Documenti dell'ANED di Milano

Dalle carte del processo a Michael Seifert

a cura di Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo

Itala “Tea” Palman

… sentivo solo le parole: "campo di concentramento"

Itala “Tea” Palman fu internata nel Lager di Bolzano nei primi giorni del gennaio 1945 e vi rimase fino al 3 maggio 1945, giorno della sua liberazione. Prigioniera politica, fu assegnata al “blocco A” del campo, riservato alle donne. Il suo arresto avvenne l’11 settembre 1944 a Trichiana, paese in provincia di Belluno, dove gestiva un bar, che funzionava clandestinamente come recapito dell’intendenza partigiana della zona. Il testo che segue è tratto da “Diario della mia prigionia”, il memoriale che Tea Palman scrisse alcuni anni fa, pensato come testimonianza ai giovani, perché – come si legge nella premessa – “non è giusto che essi rimangano nell’ignoranza”.

 

(…) Una mattina prima dell'alba, ci svegliarono molto presto, sentii chiamare una fila di nomi fra tutti anche il mio, mi sentii morire, le urla dei tedeschi "snel, snel" (1) la confusione, le imprecazioni da parte dei prigionieri, le spinte da parte dei tedeschi. Ci strappavano dalle celle. Passando davanti alla spia non dimenticherò quegli occhi, quel sorriso soddisfatto, quella voce che disse: "vi portano in campo di concentramento". Passai attraverso quelle sbarre di ferro, a quel corridoio di filo spinato, sempre a spintoni. Non capivo niente non mi rendevo conto di quanto stava succedendo. Oltre il portone di ingresso vidi il camion. Vidi i tedeschi che delicatamente a colpi, col calcio dell'arma che avevano in mano, facevano salire i miei compagni. Avevano una grande fretta, chi non riusciva a salire essendo il camion molto alto lo gettavano su come un sacco di patate. Questa fu la mia sorte, io ero ancora intontita, incredula, sentivo solo le parole: "campo di concentramento". I miei compagni mi fecero posto, mi risvegliai a fatica, mi sedetti vicino a loro, ero la sola donna. Un leggero paltò nero essendo ancora in lutto, mi riparava assai male dal freddo, non avevo né guanti, né sciarpa, né scarponi, niente. Il cielo era sereno, il freddo sempre più pungente. Tutto crollò intorno a me, si spezzava quel filo alle mie spalle, un contatto con l'esterno con mio fratello Aldo e con Elio così piccolo, con quel mondo che io amavo e che speravo di raggiungere presto, se non ci fosse stata Paola. Il camion partì, molto lentamente si faceva strada fra la neve che cominciava a cadere, mai tanta neve era venuta come quell'inverno, non cessava mai, di notte un sereno meraviglioso e di giorno neve. Eravamo in un camion a carbonella, scoperto, ogni pochi metri il camion si fermava, non riusciva ad andare avanti, i tedeschi scendevano spalavano la neve per farci strada, poi si ripartiva. Fu un viaggio tremendo. Il freddo sempre più intenso, io credevo di morire, mi contorcevo dai dolori all'addome, soffrivo di colite. Un tedesco che era sul camion dietro di noi specificò che erano tutti della Wehrmacht meno i graduati che erano in cabina. Questo tedesco, preso a compassione vedendo la mia sofferenza, fece frenare il camion e parlò al comandante che era in cabina; doveva avergli chiesto di farmi salire davanti; però ne ebbe un bel rifiuto e dal tono delle voci, capii che il soldato si era preso un sacco di ingiurie. Per colmo di sventura la notte era serena, e molto fredda. Ricordo la curva di Primolano dove ci sono i forti della guerra del '18. In quella curva a gomito, il camion si incagliò, non andava più né avanti né indietro, i tedeschi lavorarono parecchio prima di proseguire. Noi prigionieri guardavamo le montagne così vicino, con quella luna si poteva vedere qualsiasi cosa, i nostri sguardi si incrociarono, il pensiero che attraversava le nostre menti in quel momento era uno solo: "se ci venissero a liberare". Tutto rimaneva immobile, perfino i nostri respiri, i nostri sguardi, che cercavano nella boscaglia qualche segno di vita, oltre a quello dei tedeschi che febbrilmente lavoravano. Poi il camion ripartì, un unico sospiro diceva: "peccato, è andata male". Dopo due giorni e due notti arrivammo a Bolzano. Io avevo i piedi e le mani tanto gelate da non sentirle più. Ci fecero scendere davanti al comando, e ci allinearono spalle al muro; fermi in attesa