Documenti dell'ANED di Milano

Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano

Una tragedia italiana in 7.982 storie individuali

 

di Dario Venegoni

 

A Italo Tibaldi,

che da 50 anni lavora per dare un nome ai deportati italiani.

 

Ringraziamenti

 

Questa ricerca non sarebbe stata possibile senza la collaborazione attiva di una pluralità di forze. Vorrei ringraziare innanzitutto Italo Tibaldi, superstite di Mauthausen-Ebensee, che non solo mi ha messo a disposizione i suoi elenchi, frutto di decenni di ricerche, ma ha seguito da vicino questo lavoro, sempre prodigo di consigli e di aiuti concreti. Con lui vorrei ringraziare Luciano Happacher, autore nel 1979 di una ricerca che è rimasta per decenni un punto di riferimento essenziale per comprendere il Lager e la sua vita. Considero questa mia ricerca un tardivo proseguimento di quella sua di allora. Vorrei dire ai tanti superstiti del campo, che ho disturbato a tutte le ore del giorno con le mie richieste petulanti, che sono fiero di avere avuto la possibilità di avere questo contatto con loro. E alle decine di figli e di nipoti di deportati in via Resia che mi hanno scritto o telefonato che non è tardi – e questo lavoro forse lo dimostra – per cercare di ricostruire le vicende dei nostri padri e madri, zii e nonni vittime del Lager, raccogliendo documenti, testimonianze e racconti di testimoni. Sono grato alla Fondazione Memoria della deportazione-Biblioteca Archivio Pina e Aldo Ravelli, di aver fatto suo questo mio progetto di ricerca; a Susanna Massari, Elena Gnagnetti e Vanessa Matta di avermi messo nelle condizioni di realizzarlo. E a Enzo Collotti per avermi consigliato e ascoltato con pazienza, seguendo i progressi di questo lavoro. Un grazie di cuore alle Sezioni dell’ANED di Milano, Roma, Verona, Schio, Torino, Genova, La Spezia, Savona-Imperia, Bologna, Imola, Cormons e dell’Umbria che mi hanno aperto i loro archivi, autentica miniera di informazioni sulla deportazione italiana. Sono inoltre debitore nei confronti di Maria Antonietta Arrigoni e Marco Savini, per avermi fatto conoscere in anteprima i risultati del loro lavoro di ricerca sui deportati della provincia di Pavia, e a Giuseppe Valota e Giuseppe Vignati per avermi segnalato i deportati a Bolzano presenti nella loro ricerca sui lavoratori del circondario di Sesto San Giovanni portati nei Lager nazisti. E ad Aldo Pavia, presidente della Sezione di Roma, che per mesi non si è stancato di segnalarmi nomi, indirizzi e documenti. Un ringraziamento per la collaborazione a tutto il progetto va al Comune di Bolzano, al sindaco avv. Giovanni Salghetti Drioli, all’assessore alla Cultura Sandro Repetto, a Ermanno Filippi, direttore del Servizio Archivio Storico e a Carla Giacomozzi. Un saluto affettuoso lo devo a Lionello Bertoldi, instancabile presidente dell’ANPI di Bolzano, che fin dall’inizio ha fatto suo questo progetto, collaborando con infiniti spunti e suggerimenti, insieme allo staff di storici e ricercatori riuniti accanto a lui: Andrea Felis, Giorgio Mezzalira e Cinzia Villani, che mi hanno aiutato dall’alto della loro esperienza. Non posso dimenticare inoltre Sabrina Giolitto, che ha condotto per me una ricerca all’Archivio di stato di Torino, trovando molte importanti informazioni. Un ringraziamento affettuoso anche a Padre Celestino, della Curia provinciale dei Cappuccini di Mestre; a Liliana Picciotto del Cdec; a Luigi Borgomaneri, della Fondazione Isec; a Brunello Mantelli, dell’Università di Torino; a Mario Renosio della Biblioteca Istituto di storia della Resistenza di Asti; a Stefano Icardi, che si è impegnato in una ricerca “sul campo” sui rastrellati di Rocchetta Tanaro; a Fiammetta Auciello e Michele Dean dell’ASMI; a Lucia Zannino della Fondazione Lisli e Lelio Basso-Issoco; al personale dell’Archivio Storico di Trento; ai Comuni di Asiago, Calolziocorte e Tambre; a Nadia Torchia, Lucio Monaco, Gianni Ferro, Pietro Ramella, Gabriella Turra, Alessandro Ferioli, Fioravante Stell, Enzo Galletti e Vladimiro Felletti. Devo infinita riconoscenza infine ad Alessandra Lombardi, Marina Venegoni, Giuseppe Arfinetti e Fabiana Ponti: senza il loro aiuto concreto non sarei mai riuscito a condurre in porto questo lavoro. Degli errori, delle inesattezze e delle omissioni di questo libro, nonostante tutti questi aiuti, rimango io l’unico responsabile.

d.v.

Prefazione alla seconda edizione

 

Questa seconda edizione esce quasi esattamente a un anno di distanza dalla prima. La pubblicazione di questa ricerca, nel giugno 2004, ha suscitato un diffuso interesse attorno a un lager nazista di cui troppo poco si è parlato e scritto. Sollecitati da questa indagine, si sono fatti vivi decine di superstiti e di familiari di ex deportati nel campo, segnalando nuovi nomi, suggerendo correzioni, integrazioni e cancellazioni alla lista dei deportati. Il nuovo elenco che proponiamo ai lettori contiene così 7.982 nomi, 173 in più rispetto alla prima edizione. Questa cifra è il risultato di numerosissime aggiunte e anche di una ventina di cancellature: grazie alle nuove ricerche siamo riusciti ad accertare per esempio che alcune schede si riferivano alla stessa persona, in un caso indicata con le proprie vere generalità, e in un altro con il nome “di battaglia”, quello falso, di copertura, usato nella guerra partigiana. Un paio di donne erano in precedenza registrate sia con il proprio cognome che con quello del marito. Un frate era annotato sia col proprio nome di battesimo che con l’identità scelta nell’attività religiosa. Quasi 200 sono le schede aggiunte. La prima segnalazione di un nome che mancava a questo elenco è giunta il 15 giugno 2004, il giorno stesso della presentazione ufficiale della ricerca, a Bolzano. In quella occasione si presentò nella sala del convegno Maria Simoncioni, una donna che era stata qualche settimana nel campo tra il settembre e l’ottobre 1944. A testimonianza inequivocabile della sua condizione di ex deportata, portò gli originali del suo triangolo rosso e dell’ordine di rilascio firmato dal responsabile del campo, Karl Titho. Non ho trovato né prima né poi alcuna altra fonte che parlasse della sua deportazione, sulla quale peraltro non possono esserci dubbi. Da allora non è passata settimana, si può dire, senza una nuova segnalazione. In alcune centinaia di casi grazie alle testimonianze dei diretti interessati o ai documenti forniti dai familiari abbiamo potuto aggiungere alle schede esistenti molti particolari nuovi: la data di nascita, o la data e le circostanze dell’arresto o altre informazioni ancora che consentono di precisare meglio i contorni di quei ritratti essenziali che sono le schede individuali di questo libro. Rispetto alla prima edizione, conosciamo, per esempio, la data di nascita di circa 500 persone in più. Questa nuova edizione è il frutto di un lavoro che la pubblicazione del libro, un anno fa, non ha certo interrotto. Di questa attività vogliamo qui dare conto solo per un caso, che ci sta particolarmente a cuore: quello di Anna Azzali, deportata insieme al marito Luigi (poi trasferito a Mauthausen e ucciso a Gusen). Anna Azzali, come avevamo scritto nella prima edizione, era incinta di 7 mesi ai primi di dicembre. Così risultava da un biglietto clandestino giunto fino a noi con il quale Ada Buffulini chiedeva a Ferdinando Visco Gilardi, che da fuori organizzava il comitato di assistenza ai deportati, di inviarle un pacco di viveri “almeno una volta alla settimana”, “ perché è incinta di 7 mesi, molto deperita e ha assoluto bisogno di nutrirsi”. Di più non eravamo riusciti a sapere, se non che in effetti il nome di questa donna figurava nell’elenco dei deportati “assistiti” dal comitato di Visco Gilardi, segno che l’appello di Ada Buffulini era stato raccolto. Nonostante le indagini, altro non abbiamo trovato per mesi e mesi. Fino a che, in vista di questa seconda edizione, non abbiamo deciso di tentare l’impossibile, chiamando tutti gli Azzali dell’elenco telefonico, alla ricerca di qualche familiare. Il tentativo è stato fortunato. Nel marzo 2005 abbiamo rintracciato la stessa Anna Rossi Azzali, 94 anni compiuti il 30 novembre 2004, e abbiamo così potuto riassumerne la storia personale nella scheda a lei dedicata. La signora ricorda bene quei mesi a Bolzano, e conserva in una cornicetta il suo triangolo rosso di partigiana deportata, con il suo numero di matricola di Bolzano. Anche il suo dramma meritava di essere raccontato, e oggi finalmente possiamo farlo. Quanto abbiamo scoperto in quest’ultimo anno aggiunge insomma molti nitidi dettagli al quadro che avevamo delineato nella prima edizione di questo studio. E conferma in pieno quanto scritto allora sul ruolo essenziale che il Lager di Bolzano ricoprì all’interno della macchina nazista dello sterminio. A distanza di 60 anni dalla fine della guerra, resta ancora da scoprire l’identità di almeno altri 1.000 deportati in via Resia. E chissà se la scopriremo mai.

d.v.

Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano

Una tragedia italiana in 7.982 storie individuali

 

In via Resia, a Bolzano, nell’area nella quale funzionò dall’estate 1944 alla primavera 1945 il Durchgangslager nazista di Bolzano oggi sorgono grandi palazzi di edilizia residenziale. Tutto ciò che rimane delle costruzioni originali del Lager è il muro di cinta, un rettangolo di 91 metri per 146. Da qualche tempo il muro è stato posto sotto tutela da parte del Comune di Bolzano, che ha provveduto a disporre sul suo perimetro delle targhe illustrative. Per decenni si è parlato poco di questo campo, quasi che localmente e nazionalmente si avesse in fondo l’interesse a cancellarne il ricordo. La ricerca più significativa condotta sul Lager risale a 25 anni fa, quando si costituì a Trento un comitato per le celebrazioni del 30° anniversario della Resistenza e della Liberazione che incaricò un giovane ricercatore, Luciano Happacher, di raccogliere quanto si sapeva sul DL (1). Nel suo lavoro Happacher riprodusse i nomi contenuti in un registro non ufficiale del campo giunto fortunosamente fino a noi e alcuni elenchi stilati clandestinamente dalla Resistenza (2). Altre ricerche successive sul secondo conflitto mondiale nella regione hanno chiarito meglio il contesto in cui si collocò per nove lunghi mesi il campo di Gries. Gli orrori che costellarono quel periodo tornarono in evidenza, a quasi 60 anni dai fatti, grazie alla costanza del Procuratore del Tribunale Militare di Verona Bartolomeo Costantini, il quale riuscì a portare alla sbarra Michael Seifert, sadico SS del campo, latitante a Vancouver, in Canada, e a farlo condannare all’ergastolo nel novembre del 2000. Proprio quel processo però mise in luce il sostanziale disinteresse dei mezzi di comunicazione di massa nei confronti di una vicenda che avrebbe potuto appassionare l’opinione pubblica. Un disinteresse che era figlio a sua volta della scarsissima conoscenza del Lager e della sua storia nel nostro paese. Quando, nella primavera del 2000, Italo Tibaldi avviò la pubblicazione sul sito Internet dell’ANED (3) dei suoi elenchi che contengono i nomi di circa 40.000 italiani deportati nei campi nazisti, frutto di un lavoro di ricerca che abbraccia ormai oltre mezzo secolo (4), riuscì a compilare anche 4.075 nomi di deportati a Bolzano, ben consapevole che si era ancora lontani dall’obiettivo, e che ne restavano da individuare almeno altri 5.000. Questa ricerca nasce di lì, dalle discussioni con Italo Tibaldi. Ci è parso chiaro, infatti, che se si fossero sommati ai nomi conosciuti di persone rimaste nel Lager fino alla liberazione i nomi di coloro che da Bolzano partirono per altri campi del Reich si sarebbe fatto un importante passo avanti. E che se si fosse riusciti a tirare le fila della ricca memorialistica relativa al campo e delle ricerche condotte localmente sulle vittime della macchina dell’annientamento e dello sterminio ci si sarebbe potuti avvicinare ulteriormente alla realtà. La pubblicazione del Bando della UE nel novembre 2003 per “progetti volti a preservare i siti dei campi di concentramento nazisti quali monumenti storici”, che avessero “l’obiettivo principale di tenere viva la memoria delle vittime dei campi di concentramento nazisti” ha dato la spinta che mancava. I tempi indicati dal bando – 12 mesi – sono subito apparsi assai stretti per una ricerca di queste proporzioni. Ma sapevamo di poter contare sulla collaborazione dei tanti che a questa indagine si sono dedicati da anni, sia in sede locale che a livello nazionale. Quello che non potevamo immaginare è che avremmo trovato, nei diversi archivi italiani che abbiamo setacciato, diversi documenti inediti che ci hanno fornito informazioni preziosissime per il nostro lavoro. Questo lavoro di squadra ci permette di presentare una lista di nomi sensibilmente più ricca di quella dalla quale siamo partiti, ma non solo: le schede individuali che seguono contengono moltissime informazioni sugli arresti, sui rastrellamenti, sulla repressione della resistenza antifascista, sulla persecuzione antiebraica, sull’attività delle carceri, sulla pianificazione dell’annientamento e dello sterminio da parte del nazismo e sull’attiva collaborazione che a tale disegno offrirono le organizzazioni della RSI. Cercavamo notizie su singole persone; ne traiamo un quadro complesso della fase finale della guerra, con le sue mille sfaccettature, i suoi personaggi, le molte peculiarità locali. È un quadro nel quale le tracce di migliaia di drammi individuali, qui appena accennate, concorrono a delineare i contorni netti di un’immane tragedia italiana; una tragedia che ha sconvolto intere comunità e segnato per sempre la vita di migliaia di uomini, di donne e di bambini. Sessant’anni anni fa, molti prigionieri in via Resia misero a repentaglio la propria incolumità per scoprire il nome dei nuovi arrivati e per fare uscire dal campo clandestinamente minuscoli foglietti contenenti quei nomi in modo da consentire alla Resistenza di avvertire le famiglie, perché rimanesse una traccia del dramma di tanti deportati; allora quegli uomini e quelle donne ci hanno indicato una strada. E noi siamo fieri di averla a nostra volta potuta percorrere, sia pure per un breve tratto, a tanti anni di distanza.

 

COME SI LEGGONO LE SCHEDE

 

Per agevolare la consultazione delle informazioni che seguono, forniamo una sorta di legenda, seguendo l’ordine con il quale i dati appaiono nelle schede individuali. Obiettivo di questa ricerca era quello di documentare il maggior numero possibile di nomi di deportati nel campo. Non quello di registrare per ciascun nome il maggior numero di fonti. Nelle note abbiamo registrato sempre tutte le fonti dalle quali abbiamo tratto informazioni sui nomi del nostro elenco; quando ci è parso che la presenza di quella persona fosse sufficientemente documentata, non siamo andati a cercare ulteriori conferme. È questo il motivo per cui per ciascun nome vengono segnalate al massimo sei fonti. Si è fatto il possibile, al contrario, per trovare un ulteriore riscontro ai nomi indicati da una fonte soltanto.

I nomi

 

I due elenchi compilati nel 1945 quando ancora il campo di Bolzano era in funzione giunti fino a noi (5) sono scritti interamente a mano. Sono probabilmente copie degli elenchi originali dell’amministrazione del campo, anch’essi scritti quasi certamente a mano, che sono andati distrutti. Entrambi gli elenchi cominciano con la matricola n. 27. A questa matricola il primo elenco associa il nome di Rimer Luigi; il secondo quello di Rinner Luigi. È evidente l’assonanza del cognome, ma la differenza tra i due registri, fin dal primo nome, è notevole. Di discrepanze di questo genere ce ne sono centinaia. Quale delle due grafie è quella corretta (sempre che una lo sia)? Spesso si è riusciti a identificare con certezza l’esatta grafia del nome. Ma talvolta – come nell’esempio specifico del menzionato Rimer/Rinner – nessuna fonte ulteriore è venuta in soccorso. Per quanto ne sappiamo, quel deportato si poteva chiamare in ciascuno di quei due modi. L’esame dettagliato dei due registri, del resto, ci ha portato a escludere che uno sia di regola più preciso dell’altro. Nei casi controversi talvolta si è rivelato esatto il primo, talaltra il secondo. In qualche occasione entrambi sono inesatti. È questo il caso di Giovanni Faziani, ravennate, registrato in entrambi i registri come Fozziani, e noi sappiamo che si tratta con certezza di un errore, perché egli ha aderito alla sezione ANED di Imola, e iscrivendosi ha fornito ovviamente le sue esatte generalità. Come comportarsi quindi di fronte al contrasto tra le fonti? In questa ricerca semplicemente si è scelta una versione, e si è segnalata in nota l’esistenza di una seconda grafia, in tutto o in parte diversa. Si è scelto per contro di privilegiare sempre il nome registrato all’anagrafe – se conosciuto, ovviamente – rispetto a quello con il quale molti deportati erano noti allora: si troverà spesso Luigi piuttosto che Gino, per esempio. Anche in questi casi l’eventuale discrepanza tra le fonti è segnalata in nota. Analogamente, le deportate sono elencate con il proprio cognome, oltre a quello del marito, anche se molte erano conosciute con quest’ultimo, piuttosto che con il proprio. La donna nota a tutti nel campo come Margherita Montanelli, dal cognome del suo celebre consorte, che già nel 1944 era un giornalista più che affermato, è inserita nel nostro elenco come Colins de Tarsienne Montanelli Margareth. Di un folto gruppo di deportati, provenienti soprattutto dal Bellunese, oltre al nome è indicato il patronimico. Ci è sembrato giusto registrare questa informazione aggiuntiva, anche perché in qualche occasione solo il patronimico consente di identificare due omonimi. Ciò avviene soprattutto nel caso di deportati rastrellati a gruppi in piccoli comuni, dove molti hanno lo stesso cognome e spesso anche lo stesso nome. Nel nostro elenco troviamo per esempio due Luigi De Bernardin. E possiamo affermare che si tratta di omonimi e non della stessa persona perché sappiamo che uno era figlio di Giovanni, mentre l’altro era figlio di Luigi. Lo stesso dicasi per i due Luigi Pradetto Cignotto: uno era figlio di Simeone, l’altro di Luigi. E ci sono altri esempi consimili. I casi di probabile omonimia che non si è riusciti a risolvere sono contrassegnati in nota con il simbolo “§”. Antifascisti e partigiani, che al momento dell’arresto avevano esibito documenti falsi, furono identificati anche nel campo con quel nome falso, di fantasia, quando i nazifascisti non erano riusciti a scoprire la loro reale identità. L’esempio forse più noto è quello di Gianfranco Maris, presidente dell’Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti (ANED), registrato – a Bolzano come a Mauthausen – come Gianfranco Lanati. Ma ci sono diversi altri casi analoghi, come quelli di Mattea/Mariani, o di Daveri/Bianchi, e altri ancora. Anche in questi casi si è scelto di privilegiare il vero nome, inserendo tra parentesi quello falso. L’analisi dei nomi porta a individuare moltissimi nuclei familiari. Gli ebrei spesso erano strappati a gruppi dalle loro case, senza alcun riguardo né per gli anziani, né per i più piccoli (6). Ma ugual sorte capitò anche a molti non ebrei. Frequentissima era la deportazione di due o più fratelli, o di un genitore con uno o più figli, o di entrambi i coniugi. A Bolzano inoltre erano moltissimi, certamente diverse decine, gli ostaggi, persone prese al posto di qualche familiare che fascisti e nazisti non erano riusciti a scovare. Non riuscendo ad arrestare un partigiano, spesso si portava nel campo un suo congiunto. Augusto Tebaldi, membro del CLN di Soave, sfuggito all’arresto, si consegnò per liberare il fratello preso in ostaggio e fu deportato da Bolzano a Flossenbürg. Amabile Gorza, di Pedavena (BL), fu portata in via Resia come ostaggio al posto dello zio Vittore Gorza. Tutto il nucleo familiare Nulli-Bonomelli (di 6 componenti) fu deportato e tenuto nel Lager al posto di un partigiano che era riuscito a sottrarsi alle torture nella sede del Comando tedesco di Brescia (7).

