al passeggio. Il ragazzo delle SS col solito bastoncello in mano. Tocca uno per uno i prigionieri, come per provocare qualche incantesimo. Passa Morabito, passa Meneghetti, passa la figlia di Mascagni, passa questo e quello, in colloquio sommesso fra di loro. Che notizie ci sono? Buone? Dammi informazioni dettagliate! Hai una cicchetta? Dov’è andato Canestrari? La fila si snoda, gira a sinistra, scompare. Si va girellando, io e Bucci, dietro le celle, fra i cessi e la legnaia, verso il muro di cinta. Passa Baroncini di fretta. Niente notizie? Niente? Sorride largo (?) e ingenuo. Il fuorilegge Apollo, famigerato bandito. Un colpo, due colpi, tre colpi, Barboncini giace in mezzo alla piazza col ventre bucato. Sette buchi nell’intestino. Poi i punti accorti del prof. Donati. Bravo prof. Donati. Preghiere, voti delle suore raccolte. Litanie. Il taglio deciso del prof. Donati. Un punto. Un altro punto. Il ventre è chiuso. Baroncini salvo. Com’è? Come non è? Barboncini è salvo, zoppicante sì, ma vivo, e attraversa ora il campo, con un barattolo in mano. (...)
5.4.1945
Il giornale arrivato attraverso la rete. L’ingegnere esce dal suo covo con la cartina in mano. Assieparsi di gente intorno al foglio aperto. Titoli cubitali sulla situazione. Il bollettino tedesco del quartier generale del Führer. Vedi? Vedi? Sono arrivati qui. No, ecco qui dove sono ora. La cartina passa di mano in mano. Arriva Pardi in ciabatte. Che c’è? Che c’è? Buone nuove? Sì, sì, sono arrivati a Vienna. Ma no. Non dire sciocchezze. Non si tratta di Vienna. A me hanno detto che combattono nelle vie di Berlino. Che cosa dicono? Qualcuno scende dai castelli superiori con grandi poderose scarpe chiodate. Attenzione! Attenzione! La testa. La voce del capoblocco. Blocco D, attenzione, è stato smarrito un pettine. Chi lo avesse trovato. Una rissa in fondo al blocco. Silenzio! Siete capaci di fare un po’ di silenzio. Si sta leggendo il giornale. La faccia dell’ingegnere si alza dalla cartina. Bene, bene, che ve ne pare, consigliere? Qualcuno spinge. Il vecchio Pardi protesta, si informa. Che modi sono questi? Un po’ di riguardo! Dunque? Dunque? E sopraggiungono due o tre di nuovi. Che c’è? Che c’è? Avete il giornale? L’ingegnere legge a mezzavoce il bollettino. Senza essere molestate dal nemico le nostre truppe si sono sganciate...Ah! Ah! si sono sganciati, ride uno. Fa silenzio! Un altro si arrabbia. Lascialo leggere! Pardi ascolta, col capo chino e le mani ficcate nelle tasche del cappotto. Ha un berrettino blu da sciatore, con la visiera stretta e un fiocchetto che gli pende giù. Il prof. Pardi, primario di una clinica medica. Viene il suo amico ingegnere, un altro vecchione. Come è? Come? Arriva acciabattato, curvo, con un sorriso scialbo sulle labbra. Va bene? Come va? Nessuno gli risponde. Un colpo di gomito nel fianco dell’ingegnere. Oh! Oh! Continua la lettura. Scoppia un tumulto nel blocco E. Il fischio di Pizzini. La voce di Rocca. Fuori le mele! Date le mele agli indigenti. La voce seccata di Pizzini. Rocca cerca di calmare la folla. Silenzio al blocco E? Covo di banditi! Sempre in subbuglio. Vedi, fa uno, deve essere una bolgia, di là. Sempre hanno da gridare, da questionare. L’ingegnere alza il capo dal giornale, indispettito. Se state zitti, continuo a leggere, se no...Ha ragione. Dunque siamo arrivati...Il presidio di Küstrov...Dalla porta si chiama. Capoblocco! Capoblocco! Vi vogliono alla porta. Il capoblocco esce seccato dalla fureria. Dunque, fa uno in piedi sui castelli, con lieve sarcasmo: Che dice il giornale? Quando finisce la guerra? - La guerra? La guerra? brontola l’ingegnere, manipolando la cartina. Sempre mi domandano quando finisce la guerra. Come faccio a saperlo io? Mica c’è scritto sul giornale. Però andiamo bene, sembra, commenta timido De Chicco (?), il compagno di Pardi. In cima al castello, Brambilla, in piedi, si beve un uovo fresco, con la testa riversa. Accanto a lui ride Dino, il ragazzo recalcitrante. Ulesi si sta infilando una camicia. Hai trovato pidocchi? mormora uno, qui vicino, al suo compagno di branda. Si riprende la lettura del bollettino. Ora c’è il silenzio. Si ascolta con attenzione. Ma la voce dell’ingegnere è diventata rauca. Ogni tanto deve raschiarsi. "Leggo io", fa ad un tratto Maurizio lo stregone: No, fa l’altro, e continua faticosamente la lettura. Consigliere! Consigliere! Mi chiamano dalla semioscurità. Al telefono. Mi affaccio al foro di destra, dentro la branda di Veronesi, e vedo il viso roseo e furbesco di Piero. Che c’è? mi dice. Hai sentito, mi fa, le ultime notizie? Dicono che Berlino sia caduta, che si combatte per le strade della città. Dietro Piero si vedono ombre muoversi (?) L’ombra di Pizzini? L’ombra di Cester? - Che signori, eh! fa Piero, enigmatico. Mi guarda attraverso il buco, poi tende l’orecchio ad ascoltarmi. Se trovi del tabacco, soggiunge subito, anche se è forte non fa niente. Dio buono, non riesco a trovare tabacco. I soldi te li do io. A proposito hai bisogno di soldi? No, faccio, non ho bisogno di nulla. Ti ringrazio. Una rissa si accende alle mie spalle, fra quelli di sotto e quelli di sopra. Maiali! Porci! Abbiate un po’ di riguardo! Guardate che cosa avete fatto. Nella mischia la voce chioccia di Veronesi, conciliante. Ritorno al crocchio e risento la voce dell’ingegnere che volge verso la fine della lettura. Un giovane ha in mano la cartina, la gira e rigira, senza capirci nulla. Dove sono, dice. Ah! Ah! ride l’industriale rosso di capelli. Non sai come si guarda una carta. No! fa l’altro mortificato. Non ho mai guardato carte io, non sono istruito. "Mi fai il piacere - dice ora Pardi – di rileggere quel tratto dove dice..." e cerca le parole nel bollettino. "Non ho capito bene". "Aspetta! Aspetta! gli fa l’ingegnere. Leggiamo prima la situazione". "Che c’è di nuovo ingegnere?" lo interpella a bruciapelo Milan, il rapinatore. Ha un bagliore astuto negli occhi. È lì, disinvolto, come sempre, con le mani in tasca e il berrettone di pelo sulle ventiquattro. "Siamo agli sgoccioli? Dobbiamo preparare il fagotto?". Ha un sorriso sfottitore sulle labbra. Dà un’occhiata al giornale, poi alla cartina, che passa nelle mani inesperte di un partigiano, poi si allontana fischiettando seguito subito da Robusto che pare abbia qualche cosa di urgente da confidargli. "Sono dei ladri, dei farabutti", mormora l’industriale rosso di capelli, osservandoli. "Uno peggio dell’altro", commenta Pardi, cercando di prendere in mano il giornale. Ma l’ingegnere lo tiene stretto nelle sue e comincia a leggere la situazione. "Voce", grida uno dai castelli. Ma lui continua a leggere a leggere, con voce rauca, mentre tutti intorno a lui tendono gli orecchi per afferrare le sue parole. Maurizio, lo stregone, ascolta e sorride, misteriosamente. Col testone coperto dal berrettone di lana, sorride compiaciuto e pensa certo: "Tutto questo io lo sapevo. E’ proprio come io ho sempre detto". Così certo pensa Maurizio, ascoltando la lettura del giornale, e dondola ora il grosso capo guardandosi intorno in cerca di riconoscimento. (...)