della nostra consegna al comandante del campo. Così ferma, ricordai con molta precisione oltre le immense case che erano i blocchi e il silenzio che ci circondava perché tutti dormivano ancora; ricordo soprattutto i candelotti di ghiaccio che scendevano dal tetto del comando, erano così lunghi e grossi e mi riacutizzavano la sete; avevo la bocca arsa, i piedi gonfi, non riuscivo più a reggermi. Ci accompagnarono ai blocchi. Entrai come un automa, non vedevo niente, ma un po' alla volta i miei occhi si abituarono al buio interno; un lungo corridoio si profilava davanti a me, lo formavano i castelli che da ambo le parti si alzavano a tre piani e poi teste, teste che da ogni dove spuntavano per vedere la nuova arrivata, era come un formicaio. Avevo il cuore piccolo piccolo, non sentivo più niente, tutto mi girava intorno. In quello stato di prostrazione mi vennero incontro le sorelle Rocco e la Maria Da Gioz: mi avevano riconosciuto. Le sorelle Rocco che erano in quattro mi fecero posto sul loro castello al terzo piano, la Maria Da Gioz fece la spola dalla stufa a segatura che era in fondo al blocco, con i mattoni caldi per scongelarmi le mani e i piedi, mi misero addosso tutto quello che avevano per riscaldarmi; io mi sentivo male, le mani e i piedi, mi dolevano da farmi piangere. Arrivò il caffè, me lo fecero prendere, poi a forza di frizioni e mattoni caldi i dolori mi passavano. Per parecchi giorni rimasi intontita, una tremenda angoscia mi prendeva il cuore, ovunque volgevo lo sguardo in quel marasma di persone vedevo desolazione, non erano persone erano diventate numeri; numeri che ridevano, che piangevano, si spidocchiavano, che raccontavano ad alta voce cose ch'io non avevo mai sentito. Mi colpì in modo particolare che una donna assai formosa, capelli lunghi e ricci, che dal suo letto a castello al terzo piano, per recarsi alla toilette, appoggiava il piede alle staffe che erano fissate da un castello all'altro ed era completamente nuda, portava solo una specie di giaccone pelliccia e si muoveva con una tale disinvoltura, come se portasse un lussuoso abito da sera da far ammirare tutti. La prima volta che la vidi rimasi sbalordita. Le mie compagne che videro la mia desolazione mi dissero: "non farci caso, qui devi spogliarti di ogni pudore, d'ogni sentimento, di tutto". E le toilette? Mio Dio, erano come un lungo abbeveratoio per le bestie, senza nessun riparo, così alla vista di centinaia di persone, persone sì! - per me lo erano ancora. Quale desolazione; quello che provai nei primi giorni è indescrivibile, è indescrivibile tanta miseria umana. Un po' alla volta mi ripresi; pur non abituandomi alle toilette e a tante nudità e a tutto ciò ch'io non avevo mai visto. Incontrai la mia professoressa di matematica, la sig. Zasso, ostaggio per il figlio, anche lei dolce signora con la sua candida capigliatura che tanto ammiravo quando andavo a scuola, anche lei in mezzo a quel marasma. Una volta alla settimana ci facevano la doccia, non ricordo in quante entravamo alla volta, quello che ricordo è che bisognava far presto per non restar insaponate. Dopo un po' di tempo andai anch'io al lavoro, attraversavamo inquadrati la città di Bolzano e venivamo portate alla galleria al Virgolo, dove i tedeschi avevano installato una fabbrica di cuscinetti a sfera che avevano prelevato a Ferrara con tutte le macchine e i capi reparto. Doveva servire per costruire pezzi bellici che servivano ai tedeschi. Ognuno di noi aveva trovato il modo di far sabotaggio. Io ero ai cuscinetti a sfera che regolarmente non lucidavo, ma consumavo interamente: così dovevano essere scartati. Il mio capo reparto che era molto gentile, mi raccomandava di non farmi prendere. Ci faceva da postino, prendevamo la carta della fabbrica per scrivere, e qui posso farvi vedere una lettera autentica di allora che io scrissi alla famiglia Riposi. Ogni bombardamento per noi era una gioia, una speranza. Io con il mio reparto ero all'inizio della galleria che era profonda e ben sicura, perché attraversava il cuore della montagna, sbucando dall'altra parte, dove passava solo la ferrovia e c'erano delle toilette per noi, poi tutto il resto era deserto. Un giorno il bombardamento fu più lungo del solito ed erano bersagliate proprio le nostre due uscite, sparì la luce, un