 

Il luogo di nascita

 

Al momento dell’arresto molti tra coloro che poi sarebbero stati deportati a Bolzano erano privi di documenti, e uno scrivano registrava le loro dichiarazioni sulle generalità. Ma anche quando i documenti c’erano, spesso la registrazione veniva effettuata – come nel reparto tedesco del carcere milanese di San Vittore – da personale di madrelingua tedesca, in evidente imbarazzo a proposito della toponomastica italiana. Il risultato è che sovente tale registrazione, nei registri che abbiamo consultato, è quanto mai approssimativa, e che raramente al nome del comune di nascita è associato quello della relativa provincia. Cesate, in provincia di Milano, diventa quasi sempre Cessate, senza ulteriori indicazioni. Questi errori hanno accompagnato i prigionieri anche nel caso di ulteriori deportazioni oltre il Brennero. Quando abbiamo avuto l’assoluta certezza di un errore di trascrizione nel registro originale lo abbiamo corretto. Quando questa certezza non l’abbiamo raggiunta, abbiamo mantenuto l’indicazione contenuta nel registro in questione. Molti deportati indicavano come comune di nascita località che già allora avevano perduto una propria autonomia amministrativa (Mario Molteni e Giovanni Pirovano, per esempio, hanno indicato come comune di nascita Gorla, da tempo inglobato in quello di Milano). In questo caso si è lasciata questa indicazione, che comunque aggiunge qualcosa alle nostre conoscenze. Allo stesso modo non abbiamo modificato l’indicazione originale della provincia di nascita anche dove la successiva costituzione di nuove province prevederebbe un aggiornamento. I nati a Villadossola, per esempio, nel ’44 erano della provincia di Novara – come ancora è scritto nel nostro elenco – mentre oggi apparterrebbero a quella di Verbania. Per contro in alcuni casi, conoscendo soltanto la città di nascita, abbiamo aggiunto la relativa provincia, per agevolare il lettore nell’individuazione dell’area geografica di provenienza di quel deportato. Vittorino Rizzi, nato a Colico, risulta così della provincia di Lecco, anche se all’epoca dei fatti tale provincia, intesa come entità amministrativa autonoma, neppure esisteva. Questo lavoro non sempre è possibile. Sergio Dalla Rosa risulta nato ad Algange. Ma tale comune non esiste oggi in Italia. Forse è una località all’estero; forse si tratta di una frazione, o forse semplicemente il luogo della sua nascita è stato trascritto male. Fatto sta che oggi non siamo in grado di indicare in quale provincia quel comune si collocasse. L’analisi delle località di nascita dei deportati in via Resia fornisce spunti sorprendenti. In primo luogo colpisce l’elevato numero di paesi rappresentati nell’elenco. I nati in Italia sono ovviamente la grandissima maggioranza; ma circa 150 persone vengono da altri 29 paesi: Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Bulgaria, Cile, Croazia, Egitto, Francia, Germania, Grecia, Iraq, Jugoslavia, Libia, Lituania, Olanda, Polonia, Romania, Russia, Slesia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Tunisia, Turchia, Ungheria, URSS, Uruguay e Stati Uniti d’America. Un elenco che oggi andrebbe aggiornato, dopo la dissoluzione dell’URSS e lo smembramento della Jugoslavia. Si può leggere in trasparenza, in questo insieme di provenienze eterogenee, un pezzo di storia delle persecuzioni antiebraiche che hanno percorso l’Europa, ma anche il risultato di decenni di migrazioni italiane all’estero. Quanto alle persecuzioni antisemite, si pensi solo ai 31 uomini, donne e bambini provenienti dalle comunità ebraiche di Istanbul e di Smirne, in Turchia; o al tragico destino di Alberto Nissim, nato a Baghdad, in Iraq, e arrivato attraverso vie che non conosciamo in Italia; arrestato e deportato a Bolzano, è stato ucciso nel Lager il 24 febbraio 1945. I paesi di origine dei prigionieri del campo ci parlano anche, come accennato, dell’emigrazione italiana, e del legame con il paese di origine di tanti figli di emigrati: sono figli di italiani andati a cercar fortuna in America del Sud Fiorenzo Barello, Angelo Fiore, Mario Re, Giuseppe Silvestri e Silvestro Verde, nati in diverse località dell’Argentina. Tornati nel paese d’origine forse per onorare l’obbligo di leva, sono stati arrestati per ragioni che non conosciamo e deportati a Bolzano (e di qui, in seguito, chi a Dachau, chi a Flossenbürg, e chi a Mauthausen: quando si dice la Patria riconoscente!). Non dissimili sono le vicende personali di tanti altri italiani nati nelle terre d’elezione dell’emigrazione italiana, come i molti nati negli USA, dal cognome decisamente italiano, o i tantissimi nati in Svizzera, Francia, Belgio, Germania, o ancora nelle colonie e nei territori ad amministrazione italiana, come la Libia o la Dalmazia. Accanto a loro troviamo diversi cittadini stranieri, di cui purtroppo non conosciamo, per ora, la vicenda personale. Ci sono russi, croati, sloveni, francesi ecc. di cui resta da scoprire il percorso e il destino. L’esame delle località di provenienza smentisce inoltre una convinzione largamente diffusa, e cioè che nel Lager di Bolzano siano stati deportati solo italiani delle regioni settentrionali. È vero che i nazifascisti, nel periodo di attività del campo, potevano esercitare la propria autorità solo nel territorio della Repubblica di Salò (con esclusione, quindi, di tutto il centro sud della penisola); ma è altrettanto vero che tra i deportati troviamo centinaia di persone nate nelle regioni centromeridionali già liberate. Scorrendo i nomi della lista troviamo infatti 45 napoletani, 26 catanesi, 19 sassaresi, 13 cagliaritani, 42 romani, 21 palermitani, 17 messinesi, 24 baresi, 19 foggiani, 18 reggini e così via. In molti casi si tratta di giovani richiamati alle armi e sorpresi al nord dall’armistizio dell’8 settembre; in molti altri di immigrati, coinvolti insieme agli abitanti delle aree di residenza nelle lotte antifasciste, negli scioperi, nell’attività partigiana. In qualche caso traspare anche il segno di un amaro destino, come quello del gruppo dei rastrellati sulla montagna folignate (PG), già deportati a Fossoli e quindi trasferiti a Bolzano (e successivamente a Mauthausen e a Flossenbürg) quando già i loro paesi di origine festeggiavano l’avvenuta liberazione (8).

 

La data di nascita

 

L’incrocio di una vasta pluralità di fonti ha portato in evidenza diverse incongruenze anche per quanto riguarda le date di nascita. Come sempre, anche in questo caso il criterio che si è adottato è quello di privilegiare, in assenza di una certificazione dell’anagrafe del comune di appartenenza, la fonte più vicina al diretto interessato. È stata comunque identificata la data di nascita di circa 4.800 deportati, cosa che ci restituisce un’immagine infinitamente più dettagliata rispetto a quella che ci hanno fornito, fin qui, i registri di Bolzano più conosciuti (9) i quali di regola riportavano, per ciascun prigioniero, solo il nome, il cognome e il numero di matricola, oltre – talvolta – a sommarie indicazioni sull’indirizzo abituale. Nel campo c’erano giovani e vecchi, e anche diversi bambini. Il gruppo dei più anziani, tra i deportati a Bolzano che conosciamo, è rappresentato da una decina di ebrei, uomini e donne. La più anziana era Clelia Bassani in Cester, nata a Rovigo nel dicembre 1864, e deportata da Milano: è una delle vittime certe di questo Lager. Clelia Bassani aveva da poco compiuto 80 anni quando morì nel campo il 15 gennaio 1945. Era prossimo agli 80 anni Maurizio Bolley, nato in Olanda nel 1865, quando fu liberato a Bolzano, a guerra finita. Giunto in via Resia quando i collegamenti con il Brennero erano già stati interrotti dai bombardamenti alleati, si salvò per questo dallo sterminio. Ben diversa la sorte di Ida Ravenna, ferrarese, nata nell’aprile 1866 e deportata da Verona il 1° agosto 1944: il 24 ottobre, a dispetto dei suoi 78 anni compiuti, fu costretta a salire insieme a molti altri su un lungo treno in partenza per Auschwitz. Ida Ravenna fu uccisa nelle camere a gas di Birkenau il giorno stesso dell’arrivo: era il 28 ottobre 1944. Tra i deportati per motivi politici, il più anziano di cui abbiamo notizia certa era il bresciano Eugenio Damiani, trasferito da Fossoli in via Resia a 74 anni compiuti. Damiani non resse al patimento della deportazione, e morì all’ospedale di Bolzano il 14 agosto 1944, pochi giorni dopo che suo figlio Mario, arrivato con lui da Fossoli, era stato deportato a Mauthausen. Era anziano anche il genovese Osvaldo Cipparoli, arrestato a Busalla (Genova): aveva già 70 anni quando fu portato a Bolzano. Anche lui fu considerato utile al Reich Millenario: partì con il convoglio del 5 ottobre 1944 per Dachau, dove fu assegnato ai lavori forzati. Resistette un mese e mezzo, tra sofferenze che non si possono immaginare: il 20 novembre dello stesso anno era già morto, stroncato dall’infernale ingranaggio del Lager nazista. Quello di Cipparoli non era un caso così raro: il nazismo aveva bisogno di schiavi per alimentare la propria macchina bellica, in difficoltà su tutti i fronti. Aveva bisogno di aerei, di carri armati, di munizioni, e doveva sostituire nelle fabbriche gli uomini inviati a combattere. Aveva quindi bisogno di braccia e non andava tanto per il sottile. Un altro settantenne, Candido Armellini, di Polesella (Rovigo), già il 4 settembre da Bolzano era stato deportato a Flossenbürg e costretto al lavoro forzato. Nessuno dei settantenni deportati da Bolzano verso i campi del Terzo Reich sopravvisse. Il più anziano tra i sopravvissuti, tra coloro che partirono da Bolzano per i Lager transalpini, è l’agricoltore Giovanni Zenore, nato nel marzo 1880. Aveva dunque 64 anni quando fu chiuso nel vagone in partenza per Mauthausen, il 5 agosto 1944. Nel Lager austriaco Giovanni Zenore resistette ben 9 mesi, tanto da conoscere il giorno della liberazione, il 5 maggio 1945. Le classi di età più rappresentate nella nostra lista sono quelle che vanno dal 1920 al 1926. Le più numerose sono quelle del 1924 e del 1925, rispettivamente con 360 e 348 presenti: uomini e donne di 20 anni al momento dell’arresto. Persone vigorose, giovani, nel fiore degli anni, come si suol dire: braccia valide per le fabbriche e i cantieri di Hitler. Nel campo poi c’erano i bambini. Nel nostro elenco se ne trovano ben 10 al di sotto dei 10 anni. La più piccola in assoluto era una ebrea, Esther Misul, per tutti Etti: nata nel gennaio del 1944, aveva un anno quando giunse in via Resia. Un suo cuginetto, Vittorio Coen (che nei registri del campo fu iscritto come Vittoria), aveva giusto un anno di più. Non conosciamo la data esatta della nascita di Patrizia e Roberta Melli, presenti nel campo insieme alla giovane mamma, Nicoletta; avevano comunque 3 e 2 anni al momento della deportazione, nel 1945 (10). Aveva meno di tre anni Elia Cittone, figlio di Leone e di Sara Ojalvo, quando fu costretto a salire insieme alla mamma, il 14 dicembre 1944, su un treno che da Bolzano raggiunse il campo di Ravensbrück. Non conosciamo i dettagli della sua incredibile esperienza, ma sappiamo da Il libro della memoria di Liliana Picciotto che madre e figlio conobbero il giorno della liberazione (11). Tra coloro che nel campo rimasero più a lungo, troviamo anche un bambino non ebreo, figlio di un partigiano, arrestato e deportato come ostaggio. Catturato a Brescia e condotto nella sede del Comando tedesco, il padre di questo bambino riuscì rocambolescamente a fuggire da quel luogo, che era uno dei più controllati d’Italia. Un affronto che i nazisti non erano disposti a tollerare. Nel tentativo di convincere l’evaso a consegnarsi si precipitarono a casa sua, arrestando tutta la sua famiglia: la moglie, Rosa Nulli Bonomelli (12), la cognata, il padre, la madre, la suocera dell’evaso. Oltre al figlio Ennio, che aveva appena 4 anni, e che restò rinchiuso a Gries dal settembre 1944 fino alla liberazione. Attorno al bambino si creò una rete di solidarietà a maglie strette: in molti si adoperarono per fargli avere razioni supplementari di cibo, e per rendergli meno insopportabile la detenzione. Persino il maresciallo Haage, noto nel campo per il rigore della disciplina che imponeva con la violenza, più di una volta chiuse un occhio di fronte a certe “licenze” del piccolo recluso. Una volta, ci ha raccontato Rosa Nulli Bonomelli, il bambino trovò il fischietto con il quale Haage convocava le adunate sull’Appellplatz. Da dietro i blocchi fischiò a pieni polmoni in quel fischietto, causando un autentico putiferio: tutti i prigionieri abbandonarono le proprie attività, qualunque esse fossero, per raggiungere il proprio posto all’appello. E i responsabili del campo impiegarono più di qualche minuto prima di capire che cosa fosse successo. Non risulta che il gesto del piccolo ebbe alcuna conseguenza, quella volta (13). Tra i più giovani di Bolzano bisogna annoverare anche Franco Cetrelli, in assoluto il più giovane deportato politico italiano: aveva 13 anni e mezzo quando fu arrestato a La Spezia, e ne compì 14 nel campo di Bolzano. Ma il peggio, per lui, doveva ancora arrivare. Fatto salire su un treno merci, il 14 febbraio 1945 Franco Cetrelli partì alla volta di Mauthausen, dove arrivò solo 4 giorni dopo. In quell’inferno il ragazzino divenne il numero 126.119, e sulla casacca di deportato gli fu cucito il triangolo rosso. Nonostante la solidarietà degli italiani, Franco Cetrelli a Mauthausen resistette solo due mesi: morì, schiantato dalla violenza e dal lavoro, il 22 aprile 1945, proprio mentre in Italia stava venendo finalmente l’ora della liberazione (14). Mino Micheli ce ne ha dato un toccante ritratto: “Aveva le orecchie grandi a ventola, il viso affilato, il mento lungo; parlava gestendo con le braccia magre, educato, pieno di paura. (...) Entrava furtivamente, pieno di timore, e cercava gli amici italiani, come un cane bastonato e affamato cerca il padrone tra la folla. E le domande che faceva erano sempre le stesse: domande che volevano una risposta di speranza; una risposta che gli permettesse di essere meno solo fra quella povera gente sconosciuta e dolorante” (15). Il caso di questo giovanissimo spezzino non era però unico. Secondo Robotti, di Soliera (Modena), era nato solo pochi mesi prima, il 6 febbraio 1930. Aveva quindi meno di 15 anni quando fu deportato da Bolzano a Mauthausen, dove riuscì incredibilmente a sopravvivere fino alla liberazione (16). Il Reich Millenario reclamava il contributo anche dei ragazzini. D’altra parte migliaia di piccoli tedeschi dell’età di Robotti in quelle stesse settimane vennero richiamati alle armi e spediti a morire al fronte. Aveva da poco compiuto 14 anni anche Noemi, la più piccola delle sorelle Pianegonda, che arrivarono nel campo di Bolzano all’inizio di febbraio 1945. Lei stessa ha raccontato che il prof. Egidio Meneghetti, che nel dopoguerra sarebbe diventato rettore magnifico dell’Ateneo padovano, per tenerla occupata le impartiva lezioni di storia, di latino, di tedesco: “Devi esercitare la tua mente – le ripeteva – esercitala: proteggi la memoria, e sarai libera” (17). I bambini e i ragazzi di età inferiore ai 18 anni di cui conosciamo le generalità sono nella nostra lista ben 254. Molti di loro erano apprendisti: lavoravano in fabbrica accanto agli adulti. E accanto agli adulti vennero condotti a soffrire e a morire nei Lager. Transitarono infine per il campo anche due coppie di gemelli: Silvio e Lorenzo Castelletti, classe 1913, furono arrestati insieme, deportati lo stesso giorno a Bolzano e di qui ancora insieme nel sottocampo di Moos (Moso in Passiria). Più drammatico ancora il destino riservato ai gemelli Alberto e Antonio Vallata, minatori, nati il 23 marzo 1923, che furono deportati insieme a Mauthausen il 1° febbraio 1945. Su quel treno per Mauthausen c’erano altri due Vallata, Fioretto e Vittorio, nati nello stesso paese dei gemelli, S. Tomaso Agordino (BL), rispettivamente nel 1925 e nel 1921. Forse si trattava di 4 fratelli.

 

Le donne

 

Nell’elenco si contano i nomi di 671 donne, l’8,4% del totale. Erano operaie, intellettuali, contadine, in percentuale non dissimile da quella dei maschi. Molte erano “casalinghe”, “ragazze di casa”, come ci ha detto Marisa Scala (18): il che non impediva loro di collaborare nel lavoro dei campi, o nel negozio, in aggiunta ai lavori domestici. Molte, forse la maggioranza, secondo i ricordi di Laura Conti (19), erano le donne rastrellate a caso, o prese in ostaggio al posto di mariti, figli e genitori che non si erano presentati al lavoro coatto, o che avevano preso la strada della montagna per combattere i nazifascisti. L’ostaggio forse più conosciuto era la già citata Margareth Colins de Tarsienne, moglie di Indro Montanelli. Anch’essa era in via Resia a garanzia di certe intese tra lo stesso Montanelli e Theo Saewecke, il capo delle SS di Milano (20). Nel campo c’erano infine anche una trentina di prostitute, portate lì per motivi sconosciuti, e ricondotte a Genova – secondo quanto risulta a Italo Tibaldi – nel novembre 1944. Tutte le donne, a qualunque categoria appartenessero, erano rinchiuse nel Blocco F: una vicinanza che fu fonte di tensioni e litigi continui, che non impedirono però alla popolazione femminile di dare prova di altissima solidarietà e di coraggio. Erano donne, in maggioranza, le componenti del comitato clandestino di resistenza del campo (21), così come erano donne, in prevalenza, coloro che dall’esterno misero a repentaglio la propria libertà e la propria incolumità per aiutare i deportati di via Resia, per far giungere loro un aiuto, un capo di abbigliamento o del cibo, quando non per organizzare qualche fuga. Vanno ascritte al merito della determinazione e della generosità di queste prigioniere, dunque, molte delle evasioni tentate con successo. Le donne avvicinavano coloro che erano stati prescelti per un trasporto verso il nord e di nascosto passavano loro lime, seghetti e altri utensili raccolti segretamente dal comitato clandestino (22). Grazie a questi strumenti diversi prigionieri riuscirono a fuggire dai treni che li stavano conducendo ai campi di annientamento. Le schede documentano ben 61 evasioni portate a termine da Bolzano, dai campi satellite o dai convogli partiti da via Resia. Anche all’esterno del perimetro del campo furono le donne a sopportare il peso maggiore nell’attività di assistenza e di solidarietà. Va ricordata per tutte Franca Turra, che dopo l’arresto di Ferdinando Visco Gilardi assunse in prima persona, coadiuvata da molte altre donne (tra le quali Mariuccia, la moglie di Visco Gilardi) e da diversi operai delle fabbriche della zona, la responsabilità del coordinamento, dall’esterno del campo, del comitato di resistenza. Franca Turra si è spenta nell’inverno del 2003, senza aver ricevuto invero quasi alcun riconoscimento per il ruolo essenziale svolto nella Resistenza bolzanina, in condizioni difficilissime (23). Il lavoro del comitato clandestino per queste donne fu doppiamente rischioso e difficile: bisognava sfuggire alle spie e alla vigilanza delle guardie del campo e dei corpi di polizia, e bisognava anche vincere la diffidenza, se non addirittura l’aperta ostilità, di tanti uomini che anche nel movimento antifascista faticavano ad accettare che delle donne assumessero ruoli di rilievo nelle organizzazioni clandestine, invece di limitarsi a eseguire disciplinatamente gli ordini.