6.4.1945
Latrine e lavatoio, in fondo al blocco. Prima la latrina, con due banchi, poi il lavatoio con alcuni zampilli. Via vai di gente che vuole lavarsi o scaricarsi. Paolo il lavandaio, in fondo, nella semioscurità. Frega e batte la roba. Vedi come è? Lo faccio per un pezzo di pane. Qui bisogna arrangiarsi. Ulesi lo chiama. Paolo! Paolo! Lui esce dal cesso, si arrampica su per il castello e sporge il capo. Che c’è? Va a prendermi questo! Va a prendermi quest’altro! No! No! Così proprio non va. Ressa di aspettanti davanti alla latrina. Prima io. No, prima io. Oh, tu, mettiti in coda! Ma io ho soltanto da pisciare. - La latrina come pensatoio. Due si mettono lì, rannicchiati sulla propria pienezza, con le ginocchia fra le braccia. Non si guardano, non si vedono. Pensano. Forse nascono pensieri nuovi lì, nella latrina. Attenzione! Attenzione! Mi hai pisciato addosso. Ma no! Sono qui. Non vedi? I buchi dei finestrini. Si vede il muro di cinta, coi reticolati in cima. Al di là delle fronde fiorite. Di lì, mormora uno, seduto su se stesso, senza volto, di lì si potrebbe scappare. Sembrerebbe un’inezia. Sfondare il tetto, qui, buttare un’asse al di sopra dei reticolati, e via. Scariche di gas, rumori secchi. Che puzza! Che puzza! Di’, tu. Non vuoi chiudere la porta? Lasciami stare! Devo solo lavare le gavette. Entra Maurizio, accompagnato da un giovane. È malato, ha la febbre. Si ferma a orinare, nell’angolo del lavatoio, dietro l’immondezzaio. Il suo compare lo sorregge. La calca intorno ai due rannicchiati. Attenzione! Attenzione! Non mi vedete? Fuori, fra il blocco e il muro di cinta passa la sentinella assonnata. È un trentino, commenta uno. C’è uno nell’altro blocco che lo conosce, è suo amico. Mica sono volontari, loro; li hanno reclutati, per forza, come noi una volta. È la stessa cosa. Non sono delle bestie, come gli altri, come gli ucraini. Hai carta, dice uno dei rannicchiati all’altro. Ma, fa l’altro frugandosi annoiato in tasca. Tira fuori un pezzo di giornale sporco e unto, lo strappa e ne passa un po’ al compagno. "Chi sa se è vero" fa l’altro, pensoso. "Che cosa vero?" osserva il primo, rigirando fra le mani il pezzo di giornale. "Se è vero che hanno preso Vienna" completa quell’altro, mentre fuori risuona la voce del capoblocco. (...)
[...]
9.4.1945
Arrivo di una nuova spedizione. I nuovi arrivati sono davanti alla porta. Robusto ha riconosciuto il suo bastonatore e torturatore. È fuori di sé dalla gioia. Gli farò vedere io, adesso sì incomincia il bello. Robusto infuriato. Agitazione dei compagni. Piero chiama al telefono. Hai visto Caceffo? Non lo conosci? Clamori, risate, assembramento davanti alla porta. Chi c’è? Che cosa è successo? Ah! Ah! Robusto ha sputato in faccia al suo torturatore. Lo ha fatto chiamare al finestrino della porta e gli ha sputato in faccia. Dov’è? Quale è? È lì dietro, grida Robusto; si è nascosto, non vuole che lo si veda. Vigliacco! Delinquente! Tu e il tuo compagno, l’avvocato Caniso. Sì! Sì! perché tu sei delle SS. Tenente delle SS. Tenente o Capitano. Dal quadrato del finestrino si vede un uomo rasato, con gli occhiali, staccarsi dal gruppo dei prigionieri. Che cosa ti ho fatto io? Di’ la verità! Io non ho fatto del male a nessuno. A nessuno. Robusto è fuori di sé. Sì, è vero. Però sei un cane lo stesso, sei un fascista, un delinquente. Vi mangeremo il cuore, il fegato, vi faremo crepare. Specialmente quello lì, che si è nascosto qui dietro, quello che mi ha fatto sentire la corrente elettrica. Vigliacchi! Vigliacchi! Il gruppo di prigionieri, nel sole, visto dal finestrino. Quello lì deve essere Caceffo (?), coi capelli lunghi, i baffi neri, così come me lo ha descritto Piero. "Vedi quello lì? - mi fa uno - E’ Macchia, il federale di Parma". È seduto su un fardello, con la gamba ingessata, disteso. Robusto non finisce mai di imprecare. Dov’è? Dov’è? Attenti! Eccolo lì, adesso viene fuori. Guardatelo. È lui che mi ha torturato, il vigliacco mi ha fatto sentire la corrente elettrica. Il gruppo si allontana inquadrato dal capodisciplina e da Piero, ridente. La porta si socchiude un istante. Un raggio di sole sul pavimento. Piero, col bastoncino in mano. Ride. L’avete visto, il maledetto? Robusto è fuori di sé. L’avete visto il mio torturatore? La pagherà cara qui dentro. Lo farò crepare.