capo tedesco perse il braccio destro, quello che maneggiava tanto bene il frustino. I tedeschi avevano il terrore dei bombardamenti, scappavano, si nascondevano non pensavano più a noi. Quando finì il bombardamento ci adunarono tutti alla porta d'uscita, quella davanti, il lavoro fu lungo, fecero l'appello, le urla si facevano sempre più forti, più selvagge, io non capivo una sola parola, non ho mai voluto imparare il tedesco, capii solo che qualche cosa era successo. Radio campo ci fece sapere che mancavano due all'appello, erano due donne: seppi subito che erano ebree. Esse con molto coraggio, o meglio col coraggio della disperazione avendo già esse perso in campo tutta la famiglia, padre madre e altri fratelli, scambiarono il triangolino giallo distintivo per gli ebrei, con quello rosso che eravamo noi prigioniere politiche. Poterono così uscire con noi al mattino, loro che non potevano venire a lavorare; agli ebrei era severamente proibito. Il bombardamento era stato organizzato così per la fuga, c'era chi le aspettava fuori dall'uscita dietro, dov'è quasi deserto; in seguito si seppe che dopo due giorni erano in Svizzera. Nel campo c'era una forte organizzazione. La dott.ssa Ada Buffulini ne era la coordinatrice, era aiuto infermiera, così quando c'era bisogno di mandare fuori qualche notizia o qualche aiuto ci faceva mandare all'infermeria accusando qualche male. Lei poi riusciva a comunicare con tutti, se doveva farlo nei blocchi, trovava un falegname che doveva riparare un castello, o col cuoco; a seconda dell'esigenza di radio campo lei aveva la persona adatta, più volte doveva andare di persona fingendo di dover fare un iniezione a qualche matto che non stava fermo. La rete informativa interna era ben collegata con quella esterna. Presentavano aiuti, viveri e corrispondenza a quanti ne avevano bisogno. Era una cosa molto difficile, nel campo c'erano dei repubblichini, delle prostitute, delle spie; dovevano star attente a prestare aiuto alla persona giusta, non cadere nelle loro reti sempre tese, non dar sospetti. Non era facile per la dottoressa Ada Buffulini. Una mattina non avevo voglia di andare al lavoro, rimasi al campo, ben nascosta sul mio castello. Ho sempre avuto un sesto senso nelle cose. Sento la voce della Cicci (capo blocco) urlare: "Chiusi i blocchi! Chiusi i blocchi!", sento mettere le catene alle porte, cosa stava succedendo? Mi risposero: "Ci devono essere degli arrivi!". Dopo un po' di tempo tutto sembrava calmo, scesi dal castello e avvicinatami alla porta, cercai di aprirla quel poco che mi permetteva la porta esterna, mi dovetti inginocchiare e guardare dalla fessura sotto che era più grande: in faccia a me ci sono i nuovi arrivati, quattro sono seduti sulle sedie disposte in linea retta con la nostra porta, un barbiere li sta rapando a zero, dalla mia posizione riesco a vederli un po' di profilo tutti e quattro in viso. Sono già vestiti di tela bianca, la nostra divisa da campo. Guardo il primo, mio Dio, un tuffo al cuore, mi si annebbia la vista, chiudo gli occhi, li riapro, guardo fissando bene l'immagine Arturo Bonetta! Guardo il secondo, Ugo Sommacal! Il terzo Berto Quarzago e l'ultimo ne vedo un altro di Trichiana, Beghe Brancher. Rimango senza fiato, tremo tutta! Cosa sarà successo a Trichiana? In loro vedo il mio paese, la mia casa, i miei fratelli. Cercai di attirare l'attenzione, volevo sapere di Aldo e fu la prima parola che le mie labbra pronunciarono senza far rumore, Aldo! Loro che mi avevano vista, mi fecero cenno di no! Aldo no! Piano, piano, ripresi la calma, dovetti attendere parecchi giorni prima di parlare con loro. Furono assegnati al blocco E dei pericolosi, non potevano mai uscire dal loro recinto, neanche andare a lavorare, segregati nel loro blocco. Uscivano qualche ora al giorno poi avevano imparato a saltare la rete del loro recinto, per arrivare a quello confinante con il nostro blocco, così io potevo parlare con loro. Mi avevano assicurato che Aldo era in montagna con una Missione Americana, Elio era dalla famiglia Colle. Loro erano stati presi al cinema. Quanta fame avevano poveri ragazzi. Io non la sentivo più, poi mi ero abituata al cibo del campo, alla minestra di orzo che era la migliore, anche se prima di mangiarla bisognava togliere i vermi che cuocendo si