 

 

La professione

 

Solo di poco più di un terzo dei nomi presenti nell’elenco siamo riusciti individuare la professione esercitata al momento dell’arresto. Inoltre, occorre considerare che in molti casi la professione indicata è quella dichiarata dal deportato all’arrivo nel Lager. E che sovente i prigionieri già presenti nel campo consigliavano i nuovi venuti di non dichiarare la loro reale attività, magari di carattere intellettuale, e di farsi passare piuttosto per operai o contadini, cosa che avrebbe destato meno curiosità e sospetto tra le SS. Dichiarandosi competente in certe mansioni, il deportato cercava di scongiurare il rischio di essere impiegato in attività più pericolose o pesanti. Michele Tarantino, parrucchiere per signora, dichiarò all’arrivo a Mauthausen di essere un autista, nella convinzione – a prima vista non infondata – di avere maggiori possibilità di essere impiegato a Mauthausen come autista che non come parrucchiere. Anche per le professioni, in casi di discrepanza tra le diverse fonti, si è dato più credito, ove esistente, alla testimonianza diretta dell’interessato o di un suo stretto famigliare. Pur con questi limiti, l’immagine dell’Italia che esce dalla lettura di questa voce è ugualmente quanto mai viva e nitida. L’Italia vi appare come un paese nel quale larga parte della popolazione era impegnata nei lavori dei campi, ma anche già fortemente industrializzata. Da Bolzano, poi, si può ben dire che sia passata una parte significativa del ceto intellettuale del paese, che si era attivamente opposto al fascismo e alla Repubblica sociale italiana, e che tedeschi e fascisti cercarono di stroncare. Nell’elenco ci sono centinaia di agricoltori, contadini, mezzadri, braccianti, che rappresentano circa il 15% di coloro dei quali conosciamo la professione. Anche qui, inoltre, come in generale in tutti i Lager nazisti, appare decisamente sovrastimata, in rapporto al ruolo ricoperto nella società dell’epoca, la componente operaia: fresatori, saldatori, attrezzisti, aggiustatori meccanici, vulcanizzatori, tornitori, apprendisti, operai generici e specializzati... Si scorgono, dietro queste presenze, i segni della diffusa attività antifascista che coinvolse grandi e piccole fabbriche. Molti sono i partigiani delle SAP – Squadre di Azione Patriottica – che agivano proprio all’interno dei grandi stabilimenti, o che comunque all’ambiente di fabbrica facevano riferimento (e si tenga presente che a Bolzano non transitarono che pochissimi arrestati dopo i grandi scioperi del marzo 1944, se non altro perché il Lager cominciò a funzionare in estate, quando gli scioperanti erano già stati deportati oltre confine da un pezzo). Questa forte presenza operaia è dunque a sua volta il portato di una peculiarità della Resistenza italiana, che proprio nelle fabbriche ebbe uno dei propri punti di reclutamento e di forza. Contadini e operai di fabbrica: sono questi i due nuclei fondamentali dei deportati a Bolzano. Accanto a loro non deve stupire la presenza di calderai, spazzacamini, ricamatrici, boscaioli, sellai, scrivani, lavandai, ferraioli, vetturini e cocchieri, maniscalchi, mungitori... rappresentanti di un mondo del lavoro che oggi ci appare arcaico, ma che ancora negli anni quaranta aveva evidentemente una sua vitalità. A ben vedere la presenza di 25 sarti e di 31 calzolai nell’elenco ci parla di un’epoca nella quale abiti e calzature si confezionavano comunque su misura, sia per i signori che per i poveretti, non essendosi ancora affermata nel nostro paese la standardizzazione delle taglie e della produzione industriale dei capi di abbigliamento. Lo stesso si potrebbe dire per i 94 falegnami e per i 38 fabbri, campioni di un mondo nel quale i mobili si tramandavano di generazione in generazione e non esisteva la grande distribuzione industriale di mobili, serramenti, maniglie, serrature e attrezzi da lavoro. Colpisce anche l’alta incidenza di intellettuali e di rappresentanti di un ceto elevato, presenti a Bolzano in proporzione larghissimamente superiore alla media esistente nella popolazione italiana di allora. Nell’arresto e nella deportazione di tanti medici, giornalisti, avvocati, notai, giudici, dirigenti d’azienda e professori si riconosce il segno di uno speciale accanimento della RSI e dell’occupante nazista nella repressione del dissenso politico intellettuale. Passarono da Bolzano Gian Luigi Banfi e Lodovico Belgiojoso, le due “B” dello studio BBPR, che nel dopoguerra avrebbe lasciato un segno indelebile nell’architettura italiana (26), ma che già allora si era guadagnato un posto nell’Enciclopedia Treccani. Banfi, deportato a Mauthausen come il suo amico e collega Belgiojoso, fu ucciso nell’ultima orribile gassazione di Gusen, a pochi giorni dalla fine della guerra, e non tornò, anche se i suoi colleghi mantennero per sempre anche la sua “B” nella sigla del loro studio, a perenne ricordo dell’amico ucciso. Anche Giuseppe Pogatschnig (cognome italianizzato in Pagano) (27) era un noto architetto, già direttore di Casabella (suo fu il progetto, solo per citarne uno, dell’Università Bocconi di Milano), così come Raffaello Giolli, architetto, professore e critico, collaboratore delle più importanti riviste di architettura del suo tempo. Per aver rifiutato il giuramento al fascismo Giolli era già stato espulso dall’insegnamento pubblico; internato allo scoppio della guerra nel campo di concentramento fascista di Istonio (Vasto, in Abruzzo) insieme al figlio Paolo, di 19 anni, torturato selvaggiamente dalla Muti (28) nel settembre 1944 nella sede di via Rovello (29) a Milano, anche Giolli, come Banfi e Pogatschnig, finì i suoi giorni a Mauthausen. Restò invece a Bolzano, a causa dell’interruzione della linea del Brennero, il prof. Egidio Meneghetti, farmacologo di fama, che nel dopoguerra avrebbe preso il posto di Concetto Marchesi come rettore dell’Ateneo di Padova, medaglia d’oro della Resistenza. Così come capitò fortunosamente a Virgilio Ferrari, poi sindaco di Milano (30) e ad Abramo Oldrini, poi sindaco di Sesto San Giovanni (MI) (31). Meno fortunato fu Enzo Sereni, fratello di Emilio (32), che si era fatto paracadutare in Lucchesia in divisa da ufficiale inglese, sotto le mentite spoglie di Samuel Barda, per organizzare un punto di riferimento in territorio occupato dai nazisti per l’Intelligence Service britannico. Catturato, Sereni fu portato a Bolzano e di lì a Dachau, dove fu sottoposto a uno speciale regime di rigore (33). Sopravvisse poco più di un mese: partito il 5 ottobre 1944 da Bolzano, il 18 novembre era già morto, stroncato dalla macchina dello sterminio nazista. Abbiamo discusso con la nipote, la scrittrice Clara Sereni, su quale potesse essere all’epoca dell’arresto la professione di Enzo Sereni, che era soprattutto un agitatore politico, uno di coloro – e a Bolzano ve n’erano centinaia – che per le proprie idee di riscatto e di libertà avevano sacrificato ogni cosa. Abbiamo ritenuto di scrivere, in questo caso, “kibbuznik”, perché Sereni, che era emigrato prima della guerra in Palestina, era stato un propugnatore di quel movimento che nei kibbuz predicava – e cercava di praticare – un ideale di comunismo elementare, e nel contempo rivendicava il diritto degli ebrei di ritornare nella terra promessa. L’avvocato Luciano Elmo, liberale, fu uno dei massimi esponenti della Resistenza a Milano, prima e dopo la sua deportazione in via Resia. Arrivato con molti altri il 7 settembre, Elmo fu caricato su un treno che doveva portare a Mauthausen centinaia di deportati alla fine di novembre 1944. Ma grazie agli arnesi che il comitato clandestino aveva procurato e consegnato ad alcune persone fidate tra i partenti, anche Elmo riuscì a evadere prima del Brennero dal vagone diretto in Germania e a fare rientro a Milano. Il suo fu uno dei casi in cui gli sforzi per favorire le evasioni andarono a buon fine. Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai religiosi, presenti in gran numero a Bolzano. Nell’elenco incontriamo ben 27 preti e 9 frati cappuccini (34). Una presenza significativa, numericamente e qualitativamente importante. Tra i religiosi deportati c’era Andrea Gaggero, che dopo Bolzano superò anche la prova della deportazione a Mauthausen, e che nel dopoguerra, smessa la tonaca, fu uno dei protagonisti del primissimo movimento pacifista italiano; c’erano don Narciso Sordo, don Albino Longhi, don Domenico Girardi (per citarne solo alcuni), sacerdoti che seppero costituire sempre un punto di riferimento nelle battaglie di giustizia nelle loro zone. C’era infine don Angelo Dalmasso, il sacerdote che fu arrestato per essere andato a dire messa tra i partigiani, e che restò così legato alla propria esperienza di superstite dei Lager di Bolzano e di Dachau da accettare la presidenza della sezione ANED di Cuneo. Ai sacerdoti non allineati con il regime il nazifascismo riservava un trattamento di particolare severità. Lo dimostra il fatto che su 27 preti presenti a Bolzano, ben 19 furono ulteriormente deportati a Mauthausen, Dachau e Flossenbürg (anche se fortunatamente la maggioranza di costoro riuscì a sopravvivere e a fare ritorno in Italia). Un caso del tutto peculiare, infine, è quello dei 5 frati cappuccini del convento di via Barana a Verona, presi in blocco e in blocco deportati a Bolzano. L’arresto dei frati, stando alla ricostruzione fatta nel dopoguerra da padre Corrado (Guido Toffano) è da imputare alle relazioni che il superiore del convento, padre Vittorino (Mario Fraccaro), intratteneva con i partigiani della zona fin dal luglio 1944 (35). Tali relazioni, scrisse padre Corrado, “ovviamente” erano tenute “segretamente” tra il padre Superiore, i partigiani e i quattro confratelli, “lasciando assolutamente all’oscuro tutti gli altri frati”. Il convento, insomma, “serviva come base per rifornire di armi e cibo i partigiani”. “Con la partecipazione dei confratelli furono stesi alcuni fogli con timbri e firma del Comando delle SS di Verona”. Tali documenti furono utilizzati per ottenere dei “passaggi” nella zona sugli automezzi delle stesse truppe tedesche: un gioco rischioso, che andò avanti per diverse settimane, fino a che la falsificazione non fu scoperta. I cinque frati coinvolti nel traffico di documenti contraffatti furono arrestati il 2 gennaio 1945. Rinchiusi nelle celle situate nei sotterranei del palazzo dell’INA, sede del Comando delle SS di Verona, furono interrogati e trattenuti per oltre tre settimane prima di essere trasferiti nel Lager di Bolzano, dove rimasero fino al 29 aprile 1945 (36).

 

Il luogo dell’arresto

 

I deportati in via Resia furono catturati dai nazifascisti in tutte le province del nord Italia, con l’esclusione – salvo qualche eccezione – delle province del Friuli-Venezia Giulia: nel periodo di attività del campo bolzanino, infatti, era in piena funzione anche quello della Risiera di San Sabba a Trieste. Il quale, almeno in parte, svolgeva una funzione di raccolta e di inoltro di deportati in Germania analoga a quello del Durchgangslager Bozen. Così non stupisce che quasi il 20% dei deportati sia stato arrestato a Milano o nella sua provincia: Milano era, nei fatti, la “capitale della Resistenza”, come poi si disse; era comunque di gran lunga l’area urbana più popolosa tra quelle sotto il controllo della RSI. Colpisce, semmai, l’altissima percentuale di arrestati in altre province, come quella di Belluno (quasi il 10% del totale) o quella di La Spezia (circa l’8%). Sono percentuali molto superiori al peso relativo di queste due province sul complesso della popolazione italiana, oggi come allora. Quelle centinaia di arrestati ci dicono oggi qualcosa sulla “attenzione” speciale riservata a queste due province, che erano in qualche modo “di confine” per la RSI (37). Nella sola Feltre, il 3 ottobre 1944 un grande rastrellamento portò al fermo di centinaia di persone che furono ammassate in un cinema e selezionate per la deportazione a Bolzano. Oltre un centinaio furono i feltrini che giunsero nel campo nei giorni successivi. E una ricerca condotta in loco ha individuato oltre 220 deportati dalle valli del Cadore38. I fermati, in diverse successive operazioni di rastrellamento, furono centinaia. Uomini, donne, vecchi e ragazzi furono portati nel cinema Italia di Santo Stefano di Cadore l’8 ottobre 1944. La posizione di ognuno fu valutata. La maggioranza delle donne e dei vecchi fu infine rilasciata, ma per i giovani e gli uomini validi non ci fu scampo: a gruppi vennero condotti a Bolzano, immatricolati con il triangolo rosa dei rastrellati e condotti al lavoro forzato. Nelle diverse frazioni di Tambre, un comune del Bellunese che conta oggi circa 1500 abitanti, i rastrellati furono decine. Solo quelli di cui conosciamo con esattezza le generalità sono nella nostra lista ben 46. Come si spiega tanto accanimento? È vero, le valli bellunesi furono terreno di aspre battaglie della Resistenza. E infatti molti dei deportati, nelle interviste del dopoguerra, rivendicano con orgoglio la propria appartenenza al movimento partigiano. Ma molti altri superstiti, contattati dall’ANED negli anni Settanta, nel quadro del lavoro di raccolta di una “Banca dati sulla deportazione” (39), non hanno difficoltà a indicare, come valori di riferimento della propria famiglia al momento dell’arresto, quelli della tradizione: Dio, patria e famiglia. Marcello de Candido parla della sua come di una famiglia – papà, mamma, tre figli e 10 figlie – “dedita alla casa e al lavoro”; Attilio De Bettin ricorda la sua come una “famiglia proletaria, di orientamenti tradizionali, vale a dire ossequiosi verso la Religione e verso il potere costituito”; Celeste De Rigo Cromaro, infine, parla di una “famiglia tutta Patria e lavoro”. Se non erano avversari politici, dunque, che cosa ha portato tanti abitanti delle valli bellunesi nel Lager? Quirino Quinz, di Sappada, avanza un’ipotesi per quanto riguarda il suo paese: “La popolazione di Sappada è oriunda austriaca. I nazisti, occupando l’Alto Cadore, hanno cercato di arruolare gli uomini. A causa del rifiuto molti di noi sono stati arrestati e deportati, come nel mio caso” (40). I nazisti non avrebbero perdonato dunque a questa popolazione di origine austriaca il rifiuto dell’adesione al Reich. Può essere una spiegazione, che però non vale per gli abitanti delle altre valli bellunesi, di sicura discendenza italiana. A questo proposito Teresa Rocco, arrestata a Belluno il 14 ottobre 1944 insieme alle sorelle Ermelinda, Egle e Prassede, richiesta di spiegare il motivo del suo arresto scrive solo una parola, con un punto di domanda: “Italianità?”. Belluno, provincia sottoposta alla diretta autorità tedesca in quanto facente parte dell’Operationszone Alpenvorland, la “Zona di operazioni delle Prealpi”, insieme alle province di Trento e di Bolzano, era una vigilata speciale, in quanto enclave italiana in territorio del Reich. Negli arresti di massa e nelle deportazioni dell’autunno e dell’inverno 1944 in quelle valli si potrebbe leggere il portato di una politica forse paragonabile a una sorta di “pulizia etnica” nazista a danno della componente italiana. Nelle valli dell’Alpenvorland si reclutavano soldati per l’esercito nazista, ma anche lavoratori per il Reich. Il rifiuto opposto a tali reclutamenti forzati conduceva spesso alla deportazione in via Resia. Un documento datato 30 ottobre 1944, firmato dal commissario prefettizio del Comune di Cles (Trento) e indirizzato a “Kurt Heinricher, consigliere germanico d’amministrazione presso la Prefettura di Trento”, e al “signor Wieser, ispettore dell’Ufficio provinciale del lavoro”, chiarisce in modo esemplare questo meccanismo (41). Il commissario prefettizio ricorda che alla comunità di Cles sono state richieste 175 persone da avviare al lavoro, e si avventura in una complessa contabilità per dimostrare che tra coloro che si sono presentati a tutto il 26 ottobre (77), coloro che erano stati dispensati (12), gli artigiani che “si ingaggiarono in periodo di precettazione con le colonne militari di stanza” (14), gli operai internati a Bolzano (10), coloro che – presentatisi – sono stati dichiarati “rivedibili” (8), coloro che già erano stati ingaggiati dall’Organizzazione Todt (24) e coloro che sono stati precettati il giorno stesso della sua lettera – “una cinquantina” – il Comune di Cles ha raggiunto l’obiettivo fissato dalle autorità germaniche. Per questo motivo il commissario prefettizio “prega ardentemente Codesta Autorità di voler subito provvedere alla liberazione dal campo di concentramento di Bolzano dei cittadini di Cles che ivi ancora si trovano”, vale a dire 9 persone, fratelli, sorelle, genitori di precettati che si erano dati alla fuga pur di non lavorare per la Germania. Un’altra provincia nella quale i rastrellamenti nazifascisti hanno portato decine e decine di persone nel Durchgangslager Bozen è quella di La Spezia. Occorre ricordare che tra La Spezia e Massa il fronte si fermò per lungo tempo, nell’autunno-inverno 1944. Alle truppe alleate che avanzavano lungo la penisola si opponevano imponenti schieramenti tedeschi. L’entroterra spezzino fu segnato per settimane da innumerevoli rastrellamenti ed eccidi contro civili e partigiani. Attestato su quelle alture, l’esercito tedesco voleva garantirsi la sicurezza alle spalle, facendo tabula rasa di ogni nucleo di resistenza partigiana. Le deportazioni sono figlie di quelle battaglie e di quei rastrellamenti (42). Un altro rastrellamento terribile, destinato a segnare per sempre la storia di una piccola comunità, fu quello di Rocchetta Tanaro, in provincia di Asti, il 6 dicembre 1944. Furono decine e decine i fermati e i deportati quel giorno: praticamente ogni famiglia del paese ha avuto un congiunto a Bolzano (43).

 

La data dell’arresto

 

I deportati a Bolzano furono arrestati, in maggioranza, nel periodo di funzionamento del campo (estate 1944, fine aprile 1945). In alcuni casi però la deportazione in via Resia è avvenuta parecchie settimane – in qualche caso anche diversi mesi – dopo l’arresto. È questo il caso per esempio di molti prigionieri provenienti dal campo di Fossoli di Carpi (Modena). Tra costoro troviamo partigiani e antifascisti fermati nella primavera del 1944, trattenuti in qualche carcere per un periodo variabile, e quindi deportati a Fossoli. Da Fossoli giunsero a Bolzano alcune centinaia di persone (il numero esatto non lo conosciamo ancora), e quasi tutti costoro furono fatti proseguire per la Germania (Mauthausen e Dachau): solo una minoranza esigua fece ritorno a casa. Se il Durchgangslager Bozen fungeva da polmone di raccolta degli schiavi in vista di un loro trasferimento nei campi nei quali il Terzo Reich li avrebbe impiegati in condizioni inumane nella produzione bellica, il carcere di San Vittore di Milano funzionava a sua volta come importante centro di raccolta e smistamento, al servizio dello stesso campo di Bolzano. L’esame dei dati contenuti nelle schede individuali dei deportati dimostra in modo sicuro questa funzione del carcere milanese. Di lì passò circa la metà dei deportati a Bolzano: gli arrestati in Lombardia, in primo luogo, ma anche quasi sempre quelli provenienti dai penitenziari di Torino e di Genova, che fungevano a loro volta da collettori dei candidati alla deportazione provenienti rispettivamente dal Piemonte e dalla Liguria. Altissima, inoltre, è la percentuale dei deportati da Belluno e da Verona. Verona, in particolare, era un punto di raccolta e di smistamento di prigionieri politici e rastrellati: di qui partì oltre il 10% dei deportati in via Resia, sovente dopo pesanti interrogatori e torture nella sede del Comando nazista, insediatosi nel palazzo dell’INA. Un numero rilevante di prigionieri del Durchgangslager Bozen proveniva poi dall’Emilia, da Bologna e forse più ancora da Parma (44). Chi concretamente ha effettuato gli arresti che poi hanno portato alla deportazione? Rispondere a questo cruciale interrogativo non era obiettivo di questa specifica ricerca. Ma ugualmente vale la pena di rimarcare come numerosi documenti attestino l’attiva collaborazione dei diversi corpi di polizia che facevano capo alla RSI al disegno dell’occupante tedesco. Il Durchgangslager Bozen era sottoposto alle dirette responsabilità delle SS, e faceva parte a pieno titolo della macchina dello sterminio allestita dal nazismo45. A Milano era il reparto tedesco di San Vittore a organizzare i trasporti fino al Lager. Ma non erano certo solo le SS a eseguire gli arresti. Anzi. Sul registro del reparto tedesco di San Vittore è annotato il nome dell’organizzazione che ha consegnato il prigioniero. In una buona metà dei casi si tratta di organizzazioni fasciste: si fanno spesso i nomi della Legione Ettore Muti, della X Mas, della “Brigata Nera”, della “Questura”, della polizia di frontiera. Per molti uomini e molte donne la tappa nelle mani delle forze di polizia della Repubblica sociale fu particolarmente dolorosa: nei questionari compilati nel dopoguerra dai superstiti si parla spesso di torture, sevizie, violenze di ogni tipo. Per la maggioranza degli ebrei, in particolare, la deportazione a Gries fu solo una parentesi di una spietata persecuzione, iniziata già nel 1938. Alcuni arrivarono a Bolzano dopo essere già stati allontanati dai luoghi di lavoro, incarcerati, internati nei campi di concentramento fascisti. E ancora non era finita, perché il Lager di via Resia fu spesso solo l’anticamera di un ultimo tragico “trasporto” verso i campi di sterminio. Anche per numerosi “politici” Bolzano rappresentò una tappa in un lungo cammino, caratterizzato dalle infinite forme di repressione escogitate dal fascismo per stroncare ogni voce di opposizione. Nell’elenco dei deportati troviamo persone che avevano già subito le condanne del Tribunale speciale (46), conosciuto la prigione, il confino, il campo di concentramento. Luigi Tansini, anarchico, classe 1888, attivo nel sindacato dal 1912, fu licenziato per motivi politici dalle Acciaierie Falck di Sesto San Giovanni (MI) nel 1917, arrestato nel 1935 per discorsi antifascisti e contro la guerra in Abissinia, condannato a 3 anni di confino; deportato nel 1944 a Fossoli, e di lì a Bolzano. Da Bolzano Tansini fu deportato a Mauthausen, per finire i suoi giorni a Gusen pochi giorni dopo il Natale 1944. Aristide Cucchi, classe 1909, era stato tra i volontari che accorsero nel 1936 nelle Brigate Internazionali, mobilitate in difesa della Repubblica spagnola; deportato Da Bolzano a Flossenbürg, morì nel febbraio 1945 a Bergen Belsen.