10.4.1945
Pensiero di fuga. In fondo al blocco, nella penombra, Dante, con le due bianche file di denti. Ride tranquillo e pensa. Ossessione del piano di evasione. Cunicoli attraversano il sottosuolo. Attacchi a viso aperto. Un uomo incede, tranquillo, attraverso il cancello, è vestito decentemente, non pare un prigioniero. Esce dal cancello, con passo sicuro, la sentinella lo guarda, esita, poi saluta e continua il suo movimento su e giù davanti al cancello. Quale sarà il piano più sicuro? Dante sdraiato nel suo covo. Al suo fianco Corsi, cupo, terreo, saturo di impazienza. Il cesso, il lavatoio. Il tetto della latrina. Sfondare. Sfondare. Il pavimento. Scavare, scavare. Cunicoli percorrono il sottosuolo e sboccano all’aria aperta, improvvisamente, nel sole, in mezzo all’erba. Un uomo esce dal suolo, sporco di polvere, scuote la polvere da sé e sta lì ad ascoltare i cinguettii degli uccelli e il fruscio degli alberi. La libertà! Dante immerso nella penombra, avvolto nelle coperte, con gli occhi sbarrati, scintillanti. Accanto a lui Corsi, muto, atterrito. Come fare? Come fare? Poi di giorno il camminare nervoso per le corsie. Hai trovato del pane? Vuoi vendermi l’orologio? Hai soldi? Non ho soldi. Non ho pane. Non ho nulla. Soltanto fame e rabbia. Desiderio di libertà, di correre libero per la campagna, per le strade. Prenderemo una macchina. La requisiremo. Le scarpe. Già, già, le scarpe. Gli occhi e i denti di Dante scintillano. Si guarda le scarpe. Già. Un ricordo lo ossessiona. Un drappello di prigionieri, in attesa. Vengono due sottufficiali tedeschi! Esaminano le calzature di uno e dell’altro. Tu, scostati, fa vedere! Tu, tu e tu, subito con noi. Dante segue il gruppetto, digrignando i denti. Poi una voce rauca gli ordina di togliersi le scarpe. Egli non capisce, finge di non capire. La voce diventa ancora più minacciosa. Togliersi le scarpe. Ed ora Dante ferma con la fantasia uno due tre tedeschi, li perquisisce, li redarguisce, poi, con un viso diabolico, dà l’ordine di togliersi le scarpe. Corsi è lì fermo, appoggiato a un cartello con le mani sprofondate nelle tasche del pastrano. Furto di tabacco. La prima volta in vita mia. Non ho mai rubato nulla. Questa volta è andata così. Furto di tabacco ai tedeschi: arresto, malattia, ricovero all’ospedale, fuga, nascondigli, arruolamento nella artiglieria antiaerea, nuovo arresto, botte botte, partenza per il campo, blocco D, terzo piano, pericolosi. Fuggire. Fuggire. Mia moglie lontana che mi chiama, mi aspetta, fuggire, fuggire. Incubo delle mura orrende, dei reticolati, delle guardie che passano col fucile ad armacollo. Perché l’ho fatto? Perché l’ho fatto? Conciliabolo nella penombra, la porta della latrina si apre, si richiude. Permesso, permesso. Conciliaboli a due o tre o quattro voci, nell’oscurità del castello piano terra. Brillano gli occhi e i denti di Dante col cappello. Dante ha sempre il cappello in testa verde con l’ala tirata in giù davanti. Ha anche i baffetti alla Menjon, Dante e i suoi denti scintillano sempre in un modo strano,... Il pensiero scava scava, passa attraverso il pavimento, il muri, si apre un varco attraverso ogni ostacolo. Qui bisogna fare qualche cosa. Non si può rimanere.
12-13.4.1945
Disinfestazione del blocco. Trasferimento in altri blocchi insieme ai compagni dell’A B C. Si portano seco i commestibili e una coperta. Trovo posto al blocco A, poi passo all’M, ove si è trasferita tutta la fureria del D. Macchia accompagnato dai ragazzi all’M. Confusione dei blocchi K I G M. Si incontrano gli amici. Visita di Baroncini, Sergio ammalato, Kappler anche. I blocchi A B C D E F disinfestati con gas tossici. Giftgas - Lebensgefährlich. Chi entra muore. Vengono riparati i tetti. Entro in tempo per salvare la roba- Vengono otturati tutti i buchi. Anche le donne sloggiate. Passeggiate promiscue. Verso sera vengono aperti i blocchi da uomini muniti di maschere antigas. Alla sera conoscenza di un compagno bulgaro, professore di chirurgia. Già operaio nel suo paese, poi prof. di pedagogia. Fuoruscito in Italia, studia medicina, assistente all’Università di Bologna. Un epilettico al suolo. Macchia nell’ombra in mezzo a ragazzi che lo ascoltano. Sono stanco. Vado a dormire accanto a Pernechele. Notte inquieta. Mattina. Bisogna spogliarsi e consegnare tutti gli indumenti. Uomini nudi che si avvolgono in una coperta. Poi anche le donne. Si ride. Tutti entrano nei blocchi. La massa dei blocchi D ed E completamente nudi dietro i reticolati. Vedo i vecchi curvi con cinture sul ventre. Il pube viene rasato. Si rientra per la cena. Adunata. Strani abbigliamenti dei seminudi. Di Giovanni di cattivo umore. Trombetti. Rusconi proposto Carletto (?) per le liste degli indigenti, pacchi. Consultazione di Achille. Bucci, Guidetto di Venezia, che aspetta la fiala da Franco. La morte di Roosvelt. Notizie buone.
[...]
15.4.1945
I malati nei loro pagliericci adagiati nei loro pidocchi. Gianni, Zani, il ragazzo deperito di Bologna. La tosse secca di Gianni. Depressione del cranio. Lesioni dei polmoni? Il professore Ferrari viene e cerca il numero 10535. Dov’è? Dov’è? C’è già un malato. Zani è lì, inerte, nella sua coperta. Non è questo. Cerca il numero 10635. Mi mostra un foglietto con su scritto il numero. Si appressa a Zani, gli tasta il polso. Manderò un medico. Zani con la faccia rossa. Spiega i suoi mali. Il ginocchio. C’è acqua nel ginocchio. Bisognerebbe fare un’operazione. Campagnoli con un pezzo di carta in mano. C’è qui uno che sta male. Lo ha visitato Scicolone, gli ha dato questa ricetta. Salicilato di sodio. Un pezzo di carta con su scritte delle parole ingarbugliate e dei numeri. Già, faccio io, silicato di sodio. C’è qui il dottor Campodonico, che deve averne. Gliel’ho data ieri una cartina per due ammalati. Il dottor Campodonico, chiamato, si alza, lungo, sul suo castello. Si china, fruga in qualche posto, poi mi passa il cartoccio. Ecco; faccio a Campagnoli. Ecco il salicilato. Zani è lì che nicchia, sul suo pagliericcio. Ferrari che lo visita. Poggi sbircia dal castello. C’è qui un ragazzo molto malato, deperito. Non posso, non posso, fa Ferrari, sono venuto per l’altro, il numero, e mostra il foglietto, 10635. La tosse secca secca di Gianni, in alto, vicino alla rete. Una tosse gracchiante, stridula, un raspamento di gola. Raschia, raschia, l’intimo male raschia dall’interno, come qualche cosa di vivo, di vitale, di barbaro, che si vuole aprire un passaggio alla luce del sole, qualche cosa di impuro e tremendo, come un essere mostruoso che si divincola nel corpo, nell’anima. Quanti mali covano qui nella penombra dei pagliericci, fra il brulicare degli insetti e dei pensieri. Quante