erano ben gonfiati. Ogni sera tornando dal lavoro me li trovavo tutti e quattro con le mani aggrappate alla rete, mi aspettavano, aspettavano quel pezzo di pane ch'io prendevo in più, quale prezzo del lavoro. Era così diventato un dovere per me andare al lavoro e cercar di rimediare a qualche tozzo di pane extra. Essi mi ringraziavano con lo sguardo, commossi fino alle lacrime, poi mi scrivevano sui bigliettini la loro riconoscenza non potendo fermarsi su quella rete, perché era pericoloso. I biglietti iniziavano sempre così: "Cara Mammina". Uno di loro, Arturo, ancora oggi quando mi incontra mi chiama mammina! Quasi tutte le sere dopo le nove veniva Pippo, era un aereo che bombardava nei dintorni del campo, e noi lo aspettavamo dicendo: "Vieni Pippo, vieni più vicino, rompi le mura di cinta". Dopo le nove tutto era buio, la luna mandava la sua luce dagli alti finestroni, una voce molto melodiosa cantava nel silenzio, tutti eravamo tristi, pensierosi. Un giorno giunse la notizia di un grande rastrellamento a Sedino, e che il fratello di Maria da Gioz che era là con noi, era stato impiccato. Non so come lei lo venne a sapere, fu una tragedia, una scena indescrivibile stramazzò a terra, come se le avessero piantato un coltello al cuore, con la bava alla bocca, gli occhi chiusi, denti serrati da spaccarli, eravamo in quattro a tenerla, fu chiamata subito la dottoressa Ada che le praticò con enorme fatica un'iniezione. Povera Maria, anche lei sopportava tutto con una sola speranza, la salvezza del fratello. Tutto era crollato intorno a lei, rimase per parecchi giorni come un automa, gli occhi fissi nel vuoto, non parlava, non mangiava, qualche cosa le si era spezzato dentro. Lei così generosa, con un cuore così grande, aiutava tutti con tanto amore, era come un essere ferito a morte che non chiede niente e niente potevamo fare noi, solo starle vicino in silenzio rispettando il suo tremendo dolore. Una sera vedo portare via i miei quattro compagni assieme ad altri trecento prigionieri, tutti quelli del blocco E. Vennero portati alla stazione, furono rinchiusi nei carri bestiame settantacinque per carro, ci stavano solo in piedi. Erano diretti in Germania. Durante la notte ci pensava Pippo, doveva essere in collegamento con l'interno del campo, attraverso l'organizzazione clandestina di Bolzano. Pippo bombardò tutti i ponti della ferrovia e vari tratti di binario, il giorno dopo i tedeschi cercavano di riparare i danni tanto da permettere al convoglio di proseguire. Pippo ripeté l'operazione non solo sulla ferrovia, ma prese di mira anche la strada, saputo che i tedeschi avevano pensato ai camion. I prigionieri rimasero per tre giorni e tre notti in quei carri bestiame, senza cibo, senz'acqua, solo con i loro escrementi. Ne morirono tre. Quanti progetti hanno fatto in quei tre giorni, col materiale sfuggito alla perquisizione. All'imbrunire del terzo giorno i tedeschi dovettero arrendersi, le vie del Brennero erano completamente interrotte, riportarono così tutti i prigionieri al campo. Aprirono gli sportelli ed ognuno veniva fatto scendere e passare in mezzo a due file di tedeschi che sfogavano su di loro la rabbia per non aver potuto portarli in Germania. Li rinchiusero nel blocco E, senza cibo e senza acqua, anche i rubinetti avevano chiuso, trovarono la vasca di lamiera che serviva da lavandino, dove prima d'esser portati via, dei prigionieri avevano lavato i loro indumenti. L'acqua sporca era rimasta là e in un attimo la vasca fu vuotata, tutta bevuta e quelli che non potevano raggiungere la vasca andarono a leccare i muri della toilette per sentire un po' di umidità. Alla sete non si resiste, alla fame ci si abitua, quel poco di brodaglia e quel panino di mista segatura che con molta attenzione cercavi di non sprecare, raccogliendo anche le briciole, era sufficiente per tenerti in vita e non sentire il morso della fame. Ma la sete è una cosa terribile, ti fa impazzire, non riesci più a ragionare, solo cercar acqua in qualsiasi posto come le bestie. Tutti quelli che andavano al lavoro alla galleria, al Virgolo furono trasferiti in una caserma vicina alla galleria, era la caserma dei bersaglieri. Fu una novità che non ci fece dispiacere. Gabinetti, lavandini decenti, castelli a due posti, molta luce e tutto più pulito. Ci