 

La partenza per Bolzano

 

Come abbiamo accennato, la quota di gran lunga più rilevante dei deportati a Bolzano transitò per il carcere milanese. Gruppi di prigionieri provenienti da tutta la Lombardia, ma anche da Novara, Piacenza, Torino e Genova, giungevano in treno o in corriera al carcere milanese, e qui sostavano, chi poche ore, chi diversi giorni, in un apparente disordine. Molti superstiti dei Lager, nelle loro memorie e nelle interviste del dopoguerra, parlano spesso di una grande confusione, e del principio di casualità che sembrava regolare arrivi e partenze. In realtà l’esame di questo elenco porta sostanzialmente a escludere qualsiasi casualità. Il flusso delle entrate e delle uscite da San Vittore in direzione di Gries era con evidenza regolato in base alle richieste che provenivano da Bolzano – meglio: con ogni probabilità da Verona, dove aveva sede il Comando tedesco al quale il campo di via Resia faceva capo. Tra le partenze da San Vittore e i trasporti da Bolzano esiste un nesso di interdipendenza, che sembra indicare che già al momento dell’arrivo nel carcere di San Vittore il destino dei singoli fosse segnato. Qualche “aggiustamento”, qualche sbavatura in questa pianificazione delle deportazioni si sono verificati con certezza quando sull’Appellplatz di Gries si trattava di comporre materialmente i convogli diretti ai KZ del Reich oltre il Brennero. Ma nella grande maggioranza dei casi si può parlare con certezza di un percorso le cui tappe erano state programmate fin dal momento dell’immatricolazione nel carcere milanese. Sul registro del reparto tedesco di San Vittore accanto all’annotazione relativa all’organizzazione che ha effettuato l’arresto c’è già spesso l’indicazione della sorte che attende il detenuto: KZ I, KZ II, KZ III. È noto che l’unico KZ di terza categoria era quello di Mauthausen, riservato ai reclusi “incorreggibili” destinati all’annientamento per mezzo del lavoro. Che quei prigionieri fossero destinati alla “scala della morte” della cava di granito di Mauthausen era dunque stabilito già al momento del loro ingresso nel reparto tedesco del carcere milanese. I tempi di questo percorso furono nei fatti piuttosto lunghi: il destino di ciascun recluso era dunque programmato nel medio periodo. Esaminando le vicende di coloro di cui conosciamo l’itinerario da Milano ai Lager della Germania, possiamo constatare che tutti coloro che furono portati da San Vittore in via Resia il 17 agosto 1944 partirono poi per Flossenbürg il 5 settembre, con 5 sole eccezioni (47). Si tratta di 150 persone che compirono lo stesso identico tragico calvario: non può quindi trattarsi solo di una pura coincidenza. Il successivo trasporto da San Vittore a Bolzano, quello del 7 settembre 1944 (oltre 250 deportati), alimentò, nella stragrande maggioranza dei casi conosciuti, il convoglio partito da Bolzano per Dachau il 5 ottobre 1944 (48). Nella stessa data, il 5 ottobre, partì per Dachau (per Ravensbrück, nel caso delle donne) anche il grosso di un terzo importante trasporto, partito da Milano il 20 settembre 1944. I prigionieri condotti a Bolzano da San Vittore il 17 ottobre 1944 erano invece destinati a Mauthausen. In maggioranza furono deportati in quel Lager il successivo 20 novembre, ma diversi partirono il 14 dicembre, e uno addirittura l’8 gennaio. Di tutti coloro di cui siamo riusciti ad accertare la presenza sulle corriere partite da Milano con quel trasporto, solo uno, Aristide Resmi, non andò a Mauthausen ma a Flossenbürg. Eppure il convoglio che lasciò il Durchgangslager il 14 dicembre fu spezzato in tre diversi tronconi: una parte dei vagoni che lo componevano giunse a Mauthausen, un’altra a Ravensbrück e una terza a Flossenbürg: i prigionieri maschi avrebbero potuto essere dispersi tra Mauthausen e Flossenbürg, e invece tutti finirono nel grande campo austriaco. Trova dunque conferma l’esistenza di un disegno preciso che riguardava ciascun deportato, fin dal suo arresto.

 

I “trasporti” dal Lager di Bolzano

 

N. Provenienti da Data arrivo a Bolzano Destinazione Data partenza

N. deportati

1 Fossoli fine luglio 1944 Mauthausen  5/8/1944 307
2 Milano 17/8/1944 Flossenbürg 5/9/1944 435
3     Innsbruck 18/9/1945 ??
4 Milano 7/9/1944 e 2/9/1944 Dachau 5/10/1944 518
5 Varie città   Ravensbrück 7/10/1944 31
6 Varie città   Auschwitz 24/10/1944 134
7 Milano 17/10/1944 e 11/11/1944 Mauthausen 18/11/1944 282
8 Varie città   Dachau 20/11/1944 38
9 Milano 22/11/1944 Mauthausen  14/12/1944 298
10 Varie città   Ravensbrück 14/12/1944 31
11 Milano  22/11/1944 Flossenbürg 14/12/1944 40
12 S. Stefano Cadore 5/12/1944 Mauthausen 8/1/1945 484
13 Milano 16/1/1945 Flossenbürg 19/1/1945 358
14 Milano 15/1/1945 Mauthausen 1/2/1945 541
15 Varie città   Dachau 22/3/1945 36

 

Si può dunque a buon titolo parlare di una vera e propria pianificazione delle deportazioni; una pianificazione che presupponeva un centro decisionale unico, e che richiedeva l’esistenza di un centro di smistamento di proporzioni adeguate. Il campo di via Resia rispondeva a questa esigenza: qui i prigionieri potevano essere impiegati in varie attività lavorative come schiavi al servizio dell’occupante nazista, in attesa di raggiungere la propria destinazione finale. Bolzano era dunque un ingranaggio chiave nella macchina dello sterminio e dell’annientamento attraverso il lavoro. E si potrebbe dire, guardando questi dati, che di Bolzano il carcere di San Vittore era il maggiore referente, svolgendo anch’esso, a sua volta, una funzione di parcheggio, di selezione e di smistamento. Si tratta, come abbiamo visto, di un meccanismo assai complesso, la cui logica sfuggiva ai malcapitati che finivano nei suoi ingranaggi. Di tutto ciò non vi è traccia in effetti nella pur ampia memorialistica relativa al campo, né negli studi che sono stati fin qui condotti, e che proprio alle testimonianze dei protagonisti hanno dovuto forzatamente affidarsi, in assenza di una documentazione ufficiale di fonte nazista (49). A decidere del destino di ciascun deportato era innanzi tutto la gravità dei reati (anche politici) che gli erano attribuiti. Così per esempio i “triangoli rosa” (rastrellati) bellunesi furono inviati per lo più in campi di lavoro coatto, mentre i “triangoli rossi” (politici) finirono nei KZ (50). E anche tra i politici, ci sentiamo di affermare, era già definita in partenza la quota di chi avrebbe proseguito per la Germania e quella di coloro che presumibilmente sarebbe rimasta a lavorare nel campo di Gries. Sul registro del reparto tedesco di San Vittore sono annotate anche le motivazioni dell’arresto: si finiva nei Lager perché partigiani o amici dei partigiani, per non meglio precisate “attività sovversive”; per aver cercato di espatriare illegalmente, per “spionaggio”, o “sabotaggio”, o anche per avere aiutato degli ebrei. È questo il caso del cinquantenne Antonio Bianchi e del ventenne Francesco Herstein, deportati da Milano il 21 novembre 1944, i cui nomi andrebbero a pieno titolo inseriti tra quelli dei “Giusti” che si opposero alla Shoah. Quando, il 28 agosto 1944, Carlo Venegoni (51), Enrico Pozzoli e Ambrogio Colombo vennero sorpresi da una pattuglia della GNR a Milano in una tipografia dove stavano preparando l’edizione clandestina dell’Unità, il loro destino era già di fatto segnato. Il maggiore Ferdinando Bossi, dirigente dell’UPI (Ufficio politico investigativo) della stessa GNR scrisse il 2 settembre 1944 una lettera al Comando nazista dell’Hotel Regina, a Milano, annunciando la cattura dei tre e raccomandando alla Gestapo di interrogarli ulteriormente. “Quali elementi colpevoli in linea politica e pericolosi per la sicurezza interna” – concludeva la lettera – gli arrestati “vengono proposti per l’invio in un campo di concentramento” (52). A quel punto i giochi erano fatti. Giunto a Bolzano, Carlo Venegoni entrò subito a fare parte del comitato clandestino di resistenza, e riuscì a farsi assegnare al Blocco A, quello dei lavoratori utili al campo, come addetto alla falegnameria. Egli riuscì inoltre a portare con sé nel Blocco A anche Pozzoli, il proprietario della tipografia da lui coinvolto nell’avventura della stampa clandestina antifascista; Pozzoli fu addetto alla tipografia interna del Lager. Era diffusa allora tra i deportati la convinzione che i lavoratori utili alla vita del campo avrebbero potuto evitare la deportazione oltre il Brennero. In realtà questa ricerca dimostra che in molte occasioni questa sorta di tutela non valse. Enrico Pozzoli e Ambrogio Colombo finirono infatti in Germania, così come richiesto dalla GNR, e in Germania furono uccisi. E Carlo Venegoni si salvò solo grazie alla fuga, tentata con successo il 26 ottobre. Ancora più chiaro il caso di Maria Arata, Ada Buffulini e Laura Conti, socialiste, tratte in arresto da fascisti del Gruppo Filzi a Milano. Laura Conti, che era da tempo pedinata, il 4 luglio 1944 andò a casa di Maria Arata per partecipare a una riunione politica nel corso della quale Ada Buffulini avrebbe dovuto incontrare, per conto del partito socialista, un gruppo di giovani. In questo modo tutti i presenti alla riunione furono tratti in arresto. Gli interrogatori cercarono di chiarire la responsabilità di ciascuno dei presenti. I ragazzi furono tutti rilasciati dopo pochi giorni. Ada Buffulini riuscì a liberarsi di alcuni documenti che avrebbero potuto comprometterla, anche se era evidente che qualche responsabilità nell’organizzazione della riunione ce l’aveva, al pari di Laura Conti. Di certo, fin da subito, la posizione più compromessa era quella di Maria Arata (53). Intanto perché la riunione si svolgeva in casa sua, e poi perché, come scrisse Ada Buffulini in una lettera clandestina dal carcere a Lelio Basso, allora leader del partito, “aveva in casa un fottìo di roba”, materiale clandestino di diversi partiti antifascisti, cosa che autorizzava a ipotizzare un suo ruolo di coordinamento ad alto livello: “Per lei è stata fatta una pessima relazione, in cui la si considera organizzatrice e istigatrice di tutti, in rapporto con elementi sovversivi e giudaici e non so che altro. Povera diavola!” (54). Proseguendo negli interrogatori le cose si chiarirono ulteriormente. Tanto che dopo qualche giorno Ada Buffulini, sempre usando canali clandestini, tornò a scrivere a Lelio Basso: “Per gli altri le cose vanno bene, tranne per noi ragazze. Sono saltate fuori nuove complicazioni anche per L. [Laura Conti, NdA] Di me, il tenente ha detto che non sa se mi consegnerà ai tedeschi. Ieri mi ha detto che in campo di concentr. starò bene, perché farò il medico” (55). Già a luglio, insomma, circa un mese e mezzo prima di partire per Bolzano, un “tenente” a San Vittore aveva annunciato ad Ada Buffulini che forse sarebbe stata trasferita in un campo di concentramento; annunciandole ciò che puntualmente avvenne.

 

Il numero di matricola

 

Nel Durchgangslager Bozen, come in tutti i campi nazisti, i prigionieri venivano di regola immatricolati con un numero progressivo. Non risulta in alcun modo che a Bolzano – al contrario di quanto avvenne per esempio a Buchenwald – si ri-assegnassero i numeri di matricola resi disponibili per qualsiasi motivo. Nella lista si trovano alcuni casi – una trentina in tutto – di deportati con lo stesso numero di matricola. Si tratta quasi certamente di un errore delle fonti alle quali abbiamo attinto e che non siamo riusciti a correggere. Su 7.982 nomi del nostro elenco, siamo riusciti a identificare circa 4300 numeri di matricola, una percentuale superiore al 50%. Giova ricordare che i registri ufficiali del campo sono stati deliberatamente distrutti dalle SS nella primavera del 1945. Inoltre parecchi tra i superstiti, intervistati nel dopoguerra, hanno ammesso di avere scordato il proprio numero di Bolzano. La cosa non deve sorprendere: molti, tra coloro che da Bolzano sono stati ulteriormente deportati oltre il Brennero, hanno dovuto imparare a memoria (in tedesco) il nuovo numero di matricola assegnato nel campo di arrivo. E con quello hanno convissuto magari per mesi. A Bolzano, al contrario, la vita quotidiana era per lo più scandita in italiano da prigionieri ai quali venivano affidati compiti di coordinamento nelle diverse funzioni. E i deportati si conoscevano per lo più per nome, e non per numero. È quindi frequentissimo che coloro che sono stati in seguito a Mauthausen, Dachau e negli altri KZ ricordino il numero di matricola di quel campo, e non quello di Bolzano. Una quota di prigionieri in via Resia, poi, non fu affatto immatricolata. Allo stato attuale delle ricerche sembra di poter dire che questo trattamento fu in genere riservato a persone che furono rinchiuse nelle Celle del campo (la prigione interna) per tutto il periodo di permanenza, prima di essere deportate verso il Reich. Le testimonianze in questo senso sono numerose. Giuseppe Castelnovo, arrivato a Gries il 22 dicembre da San Vittore, partì l’8 gennaio per Mauthausen. Fu rinchiuso per tutto questo periodo nelle Celle e conferma di non essere mai stato immatricolato. Alcuni superstiti affermano di non aver ricevuto un numero di matricola, perché “spettava soltanto a chi era destinato a rimanere a Bolzano”. Si tratta, in assenza di documenti ufficiali del campo, di una questione controversa. Di certo molti prigionieri politici non furono immatricolati. Quanti, è difficile dirlo. Probabilmente qualche centinaio. Non furono certamente immatricolati neppure gli ebrei. A essi era assegnato un triangolo giallo, senza numero di matricola (56 9. Nelle schede che seguono, gli ebrei che rimasero a Bolzano e che avevano un triangolo giallo sulla tuta sono convenzionalmente contraddistinti dalla matricola 0 (zero). Gli ebrei arrivati al campo che siamo riusciti a identificare sono poco più di 360. Di costoro una metà circa fu deportata oltre il Brennero (principalmente ad Auschwitz, con il trasporto del 24 ottobre 1944); l’altra metà restò a Bolzano fino alla liquidazione del campo, essenzialmente a causa dell’interruzione dei collegamenti ferroviari con il nord dopo il febbraio 1945. Si contano sulle dita di una mano gli ebrei trasferiti a Bolzano dal campo di Fossoli, perché considerati utili all’organizzazione del Lager: tra di loro i cuochi. Non risulta che avessero un numero di matricola neppure gli zingari. Laura Conti ricorda tra i prigionieri “bambini zingari italiani e spagnoli” che vivevano con le madri nel Blocco F, quello delle donne, e “parlavano solo la loro lingua quindi fu difficile sapere qualcosa su di loro” (57). Il sinto Vittorio Mayer (che riuscì a salvarsi restando coi partigiani) ricorda l’arresto di tutta la sua famiglia a Castello Tesino e la deportazione a Gries. Sua sorella Edvige, dice, è morta a vent’anni nel campo di Bolzano (58). Finora però non siamo riusciti a identificare con certezza alcuno zingaro tra i deportati. Nel “Registro Celle” riprodotto da Happacher nel suo lavoro, figurano spesso alcune sigle: SM, SC e KdS. È possibile che SM stesse per “Senza matricola” e SC per “Senza colore” (senza un triangolo colorato, quindi). Kds stava quasi certamente per Kommandeur der Sicherheitspolizei: indicava cioè i prigionieri tenuti nelle Celle del campo a disposizione del Comando di Sicurezza di Bolzano. Tutte le testimonianze sono concordi invece sul fatto che avevano un numero di matricola progressivo i “triangoli rosa”, i rastrellati, e quelli “verdi”, trattenuti in ostaggio al posto di parenti latitanti. L’unico “triangolo azzurro”, straniero nemico, di cui abbiamo una testimonianza diretta è quello assegnato all’allora ventenne Mike Bongiorno, che era cittadino americano. Egli afferma che nella dozzina di giorni che trascorse nelle Celle del campo gli fu imposto il triangolo – azzurro, appunto - ma nessun numero di matricola (59). Nell’ottobre 1944 l’amministrazione del campo fece una certa confusione nella registrazione dei nuovi arrivati. Dal numero 5000 si passò, per un banale errore, al 5501, per poi proseguire con il 5502, 5503, e così via. Fino a che l’errore fu scoperto, e le matricole cambiate agli interessati (60). Probabilmente per questo motivo, gli elenchi che sono giunti sino a noi (61) non sono univoci sui numeri assegnati tra il 5000 e il 5500: probabilmente, nel correggere l’errore, si finì con l’immatricolare due volte più di un prigioniero. Tra le matricole assegnate, il numero più basso che oggi conosciamo è quello del già citato Luigi Rimer (62), di cui ignoriamo però la data di arrivo a Bolzano. Stando alle sue dichiarazioni, Vinzent Demetz, numero di matricola 36, sarebbe arrivato a Gries all’inizio del giugno 1944. Di certo un gruppo di deportati politici e di rastrellati bellunesi, con numero di matricola compreso tra il 71 e l’84, arrivò attorno all’8 luglio 1944, quindi un paio di settimane prima dell’arrivo dei primi prigionieri provenienti da Fossoli, che giunsero a Bolzano attorno al 21 luglio (63). Questo primo gruppo di prigionieri, contraddistinto da una matricola così bassa, lavorò all’allestimento delle strutture essenziali del campo. L’avvio nei fatti della vita del Durchgangslager si può datare dunque attorno all’inizio di luglio (64). Ci sono poi alcuni bellunesi e alto-atesini che hanno numeri di matricola tra il 103 e il 225. Di lì in avanti c’è un gruppo di prigionieri provenienti da Fossoli, in concomitanza con la liquidazione di quel campo. Arrivano certamente dal Lager emiliano tutti i deportati (di cui conosciamo la provenienza)65 con matricola compresa tra il 225 e il 2900. Per alcuni deportati (Luigi Tansini, matricola 306; Renato Mattalia, 1124; Francesco Messina, 1965; Cesare Pasquali, 1914; Odoardo Focherini, 2506 e don Mario Crovetti, 2544) abbiamo la certezza – grazie alle loro testimonianze dirette – che conservarono a Bolzano la stessa matricola di Fossoli. Gianfranco Maris, che a Fossoli aveva il numero 315, da noi intervistato si è detto certo di non essere stato immatricolato nuovamente al suo arrivo a Bolzano da Fossoli. Di più: in una sua lettera dal campo di Bolzano alla moglie del 15 agosto 1944, Odoardo Focherini scrive testualmente: “L’indirizzo va bene, puoi completarlo con il 2506”, e cioè con lo stesso numero di matricola che Focherini aveva a Fossoli. In una cartolina postale inviata alla moglie dal campo emiliano il 5 luglio 1944, infatti, egli aveva indicato il mittente in questo modo: “Mittente 2506, baracca 19, Pol. Durchgangslager Carpi” (66). È la prova che quello era il numero che ufficialmente lo identificava, a Fossoli come a Bolzano. Tutto ciò dimostra che a Bolzano – dove la struttura di comando, l’amministrazione, il personale di vigilanza e come abbiamo visto perfino i cuochi erano gli stessi di Fossoli – la numerazione dei prigionieri nei fatti è iniziata – salvo quei pochi “numeri bassi” di cui abbiamo fatto cenno – là dove era giunta nel campo emiliano. E questo spiega anche come mai, nel nostro elenco, ci siano tante lacune nella numerazione delle matricole inferiori al numero 300067. Il primo numero di matricola che possiamo considerare con ragionevole certezza assegnato a Gries – sempre fatto salvo il gruppo dei primi “numeri bassi” – è il 2979 cucito sul petto a Bruno Galmozzi, tipografo, arrivato da Milano il 17 agosto 194468. Ciò suggerisce una valutazione nuova nella stima – necessariamente approssimativa, allo stato delle nostre conoscenze – del numero delle persone effettivamente transitate dal campo di via Resia. Se la numerazione di Bolzano non è partita dal n. 1, ma più o meno dal 2979, e si è fermata a 11115 (che è il numero di matricola assegnato più alto di cui abbiamo testimonianza) (69), abbiamo un “blocco” di 8.136 persone. A queste possiamo aggiungere circa 220 “numeri bassi” assegnati al gruppo dei primi deportati bellunesi, e arriviamo a 8.356. Sommando inoltre coloro che furono trasferiti da Fossoli conservando, come abbiamo visto, la propria matricola (le testimonianze parlano di 300 persone circa), arriviamo, abbondando, a circa 8.700. Aggiungiamo i circa 400 ebrei e circa altri 200 politici che non furono immatricolati, e arriviamo a un totale di 9.300 persone circa. Anche approssimando per eccesso questa nostra stima, probabilmente non siamo lontani dalla realtà se concludiamo che in totale i deportati a Bolzano siano stati circa 9.500. Se questo ragionamento è plausibile, la lista di cui oggi disponiamo contiene i nomi di oltre l’80% dei deportati a Bolzano. Si è diradata insomma tanta parte della nebbia che ha avvolto per decenni la storia di questo Lager, che oggi possiamo dire di conoscere nella sostanza, con il suo ruolo all’interno della macchina dello sterminio e dell’annientamento allestita dal nazismo, e con il suo carico di storie e di drammi individuali e collettivi. Associando i dati sugli arrivi a Bolzano con quelli delle matricole conosciute, possiamo anche abbozzare con buona approssimazione questo calendario di assegnazione delle matricole:

 

81 8 luglio 1944 7000 8 dicembre 1944
3000 17 agosto 1944 7500 19 dicembre 1944
3500 27 agosto 1944 8000 23 dicembre 1944
4000 7 settembre 1944 8500 16 gennaio 1945
4500 22/23 settembre 1944 9000 31 gennaio 1945
5000 6 ottobre 1944 9500 10 febbraio 1945
5500 20 ottobre 1944 10000 23 febbraio 1945
6000 11 novembre 1944 10500 2 marzo 1945
6500 24 novembre 1944 11000 21 aprile 1945

 

Il campo di Bolzano continuò a funzionare a pieno regime fino alla fine di aprile 1945. La sorte della guerra era ormai decisa, ma la macchina allestita dal nazismo per annientare coloro che Hitler considerava propri avversari non si arrestò fino all’ultimo. Un folto gruppo di persone – noi ne abbiamo identificate con certezza 61, con numeri di matricola attorno al numero 10900 – partì da Milano per Gries il 10 aprile 1945. In un suo libro di memorie (70), Edgardo Sogno racconta di essere stato deportato a Bolzano “attorno alla metà di aprile 1945”. Egli non fu immatricolato – e infatti non vi è traccia del suo passaggio nel campo nei due registri “dell’Intendenza” del 1945 (71) – ma rinchiuso immediatamente nelle Celle. Rimase a Bolzano al massimo un paio di settimane, quindi, prima di tornare in libertà e avviarsi – a piedi! – verso Milano. Il suo arrivo non fu certamente l’ultimo. Mentre tutto franava attorno ai nazisti, e si squagliava l’intera struttura statale della RSI, un camion carico di prigionieri ammanettati a gruppi di quattro partì incredibilmente da Parma il 21 aprile 1945. Superando mille insidie lungo la strada, esso riuscì avventurosamente a superare il Po, i cui ponti erano stati distrutti già da mesi dai bombardamenti degli Alleati, e – dopo una sosta a Verona – giunse fino al cancello di via Resia con il suo carico di deportati. I quali furono spogliati, rasati, immatricolati come se nulla fosse, come se intanto non stesse crollando il mondo attorno ai tedeschi, ormai in ritirata su tutto il fronte (72). Il gruppo di prigionieri provenienti da Parma ricevette numeri di matricola a cavallo dell’11000. Il numero più alto assegnato il 21 aprile di cui abbiamo certezza è l’11044. Ma il numero più alto in assoluto assegnato nel campo è, come già ricordato, l’11115. Dal 21 aprile, quindi, almeno altri 65 prigionieri arrivarono a Gries, e subirono la trafila della registrazione. Non conosciamo la data degli ultimi arrivi, ma di certo si dovettero incrociare, sulla soglia del Lager, gruppi di prigionieri che venivano allontanati da via Resia verso la libertà, e questi ultimi gruppi di nuovi venuti.

 

I blocchi e i campi satellite

 

Come in ogni Lager nazista, anche a Bolzano i prigionieri erano alloggiati in baracche coi letti a castello. Nel gergo del Lager ogni baracca era chiamata Block, Blocco in italiano. A Gries i Block erano ricavati separando con dei tramezzi delle sezioni di vecchi hangar preesistenti, ed erano contraddistinti da lettere (73). Il Blocco più temuto era quello delle Celle, la prigione del campo. Erano celle minuscole (in una lettera clandestina dal campo, Ada Buffulini, che vi fu rinchiusa per due mesi, scrive che la sua cella era lunga 3,50 metri e larga appena 1,20 (74) ) e quasi prive di luce. Nelle Celle soprattutto imperversavano due giovanissimi SS ucraini (75), che si resero colpevoli di orribili delitti nei confronti dei detenuti di questo Blocco. Nel nostro elenco incontriamo i nomi di 322 persone che transitarono dalle Celle. Molti prigionieri vennero fatti uscire da questa prigione interna solo per essere inseriti in un “Transport” per i Lager del Reich. Altri purtroppo, uscirono solo in una cassa di legno grezzo, stroncati dalle torture alle quali i due ucraini li avevano sottoposti. Bolzano aveva anche dei campi satellite. Si trattava poco più di Kommandos di lavoro decentrati, di poco conto, almeno fino a quando, nel febbraio 1945, un grande trasporto per Mauthausen non riuscì ad arrivare a destinazione a causa dei bombardamenti alleati che avevano interrotto la linea del Brennero. A partire dal febbraio, centinaia di deportati vennero spostati dal Lager principale – dove il sovraffollamento aveva creato ormai una situazione praticamente ingestibile – ai campi satellite. Allo stesso modo i deportati che venivano quotidianamente impiegati nel lavoro alla galleria del Virgolo (dove erano stati installati, al riparo dai bombardamenti, gli impianti dello stabilimento IMI di Ferrara) negli ultimi mesi della guerra smisero di andare e venire a piedi dal campo (il lungo tragitto aveva favorito, tra l’altro, il successo di molte fughe), ma furono alloggiati nei pressi della galleria. Ben 456 sono nel nostro elenco gli addetti al lavoro nella galleria. Il gruppo più numeroso inviato a lavorare lontano da via Resia lo si incontra però a Sarentino, con 501 unità. La Val Sarentino è quasi parallela alla valle che conduce al Brennero. E tutte le testimonianze sono concordi nel dire che i deportati in questo sottocampo furono essenzialmente impiegati in lavori stradali. Di qui l’ipotesi che il Comando tedesco abbia accarezzato negli ultimi mesi del conflitto l’idea di una sorta di “raddoppio” del Brennero, per garantire comunque alle proprie truppe un collegamento verso il nord, tanto da spostare in questa direzione una quota così rilevante di manodopera. Se mai questa ipotesi trovò credito in seno al Comando nazista, essa fu abbandonata, a causa del precipitare degli eventi bellici. In una sua memoria inedita, datata 22 giugno 1945, padre Diego da Loreggia (Luigi Carraro) fornisce una preziosa descrizione particolareggiata della vita e del lavoro nel sottocampo di Sarentino. “Il lavoro preponderante si svolgeva attorno a una strada che doveva essere allargata. (...) La vita che si conduceva qui era come quella del campo grande, con questa differenza, che ordinariamente c’era più da lavorare. L’alzata era alle cinque; alle sei, adunata; alle sei e un quarto, partenza per il lavoro; vi era chi arrivava al lavoro alle otto. A mezzogiorno, se arrivava a orario, c’era il rancio, altrimenti si doveva continuare a lavorare fino al suo arrivo. Dopo mezz’ora dal rancio si riprendeva il lavoro, che durava fino alle cinque e mezzo. Ore lunghe, ore interminabili, specialmente se il lavoro era pesante! (...) Nelle domeniche si lavorava fino a mezzogiorno; si incominciò il giorno di Pasqua, forse perché era Pasqua, a lavorare tutto il giorno. (...) Ogni mattina usciva da quel campo una colonna interminabile di prigionieri (duecento persone), inquadrati a cinque a cinque, tutti con il piccone o il badile sulle spalle. Fiancheggiati da guardie, vestiti da galeotti, tutti con la croce di S. Andrea ben visibile sulla schiena, mi dava proprio l’impressione di vedere una colonna di schiavi” (76). Sono parole illuminanti. Quello di Sarentino era dunque un cantiere stradale di considerevoli dimensioni, se ogni mattina vi si dedicavano 200 reclusi, e se ancora il 1° aprile 1945 (il giorno di Pasqua) si abolì il riposo settimanale per accelerare il lavoro. Anche altri campi satellite ebbero consistenti assegnazioni di manodopera: troviamo infatti 271 deportati a Vipiteno, 120 a Moso in Passiria (nel nostro elenco, così come nella fonte dalla quale abbiamo tratto questa informazione, indicato col toponimo tedesco: Moos) e 103 a Merano. Troviamo infine 21 deportati trasferiti a Bressanone e 17 a Colle Isarco. Conosciamo anche i nomi di 3 deportati spostati a Certosa Val Senales. Abbiamo registrato infine i quattro casi nei quali al posto del blocco è indicata la sigla OT (che dovrebbe indicare, ragionevolmente, l’Organizzazione Todt, e cioè il lavoro coatto). Nelle nostre schede individuali talvolta accanto al numero di matricola di un prigioniero sono indicati più Blocchi, o anche i nomi di diversi campi satellite. Il criterio che abbiamo adottato è quello di rispettare il più possibile un ordine cronologico. Così, se accanto al nome di un prigioniero è indicato “I D Sarentino”, ciò significa che egli – per quello che ne sappiamo – è stato assegnato inizialmente al Blocco I, quindi spostato al blocco D e infine nel sottocampo di Sarentino (77).

 

Deportati verso il Reich

 

I prigionieri di Bolzano deportati verso i campi del Terzo Reich sono nel nostro elenco 3.559, il 44,5% del totale. In realtà è probabile che gli oltre 1.000 nomi dei deportati a Bolzano che ancora non conosciamo vadano ricercati di preferenza tra coloro che da Gries furono trasferiti verso altre destinazioni, dalle quali forse non tornarono. I registri redatti nel 1945 che sono giunti fino a noi (78) sono stati compilati dichiaratamente sulla base del registro dell’intendenza del Lager del 5 febbraio 1945, e poi aggiornati fino ai primi di maggio. Mancano in questi registri con evidenza coloro che prima del 5 febbraio transitarono da via Resia magari per un breve periodo prima di essere nuovamente deportati. Conosciamo probabilmente la grandissima maggioranza dei nomi di coloro che furono deportati verso un KZ, grazie soprattutto al lavoro cinquantennale di Italo Tibaldi, responsabile di ANED Ricerche, e al Libro della memoria di Liliana Picciotto. Non abbiamo al contrario che scarsissime informazioni su coloro che da Gries furono avviati al lavoro coatto, magari camuffati da “lavoratori liberi” con tanto di contratto sottoscritto in via Resia. Pur con tutte queste precisazioni, impressiona l’elenco delle partenze per i campi del Reich: la macchina dello sterminio e dell’annientamento ingoiava senza sosta uomini, donne e bambini, e tornava con frequenza a reclamare in via Resia il suo tributo di esseri umani. Su 3.559 deportati verso i territori del Terzo Reich, conosciamo i nomi di 1.927 deportati a Mauthausen; 782 a Flossenbürg; 614 a Dachau; 136 ad Auschwitz e di 74 donne portate a Ravensbrück. Consultando la memorialistica e le testimonianze dei superstiti abbiamo trovato anche 12 deportati a Innsbruck-Reichenau, un numero certamente inferiore al vero. Nel dopoguerra i fratelli Renato e Gualtiero Malvano e il sacrestano Vinzent Demetz raccontarono di essere stati deportati il 18 settembre 1944 a Innsbruck, ed è altamente improbabile che sia stata organizzata una tradotta esclusivamente per sole tre persone. Nel suo libro di memoria, Pietro Chiodi dice di essere stato trasferito a Innsbruck il 15 settembre, sicuramente insieme a molti altri di cui però non conosciamo il nome. È possibile che anche Chiodi facesse parte, in realtà, del trasporto dei fratelli Malvano. Ma certo insieme a loro dovevano esserci molti altri uomini. Sono noti del resto i rapporti strettissimi che intercorrevano tra il campo austriaco e quello sud-tirolese79, e tutto lascia credere che è proprio a Innsbruck che si dovrebbe indagare per trovare le tracce di molti italiani che transitarono da Gries per essere indirizzati in altri Kommandos di lavoro. Non conosciamo per esempio il percorso che condusse il lucchese Piero Pierini da via Resia a Reichenau, e di lì al KZ di Dora Mittelbau, o il piemontese Enrico Giuseppe Bonnin a lavorare in una centrale elettrica in Germania. Giorgio Santarelli, di Firenze, raccontò di essere riuscito a evadere nell’ottobre 1944 da Caldaro, dove era stato condotto per lavoro. Pierino Stroppiana, piemontese, disse di aver fatto lo stesso con altri, mentre veniva portato a riparare un ponte presso Verona, nell’aprile 1945. È impossibile ricostruire per il momento tutti questi spostamenti da Bolzano di piccoli gruppi di deportati verso località anche distanti dal campo, per essere impegnati in Kommandos di lavoro. È praticamente certo che nei registri ufficiali del campo di questi movimenti ci fosse una annotazione. Ma quei registri, si sa, sono stati distrutti. Il primo grande trasporto da Bolzano verso un KZ fu quello del 5 agosto 1944 verso Mauthausen, con 307 deportati. Gran parte di costoro – forse la maggioranza – proveniva da Fossoli. Di certo 62 uomini di questo trasporto hanno per mesi seguito il medesimo destino: erano nel carcere di San Vittore insieme quando furono trasferiti, il 27 marzo 1944, a Fossoli. Di lì insieme giunsero a Bolzano, e ancora insieme partirono per Mauthausen, per essere poi tutti trasferiti a Gusen, dove la maggioranza finì purtroppo i suoi giorni. Conosciamo poi altre date e altri trasporti. Il 5 settembre partì un trasporto diretto a Flossenbürg, con 435 persone. A ottobre, nuovamente il giorno 5 del mese, partì un convoglio che fu separato in due tronconi: uno andò a Dachau con circa 500 deportati, l’altro a Flossenbürg, con circa 110. Il 24 ottobre 1944 partì l’unico trasporto diretto ad Auschwitz, con un centinaio di deportati: uomini, donne e bambini ebrei. Potrebbero essere stati trasferiti in questa occasione anche gli zingari, ma di questo non abbiamo alcun riscontro. Il 20 novembre 1944 altro convoglio per Mauthausen, con poco meno di 300 persone. Il 14 dicembre un convoglio portò 330 persone a Mauthausen; un vagone fu fatto proseguire per Ravensbrück e un altro per Flossenbürg. L’8 gennaio 1945 altro grande trasporto verso Mauthausen, con circa 500 deportati. Il 19 gennaio 1945 circa 400 persone furono condotte a Flossenbürg. Il 1° febbraio 1945 oltre 500 deportati furono trasferiti a Mauthausen. È questo l’ultimo trasporto di queste dimensioni da Bolzano verso i campi del Reich. Il 25 febbraio le SS cercarono di organizzare un altro importante trasporto per la Germania, ma l’interruzione della linea ferroviaria del Brennero, causata dai pesanti bombardamenti alleati, impedì la partenza del treno. Dopo un’attesa di circa tre giorni, chiusi nei vagoni piombati, i prigionieri furono infine fatti scendere e rientrare nel campo. Fu in questo periodo che si decise di ampliare i campi satellite – soprattutto, come abbiamo visto, quello di Sarentino – per ospitare parte dei prigionieri che continuavano ad affluire in via Resia dalle carceri dell’Italia settentrionale, e che il Lager non era più in grado di smistare verso il nord. Il 22 marzo 1945 i responsabili del campo riuscirono ugualmente a portare a termine un trasporto: una quarantina di uomini furono caricati con la scorta su un camion in partenza per la Germania, e trasferiti nel campo di Dachau (80).

 

Coloro che non sono tornati

 

Tra le 3.562 persone di cui conosciamo il nome che da Bolzano furono deportate in altri Lager nazisti, ben 2.053 non sono tornate: poco più di una su tre è sopravvissuta. Per valutare correttamente questo dato, già di per sé terrificante, occorre ricordare che il campo di via Resia è rimasto in funzione soltanto negli ultimi 9 mesi della guerra. Come abbiamo visto (81) molte persone furono deportate addirittura nel febbraio e nel marzo 1945, quando alla completa disfatta nazista mancavano si può dire soltanto poche settimane. Catapultati in Lager nei quali stava venendo meno il benché minimo equilibrio, quando le risorse alimentari da distribuire erano ridotte al minimo e la violenza del sistema raggiungeva l’acme, i prigionieri provenienti da Gries sopravvissero mediamente anche meno dei compagni di sventura arrivati prima di loro. A questo riguardo colpisce dolorosamente il lunghissimo elenco dei morti nei giorni a cavallo della fine del conflitto. Ben 98 sono i caduti noti del mese di maggio: persone che in massima parte hanno conosciuto il momento della liberazione, ma che non hanno recuperato le forze necessarie a tornare. Una quarantina sono i morti del 25 aprile 1945, quando l’Italia ormai festeggiava la liberazione e la vittoria sul nazifascismo. In qualche caso sappiamo con certezza che una persona è morta nella deportazione, ma non sappiamo indicare con esattezza dove, o quando: abbiamo indicato questa situazione con tre asterischi (***) al posto della località o della data del decesso. I morti accertati con nome e cognome all’interno del perimetro del campo di Gries sono nella nostra lista 48, comprendendo i 23 fucilati del 12 settembre 1944. Un elenco, stilato dal Comune di Bolzano e riprodotto da Luciano Happacher nel suo lavoro, contiene inoltre i nomi – qualcuno inesatto – di 14 persone decedute – o meglio, uccise – in via Resia tra il gennaio e l’aprile 1945. Nella conoscenza di questo decisivo versante siamo riusciti purtroppo a compiere soltanto modestissimi progressi. Non possiamo ancora dare un nome alle tante vittime che costellano i racconti dei sopravvissuti: quel ragazzo ripreso dopo una fuga e ucciso a frustate nel mese di settembre, di cui parla Pietro Chiodi nel suo libro (82); quell’altro, anch’esso accusato di un tentativo di fuga, ucciso il 17 dicembre dopo essere rimasto due notti immobile, appeso a un palo nel gelo al centro dell’Appellplatz, sono destinati per ora a rimanere senza nome, così come quell’uomo ucciso con una sbarra di ferro da Haage davanti a tutti i prigionieri nel corso dell’appello serale, che ritornava talvolta nei racconti dei genitori di chi scrive. Anche solo ricostruire il numero di queste uccisioni sarebbe importante. Laura Conti, che rimase nel campo ininterrottamente dall’inizio di settembre alla fine di aprile, e che faceva parte del comitato clandestino di resistenza, godendo quindi di un grado di informazione decisamente superiore a quello della media dei suoi compagni di sventura, in una testimonianza pubblicata di recente parla di circa 300 morti nel campo (83). Una cifra decisamente elevata, che non trova finora riscontri oggettivi. Laura Conti, medico, accenna in quella testimonianza a un certo numero di diabetici deceduti per mancanza di insulina e in generale al pessimo livello di assistenza sanitaria disponibile per i prigionieri. Ada Buffulini, che lavorò come medico nell’infermeria, in un suo articolo sul giornale dell’ANED, Triangolo Rosso, ricorda: “Il blocco E fu sempre destinato ai cosiddetti ‘pericolosi’ con i quali non si poteva comunicare. Era un ambiente allucinante, quasi buio perché tutto chiuso, in un’aria ammorbante per la puzza della cancrena dei congelati (ce ne furono molti fra i partigiani della montagna nell’inverno 1944-45), tra i lamenti dei febbricitanti, ai quali nessuno poteva portare alcun aiuto”. Più oltre, a proposito delle Celle (nelle quali fu rinchiusa per quasi due mesi), così si esprime: “Urli, calci, colpi di randello o di frustino toccavano a chi toccavano per le più futili ragioni e anche senza ragione affatto; bastonature crudeli avvenivano nella palazzina del comando e dentro le celle, specialmente per opera di due ucraini, Otto e Miscia, che erano veramente delle belve, ai quali si deve la morte di una ventina di detenuti nelle celle, uccisi nelle maniere più barbare” (84). Insomma, forse quella di Laura Conti fu una stima per eccesso: di certo i morti nel perimetro di quel muro, in quei 9 mesi, furono decisamente più numerosi dei 48 che riusciamo oggi con fatica a documentare. Anche sulla base delle scarsissime informazioni di cui disponiamo al riguardo, comunque, i 48 morti che siamo riusciti ad accertare dal luglio 1944 alla fine di aprile 1945 ci parlano di un luogo nel quale si poteva assistere in media a più di un’uccisione ogni settimana: un luogo di violenze e di terrore per centinaia, migliaia di uomini, donne e bambini.