morti raspano raspano dall’interno per aprirsi il varco alla luce. Ognuno ha la sua morte, che ora tace, ora batte, ora raschia un po’ nel suo corpo. Ognuno la ha e la serra in sé, talvolta con esasperata energia, come per serrare un terribile male che non si voglia mai vedere. Ferrari che passa per le corsie in cerca di un male. Numero 10635, il numero di un male, di una morte racchiusa, subdola e tracotante, che si sente già forte e bussa bussa alla porta. È qui. È qui. Deve essere qui. Quante morti origliano, spiano il passaggio del medico, forse temono che egli si soffermi, che le scopra, che le incateni ancora per qualche istante. Ma lui no, è venuto per un morto solo, defunto con un numero. È lì, è lì, si chiama Gianni. Già, già. Percosse sul capo, sul corpo. Partigiano? Capo partigiano? Un corpo pende con il capo all’ingiù, dal soffitto. Parli? Vuoi parlare? Verghe che calano, tagliando l’aria, sulle spalle, sul petto, sulla testa. È Gianni. È Gianni. Quello della tosse. Tutta la notte, tutto il giorno deve tossire. Poi talvolta si alza a sedere, nella sua coperta, e si guarda intorno, con gli occhi piccoli e luccicanti. Ferrari ha in mano una carta. Il numero 10635. Sì. Sì. È questo. Sei tu. Si arrampica, Ferrari, su per il castello, anche lui, come i più giovani. Con un po’ di fatica si arrampica e si affaccia sulla branda, sulla morte numerata che cova lì sulla coperta fra i pidocchi in brulichio di pensieri e di maledizioni. Ed ecco che altre tossi si fanno sentire, or qui or là, tante tossi sottili, prudenti, ma ognuna diversa dall’altra. Già, già, pensa Ferrari, triste. Qui ci sono molti mali da curare. Non si finirebbe mai. Bisognerebbe avere più tempo. Manderò un medico. E il ragazzo di Bologna è lì nell’oscurità, pallido, debole, col bastone al fianco. Non poter mangiare. Non poter mandar giù quel poco di minestra che ci è concessa. Vomito tutto. Non posso mandarla giù, la vomito subito. Non c’è nessuno che mi aiuti ? Nessuno che mi dia ogni tanto un pezzo di pane. Vedete. Io sono finito. Non mi reggo più. Non sto più in piedi. Da ieri sera che non mangio. Datemi qualche cosa, un pezzo di pane. Ma già io lo so, lo so come andrà a finire. Non uscirò vivo di qui. E il volto pallido del ragazzo si rattrista, si incupisce. Ero nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica ndr), ho fatto il mio dovere ma devo crepare, così, perché non posso mangiare la minestra. Il prof. Ferrari passa, torna indietro. Tanti tossettii lo richiamano, si aggrappano a lui, lo roncigliano come mulini. Come si fa? Come si fa? Altri malati gravi lo attendono là, nell’infermeria (altro che attenzione) con la loro morte desta e vitale, in seno. Come fare? Ed egli si stacca, dolorosamente, dai roncigli, si stacca, e sfugge agli sguardi degli ammalati, degli affamati. Dice: manderò uno, e scompare fuori dalla penombra, risucchiato dal giorno, dal sole, dalla libertà. Viene De Chicco in fureria, si avvicina a me, curvo, con le mani in mano, sorridente. Guarda la pagine che sto scrivendo, dice, titubante: "Ecco, io so che tu stai scrivendo qualche cosa". "Sì, faccio io, infatti sto scrivendo". "Un libro?", fa lui, e mi guarda con occhi luccicanti sotto la visiera del berretto. "Sì, un libro, forse". "Un romanzo! - fa lui sicuro - Tu scrivi un romanzo". "Hm, faccio io, forse ne uscirà un romanzo, forse, ma chi lo sa? Scrivo degli appunti". De Chicco tace, guarda a lungo la pagina scritta davanti a me, sulla branda. "Sai - fa poi - volevo dirti una cosa, pregarti di un favore". Esita, poi riprende, "Ecco, vorrei che tu non dimenticassi questo vecchio rudere nel tuo libro". Mi guarda in volto, coi suoi vecchi occhi buoni e scialbi. "Almeno un capitoletto, qualche riga, nel tuo libro, dedicato al vecchio mazziniano di 63 anni, a questo rudere". "Hm, faccio io, non sei un rudere, sei un uomo anziano, ma non un rudere". Egli sorride ancora, ficca una mano in tasca ed estrae dei foglietti. "Ecco, fa, ho scritto delle note, degli appunti, affinché tu non ti dimentichi di me e mi metta nel tuo libro". Poi guarda ancora con amore le pagine scritte. "Scusa, dice, diventando serio. Scusami tanto se ti ho disturbato". E se ne va, lento, curvo, con il berrettino a visiera, con i pantaloni troppo corti e i piedi divaricati. "Sì, penso col lapis in mano guardando i fogli deposti nella branda. Non ti dimenticherò. Ti metterò nel libro, anche te come tanti altri, nel mio libro di ricordi". E così sia.
(...)
16.4.1945
Domenica al campo. Sole, aria, luce. La porta del blocco aperta. Il cancello del recinto aperto. Si va e si viene. C’è la messa? Sì, c’è la messa. Si gioca al calcio. Grida, corse, salti dei giocatori. Poi la partita è finita. Chi ha vinto? Fra poco c’è la messa. Viene il vescovo? Sì, viene lui a dire la messa. Porterà pacchi, qualche cosa da mangiare? Si passeggia, si chiacchiera. Mi faccio sull’uscio dell’ambulatorio. C’è l’unguento? E’ pronto l’unguento? La Bianca non c’è. Ferrari apre la dispensa, poi, scompare di lì, e la porta dell’infermeria resta semiaperta. Vedo i letti dei malati. Vedo quello che hanno portato qui giorni fa dalle celle sulla barella. Ha la faccia piena di lacerazioni, di ferite. Nel letto vicino si muove il col. Andreani, ancora bianco, ancora pallido. Poi torna Ferrari, mi dà la pastiglia, mi dà l’unguento. Arrivederci. Se hai bisogno d’altro. Grazie. Il campo pieno di luce e movimento. L’altoparlante che riversa parole e suoni sui crocchi e sulle discussioni. Vedi come è? Camminare e ascoltare. Hanno letto il giornale. Che ne dici del bollettino? E’ magnifico, oggi. Di’ un po’, dove sono arrivati? Ohé! Ohé! C’è qui il vescovo. E’ entrato nell’infermeria, insieme col maresciallo. Davanti al muro dei blocchi si sta completando l’addobbo dell’altare. Semplice, con vasetti di fiori di melo. Una grande emme sopra la croce. Il prof. Pirelli affaccendato. Il prete gobbo affaccendato. Su e giù dal podio. Un altro vecchietto dalle gambe molli. Mette qualcosa sull’altare. Ha i capelli bianchi, il capo coperto e un berrettone da montagna. Si vede che fa fatica a salire il gradino. Poi esce il vescovo da una porticina. Il maresciallo, accigliato, alla sua sinistra. Altri preti, tutti con la barba. Mi piace la barba dei preti. Anche quella del vescovo. Lui fende la folla con la benedizione tesa della mano inanellata. Fende la folla e arriva davanti all’altare. La messa al campo di concentramento, detta dal vescovo. Io dietro alla folla, con Bini. Bini senza berretto. Strano, dico, mi sembri diverso, così, senza berretto. Non ti ho mai visto così. Lui sorride col dente d’oro accanto agli altri denti bianchi. Ha anche un dente che sporge giù, acuto, più