sentivamo più liberi anche se non era vero. Io e Teresa Rocco dormivamo in due occupando solo il castello sotto, per stare più calde, potevamo avere così due coperte per coprirci il pagliericcio fatto di trucioli con certi pezzi di legno, che per quanto tu cercassi di scansarli te ne trovavi immancabilmente qualcuno conficcato nel corpo. Di guardia avevamo una tedesca, alte bionda, calzoni a stivali lucidi, direi quasi bella di lineamenti, ma con due occhi terribilmente freddi e cattivi, urlava sempre, si avvicinava sempre, si avvicinava con quel passo veloce urlando: "Arbeit und schnell!" Mi pareva volesse dire: al lavoro e svelte. Il suo frustino era sempre in movimento, o accarezzava gli stivali come pregustare la staffilata che avrebbe inferito a qualche ragazza. Io riuscivo a evitarlo sempre; la povera Teresa invece, non doveva esserle molto simpatica, con lei preferiva adoperare le mani, ogni volta che la incontrava senza nessun motivo, le dava certi ceffoni da farla girare su se stessa, poveretta, così minuta, così piccola e magra e quando vedeva avvicinarsi la tigre si faceva ancora più piccola; forse era il nastrino rosso che teneva legati i suoi capelli ad infastidirla. Una mattina successe il finimondo, fra urla e staffilate e spintoni ci fecero scendere tutti in cortile, inquadrati e guai a chi si muoveva. A mezza voce venimmo a sapere da parte degli uomini che erano scappati cinque bresciani calandosi dalle finestre dei gabinetti. Avevamo un po' di paura ma tutto si risolse con una giornata di digiuno in piedi nel cortile. Tante imprecavano contro quei cinque fuggiaschi ma io cercavo di farle ragionare, questo digiuno non è che un piccolo sacrificio per noi, se pensiamo che cinque nostri compagni sono liberi, speriamo solo che non li riprendano. In cuor mio ero felice, sono liberi, con la fantasia li vedevo correre attraverso i campi, avevano atteso la notte, poi a casa, presto sarà finita anche per noi e torneremo a casa. I primi di marzo c'era ancora molta neve e freddo. In quei giorni vennero a Bolzano due staffette Maria Tornio, ed Elvira Bristot. Per parlarmi dovevano aspettare ch'io uscissi al lavoro, cercavano di avvicinarsi alla fila e camminando come qualsiasi passante, attente ai soldati di guardia, mi passarono i pacchi che mi avevano portato. Questa operazione durò tre giorni, prima che io avessi ricevuto tutti i pacchi e le notizie. Fra le lettere, perché tutti a Trichiana mi scrissero, c'erano quelle di Aldo, mi diceva d'essere al sicuro sui monti con la missione americana. Il sei marzo mattina ero molto inquieta, molto triste. Le vidi avvicinarsi, le feci giurare che avevano visto Aldo, che erano sicure che era vivo, non mi mentivano. Mi aveva preso una tale angoscia, sentivo un dolore così forte al cuore, e quelle povere ragazze ne rimasero colpite. Passai loro il piano di fuga, non potevo più resistere, volevo vedere Aldo, dovevo accertarmi di persona che era vivo. Il giorno dopo aspettavo la risposta al mio piano. Io avrei cambiato turno, fatto quello di mezzanotte, essendo la porta d'entrata della galleria completamente al buio. Rimanendo l'ultima della fila, mi sarei appoggiata al muro o rimasta assolutamente ferma; una volta che la fila avesse proseguito, doveva venire a prendermi il fratello di Maria che abitava a Bolzano e conosceva bene le strade dei campi per poter scappare. Cercai con gli occhi in ogni angolo della strada, Maria ed Elvira non c'erano, forse si sono nascoste, si sarebbero fatte vedere troppo. Entrai in galleria senza averle viste, uscii diverse volte alla toilette, cercai oltre la siepe, oltre la toilette, niente. Sperai nel ritorno, forse il fratello doveva studiare il piano prima di darmi una risposta, finii il turno, ritornai in caserma, ancora niente. Il giorno dopo cambiai turno sempre con la speranza della fuga. Avevo con me abiti civili sotto alla tuta bianca, le scarpe nuove pesanti che mi avevano portato, poi tutte le lettere, non potevo fidarmi di lasciarle in caserma. Non si erano fatte vive, ero molto triste ma soprattutto molto pensierosa. Iniziai il lavoro di mala voglia, cosa poteva essere successo? Che le abbiano arrestate? Già da troppi giorni le vedevano appiccicate alla fila. Così, assorta nei miei pensieri, sentii urlare, era la voce della tigre