LE FONTI

 

Questa ricerca nasce dalla consultazione di una ampia pluralità di fonti: documenti e testimonianze raccolti nell’arco di oltre mezzo secolo, e quindi spesso discordanti. A ciascuna fonte abbiamo dato un numero progressivo puramente convenzionale: si tratta dell’ordine con il quale quei documenti sono stati consultati. Raggruppando logicamente tali fonti, possiamo indicare alcune tipologie:

A Elenchi di deportati a Bolzano risalenti al 1945

Fanno parte di questo gruppo:

- i due “registri dell’Intendenza del 5 febbraio 1945” giunti fino a noi, indicati con i numeri (1) e (2);

- gli elenchi redatti da diversi componenti del comitato clandestino di resistenza reperibili nell’archivio della famiglia Buffulini-Venegoni (8); nell’archivio della famiglia Visco Gilardi (30) e nella ricerca di Luciano Happacher (23)  (85).

B – Elenchi di deportati italiani da Bolzano

Si tratta degli elenchi frutto della ricerca cinquantennale di Italo Tibaldi, superstite di

Mauthausen-Ebensee, sui Lager di Mauthausen (3), Auschwitz (4), Dachau (5), Flossenbürg (6) e Ravensbrück (7), e dell’elenco tratto da Valeriano Puccini Zanderigo dai microfilm dei registri originali del campo a Flossenbürg (6bis).

C – Archivi dell’ANED

Nella sua attività ininterrotta di oltre mezzo secolo, l’ANED ha raccolto un’immensa mole di informazioni sui deportati italiani. In questo caso sono stati consultati soprattutto gli archivi delle Sezioni Aned di Milano (15), Roma, Torino, Verona (26), Genova/Liguria (31), Bologna, Imola, Cormons e Schio (24).

D – Archivio della Fondazione Memoria della Deportazione

Decisivo è stato anche l’Archivio della Fondazione Memoria della Deportazione, nel quale

stanno progressivamente confluendo documenti e archivi privati e associativi di grande valore. Qui in particolare abbiamo consultato il registro delle entrate e delle uscite dal carcere milanese di San Vittore (11). Nel Fondo Bolzano Ricerca, presso la Fondazione Memoria della Deportazione, è depositata anche la corrispondenza intrattenuta nell’occasione di questa ricerca con numerosi superstiti del campo, con i familiari di molti ex deportati, con ricercatori e Istituti di storia della Resistenza che hanno studiato il fenomeno della deportazione localmente.

E – Pubblicazioni e ricerche sulla deportazione italiana

Abbiamo raccolto e confrontato tra loro i dati raccolti in diverse pubblicazioni edite in questi decenni per iniziativa di ricercatori che hanno agito spesso in collaborazione o per incarico della stessa ANED. Pensiamo in particolare agli studi sulle deportazioni dalla Liguria (con una prima edizione del 1978 e l’ultima del 2004) (86) o da Verona (1982) (87); alle ponderose ricerche ancora inedite sulle deportazioni dalla provincia di Pavia (9) (88) e dall’area industriale di Sesto San Giovanni (Milano) (25) (89); ma anche al volume La vita offesa, che raccoglie le testimonianze orali di circa 200 superstiti dei Lager (90). Fanno parte di questo filone anche il monumentale lavoro di Liliana Picciotto sulla deportazione ebraica (10) (91) e lo studio di Federico Steinhaus sugli ebrei deportati dall’Alto Adige (28)92, oltre che le ricerche di Gianni Faronato sui deportati a Bolzano dal Bellunese (18) (93), e di Emilio Da Re su quelli delle valli del Cadore (29) (94). Una menzione particolare merita al riguardo l’attenta opera di documentazione e di studio condotta da anni dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Bolzano, con il suo Circolo culturale. In particolare, per quanto riguarda questo lavoro, i due Quaderni della memoria dedicati alle testimonianze dei superstiti del campo di via Resia (21) (95) e agli atti del processo a carico di Michael Seifert, ex SS del campo, (22) (96). Dobbiamo, infine, alla pazienza e alla disponibilità di Stefano Icardi, ex sindaco di Rocchetta Tanaro (Asti) moltissime informazioni, da lui appositamente raccolte per noi tra alcuni protagonisti di quelle vicende, a proposito delle vittime del rastrellamento nazifascista che portò a Bolzano decine di giovani di Rocchetta Tanaro (19).

F – La memorialistica

Sono numerosi i titoli delle opere di memorialistica scritti da superstiti del campo di Bolzano. Abbiamo registrato in nota, in calce a ciascun nome, il titolo del libro di memoria dal quale abbiamo tratto delle informazioni. Su alcuni aspetti particolari della vita del campo e della loro personale esperienza abbiamo poi avuto il privilegio di intervistare direttamente – a voce o per lettera – alcuni superstiti: Carlo Bernardini, Mike Bongiorno, Giovanni Boni, Nori Brambilla Pesce, Giuseppe Castelnovo, Osvaldo Corazza, Dante Cordara, don Angelo Dalmasso, Nunzio Dicorato, Luigi Guadagnini, Gianfranco Mariconti, Gianfranco Maris, Luigi Mazzullo, Francesco Messina, Esther Misul, Aurelio Monti, Giacomo Musiari, Rosetta Nulli Bonomelli, Afro Percalli, Berto Perotti, Noemi e Wally Pianegonda, Guglielmo Pisani, Anna Rossi Azzali, Marisa Scala, Donato Spanò, Bruno Vasari e Valerio Zampol, oltre ai familiari e ai conoscenti di moltissimi deportati.

G – Gli archivi

La ristrettezza dei tempi imposti dal bando della UE97 ci aveva portato a ipotizzare esclusivamente un lavoro di raccolta e selezione di informazioni già pubblicate. In realtà l’occasione era troppo importante per rinunciare a cercare nuove possibili fonti. Abbiamo quindi attinto a diversi archivi, privati e pubblici.

- All’Archivio di Stato di Milano abbiamo consultato il registro del reparto tedesco di San Vittore (12) e – in parte – il Libro matricola del carcere (reparto italiano), relativamente al periodo luglio 1944 - aprile 1945 (13), oltre ad alcuni fascicoli su singoli deportati (98).

- All’Archivio di Stato di Torino abbiamo consultato il fondo della Prefettura di Torino relativo alle Attestazioni di ex-reduce civile dalla deportazione e dall’internamento (17) (99).

- Presso il Cdec – Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano – abbiamo consultato il Fondo archivistico “Cartoteca degli ebrei arrestati”, dossier “Fuggiti e scampati” (33).

- All’archivio storico del Museo storico di Trento abbiamo esaminato le carte depositate da Luciano Happacher al temine del suo lavoro, alla fine degli anni Settanta, e in particolare i questionari da lui raccolti tra i superstiti del campo di Bolzano (20) (100).

- Presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco di Roma abbiamo esaminato la corrispondenza clandestina inviata dal campo di Bolzano da Ada Buffulini a Lelio Basso (8) (101).

- Presso l’Archivio storico del Comune di Bolzano abbiamo consultato le 516 risposte a un questionario molto articolato diffuso nel 1996 tra i superstiti del campo (32) (102).

- Abbiamo inoltre ottenuto dall’Archivio della Curia Provinciale dei Cappuccini di Mestre la documentazione completa relativa alla deportazione a Bolzano di 5 frati del convento dei Cappuccini di Verona, all’inizio del 1945.

- Dall’ANED di La Spezia abbiamo infine ricevuto una copia fotostatica del registro denominato Rubrica matricola delle Carceri Giudiziarie di La Spezia 1943-1945 (103).

 

Alcune informazioni aggiuntive sulle fonti utilizzate per questa ricerca.

 

Distrutti dalle SS nell’aprile 1945 i registri originali, gli elenchi più completi che sono pervenuti fino a noi sono due distinti registri redatti con certezza nel 1945, quando il campo era ancora attivo. Entrambi recano in copertina la dizione “Intendenza - Elenco numerico degli internati” e fanno riferimento alla data del 5 febbraio 1945 (che è con ogni evidenza quella del registro originale utilizzato per la copia) tanto che a lungo si è pensato che si trattasse dello stesso registro.

Fonte 1

Quello che nel nostro lavoro abbiamo indicato come la fonte “1” è un registro compilato da Renato Matteini, deportato politico a Bolzano con il numero di matricola 9985, come risulta da una annotazione di suo pugno sulla prima pagina. Il registro fu poi donato a Bruno Galmozzi, “consigliere del campo di Bolzano”, come scrive Iside Farina, da un gruppo di superstiti del campo: la stessa Farina, Teresa Rabolli, Corrado Curzio Marchi, Ermanno Pasqualini, Luigi Pirelli e Laura Conti. Non conosciamo la data di questa donazione collettiva; essa è certamente successiva al 30 agosto 1945, giorno – per sua stessa dichiarazione – del rientro in Italia dal campo di Ravensbrück di Teresa Rabolli. Molti anni dopo, il 9 aprile 1968, Bruno Galmozzi donò questo registro alla “Sezione Prov. di Milano” dell’ANED. All’ANED il registro restò per decenni, fino a che, qualche anno fa, qualcuno lo sottrasse illegalmente. Rintracciato da ricercatori della Fondazione CDEC, il registro è stato riconsegnato dalla Fondazione CDEC all’ANED il 21 aprile 2005, e ora è custodito dalla Fondazione Memoria della Deportazione di Milano. Per realizzare questo lavoro Renato Matteini utilizzò un registro vergine tedesco, probabilmente originale del campo: è diviso in colonne e prevede l’inserimento dei nomi dei prigionieri, data di entrata e di uscita, ecc. In realtà Matteini si limitò a copiare dall’originale solo cognome e nome, secondo un numero di matricola progressivo. Il numero più basso registrato è il 27, Rinner Luigi, il più alto è l’11115, Tullo Franz104. Il registro, che abbiamo identificato come “1”, si è rivelato particolarmente prezioso in questa ricerca, perché in esso sono annotati anche gli spostamenti da un Blocco all’altro, e da Gries ai campi satellite.

Fonte 2

Il secondo registro “dell’Intendenza” è quello di gran lunga più famoso. Compilato su un normale quaderno con la copertina di cartone, è di proprietà delle sorelle Marsilli, che nell’inverno 2003 lo hanno affidato al Museo di Castel Tirolo (BZ), che attualmente lo custodisce. È questo il registro che fu fotocopiato e riprodotto da Luciano Happacher nel suo lavoro di ricerca che per quasi 30 anni ha rappresentato il punto di riferimento ineludibile per qualsiasi studio sul campo di via Resia (105). Questo registro riporta annotazioni scritte a più mani, riguardanti in genere l’indirizzo di ogni singolo prigioniero. Quando non siamo riusciti a ricostruire con altre fonti le generalità e la vicenda umana di quella persona, oggi quell’indirizzo è l’unico indizio che ci indica, sia pure con grande approssimazione, la sua provenienza. In queste annotazioni a margine ci sono moltissime inesattezze (come “Bergamo Alto” (106), o anche “partito per Mathausen”, anziché Mauthausen (107) ) che sono state volutamente lasciate com’erano nell’originale. Spesso accanto a un nome c’è una data. Non sappiamo con certezza a quale avvenimento si riferisca. Anche perché talvolta di date ne sono annotate due, e anche – eccezionalmente – due volte la stessa data. Potrebbe trattarsi, per quanto ne sappiamo, della registrazione di una particolare corvée, o di una punizione, o anche del giorno della liberazione, o della data di trasferimento in un sottocampo. In entrambi i registri, inoltre, molti nomi sono cancellati con un tratto di penna. Talvolta accanto troviamo una annotazione (Liberato, Scambiato, Evaso, ecc.) tracciata da un’altra mano e che comunque abbiamo riportato in nota. Salvo pochissimi casi, non è annotata la data di tale evento. Capita che nelle testimonianze personali vi sia un indizio utile a interpretare queste annotazioni. Osvaldo Bertinetti dichiarò nell’immediato dopoguerra alla Prefettura di Torino di essere stato liberato il 2 aprile 1945. In (1) risulta “scambiato”, e il suo nome è cancellato con una riga. Probabilmente le due informazioni coincidono: egli potrebbe essere stato liberato, per uno scambio di prigionieri, proprio quel giorno. Sovente la data segnata in (2) è assai prossima alla data della liberazione e alla liquidazione del campo (il 21 aprile, per esempio, che ricorre con altissima frequenza). Accanto al nome di quella stessa persona, in (1) è registrato il trasferimento in un sottocampo. Forse non è azzardato ipotizzare che in quella data quel detenuto sia stato trasferito in un’altra località e liberato. Molte testimonianze concordano infatti nell’affermare che negli ultimi giorni di aprile i deportati furono caricati su camion e liberati a gruppi in località non molto distanti da Bolzano (108). Quale che sia il significato di queste chiose all’elenco (2), noi le abbiamo riportate in nota. Forse ulteriori studi e approfondimenti riusciranno a dare una soluzione definitiva anche a questo dubbio. Il registro (1) contiene 3.268 nomi, 276 dei quali non compaiono nel registro (2). Nel registro 40  (2) troviamo 3.553 nomi, 536 dei quali non compaiono nell’altro elenco. Integrando le informazioni contenute nei due documenti abbiamo quindi potuto identificare 3.829 deportati in via Resia. Come abbiamo accennato in precedenza, nei casi di contrasto tra un registro e l’altro non esiste un criterio univoco per stabilire quale sia la fonte più attendibile. Esiste in verità anche un terzo registro compilato nel 1945. Di esso parlò don Daniele Longhi (matricola 7459 di Bolzano) in una lettera inviata l’11 giugno 1945 a Bruno Galmozzi: “Tutta la documentazione del campo di concentramento di Bolzano è andata perduta. Le SS hanno avuto il tempo di bruciare tutti gli incartamenti. Per più giorni l’autoclave del campo e le stufe del Corpo d’Armata di Bolzano, sede della SS, hanno dato alle fiamme tutti i preziosi documenti, verbali, registri, elenchi ecc. L’unico documento esistente è l’elenco completo per ordine di matricola degli internati politici esistenti in campo il 2 febbraio 1945. Stiamo elencando tali detenuti in ordine alfabetico. In settimana è pronto. Te ne manderò una copia”. L’originale di tale lista alfabetica, alla cui stesura partecipò personalmente don Daniele Longhi, è oggi depositato presso l’Archivio della Fondazione Memoria della Deportazione a Milano (109). Esso è la copia scritta a macchina, in un ordine alfabetico invero alquanto approssimativo, del registro (2), di cui riporta anche le annotazioni a margine di ciascun nome. Per questo motivo esso non figura tra le fonti del nostro lavoro. In alcune centinaia di occasioni abbiamo potuto constatare che entrambi i registri assegnano inizialmente un prigioniero a un determinato Blocco. Sul Registro (1) spesso la sigla di quel Blocco è cancellata con un tratto di penna, e sostituita da quella di un altro Blocco o di un campo satellite. Questo ci ha indotto a ritenere che per questa specifica informazione il registro (1) sia più aggiornato del registro (2), e ci ha permesso di ricostruire con ragionevole certezza il percorso di moltissimi prigionieri all’interno delle varie strutture del Lager.

Fonti 3, 4, 5, 6, 7

Abbiamo indicato con questi numeri gli elenchi, frutto di oltre mezzo secolo di ricerche condotte con inesauribile passione e con riconosciuta capacità di indagine da Italo Tibaldi, sulla deportazione italiana nei campi del Terzo Reich. In particolare abbiamo indicato con:

3 – l’elenco dei deportati da Bolzano a Mauthausen;

4 – l’elenco dei deportati da Bolzano ad Auschwitz;

5 – l’elenco dei deportati da Bolzano a Dachau;

6 – l’elenco dei deportati da Bolzano a Flossenbürg;

7 – l’elenco delle deportate da Bolzano a Ravensbrück.

A oggi si tratta delle informazioni più complete e attendibili di cui si disponga. Depositati presso l’AFMD e parzialmente pubblicati sul sito Internet dell’ANED (110) a partire dal maggio 2000, questi elenchi sono oggetto di studio e di verifica da anni e si sono dimostrati quanto mai accurati. Accanto a questi elenchi abbiamo consultato per questa seconda edizione quello redatto da Valeriano Puccini Zanderigo, che a Flossenbürg ha copiato i microfilm dei registri ufficiali del campo, annotando le generalità degli italiani. Questo lavoro, che abbiamo indicato come (6bis), si differenzia da quello di Tibaldi essenzialmente perché registra anche il luogo di nascita dei deportati, informazione che talora negli elenchi di Tibaldi manca. Tibaldi ha ricostruito i trasporti da via Resia verso il nord, registrando le generalità di circa 3.300 persone transitate – chi per lunghi mesi, chi anche solo per pochi giorni – dal Durchgangslager (111). Alcune centinaia di persone inserite negli elenchi di Italo Tibaldi figurano però anche in altre fonti da noi consultate. Come riconoscere che l’Andrea Tavolini deportato a Mauthausen, presente nell’elenco di Tibaldi, è davvero lo stesso Andrea Tavolini del Registro Celle (112)? Il Registro Celle ci dice che questo prigioniero è rimasto rinchiuso nella prigione del campo fino all’1 febbraio 1945. Proprio il giorno della partenza da Bolzano per Mauthausen del deportato presente nell’elenco di Tibaldi. Insomma, tutto lascia credere che si tratti proprio della stessa persona. Viceversa, il Francesco Battaglia registrato nel Registro Celle non è certamente l’omonimo deportato a Flossenbürg il 5 settembre 1944: il suo numero di matricola – 8126 – è stato assegnato attorno al Natale 1944, quindi quasi tre mesi dopo il 5 settembre; inoltre, egli risulta detenuto nella prigione del campo nel gennaio 1945: se era nelle Celle non poteva essere stato deportato nel settembre 1944.

Fonti 8, 14, 30

Ada Buffulini e Carlo Venegoni, i genitori di chi scrive, furono deportati entrambi da Milano a Bolzano il 7 settembre del 1944. Entrambi fecero parte del comitato di resistenza clandestino. Carlo Venegoni evase dal campo il 26 ottobre 1944 e riprese il proprio posto nella Resistenza, dirigendo nel 1945 le SAP di Genova Centro. Ada Buffulini rimase a Bolzano fino al 29 aprile 1945. A causa della sua attività clandestina fu rinchiusa nelle Celle dal 2 marzo al 20 aprile 1945, e non fu deportata verso il Reich solo a causa dell’interruzione della linea ferroviaria del Brennero. Entrambi conservarono il proprio triangolo rosso e il numero di matricola originale del campo. Molti anni dopo la loro scomparsa, i figli hanno trovato tra le carte di famiglia (8) un biglietto clandestino giunto a Carlo Venegoni nel campo. Un biglietto che gli doveva essere stato recapitato negli attimi immediatamente precedenti l’evasione (in caso contrario egli l’avrebbe distrutto certamente). Oltre a questo biglietto, sono stati trovati alcuni esemplari in bianco, firmati da Ada Buffulini, di una dichiarazione a nome del CLN di Bolzano che è stata consegnata ai prigionieri del Lager all’indomani della liberazione. Nell’archivio privato della famiglia di Ferdinando Visco Gilardi (30), l’uomo che dall’esterno coordinava l’attività di assistenza ai deportati del campo, e che per mesi era stato il referente principale del comitato clandestino interno al campo, sono conservati numerosissimi biglietti originali scritti di pugno da Ada Buffulini (113), Laura Conti, Armando Sacchetta, Renato Serra e altri, alcuni dei quali non identificati. Si tratta per lo più di biglietti “di servizio” con i quali si segnalavano arrivi e partenze nel campo, e si consigliava l’invio di alimenti o vestiario ai prigionieri in maggiore difficoltà. Quando sono citate nella nostra ricerca, queste lettere sono indicate con il numero progressivo annotato sull’originale; un numero che non segue un ordine cronologico. Nell’Archivio della Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, a Roma, sono state infine rintracciate altre lettere scritte clandestinamente da Ada Buffulini, allora militante socialista, a Lelio Basso (14). Si tratta di missive fatte uscire clandestinamente dal carcere di San Vittore (a partire dai giorni immediatamente successivi all’arresto, il 4 luglio 1944), e dal campo di Bolzano (dal settembre 1944 all’aprile 1945). Sono documenti che testimoniano delle difficoltà, dei rischi e delle tensioni che caratterizzarono l’attività del comitato clandestino di resistenza, di cui Ada Buffulini era coordinatrice. Queste lettere sono state numerate da chi scrive in ordine cronologico da 0 a 21: le note nella lista riportano tale numerazione (114).