lungo degli altri. Lui sorride sta al mio fianco, Bini, col capo scoperto. "Ci sarà uno sposalizio, dice, fra l’americano e la contessa". "No, dice uno, non ci sarà. Dapprima i tedeschi hanno dato il permesso, poi lo hanno ritirato. No, gli hanno detto, alla contessa, qui c’è una manovra. Così diventeresti americana. Questo non va. E così hanno ritirato il permesso". "E allora, interviene un altro, curioso, per questo il matrimonio non avverrà, anche se c’è qui il vescovo?" "No, fa l’altro, allora no. Se loro non vogliono, neanche il vescovo può maritarli, perché qui comandano loro, c’è poco da sfottere". "Però, commenta un altro, furba quella contessa. Io ci ho i soldi, pensa lei. Se resto italiana poi vengono i comunisti e me li tolgono. Invece mi sposo, divento americana e così nessuno mi può far niente. Non è così? Deve essere una furbona, quella lì. È tutto un calcolo. I signori sono così. Pur di salvare i soldi sono capaci di vendere anche l’anima". Il vescovo manovra davanti all’altare. Anche gli altri preti si girano, prendono questo, prendono quello, si vede che stanno facendo una cosa molto importante. Poi uno di loro, con la barba brizzolata, tira fuori un gran cappellone. Lo dà al vescovo e questi se lo mette in testa sopra il berretto. "Strano - fa uno, vicino a noi - ha il berretto e si mette anche il cappello". Il vescovo continua a muoversi, ad agitarsi, poi si volta, col cappellone in testa, e comincia il discorso. Ha gli occhiali, lui, oltre alla barba. Si vede che deve essere un vescovo intelligente. Parlando la barba si muove all’inizio e in mezzo al nero della barba si vede il bianco dei denti. "È un vescovo in gamba - fa uno, sottovoce - parla bene". "Zitto!" lo redarguiscono i suoi vicini. "Non senti che parla? Lascialo dire". Bini mastica, accanto a me. Guarda il vescovo a capo scoperto e mastica. Si vede che ha messo in bocca qualche cosa, mentre io guardavo le manovre del vescovo. Ma lui è un buon compagno. Tira fuori la mano di tasca e mi porge qualche cosa. Non dice nulla. Guarda il vescovo, mi mette in mano un pezzo di pane e mastica. Io prendo il pane, lo guardo, lo metto in bocca anch’io e mastico. Guardando il vescovo. Questi parla intanto, a noi, della bontà del Signore. (...)
[...]
(terzo quaderno)
20.4.1945
Nuovi arrivi da Novara, in torpedone. Nel recinto davanti al blocco. Tutti dentro nel blocco. I barbieri al lavoro. Zac, zac, zac. Teste tonde escono dalle mani dei barbieri. Il capocampo affaccendato. Su e giù per il campo. Allarme. Scappare nel recinto. Bini corre via. Vado a prendere l’acqua col tegamino. Nel blocco H con Bini, seduto su una cassa. Si discute di cose gravi! Io col dito nell’acqua bollente. Viene Costanzo, il piccolo buon gobbo. Begli occhi buoni. La mano tesa sudata. Scusa ma devo parlare qui con Bini. Gente assiepata alla porta. Vengono gli aerei. Pim, pum, pam, bombardamenti. Si vedono le scie di fumo. Schegge contro i muri. I nuovi arrivati assiepati nel blocco. Poggi con la schiera degli interpreti seduti intorno alla tavola. Interrogatori; compilazione dei moduli. Macchia chiuso nella sua penombra, col bastone in mano e la gamba bianca, fasciata. Giornata di sole. Il giro lento dei prigionieri delle celle. Meneghetti con gli occhiali spessi, grande, con la barba grigia. Conosco Alfi giovane, ferito, col pizzo rosso. Si cammina, si parla. Viene Tazzari, magro, nero, piccolo, buono. Sorride e parla anche lui. Parliamo in tre di quelli delle celle. Pane, denaro, assistenza. Si fa, si riesce. Non hanno bisogno di nulla. Mi chiamano. Da un’altra parte mi chiamano. Vedo la Bianca che parla con la dottoressa. Vorrei qualche purgante e dei cachet per il mal di testa. Sì, vengo subito, vado un momento al blocco A. Otto in un crocchio di gente. De Pellegrini con la faccia rossa. Ho una cosa importante, grave da dirti. Ma non ho tempo, devo andare in un posto. Più tardi, se vuoi. Zanini che gira con le lunghe gambe snelle. Sorride amabilmente. Appare il prof. Ferrari sulla soglia dell’infermeria. Alfi con la Jole. Si vogliono bene. Lui fermo fra me e Tazzari, che mi racconta le sue vicende. Assalto alla caserma. Una bomba lanciata. Torna indietro, chissà perché. Scoppio. Schegge contro il petto, contro le gambe, contro le braccia. Un uomo cade, crolla per terra. Alfi mi guarda con occhi buoni. I miei volevano ... per non lasciarmi cadere nelle mani dei tedeschi. Passa la Maria, passa la Wanda. La Melloni con gli occhiali. Non mi riconosci? Ah, sei il tale. Non ti riconoscevo. E questa la riconosci? Sì, è la Sergia. Gruppi di operai rientrano, sudati, stanchi. Di Giovanni fermo vicino al cancello, con un foglio in mano. Vuol parlare con la cognata. La tosse secca di Gianni, dal suo lontano giaciglio. Il consigliere si arrampica su per i castelli. Sei malato? Ti occorre qualche cosa? Hai pane?
21.4.1945
(...) Gianfranceschi. Nero, piccolo, macilento. Una triste misera immagine. Mi hanno preso a La Spezia e mi hanno accusato di terrorismo. Tu sei del Comitato, mi hanno detto. Ma che cosa è questo comitato? Non ne avevo mai sentito parlare. Ho dovuto ammettere, infine, per evitare il peggio. Una figura triste, tremendamente pietosa. Il cappellino marron sgualcito, strappato. Era quasi nuovo, dice, mi hanno preso tutto per la disinfestazione. Tutto nell’autoclave, anche il cappello. Povero, nocchiuto. Alla doccia un corpo scheletrito, spaventoso, spruzzato dai getti d’acqua calda, in mezzo ad altri corpi magri, goffi. Gira fra i castelli, guarda intorno, in cerca di qualcuno, di protezione. Nessuno gli parla, nessuno gli si avvicina. All’ora del rancio la sua voce esasperata, supplichevole. Sono rimasto senza gavetta, senza cucchiaio. Il capoblocco si arrabbia. Fattela prestare da un altro, come fanno i tuoi compagni. Come fare? Nessuno vuole prestarmi la sua gavetta, nessuno vuol darmi il suo cucchiaio. Perché sono malato. Hanno paura di darmelo. Tumulto di corpi, di avidità, di attesa intorno alla marmitta fumante. Pianegonda, alto, col mestolo in mano. Serena seduto in alto, sul banco, chiama i numeri, ad alta voce. Tocca a me. A me, a me. Rumore di gavette, di cucchiai, di zoccoli. E in mezzo al tumulto la piccola figura di Gianfranceschi che cerca una gavetta. Potrà mangiare? Chi gli presterà la gavetta? Deperimento organico, tubercolosi. Sono affranto. Non ne posso più. Mi hanno preso così, per la strada, mentre andavo al lavoro. Sei un terrorista, hanno detto, e io me ne andavo al lavoro, per guadagnarmi un tozzo di pane, per me e per i miei. Sei del comitato, hanno detto, ed ora sono qui pieno di fame e di debolezza, e non posso mangiare perché nessuno mi presta la gavetta. Nessuno! Nessuno!