inferocita (2). C'era con lei il com.te del campo e diversi altri marescialli. Prima di arrivare a me, controllavano con uno strappo brusco il numero scritto su ogni triangolo rosso che ogni prigioniero politico portava cucito al petto. Io, in quel breve spazio di tempo prima che arrivassero a me, pensai alle mie compagne, forse arrestate, alle scarpe nuove che avevo ai piedi, alle lettere nascoste sotto la mantella, al piano di fuga, mentre la tigre con tutte le sembianze di quella bestia mi piombò addosso, mi strappò il triangolo rosso e mi portarono via. Mi caricarono su una vettura, tutti parlavano molto eccitati, io non capivo una sola parola; il mio pensiero era diretto alle mie compagne: le pensavo arrestate e di conseguenza il piano di fuga nelle loro mani. Ci fermammo al campo, mi portarono al comando e qui parlarono a lungo, controllando carte, io sempre più sbigottita. Poi presero una decisione. Mi ricaricarono in vettura e via attraverso la campagna. Nel buio fitto della notte vedevo le sagome degli alberi che fiancheggiavano la strada , qui non pensai più a niente, mi sentii gelare il sangue, il cuore mi si era fermato, era come se fossi stata di cera, poi il cuore riprese a pulsare, ora batteva così forte da farmi respirare a fatica, sudavo. Cercai di calmarmi. Chiusi gli occhi e una forte rassegnazione si impadronì di me; pregai il Signore. "Salva Aldo oh Signore, Elio non può rimanere solo al mondo". Attesi con calma che la vettura si fermasse così nel buio, nella solitudine di quella campagna nessuno mi avrebbe visto. La vettura cautamente si fermò, aprii gli occhi per vedere che posto avevano scelto. Con mia sorpresa mi trovai davanti ad un enorme palazzo, non sapevo che era il corpo d'armata di Bolzano. Mi fecero scendere, entrare in un grande atrio, mi consegnarono ad una guardia che mi portò giù per le scale in un sotterraneo, lungo un corridoio, spalancò una cella e mi buttò dentro. Sprangò la porta con tre grandi catenacci, i passi si allontanarono e fu silenzio, un silenzio di tomba. La cella era lunga e stretta molto alta con una piccola feritoia in cima. Mi lasciai cadere sul tavolaccio, ero stanca, la tensione di prima mi aveva esaurito, non avevo neanche la forza di pensare, tale era la confusione della mia mente, ero viva, sì, ero ancora viva. Con sforzo cercavo di riordinare le idee, pensare per qual motivo mi avessero portata là nel cuore della notte. Il mio pensiero andava sempre alle mie compagne che non avevo più veduto, forse arrestate? Meno male che tutte le lettere erano in fabbrica sotto la mantella, speriamo che Teresa pensi a distruggerle. Non trovavo altre spiegazioni, ascoltavo! Forse sono qua vicine a me; avrebbero dovuto svegliarsi al mio arrivo, la guardia era stata assai rumorosa, con quei tre catenacci! Tendevo l'orecchio, trattenevo il respiro! No! Tutto è silenzio un silenzio di tomba, mi sembrava d'esser sepolta viva. La notte passò lenta come un'angoscia. Finalmente giorno. Un po' di luce entrava dalla feritoia in alto. Sentivo il cinguettio di un passerotto, doveva esserci un giardino. Fuori c'era la vita, la libertà. Ecco un passo! Più si avvicinava e più il cuore mi batteva forte, ecco il rumore dei tre catenacci (erano lunghi e larghi, non ne avevo mai visti di cosi grandi), il rumore di chiavi di tre serrature. Una guardia mi fece uscire, mi portò in giardino, dove vedevo la feritoia della cella. Mi fece battere tutte le coperte che erano stese; erano tante e nella mia cella neanche una; vidi i tetti delle case vicine, la siepe dove si era posato il passerotto, sentivo rumore di vetture; vocìo di strada; a pochi passi il mondo libero. Fui riportata in cella, nuovamente quel terribile rumore di catenacci e di chiavi, che mi passavano il cuore. Un campanile suona le ore: io le contai, otto. Tutto fu ancora silenzio, ancora sola con i miei pensieri, con la mia paura. Dopo un'interminabile ora, ecco nuovamente dei passi; sono tanti, forse non vengono da me, forse ci sono altri prigionieri, non è possibile che io sia la sola anima vivente fra queste mura spettrali! Il mio fiato è sospeso! Ecco! No! Si fermano davanti alla mia porta, ecco: "gran-gran" per tre volte, per tre volte quella chiave, la porta si apre: due guardie ben piantate entrano e mi trascinano fuori verso