Fonte 11

Si tratta delle copie fotostatiche, custodite da decenni presso l’ANED di Milano e ora dalla Fondazione Memoria della Deportazione, di alcuni registri del carcere milanese di San Vittore, risalenti al periodo marzo-novembre 1944. L’originale di uno di questi registri si trova presso il Museo di Storia contemporanea di Milano. Degli altri originali si ignora la collocazione attuale. In essi sono annotati oltre al nome e il cognome del recluso, il suo numero di matricola, il “braccio” del carcere e la cella.

Fonti 12, 13

Nel registro del reparto tedesco di San Vittore (12), depositato presso l’Archivio di Stato di Milano, sono annotate le deportazioni verso Bolzano di alcune centinaia di persone, dal novembre 1944 all’aprile 1945. Esso consiste di alcuni registri italiani per protocollare la posta, riuniti da un’unica rilegatura. La pagina di sinistra reca l’intestazione “Lettere in arrivo”, quella di destra “Lettere in partenza”. Sono compilati in tedesco: ogni scheda riporta nome e cognome dell’arrestato, luogo e data di nascita, professione e indirizzo. Quasi sempre c’è una annotazione relativa all’accusa mossa al prigioniero, o anche all’autorità che l’ha arrestato. Per i deportati a Bolzano si usava un timbro ad hoc: “Am (data) mach Bozen überstellt”, inviato a Bolzano il... Ci sono intere pagine, una di seguito all’altra, nelle quali questo timbro si ripete ossessivamente. Non abbiamo la prova, ovviamente, che tutti coloro che partirono per Bolzano arrivarono effettivamente al campo. Anzi, sappiamo che in qualche caso così non è stato, perché dei diversi tentativi di fuga che hanno caratterizzato questi trasporti verso il Lager, qualcuno è fortunatamente andato a buon fine. Sappiamo, per esempio, che nel trasporto del 14 febbraio 1945 da San Vittore, realizzato con un’autocorriera doppia con le due parti unite da un soffietto di tela, alcuni prigionieri riuscirono a evadere tagliando quel soffietto e approfittando di un po’ di confusione creata ad arte da altri prigionieri. Di alcuni tra gli evasi conosciamo anche il nome: Mario Bonzanini, Giulio Perri, Di alma Previti e Aldo Pera. E infatti questi nomi non figurano nella nostra lista (115). Non possiamo escludere, però che anche qualcun altro, tra i partenti quel giorno, sia riuscito a sottrarsi alla deportazione. Si tratta di casi rarissimi, però. La grandissima maggioranza dei nomi citati nel registro del reparto tedesco di San Vittore trova riscontri presso altre fonti come deportati in via Resia. In tal caso questo registro si è rivelato quanto mai prezioso, fornendoci indicazioni sui dati anagrafici e sulla storia carceraria di moltissimi prigionieri di cui conoscevamo solo il nome. Analogamente, anche il Libro matricola del carcere milanese (13) rappresenta una miniera di informazioni registrando generalità dei reclusi, data e motivo dell’arresto. Nella stragrande maggioranza dei casi, i predestinati venivano consegnati al reparto tedesco alla vigilia della partenza di un trasporto per Bolzano, a dimostrazione degli strettissimi rapporti di collaborazione tra autorità della RSI e occupanti nazisti.

Fonte 23

Nel suo lavoro pubblicato nel 1979, Luciano Happacher ha incluso, oltre alla trascrizione del registro dell’Intendenza da noi indicato come (2), quella di numerosi elenchi di deportati stilati clandestinamente dalle organizzazioni di resistenza116, e un Registro Celle, redatto certamente quando il campo era ancora in funzione, anche se non ne conosciamo l’autore. Conosciamo il nome di un migliaio di prigionieri del Lager solo grazie a queste liste, stilate e diffuse a rischio della vita da numerosi deportati. Era anche questa una forma di resistenza al nazifascismo. Si contrastava nei fatti l’essenza stessa del decreto Nacht und Nebel (Notte e Nebbia) voluto personalmente da Hitler e siglato dal maresciallo Wilheim Keitel il 7 dicembre 1941: chiunque fosse stato segnalato, denunciato o semplicemente sospettato di attività contrarie agli interessi del Reich avrebbe dovuto essere arrestato “nel cuore della notte” e “fatto sparire nella nebbia dell’ignoto”, senza lasciare traccia di sé. Di particolare rilievo è l’elenco denominato N, relativo agli “Assistiti” dal CLN, che comprende quasi 250 nomi, a testimonianza dell’attività incessante di un gruppo di temerari a favore degli internati, ai quali venivano inviati generi alimentari, vestiario e soldi117. Questo elenco è tratto da una rubrica telefonica compilata a partire dal febbraio 1945 da Franca Turra, da lei conservata fino alla morte e donata il 21 aprile 2005 dalla figlia Gabriella Turra all’AFMD. Tra gli elenchi riportati in appendice al libro di Happacher, il Documento 4, di pagg. 200-201 altro non è che la lista dei prigionieri ebrei compilata da Renato Matteini nel suo registro (1). L’elenco denominato L a pag. 163 del libro di Happacher è la trascrizione dell’elenco degli internati nelle Celle del campo che Armando Sacchetta inviò a Franca Turra “Anita” l’8 aprile 1945. Nel nostro lavoro, ci è parso giusto attribuire quell’elenco al suo autore.

Fonti 27, 32

Una delle fonti archivistiche in assoluto più significative per quanto attiene il campo di via Resia si trova presso l’Archivio storico del Comune di Bolzano, dove sono custoditi tra l’altro 516 questionari distribuiti nel 1996 e compilati dai superstiti del campo (32). In 63 casi il questionario è stato compilato da un familiare, nell’impossibilità di farlo da parte dell’interessato. Il questionario si sviluppa in 10 facciate con domande che vanno dall’arresto fino al dopoguerra, passando per la deportazione, i trasporti, il lavoro forzato, il comitato clandestino, la liberazione e il ritorno a casa. È un materiale che attende ancora di essere elaborato: esso potrebbe fornire una fotografia quanto mai viva della vita del campo e delle persone che vi furono deportate. Accanto ai questionari l’archivio custodisce anche la più ampia raccolta di videointerviste a superstiti del campo (27). Parte di tali videointerviste è pubblicata sul sito www.testimonianzedailager.rai.it.

Fonte 33

Nell’enorme archivio della Fondazione CDEC, a Milano, c’è un raccoglitore nel quale sono riunite tutte le informazioni disponibili su ebrei arrestati e condotti nei campi di concentramento fascisti o nei Lager delle SS di Fossoli e di Bolzano.

 

INDICE DELLE FONTI

1 Registro intendenza di Bolzano dell’ANED, AFMD.

2 Registro intendenza di Bolzano delle sorelle Marsilli, Museo di Castel Tirolo (BZ).

3 Lista degli italiani deportati a Mauthausen a cura di Italo Tibaldi (AFMD, parzialmente pubblicata nel sito Internet dell’ANED, www.deportati.it).

4 Lista degli italiani deportati ad Auschwitz a cura di Italo Tibaldi (AFMD, parzialmente pubblicatanel sito Internet dell’ANED, www.deportati.it).

5 Lista degli italiani deportati a Dachau a cura di Italo Tibaldi (AFMD, parzialmente pubblicata nel sito Internet dell’ANED, www.deportati.it).

6 Lista degli italiani deportati a Flossenbürg a cura di Italo Tibaldi (AFMD, parzialmente

pubblicata nel sito Internet dell’ANED, www.deportati.it).

6bis Lista dei deportati italiani a Flossenbürg redatta da Valeriano Puccini Zanderigo, sulla base dei microfilm del registro originale del campo (AFMD).

7 Lista degli italiani deportati a Ravensbrück a cura di Italo Tibaldi (AFMD, parzialmente pubblicata nel sito Internet dell’ANED, www.deportati.it).

8 Archivio famiglia Buffulini-Venegoni.

9 Antonietta Arrigoni e Marco Savini, Dizionario biografico della deportazione pavese, Unicopli, Pavia, in corso di stampa.

10 Liliana Picciotto, Il libro della memoria, Mursia, Milano 2002.

11 Registri entrate e uscite dal carcere milanese di San Vittore. Copia fotostatica presso AFMD.

12 Registro matricola del reparto tedesco di San Vittore - ASMI, in via di catalogazione.

13 Libro matricola di San Vittore - ASMI, in via di catalogazione.

14 Lettere clandestine di Ada Buffulini a Lelio Basso, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, Serie 7 - Resistenza, fasc. 2, s. fasc. 3.

15 Anna Bravo e Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa, storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Franco Angeli, Milano 1986.

16 Elenco del CLN di persone che si trovavano a Bolzano “a tutto il settembre 1944 e che attualmente sono state deportate parte a Flossenbürg, parte a Hersbruck”, documento di data incerta antecedente il 10 febbraio 1945, AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 28.

17 Attestazione di ex-reduce civile dalla deportazione e dall’internamento - Prefettura di Torino, presso Archivio di Stato di Torino (il numero della busta di riferimento è inserito nelle note).

18 Gianni Faronato (a cura di), Ribelli per la libertà, testimonianze sul campo di Bolzano, Castaldi Editore, Feltre 1995.

19 Informazioni raccolte nel 2004 da Stefano Icardi sui deportati da Rocchetta Tanaro (AT), AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 46.

20 Archivio storico - Museo Storico di Trento Archivio Resistenza II parte, Busta 6, Fasc. 5 / 6.

21 Giorgio Mezzalira e Cinzia Villani (a cura di), Anche a volerlo raccontare è impossibile - Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano, Quaderni della memoria n.1, Circolo Culturale Anpi di Bolzano, Bolzano 1999.

22 Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo (a cura di), Mischa, l’aguzzino del campo di Bolzano – Dalle carte del processo a Michael Seifert, Quaderni della memoria n. 2, Circolo Culturale Anpi di Bolzano, Bolzano 2002.

23 Liste di varia provenienza riportate in Luciano Happacher, Il Lager di Bolzano, Comitato provinciale per il 30° anniversario della Resistenza e della liberazione, Trento 1979.

24 Fondo Bolzano Ricerca, AFMD.

25 Ricerca sui deportati dall’area industriale di Sesto San Giovanni (MI) di Giuseppe Valota, in collaborazione con Giuseppe Vignati. In via di pubblicazione.

26 Documenti dell’archivio ANED di Verona, AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta n. 16.

27 Interviste filmate «Testimonianze dai Lager», a cura dei Comuni di Bolzano e di Nova Milanese (MI) in parte reperibili all’indirizzo Internet www.testimonianzedailager.rai.it.

28 Federico Steinhaus, Ebrei/Juden - Gli ebrei dell’Alto Adige negli anni Trenta e Quaranta, Giuntina, Firenze.

29 Emilio Da Re (A cura di), Venti mesi di dominazione tedesca 12.9.43 - 2.5.45 - Il contributo del Cadore alla guerra di liberazione, Magnifica Comunità Cadorina, senza data. Bozze di stampa presso la Biblioteca di Vigo di Cadore. Copia in AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 23.

30 Carte di Ferdinando e Mariuccia Visco Gilardi relative al Comitato clandestino del campo. Originali presso la famiglia Visco Gilardi. Copia presso AFMD. La numerazione dei fogli è quella originale, apposta non sempre con rigoroso ordine cronologico.

31 Rosario Fucile, Liliana Millu e Gilberto Salmoni (a cura di), Dalla Liguria ai campi di sterminio, Regione Liguria, Provincia di Genova, ANED, Genova 2004.

32 Comune di Bolzano - Assessorato alla Cultura Archivio storico - Progetto «Storia e memoria: il Lager di Bolzano» - Questionario sul lager di Bolzano, 1996.

33 Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Milano, Fondo “Cartoteca degli

ebrei arrestati”, dossier “Fuggiti e scampati”.

 

ABBREVIAZIONI E SIMBOLI

§ - Il segno indica che probabilmente si tratta della stessa persona e non di due distinte

*** - Indica che non si conosce il luogo o la data della liberazione o della morte di quel deportato

Dec. - Nelle liste di Italo Tibaldi, i superstiti dei Lager deceduti prima del 2000, anno di inizio della parziale pubblicazione delle liste sul sito dell’ANED

Quest. - Questionario

SC – Nel Registro delle Celle del Lager, forse stava per “Senza Colore”, e cioè i prigionieri ai quali non

era stato assegnato un triangolo colorato

SIR Arolsen - Certificati rilasciati dal Service International de Recherches della Croce Rossa Internazionale di Arolsen in Germania

SM - Nel Registro delle Celle del Lager, forse stava per “Senza Matricola”, e cioè i prigionieri ai quali non era stato attribuito un numero di matricola

Sup. - Nelle liste di Italo Tibaldi, i superstiti dei Lager ancora in vita nel 2000, anno di inizio della parziale pubblicazione delle liste sul sito dell’ANED

 

LEGENDA DELLE SIGLE PRESENTI NELLE NOTE

AFMD - Archivio Fondazione Memoria della Deportazione, Milano

ANED - Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti

ANPI - Associazione Nazionale Partigiani d’Italia

ASMI - Archivio di stato di Milano

CLN - Comitato di Liberazione Nazionale

GAP - Gruppi di Azione Patriottica

KdS - Kommandeur der Sicherheit, Comando di Sicurezza delle SS

SAP - Squadre di Azione Patriottica

SD - Sicherheitsdienst, Servizio informativo delle SS

 

NOTE

(1) L. Happacher, Il lager di Bolzano, Comitato provinciale per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione, Trento 1979.

(2) Vedi in proposito il capitolo “Le fonti”.

(3) Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti; è l’organizzazione unitaria dei superstiti dei Lager nazisti e dei familiari delle vittime. Fondata nell’immediato dopoguerra, ha dato vita di recente alla Fondazione Memoria della Deportazione – Biblioteca Archivio Pina e Aldo Ravelli, con sede a Milano, per proseguire in futuro gli studi sulla deportazione e per “dare alla memoria un futuro”.

(4) www.deportati.it

(5) Vedi il capitolo “Le fonti”.

(6) Vedi il capitolo “La data di nascita”.

(7) Vedi ulteriori dettagli al capitolo “La data di nascita”.

(8) Sui rastrellamenti e le deportazioni dalla zona di Foligno (PG) vedi O. Lucchi (a cura di), Curve nella memoria... angoli del presente. La deportazione in Germania dalla montagna folignate, Foligno 2002.

(9) Vedi il capitolo “Le fonti”.

(10) Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, Fondo archivistico “Cartoteca degli ebrei arrestati”, dossier “Fuggiti e scampati”.

(11) L. Picciotto, Il libro della memoria, Mursia, Milano 2002, pagg. 190 e 478.

(12) Testimonianza di Rosa Nulli Bonomelli all’Autore, 10/11/2003 e 11/12/2003.

(13) L’episodio si colloca con certezza tra il 14 settembre – data della deportazione della famiglia Nulli-Bonomelli – e il 26 ottobre 1944, perché è stato riferito a chi scrive da suo padre Carlo, che appunto il 26 ottobre 1944 fuggì dal campo di via Resia.

(14) I. Tibaldi, Lista dei deportati italiani a Mauthausen, AFMD, parzialmente pubblicata nel sito Internet dell’ANED, www.deportati.it, edizione online a cura di Dario Venegoni.

(15) M. Micheli, I vivi e i morti, Mondadori, Milano 1967, pagg 76-78.

(16) I. Tibaldi, Lista dei deportati italiani a Mauthausen, cit.

(17) L. Bertoldi, “La tua memoria ti renderà libera”, in “Patria Indipendente”, n. 2, 24 febbraio 2002. Intervista dell’Autore a Noemi e Wally Pianegonda, Trieste 25/9/2004.

(18) Intervista con l’Autore, 14/4/2004.

(19) L. Conti, Primi risultati di una ricerca sul Polizeiliches Durchgangslager di Bolzano, in “Cristallo”, VI, 1964, pagg. 27-41

(20) Lettera clandestina dal campo di Bolzano di Ada Buffulini a Lelio Basso: “Caro L. c’è qui con noi la moglie di Montanelli. (...) Ha raccontato che suo marito è uscito di carcere col permesso dei tedeschi con la promessa di aiutarli. Per questo lei è qui come ostaggio e ha sempre paura che faccia qualche cosa ‘contro la sua coscienza’ perché Sevek ha detto che la sorte di lei, moglie, dipende dalla condotta del marito. Montanelli sarebbe occupato di lavorare in Svizzera, inoltre sarebbe molto vicino a Sevek e insieme con lui dovrebbe esercitare una specie di controllo sul lavoro dei vari marescialli che hanno condotto le nostre pratiche a San Vittore allo scopo di dimostrare le loro manchevolezze ed accentrare tutto nelle mani di Sevek”. Archivio Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, Serie 7 - Resistenza, fasc. 2, s. fasc. 3. Non conosciamo i dettagli della missione che Saewecke avrebbe affidato a Montanelli. È un fatto che Margareth restò a Bolzano fino alla fine della guerra, come vice responsabile del Blocco delle donne, e che si meritò il rispetto di tutte le deportate (testimonianza di Onorina Brambilla Pesce all’Autore, aprile 2004). Theodor Saewecke, condannato all’ergastolo dal Tribunale Militare di Torino per i crimini commessi a Milano, è morto nella sua casa di Amburgo nel gennaio 2001.

(21) L. Happacher, cit., pag. 73 e segg.

(22) Arturo Banterla così ha ricordato la circostanza: “Prima di partire siamo riusciti a contattare le donne, che erano dall’altra parte dell’asse che divideva i Blocchi. (...) Siccome le donne avevano probabilmente più libertà di noi, ci hanno procurato degli attrezzi per la fuga, ci hanno dato delle seghette e delle pinze”, Testimonianza filmata, Archivio Storico del Comune di Bolzano. Bruno Vasari, per parte sua, ricorda: “Al momento della partenza ho ricevuto da un comitato che c’era a Bolzano un po’ di soldi e un seghetto. Questa sega non è servita a me, ma ai miei compagni per un tentativo di fuga che poi non è riuscito. (...) I soldi sono poi rimasti in un soprabito che ho dovuto consegnare a Mauthausen appena arrivato”, intervista all’Autore, novembre 1998, audiocassetta nell’archivio della famiglia Venegoni.

(23) Ricordiamo a questo proposito la lettera di Armando Sacchetta, in quel periodo coordinatore all’interno del campo del comitato di resistenza, indirizzata ad “Anita” (Franca Turra) il 9 aprile 1945: “Cara Anita, siamo convinti, arciconvinti che più di quanto facciate non si può fare. Non vi si potrà mai ringraziare abbastanza, e, dopo che tutto sia finito, un monumento equestre non ve lo toglie nessuno”, archivio famiglia Visco Gilardi, Foglio 38. Per alcune, poi, la detenzione fu particolarmente penosa. Bianca Paganini racconta, nella sua testimonianza (pubblicata in Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück, Einaudi, Torino 1978) che con lei, nel vagone che partì il 7 ottobre da Bolzano per Ravensbrück “c’erano... una donna incinta e altre, malate”. Rimase rinchiusa nel campo, con il suo regime di lavoro duro e di scarsissima alimentazione, anche un’altra donna incinta. Si chiamava Anna Azzali, ed era moglie di Luigi Azzali, deportato e ucciso a Mauthausen; attorno a lei era scattata la solidarietà dei deportati. In una lettera uscita clandestinamente dal campo il 3 dicembre 1944, Ada Buffulini, coordinatrice dall’interno del comitato di resistenza clandestino, scrive a “Giacomo” (Ferdinando Visco Gilardi, che dall’esterno coordinava l’attività di assistenza): “Ti prego di mandare periodicamente (almeno una volta per settimana) un pacco di viveri alla signora Anna Azzali, perché è incinta di 7 mesi, molto deperita e ha assoluto bisogno di nutrirsi” (24). Questo appello fu certamente raccolto, perché il suo nome risulta citato tra le diverse centinaia di deportati “assistiti” dal comitato clandestino  (25). Lei stessa, quasi novantacinquenne, rintracciata a Milano nel marzo 2005, ricorda del resto di avere ricevuto nel campo dei viveri, confezionati in una grossa scatola metallica di tipo militare. Liberata da Bolzano attorno all’Epifania, il 4 marzo 1945 diede alla luce un bambino, Giancarlo, già orfano del padre. Era un bambino gracilissimo e la madre, che aveva condotto quasi tutta la gravidanza in carcere o nel campo di concentramento, non aveva latte per lui. Giancarlo Azzali morì quando aveva solo pochi mesi, e può a buon titolo essere annoverato tra le vittime del Lager di via Resia.