22.4.1945
Ieri all’ora dell’adunata serale. Il fischio. Qualcuno sulla porta, con le mani in tasca. Adunata! Adunata! Fuori! Fuori! La voce del furiere. Scalpiccio di passi. Rumore di gavette. Flemmaticamente si esce, nel sole fiacco del tramonto. Le prime file si formano, lente, indolenti. A posto! Allinearsi! Crocchi si formano davanti alla porta. Colloqui frettolosi fra blocco e blocco, attraverso la rete. La guardia trentina col bastoncino in mano. Presto! A posto! Los! Los! Qualcuno mi chiama alla porta. C’è Gianni che muore. Non ne può più. Non sappiamo che cosa farci. Rientro, contro corrente, nella penombra del blocco. È quasi vuoto. Attraverso la corsia. Lassù Brambilla e un altro, in piedi, da una parte e dall’altra del pagliericcio di Gianni. Mi arrampico. Contorsioni dolorose del malato. I due lo tengono. Tosse, tosse; tosse secca, aspra, tenace. Ha avuto catarro, dice uno. Gianni sputa sul fazzoletto. Bisogna chiamare il medico. Al più presto. Di fuori le grida dei capiblocco, di Hans. A posto. Blocco D! Blocco E! Allinearsi. Dentro il vuoto vasto del capannone, intorno e sopra le contorsioni di Gianni che si divincola nelle mani di Brambilla e dell’altro. Brambilla con la giacca grigio-verde della X Mas. Discendo in fretta. Un piede sulla tavola, uno sulla panca. Esco dalla penombra del blocco. Le file sono in ordine. Di Giovanni che parla con Lagari, la guardia. Esco dal recinto ed entro in infermeria. La Bianca che mangia seduta al tavolino. Ferrari in fondo. Vengo! Vengo subito! Poco dopo, nel blocco, Ferrari attraversa la penombra, bianco nella tuta di canapa, colla croce rossa sul braccio. Capelli grigi. Si arrampica fino alla branda di Gianni. Fuori si gridano comandi. Poi si ode un discorso del capocampo. - Come va Gianni? Ferrari in ginocchio vicino al suo pagliericcio. Brambilla in piedi con le mani sui fianchi. Gianni seduto, il viso sconvolto. Prende il fazzoletto e ci sputa sopra. Catarro. Catarro. Soltanto catarro. Da quando mi hanno arrestato sono ridotto in queste condizioni. Mi hanno pestato. Me ne hanno date. Poi mi hanno buttato in cella. Dovevano trasferirmi all’ospedale, ma uno è scappato di lì e allora niente. Puoi crepare qui, ma noi non ti ricoveriamo. Lesioni al polmone sinistro. Compressione del cranio. La tosse secca, aspra, tenace. Ferrari chino sul dorso nudo di Gianni. Ascolta, attentamente ascolta la voce della sua interiore esistenza, del suo mistero. Tossisci! Tossisci e respira! Poi batte con le nocche delle dita. Bussa cautamente all’uscio della sua morte, origlia e bussa ancora. Poi tace e riflette. La tosse di Gianni. I volti attenti dei compagni. Io aggrappato al castello, sporgente con la testa al livello dell’ultimo piano. Qualche passo randagio nel vuoto del blocco. Le voci lontane, fuori, del capocampo, del maresciallo. Parole tedesche, parole italiane. Qui dentro la morte accovacciata, in agguato, nel corpo di Gianni, e il dottore chino ad origliare, a spiare ogni sua mossa, ogni suo tremito. Sopravviverà? Resisterà ancora? Ognuno ha in sé la sua morte, fatta a sua immagine, che cova in lui e attende il momento di sollevarsi. Ferrari serio, pensieroso, con lo stetoscopio in mano. Poi ricopre il dorso del malato. Ti manderò delle gocce. Speriamo. Speriamo. Te le porterà P. Discendiamo nella corsia. Usciamo dal blocco. Dietro di noi la morte in agguato, chiusa ancora nel petto di Gianni. Mentre il capocampo dà l’attenti, cappello su! Attenzione! Blocco D, attenti, riposo, attenti! Cappelli giù! La distribuzione dei pacchi. Il romeno seduto sulla tavola, all’aperto, con uno strano taglio di capelli. È stato alla porta, dice, andando al lavoro. C’era il tedesco che ci guardava. Tu, tu, tu, i capelli troppo lunghi. Tagliare! Tagliare! E allora uno veniva e con la macchinetta ci tagliava una striscia di capelli in mezzo alla testa, così, come a me. Sembra un bizzarro tipo umano, non ancora scoperto, con due ciuffi laterali di capelli. Viene avanti Verona, lo zoppo, anche lui con una striscia rasa sul capo dalla fronte alla nuca. "Ho visto una volta delle scimmie - dice Giorgio - in un giardino zoologico, che avevano anche loro dei ciuffi di capelli; ai lati, come questi qui". "Ah! Ah! - ride un altro - Non c’è da meravigliarsi. Non discendiamo dalle scimmie, noi? Dunque, questi qui discendono dalle scimmie coi due ciuffi". "Siamo ridicoli - fa il romeno, cupo - Non basta loro tenerci qui, di farci patire, bisogna anche che ci rendano ridicoli". "È proprio così - fa un altro, avvicinandosi - Vogliono umiliarci. Siamo degli arnesi, noi, dei numeri, non siamo più degli uomini". "Io però - fa il romeno - a loro non farò così. Non mi accontenterò di tagliare loro i capelli, così. La pelle tirerò loro via. Una striscia di pelle. Li scotennerò. Così farò". E fa il gesto di uno che incida la pelle della fronte e la tiri violentemente in su. "Così è - osserva un vecchio, soffermatosi ad ascoltare - È così che si scatena l’odio della gente. Cominciano gli uni, poi gli altri vogliono vendicarsi". "Però - dice lo zoppo - noi italiani non faremo mai niente. Siamo capaci di chiacchierare, di urlare, poi in pratica non sappiamo fare male a nessuno. Poveretto, siamo pronti a dire, se uno ha preso uno schiaffo. E così non combineremo mai nulla". Il romeno è lì seduto al sole colla sua strana testa grottesca. Ha gli occhi cerulei, le sopracciglia bionde, quasi invisibili. "Però - dice - io non sono italiano. Quello io glielo farò, domani. E per dio se glielo farò".