l'interno del sotterraneo, dalla parte opposta di dove ero entrata; dopo un percorso che non ricordo se breve o lungo, perché a me sembrava interminabile. Spalancarono una porta e mi spinsero in malo modo in quella stanza, non ci volle molto per capire che era la mia stanza di tortura. E così nel cuore del sotterraneo di quel palazzone, nessuna mi avrebbe sentita urlare. Mi imposi di restare calma, impassibile, ma era come se in quelle mie vene scorresse acqua e freddo. Una signorina, la segretaria del com.te del corpo d'armata, sedeva di fronte a lui e ad un altro com.te. Ridevano felici, pregustando lo spettacolo che avrebbero visto tra poco. I due aguzzini mi presero e mi gettarono a terra, mi legarono i polsi a mani giunte, con catene mi strinsero bene e mi fecero piegare le ginocchia ed infilarle tra le braccia che così legate si aprivano a fatica, procurandomi un forte dolore. Poi, per fissarmi in quella posizione, infilzarono fra braccia e gambe un grosso palo di ferro e lo misero appoggiato tra gli scalini di una scaletta doppia: rimanevo così a testa in giù, gambe e posteriore in aria alla portata della frusta. In quella terribile posizione iniziò l'interrogatorio. Visto il mio mutismo i due aguzzini si davano il cambio. Ben piantati davanti a me, gambe divaricate per far più forza, impugnavano la frusta con tutte e due le mani e mi frustavano fino a farmi perdere i sensi, poi, prendendomi per i capelli, mi appoggiavano la testa ad una corda tesa tra i due lati della scaletta, così che la testa arrivasse ad essere quasi parallela al corpo. Mi attaccavano poi i fili della corrente alle narici e all'orecchio e mi facevano rinvenire con le scosse elettriche. Mi sembrava di impazzire. Riprendevo allora i sensi e loro riprendevano ad interrogarmi. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, cosa sapevano, la paura di parlare era diventata un incubo, avevo paura di non resistere a lungo a tali torture. Raccolsi tutte le mie forze, strinsi i denti, ma le frustate erano sempre più forti, urlavo ad ogni colpo che mi dilaniava la carne. Ero tutta in carne viva. Dicevano: "A Trichiana tutti banditi", ed io dovevo conoscerli. All'estremo delle forze chiamai mia mamma: "aiutami, aiutami a resistere!" Ebbi subito un'ispirazione, i miei quattro compagni di campo erano stati arrestati dopo di me. A loro niente poteva più succedere, poi ci vorrà del tempo prima che si accorgano che sono già in campo così potrò salvare gli altri. Poi all'improvviso mi chiesero: "Perché doveva salvare Sacchet?" A quel nome tutto mi fu chiaro, come si fosse aperto un sipario: una mia lettera era finita nelle loro mani, non la fuga, non le compagne! Ero sola, nessuno avrebbe detto cose contrarie alle mie. Potevo inventare senza essere contraddetta. Una mia lettera, capii anche quale, un documento prezioso ed importante. Riferivo a mio fratello Aldo tutto ciò che succedeva alla V° artiglieria, prigione dei pericolosi. Per fortuna che ogni mio riferimento a persone e a fatti ero scritto con sottintesi, che solo mio fratello poteva capire; per i tedeschi che avevano solo quella lettera ci voleva una spiegazione ad ogni argomento. In un baleno la mia mente fu chiara, il mio coraggio era tornato, così la calma. Ripresi con Sacchet. Dissi che era buono con me e che mi dava da mangiare, perché avevo sempre molta fame e poi gli volevo bene. Se avessero saputo che era stato lui ad informarmi di Paola. Mi torturarono ancora, non ne erano convinti, ed io ferma su quanto avevo detto. Notai che non accennarono a Paola. Passarono al nascondiglio di casa mia, questo era per loro un argomento molto interessante. Io ne avevo parlato sulla lettera chiedendo se era stato scoperto. Così ripresero a torturarmi, dalla frusta alle scosse elettriche e di nuovo alla frusta. Mi venne un pensiero: la casa saccheggiata. Ora serve da abitazione a quelli della Todt, perciò sorvegliata dai tedeschi; non poteva certamente più servire ai partigiani. Decisi di descriverla, con una verità avrebbero creduto a tutto il resto. Come potevo avere tanta forza, tanto sangue freddo in quei terribili momenti, ragionare, calcolare, dire ciò che non avrebbe danneggiato nessuno me lo chiedo ancora oggi. Descrissi con giri di parole il nascondiglio, che si trovava sopra una vecchia cantina e