(24) Lettera clandestina di Ada Buffulini a “Giacomo”, 3/12/1944, archivio famiglia Visco Gilardi, Foglio 44.

(25) Cfr. L. Happacher, cit., pagg. 168-172.

(26) Si devono allo Studio BBPR alcuni progetti di eccezionale rilievo, come quello della Torre Velasca e della Citibank di piazza Meda a Milano, o quello della sistemazione del Museo del Castello Sforzesco, sempre a Milano. Lodovico Belgiojoso, scomparso a 94 anni il 10 aprile 2004, firmò anche alcuni dei più significativi monumenti a ricordo della deportazione italiana: il Museo-Monumento di Carpi (Modena), il monumento al Deportato al cimitero Monumentale di Milano, il padiglione italiano ad Auschwitz, fino all’ultimo, il monumento al Deportato al Parco Nord di Milano, realizzato insieme al figlio Alberico.

(27) Il suo coraggioso atteggiamento nei confronti dei torturatori fascisti della banda Koch, nella “Villa triste” di Milano, e la sua tragica fine a Mauthausen sono ricordati in Mino Micheli, I vivi e i morti, cit., pagg. 138-146.

(28) La Legione Autonoma Ettore Muti, fondata a Milano nel 1944 dall’ex squadrista Franco Colombo, è ricordata per le torture e le vessazioni inflitte ai detenuti nella caserma di via Rovello, oggi sede del Piccolo Teatro di Milano. Furono uomini della “Muti” a fucilare a Milano, il 10 agosto 1944, i 15 Martiri di piazzale Loreto.

(29) All’indomani della Liberazione, nei sotterranei del palazzo restavano ancora più che visibili le tracce del sangue dei torturati. Quei segni furono lasciati dov’erano, e coperti da uno strato di calce. Le celle delle torture sarebbero diventate i camerini degli artisti del Piccolo Teatro di Milano, che proprio di quelle torture e di quelle sofferenze si prescrisse di serbare il ricordo.

(30) Virgilio Ferrari, socialdemocratico, fu sindaco di Milano dal 1951 al 1961.

(31) Abramo Oldrini, comunista, fu sindaco di Sesto San Giovanni (MI) dal 1946 al 1962, anno della sua morte.

(32) Emilio Sereni (Roma, 1907-1977), dirigente del PCI clandestino, condannato nel 1930 dal Tribunale speciale fascista a 20 anni (poi ridotti a 15). Liberato per amnistia nel 1935 espatriò a Parigi, dove si impegnò in un intenso lavoro culturale e di propaganda. Durante la Resistenza fu uno dei massimi esponenti comunisti a Milano, e nel dopoguerra membro della direzione comunista e parlamentare. Fu autore di innumerevoli scritti politici ed economici; le sue opere più conosciute sono Il capitalismo nelle campagne, Storia del paesaggio agrario, Il Mezzogiorno all’opposizione, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, e La rivoluzione italiana.

(33) Raffaele Capuozzo ne racconta la tempra a Dachau: “Il capo-Lager venne con un elenco e chiamò fuori Samuel Barda, capitano paracadutista inglese. Parlò in tedesco, non so cosa disse. Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia e questo capitano, sarà stato alto un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze”, Testimonianza filmata, Archivio storico città di Bolzano.

(34) Non ha trovato conferma, invece, la notizia del transito da Bolzano del rabbino Giacomo Augusto Hasdà segnalata, in forma dubitativa, in A. Cauvin, G. Grasso, a cura di, Nacht und Nebel (Notte e nebbia), Marietti, Torino 1981, pag. 189. Hasdà fu infatti deportato direttamente da Bologna ad Auschwitz.

(35) Sulla vicenda vedi l’Atto notorio a firma di Guido Toffano, AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 4, f. 1, e le memorie inedite di padre Diego da Loreggia: originale presso Archivio Provinciale dei Cappuccini, Mestre; copia in AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 26.

(36) Si tratta di un episodio poco conosciuto della Resistenza veronese. Quando, il 9 gennaio 2004, abbiamo chiesto a padre Celestino, della Curia dei Benedettini di Mestre, come mai non sia mai stata pubblicata una memoria su questa vicenda, la sua risposta è stata improntata alla modestia: “Quasi ce ne vergognavamo”, ha risposto. “In quel tempo, con tutto quello che è successo, molti hanno sofferto ben più di noi e per cause anche più nobili. E non ci è sembrato il caso”. Una risposta in sintonia con quella di molti altri deportati a Bolzano: la consapevolezza di quanto avvenuto in altri Lager e nei campi di sterminio è sicuramente una delle ragioni della ritrosia di molti superstiti di Bolzano a raccontare la propria vicenda politica e umana.

(37) Sui rastrellamenti di uomini e donne avviati al lavoro coatto o verso i Konzentrationslager esiste un’ampia bibliografia. Si rimanda, in questa sede, alla fondamentale ricerca di L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1996.

(38) E. Da Re (a cura di), Venti mesi di dominazione tedesca 12.9.43 - 2.5.45 - Il contributo del Cadore alla guerra di liberazione, Magnifica Comunità Cadorina, senza data. Bozze di stampa presso la Biblioteca di Vigo di Cadore. Copia in AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 23.

(39) Si deve questa documentazione in particolare alla dedizione di Giandomenico Panizza, superstite di Mauthausen.

(40) AFMD, Banca dati sulla deportazione, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 27, f. 51.

(41) Il documento ci è stato segnalato da Lionello Bertoldi, dell’ANPI di Bolzano; copia in AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 19.

(42) I più importanti tra i rastrellamenti nella zona, ai fini della deportazione a Bolzano, sono stati quelli di Migliarina, quartiere di La Spezia e di Vezzano Ligure, nei quali decine di giovani furono fermati tra il novembre e il dicembre 1944 e quindi deportati.

(43) Il Comune di Rocchetta Tanaro, circa 1.500 abitanti, ebbe anche 11 caduti nella Resistenza. Per tutto questo gli è stata concessa la medaglia d’argento al V. M. (Dobbiamo molte delle nostre conoscenze sui deportati da Rocchetta Tanaro alla preziosa collaborazione dell’ex sindaco Stefano Icardi, che ha condotto per settimane una ricerca in loco, intervistando i superstiti e interrogando l’anagrafe del Comune).

(44) Stando ai dati di questa ricerca, i deportati da Parma sarebbero addirittura il doppio di quelli provenienti da Bologna. Ma le informazioni in nostro possesso al riguardo sono purtroppo lacunose, e quindi non significative; è possibile che questo risultato sia solo il frutto di una carenza informativa.

(45) Non a caso il campo figura dell’elenco dei KZ (Konzentrationslager) pubblicato nel 1977 dalla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Federale Tedesca, ripreso in appendice a Teo Ducci (a cura di), Bibliografia della deportazione nei campi nazisti, Mursia, Milano 1997.

(46) Sull’attività del Tribunale speciale: A. Dal Pont, A. Leonetti, F. Maiello e L. Zocchi, Aula IV - Tutti i processi del Tribunale speciale fascista, ANPPIA, Roma 1962.

(47) Quattro di questi cinque prigionieri furono deportati il successivo 14 dicembre a Mauthausen; il quinto finì sempre a Mauthausen il 1° febbraio 1945. Le donne arrivate con il trasporto del 17 agosto da Milano andarono tutte a Ravensbrück il 7 ottobre.

(48) Le poche eccezioni riguardano persone deportate nel caso degli uomini a Mauthausen il 14 dicembre, e nel caso delle donne a Ravensbrück lo stesso 5 ottobre. Che non si tratti di casualità ma appunto di una regola, lo confermano anche i successivi

trasporti da Milano. Tra coloro di cui conosciamo il percorso fino a oltre il Brennero, tutti i deportati partiti da San Vittore l’11 novembre 1944 salirono sul treno che da Bolzano si mosse il 20 novembre alla volta di Mauthausen (con due sole eccezioni conosciute: un recluso fu condotto a Dachau, l’altro a Flossenbürg). Coloro che erano sul trasporto da Milano del 22 novembre si divisero più o meno a metà tra Flossenbürg e Mauthausen; quelli che erano su quello del 21 dicembre finirono tutti a Mauthausen; coloro che partirono da San Vittore il 15 gennaio 1945 finirono tutti (con una sola eccezione) a Mauthausen. Si potrebbero fare anche altri esempi, come quello dei detenuti prelevati da Torino il 16 dicembre 1944, finiti tutti a Mauthausen meno uno, deportato a Flossenbürg; o quello del gruppo dei cadorini deportati da Santo Stefano di Cadore il 3 dicembre 1944, tutti finiti a Mauthausen; o infine quello dei deportati da Fossoli il 21 luglio, condotti tutti a Mauthausen il 5 agosto e di lì successivamente a Gusen. Abbiamo riassunto questi percorsi della deportazione italiana verso i Lager oltre il Brennero attraverso il Durchgangslager di Bolzano in una tabella, indicando nella prima colonna la città dalla quale sono partiti originariamente i gruppi maggiori di deportati che abbiamo identificato, e poi, nelle colonne successive, la data del loro arrivo a Bolzano, la destinazione finale, la data del trasporto da Bolzano e la consistenza numerica del “trasporto”. Le date delle partenze da Bolzano e la consistenza numerica di ogni “trasporto” sono quelle indicate da Italo Tibaldi nelle sue ricerche, tranne che nel caso del convoglio diretto a Innsbruck, del quale per ora abbiamo solo solidi indizi, come illustrato più avanti.

(49) È noto infatti che tutta la documentazione esistente a Gries al momento della liquidazione del campo fu incenerita dalle stesse SS: i testimoni sono concordi nel ricordare che il falò dei documenti, nel forno del pane del campo, arse per diversi giorni.

(50) Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, cit., pag. 391 e segg.

(51) Nato nel 1902, licenziato dalla Franco Tosi di Legnano (MI) nel 1920, dopo l’occupazione delle fabbriche; membro del Comitato centrale del PCd’I clandestino nel 1926; condannato dal Tribunale speciale nel 1928 a 10 anni di prigione; sorvegliato speciale dopo la detenzione; internato nel campo fascista di Colfiorito nel 1940; partigiano, fu nel dopoguerra dirigente della CGIL e deputato comunista. Vedi D. Venegoni, Carlo Venegoni tra carcere, internamento, deportazione, in O. Lucchi (a cura di), Dall’internamento alla libertà, Editoriale Umbra/ISUC, Foligno, 2004.

(52) Verbale di arresto di Carlo Venegoni, Enrico Pozzoli e Ambrogio Colombo da parte della GNR. ASMI, Gabinetto di Prefettura, II V., c. 401. Il verbale della GNR è stato  riprodotto integralmente all’indirizzo Internet:

www.venegoni.it\fratelli\carlo\arresto44_verbale.htm

(53) Vedi M. Massariello Arata, Il ponte dei corvi: diario di una deportata a Ravensbrück, Mursia, Milano 1979.

(54) Lettera di Ada Buffulini a Lelio Basso dei primi giorni di luglio 1944, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, Serie 7 - Resistenza, fasc. 2, s. fasc. 3

(55) Ib.

(56) Conosciamo una sola eccezione, quella di Alma Hirschstain, matricola 4710. È possibile che i nazisti non avessero compreso di avere a che fare con una donna ebrea.

(57) L. Conti, Primi risultati di una ricerca sul Polizeiliches Durchgangslager di Bolzano, cit., pagg. 27-41.

(58) G. Boursier, Sinti e rom nel nazifascismo, in AA.VV., Alla periferia del mondo – il popolo dei Rom e dei sinti escluso dalla storia, Fondazione Roberto Franceschi, Milano 2003.

(59) Conversazione con l’Autore, 23 aprile 2004.

(60) Testimonianza di Vittore Bellumat: “Inizialmente mi era stato assegnato il n. 5514; dopo due giorni esso fu cambiato con il 5014: dal 5000 erano passati al 5501, e così via”, AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 27 f. 19.

(61) Vedi il capitolo “Le fonti”.

(62) Vedi il capitolo “I nomi”.

(63) Germano Sommavilla, matricola 82, dice espressamente, in una testimonianza raccolta da Luciano Happacher negli anni Settanta, di essere arrivato a Gries “prima dell’arrivo dei prigionieri di Fossoli”, Museo Storico di Trento, Archivio Resistenza II parte, Busta 6, Fasc. 5/6

(64) Secondo la testimonianza di Quintino Corradini, partigiano trentino conosciuto come “Fagioli”, superstite del Lager di Bolzano, suo padre, allora settantaquattrenne, e un amico, Degiampietro, furono arrestati come ostaggi il 25 maggio 1944, a causa dei figli partigiani. Entrambi furono trasferiti il 26 o il 27 maggio a Bolzano, e occupati nei lavori di sistemazione del Lager di via Resia, allora in allestimento. In quei giorni, accanto a loro, trovarono altri lavoratori liberi, dipendenti di un’impresa, impegnati anch’essi nella preparazione delle strutture essenziali del campo. In qualche misura questi due ostaggi, Corradini e Degiampietro, non avevano torto rivendicando il titolo di primi deportati del Durchgangslager. In proposito vedi la testimonianza di Quintino Corradini in G. Mezzalira e C. Villani, Anche a volerlo raccontare è impossibile - Quaderni della memoria, n. 1, Circolo Culturale ANPI Bolzano, Bolzano-Bozen 1999. Un documento, conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Bolzano, con timbro e firma della Kommandantur der Sicherheitspolizei di Bolzano e datato 23 giugno 1944, conferma del resto l’esistenza, a quella data, di un Arbeitserzichungslager (campo di rieducazione e di lavoro) delle SS a Bolzano. Fotocopia in AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 118.

(65) Con la sola eccezione di un deportato proveniente da Verona.

(66) O. Focherini, Lettere dal carcere e dai campi di concentramento, Baraldini Editore, Finale Emilia 1995, pagg. 159 e 235.

(67) Nel nostro elenco si passa per esempio dal numero 416 al 1005: mancano i nomi e le matricole di centinaia di persone, che evidentemente ai primi di agosto 1944, al momento della chiusura del campo emiliano, non sono state trasferite a Bolzano. Si dovrebbe trattare di prigionieri deportati direttamente da Fossoli in altri campi del Reich, o avviati al lavoro coatto, o rilasciati.

(68) Galmozzi stesso dichiarò di aver lavorato all’inizio all’allestimento della tipografia del campo, che ancora non esisteva; di quella tipografia egli sarebbe stato responsabile fino alla liberazione. AFMD, Fondo Felice Pirola, in via di ordinamento.

(69) Vedi il capitolo “Le fonti”.

(70) E. Sogno, Guerra senza bandiera, Il Mulino, Bologna 1995, pag. 381.

(71) Vedi capitolo “Le fonti”.

(72) Intervista dell’Autore a Giacomo Musiari, matricola 11.028, 17/5/2004.

(73) Vedi il saggio di Barbara Pfeifer, pag. 384.

(74) Lettera di Ada Buffulini a Lelio Basso del 1° aprile 1945, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, Serie 7 - Resistenza, fasc. 2, s.fasc. 3.

(75) Otto Sein e Michael Seifert; quest’ultimo, rintracciato in Canada, dove vive dal 1951, è stato condannato all’ergastolo dalla giustizia militare italiana proprio per i delitti compiuti a Bolzano e in particolare nelle Celle.

(76) Padre Diego da Loreggia, Quattro mesi di prigionia tedesca, pagg. 18-19, memoriale inedito, copia in AFMD, Fondo Bolzano Ricerca, Busta 26.

(77) Vedi Luigi Perazzolo, matricola 9145.

(78) Vedi il capitolo “Le fonti”.

(79) Il campo di Bolzano fu realizzato sotto la regia del capitano delle SS Georg Mott, che era stato il comandante a Reichenau. Vedi il saggio di Barbara Pfeifer, pagg. 400-401.

(80) I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti - I “trasporti” dei deportati 1943-1945, Consiglio regionale del Piemonte, Aned/Franco Angeli, Milano 1994.

(81) Vedi il capitolo precedente, “Deportati verso il Reich”.

(82) P. Chiodi, Banditi, Einaudi, Torino 2002.

(83) M. Abbiezzi, a cura di, L’altro volto della Shoah, Bine Editore, Milano 2004, pagg. 110-127.

(84) A. Buffulini, Il lager di Bolzano, in “Triangolo Rosso”, n. 3, ANED, Milano 1976.

(85) L. Happacher, Il Lager di Bolzano, cit.

(86) ANED, a cura di, Dalla Liguria ai campi di sterminio, ANED Genova, La Spezia, Imperia, Savona, Genova 2004.

(87) B. Taddei, a cura di, I veronesi deportati dai nazisti, ANED Verona, Verona 1982.

(88) Antonietta Arrigoni e Marco Savini (a cura di), Dizionario biografico della deportazione pavese, Unicopli, Pavia, in corso di stampa.

(89) A cura di Giuseppe Valota, in collaborazione con Giuseppe Vignati.

(90) A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Franco Angeli, Milano 1992.

(91) L. Picciotto, Il libro della memoria, cit.

(92) F. Steinhaus, Ebrei/Juden - Gli ebrei dell’Alto Adige negli anni Trenta e Quaranta, Giuntina, Firenze 1994.

(93) G. Faronato, a cura di, 8 settembre 1943-3 maggio 1945. Ribelli per la libertà, testimonianze sul lager di Bolzano, Castaldi Editore, Feltre (BL) 1995.

(94) E. Da Re, a cura di, Venti mesi di dominazione tedesca, cit.

(95) G. Mezzalira, C. Villani, a cura di, Anche a volerlo raccontare è impossibile, cit.

(96) G. Mezzalira, C. Romeo, a cura di, Mischa l’aguzzino del campo di Bolzano – Quaderni della memoria, n. 2, Circolo Culturale ANPI Bolzano, Bolzano-Bozen 2002.

(97) Bando A-3035: Invito a presentare proposte per progetti volti a preservare i siti dei campi di concentramento nazisti quali monumenti storici (2002/C 320/12).

(98) ASMI, Fondi in via di ordinamento e di catalogazione.

(99) Devo questa ricerca alla preziosa collaborazione della dott.ssa Sabrina Giolitto, che ringrazio per la disponibilità e per la professionalità.

(100) Archivio Resistenza II parte, Busta 6, Fasc. 5/6.

(101) Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, Serie 7 - Resistenza, fasc. 2, s.fasc.3.

(102) Comune di Bolzano - Assessorato alla Cultura Archivio storico - Progetto “Storia e memoria: il Lager di Bolzano” - Questionario sul Lager di Bolzano, 1996.

(103) Riproduzione fotografica digitale su CD presso AFMD, Milano.

(104) Sono segnati sul registro i numeri 11105, 11106, 11110, 11111, 11112 e 11116, accanto ai quali però non è annotato alcun nome. Forse queste matricole furono effettivamente assegnate, ma nell’ora concitata della liquidazione del campo Matteini non è riuscito a ricostruire questa parte del registro ufficiale del campo.

(105) Luciano Happacher, Il Lager di Bolzano, cit.

(106) Vedi Giacomo Zaccaria.

(107) Vedi Tranquillo Gagliardo e altri.

(108) Vedi Battista Robba e altri.

(109) AFMD, Fondo Pirola, in via di ordinamento.

(110) www.deportati.it

(111) Vedi il capitolo “Deportati verso il Reich”.

(112) Vedi oltre, al paragrafo 23.

(113) I due non si conoscevano di persona, pur mantenendo avventurosamente un rapporto epistolare quasi quotidiano e rischiando la vita nella medesima attività clandestina. Così Ada Buffulini descrive a Lelio Basso, segretario del Partito socialista, il giorno in cui, nell’infermeria del campo, arrivò Ferdinando Visco Gilardi, “Giacomo”, che era stato appena arrestato e pesantemente torturato: “Tu sai che G. è stato arrestato. Ti puoi immaginare, però, l’impressione che ho avuto io un giorno, sentendomi improvvisamente chiamare per nome da un prigioniero che era venuto a farsi medicare il sedere martoriato dalle botte, il quale mi disse ‘Io sono Giacomo’. Ti assicuro che fu un brutto momento, per quanto, se tutto finirà bene, penso che un giorno ci rideremo sopra, pensando che di G. io ho conosciuto prima il sedere che la faccia!”. Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, cit. (14).

(114) Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Fondo Lelio Basso, cit.

(115) Dobbiamo queste informazioni a Maria Antonietta Arrigoni e a Marco Savini, autori del Dizionario biografico della deportazione pavese, cit.

(116) L. Happacher, Il lager di Bolzano, cit.

(117) I soldi venivano affidati ogni volta che era possibile anche ai partenti per la Germania, a dimostrazione del fatto che a Bolzano non si aveva la minima idea di ciò che attendeva i deportati al loro arrivo a Mauthausen, a Flossenbürg o ad Auschwitz. In concreto decine di migliaia di lire del 1944-1945 finirono sequestrate ai prigionieri il giorno stesso del loro arrivo a destinazione.

da www.deportati.it

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