24.4.1945
Davanti alla porta dell’infermeria. Il medico tedesco, in camice bianco, affaccendato. Roseo, capelli biondi ricciuti. Macchia fermo col bastone. La gamba destra fasciata. Ecco qui, dottore, quello della gamba, quello del miracolo. Ah, ah! So, so. È stato proprio un miracolo. Facce patite, magre, macilente, guardano timidamente ed ascoltano. Il medico scompare. Macchia scompare. La porta si chiude dietro di loro. Viene avanti un gruppetto di miseri. Un uomo ammantato da una coperta, dalla faccia magra e pallida, le labbra tremanti. È vecchio. Le gambe chiazzate da macchie e da piaghe. Giallo, rosa, violetto. Una strana mescolanza di colori in quelle orride piaghe. "È lebbra" mormora uno che è lì a curiosare. "Macché lebbra. È scabbia" - osserva un altro. "Quella scabbia?" chiede un terzo, inorridito, e si allontana immediatamente. L’uomo è sorretto da un compagno e balbetta qualche cosa a coloro che lo osservano. Più in là c’è un gruppo di nuovi arrivati, tutti avvolti nelle coperte, completamente nudi sotto le coperte. Tremanti. Un medico sposta le coperte e osserva i peli del pube, spostandoli con una pinza. Poi il barbiere taglia con la macchinetta. Per terra ciuffetti di peli si spostano ogni tanto ad ogni colpo di vento. "C’è qui uno di Verona" dice Meneghetti. "L’avvocato Pollorini". E mi indica un essere curvo e contorto, avvolto nella coperta, una lugubre grottesca apparizione. "Questo è l’avvocato Pollorini, un liberale del C. (Comitato di Liberazione Nazionale ndr) di Verona". Gli rivolge la parola. Ah, ah, fa lui, con un balbettio. È un avvocato ma non un parlatore. Gli si incespica la lingua. È un po’ balbuziente. Mi tende la mano sotto la coperta. Piacere, piacere, dice, e parlando mostra una forte e lunga dentatura cavallina. Le gambe magre gli spuntano di sotto le coperte. Anche a lui osservano il pelo, in cerca di uova di pidocchi. Anche a lui tagliano i peli. E anche i suoi peli se ne vanno nell’aria, portati dal vento. Si avvicina Caleffi. "Ci sono due donne - dice - due donne di Verona". Ci avviciniamo alla rete. Di là confusione di panni appesi, di gruppi di ragazze, un bambino che gioca con una ragazzina. Eccole! Eccole! Questa è la Menesco. Le tendiamo la mano attraverso il reticolato. Un’altra donna che non conosco. "Come va? Mi riconosci?" Non si ricorda. Le do particolari. "Ti ricordi quel giorno, in case del tale, sei venuto a cercarmi, siamo usciti nel corridoio". "Ah, sì, mi ricordo, mi ricordo". Giordano occhialuto, allegro, parla animatamente attraverso la rete. "Marusca? Marusca?" Nello sfondo vedo la Jole, seria, semplice, più bella nella sua tristezza. Padre e madre sepolti nelle macerie. Una orfana. Un crocchio intorno a Macchia. Roncoletta con le mani in tasca, la faccia grassa, untuosa. Guardano un gruppo dei nuovi arrivati, nel recinto delle donne. Presso il cancello tre nuovi prigionieri di guerra. Americani? Sì, americani. Grandi, atletici, parlano col fidanzato della contessa. "Li hanno rasati tutti quanti. Scoppiavano dalla bile. Erano rossi come tacchini". "Strano - fa uno - non dovrebbero tosarli, loro. Sono prigionieri di guerra". "E che importa? - osserva un altro - Perché non dovrebbero? Sempre li tosano, i prigionieri. È questione di igiene". "Nell’armata rossa tosano tutti i soldati" fa un altro. "Sì - osserva Macchia - e non solo nell’armata. Mi sono trovato a certi congressi dove vedevi delle teste lucide, completamente rasate col rasoio. E si trattava di giovani di vent’anni, anche". Il capocampo che passa di corsa in mezzo al campo, seguito da un codazzo di gente. Scompare in un blocco. Sulla soglia si assiepano dei prigionieri. "Cercano un ladro" fa uno. "Chissà se lo troveranno". La voce dell’altoparlante: "Capoblocco H! Capoblocco H! In ufficio. Subito in ufficio". Un gruppo di nuovi venuti, aspettanti, vicino al muro. Hanno buttato per terra i loro fagotti e si guardano intorno, diffidenti. Un altro gruppo di denudati avvolti nelle coperte aspetta esitante davanti al bagno. Meneghetti si avvicina a Pollorini. Hai mangiato? Hai fame? Vuoi del pane? Ti porto un uovo e un po’ di pane. Pollorini si ribella. È magro, macilento, curvato dal patimento e dalla fame, ma si rifiuta energicamente. No, dice, non ho bisogno di nulla. Sulla porta dell’infermeria, isolato da tutti, attende il pseudolebbroso sulle gambe tremanti. Ha qualche cosa di giallognolo nel fondo degli occhi. Geme fra sé e sé. È un uomo finito. Attende da tanto tempo che si apra l’uscio dell’infermeria. Dietro di lui si snoda la fila degli ammalati. Laggiù è cominciata la processione dei prigionieri delle celle. Il maresciallo delle celle col bastoncino in mano. Tocca ogni tanto un prigioniero, non si sa se per scherzo o sul serio. In cima al mucchio di legna Roncoletta a torso nudo che prende il sole. Più in là la segheria. Brenzoni (?), il socialista che sega un ramo d’albero. Un crocchio di gente nel sole. Si discute di alta filosofia. Poggi centro della discussione. Dovete pensare, egregi signori, che è così, così e così, come vi dico io. Odino vorrebbe interloquire, ma è rauco. "Mi dispiace - fa – vorrei dire io la mia opinione, ma non ho voce. È proprio un peccato". Risuona, alta, la voce di Poggi, mentre lì vicino stride la sega. "L’anima dunque sarebbe un effluvio della materia? - fa ironico - Proprio così come la puzza che esce dalla latrina?" Una risata oscena accoglie le sue parole. Nella garitta sta la guardia trentina. È ferma con una mano appoggiata a un ginocchio e l’altra al moschetto. Guarda giù, sui prigionieri delle celle, che camminano conversando fra di loro. In coda le donne, la dottoressa e altre donne giovani. Anche colei che Di Giovanni chiama la figlia di Mascagni. Lontano la voce dell’altoparlante. "Capocampo! Capocampo! Subito in ufficio! Capocampo! Capocampo!" Dei visi restano sospesi, assorti, ad ascoltare quella voce. "È la voce di Hagen" dice uno "del maresciallo". "No - fa un altro - non mi pare la sua voce. Dev’essere quella del sergente zoppo". "Che bella gente - osserva un altro, ficcandosi le mani in tasca - abbiamo un sergente zoppo e un maresciallo mutilato di una gamba. Poi c’è un tenente con un occhio di vetro. Che bella gente i nostri custodi". Una barella passa davanti al magazzino e scompare nella porta dell’infermeria. (...)
25.4.1945
Le chiacchiere di B. Don Piola è venuto al campo, ha chiesto una lista doppia di tutti i prigionieri. C’è fuori la Croce Rossa internazionale. Ci riserba una grande sorpresa. Sarà vero? Che cosa sarà? Crocchi che parlano della guerra, di Hitler a Berlino, dei polli in cucina, delle tagliatelle. Fuori il sole splende. I nuovi venuti indugianti davanti al blocco. In fureria Veronesi davanti al fornello. Giorgio compila un modulo. Ti chiami? Professione? Un uomo curvo, cupo, dalla barba grigia di una settimana, con gli occhiali. Già condannato? Come? Ah, sì, una volta. Espressione d’imbarazzo. Giorgio che guarda, un po’ cinico, con la pipa in bocca. Perché? Per appropriazione indebita, a tre anni. È un uomo che ha girato i mari. Italia - America, America - Italia. Un essere torvo, ambiguo. C’è da diffidare. Via vai di gente per il blocco aerato. Hanno schiodato la porta del cesso. Il consigliere sul banco. Blocco D, attenzione! È proibito fare uso del gabinetto. Il tubo è ingorgato. I propri bisogni si fanno fuori. Bisogna tener duro durante l’allarme. Nessuno deve entrare. Un mucchio di radicchi sul banco. Giorgio che li cerne e li getta nella pentola. Roncoletta pensa ai manicaretti che vuol preparare. Oggi grande menù. In cucina hanno portato 170 polli. Fra poco ci porteranno la minestra di tagliatelle. Meneghetti entra, alto e severo, col prof. Pardi: De Chicco si sbarbifica in fondo alla corsia, davanti alla sua branda. Sta un po’ meglio. Nefrite. Però l’occhio si è un po’ sgonfiato. Ci vuole latte. Latte e pane bianco. De Chicco con la benda sull’occhio. Traballante, curvo, marca visita. Non può andare al lavoro. Anche per l’età.
26-27-28.4. 1945
Andare a letto con la febbre. Dormire oppresso da un incubo profondo. Sono malato. Il fischio della sveglia. Una, due, tre volte. Animarsi lento dei corpi. Questa mattina marco visita. Roncoletta immobile sul banco, sommerso nelle coperte. Lo scopino con una gavetta in mano. Un’altra gavetta. Sciamare di corpi, strisciare di passi. In colonna davanti alla marmitta del caffè. Ombre oscure, spettrali. Blocco D, luce. Una voce, un’altra voce. Blocco D, luce al Blocco C. Un’ombra spettrale scende dall’alto, passa silenziosa intorno a me. Tric, tric! Ecco la luce al blocco D. Tric, tric! Ecco la luce al blocco E. Roncoletta con le mutande in mano. Un fischio, un altro fischio. Adunata. R. beve mezzo assonnato il caffè. Qualcuno esce. Sono malato e marco visita. E resto a letto tutta la giornata.
Poi viene il medico, alto, gentile, barbuto, mi tasta il polso, mi sorride. Poi viene tizio, viene Caio. E io sono malato, e resto sdraiato nella branda, sotto le coperte, mentre intorno si svolge la vita di ogni giorno. La ridda delle notizie. C’è la pace. Non c’è...
29.4.1945
Di Giovanni viene avanti in mezzo a un crocchio di compagni esitanti e curiosi. Mi prende per un braccio. Una cosa importantissima! Il campo è stato ceduto alla croce rossa. Da ora in poi non ci saranno più i tedeschi, ma la croce rossa. Sfuggiamo alla ressa. Blocco D! Blocco E! Adunata. Che c’è? Che non c’è? Ma sì, ma sì, si comincia dai blocchi dei pericolosi. Ma come, ma perché? Crocchi di ragazzi. Accorrere di curiosi. Gente che grida (spenta la luce dell’allarme). Andiamo! Andiamo! Chiamate dei primi centoquaranta. Riunione del C.L. (Comitato di Liberazione ndr) Riunione del Consiglio di C. (Consiglio di Campo ndr) per le 13. Rimescolio del sangue in tutti. Andare e venire per il campo. Dov’è il tale? Dov’è il tal’altro? Andiamo al comando! Bisogna parlar chiaro. Macchia col bastone. Sì, sì, dovete esigere questo, questo e questo. Manunta in infermeria. I tesserini coi triangoli. Un pochi a te, un pochi a te. La Ada con la testa avvolta nel drappo. Nella cameretta accanto Guidetti con il finto tifo. Dovrò andarmene a Merano. Desolato, senza parole, con poche parole di biasimo. Accanto il lettino di uno sconosciuto. Contagioso. Poggi col bastone. Vieni! Vieni! Ecco qui, ci siete tutti, ora fate il C.L.N. Ma no! Ma no! Andiamo in fondo al campo, dietro la legnaia. Tonetti alto, che ha parlato con Hagen. Niente paura. I fascisti saranno mandati via. Anch’io di nuovo da lui; ecc. ecc. Ora siamo ancora nel blocco. Partiremo domani. Ci sarà la pace. Fra poco è il primo maggio.
30.4.1945
Si partirà oggi? Chiamata dei blocchi D e E. Formazione di gruppi. Per Venezia, per Milano, mezzi propri. I camions si riempiono al di là dello steccato. Hagen con Hans e Werner affaccendati per chiamare o respingere. Il gruppo dei Veronesi. Io e Piero già fra i partenti. Le donne tagliate fuori.
Torniamo indietro. Il rancio. Mangiamo chi da una parte, chi da un’altra. Si partirà oggi? Il gruppo di Tonetti riesce a uscire. Hans li accompagna. Altri tesserini del C.L. La Ada seduta davanti a un gruppo. Fammi per favore la firma! Roncoletta seduto in mezzo a quelli dei "mezzi propri". Maledizioni, ansia attesa. Assembramento davanti all’uscita. Hans che grida. Non si esce da questa parte. Gente che si fa strada fra i reticolati. Grida di protesta. Indietro! Indietro! Non fateli passare. Hagen che apre il cancello. Furia dell’urto della massa impaziente. Si richiude il cancello. Hans col cappello verde. Indietro di cinque metri. Altrimenti non si parte. Il comandante ha trovato i blocchi indecenti. Pulirli subito, altrimenti non si parte. Volonterosi che salgono sui castelli. Buttano giù tutto. Si scopa. Si portano via le coperte. Poi di nuovo l’attesa bestiale, davanti al cancello, nella pioggia. Io, sdraiato sulla branda di Di Giovanni, la sera, nel blocco chiuso. Tumulto di voci. Anarchia. Pardi dorme di sopra. Nella notte arrivano 12 compagni.
1.5.1945
Parto coi primi...
da www.deportati.it