non si poteva vedere; la parte che comunicava con l'abitazione era stata murata ed un attaccapanni in legno copriva tutta la parete. Per entrare nel nascondiglio bisognava salire con una scala a pioli nella vecchia soffitta, era veramente introvabile; l'unica finestra dava nell'orto della canonica molto vicino al bosco, era facile passare dal bosco alla montagna senza essere visti. Sicuri che le frustate e le scosse mi avessero fatto bene, non sapendo che ancora una volta li avevo giocati, non avevano niente in mano che non sapessero già. La sola cosa nuova era il nascondiglio che era ormai inservibile, non faceva differenza se lo trovavano. Poi un nome: Aldo!! Sapevano che era mio fratello e doveva essere un comandante dei partigiani. Io non sapevo che era stato ucciso e che quella lettera l'avevano trovata addosso a lui. Ripresero le torture, svenni più volte, le scosse sempre più forti, il dolore insopportabile: "Aldo è un comandante". "No", rispondevo io, ed effettivamente non lo era, più dicevo no e più mi torturavano. Allo stremo delle forze dissi "Sì!" Mi tolsero dalla scala, mi posarono a terra, così seduta sulle piaghe credevo di impazzire; tornarono a chiedermi ancora se Aldo era comandante, con grande sforzo, con voce afona dissi: "No, Aldo non è un comandante". Mi riappesero e mi frustarono: poi semisvenuta mi rimisero a terra, mi gettarono dell'acqua in viso, mi tolsero il bastone dalle ginocchia, infine staccarono le catene che erano penetrate nella carne; tutto il peso del corpo era sorretto dai polsi, non sentivo più dolore, la mente annebbiata, la lingua impastata, le labbra arse erano diventate enormi. Vedevo la carne che appiccicata alle catene si staccava dai polsi... e sangue. Era come se tutto ciò non mi appartenesse; ero in uno stato di completa incoscienza, sentii delle campane, suonavano forse mezzogiorno, forse non erano neanche campane, poi non capii più niente. Non so quanto tempo dopo, o giorni, ripresi conoscenza, ero distesa sul tavolaccio della cella, cercai di muovermi, ero come paralizzata; i polsi mi dolevano, il sangue era tutto incrostato nelle varie parti del corpo, appiccicato ai vestiti, avevo sete e freddo, la fame non la sentivo. Non so da quanto tempo ero in quello stato, quale tormento la sete, mi sembrava di ardere, dovevo avere la febbre. Mi riassopivo, mi riprendevo, sempre silenzio. Finalmente entrò una guardia, mi guardò, sorrise ed uscì. Mio Dio, perché non mi portavano da bere, le mie condizioni non mi permettevano di rimanere cosciente per tanto tempo. Il giorno dopo ritornò la stessa guardia, sempre lo stesso sorriso, sperava forse che fossi morta? Perché quella era la mia fine; io sapevo che nessuno era mai uscito vivo da quel luogo, neanche i prigionieri di guerra inglesi. Guardai la guardia fissa negli occhi, e dissi solo: "Lei non ha figli?" Era un bolzanino e capiva molto bene l'italiano; il suo sarcastico sorriso scomparve, uscì e poco dopo tornò con un caffè. In tutta la giornata non sentivo il più piccolo rumore; il caffè del mattino portato dalla guardia, che non aprì mai bocca, era il solo contatto umano, il solo segno di vita in quel sotterraneo. Passarono così quindici giorni, seppi dopo che mi dovevano eliminare, come avevano fatto con cinque prigionieri alleati; temevano dei testimoni troppo scomodi, eliminata io nessuno avrebbe mai saputo quali torture si praticavano nel sotterraneo del Corpo d'Armata di Bolzano. Fu con quest'accusa, cioè l'uccisione degli alleati, che tutto il Corpo d'Armata, compresa la segretaria, vennero fucilati a Pistoia dagli alleati. Io non venni eliminata per l'interessamento diretto del Vescovo di Belluno, Mons. Burtignon. Nella sua richiesta di venire a dir Messa in campo chiese cosa ne avessero fatto della prigioniera politica Palman Tea. Lui doveva essere a conoscenza che non ero né in campo né in galleria. Così svelti svelti mi portarono alle celle di segregazione del campo di concentramento, fui trasportata perché non mi reggevo in piedi, mi gettarono in una cella piccolissima, il castello che raggiunsi con fatica era incastrato fra due pareti; in fondo, in alto, un finestrino riparato dall'esterno con una bocca da lupo, da dove entrava la luce. Ero intontita, mi accomodai sul castello sotto, non avevo la forza di salire su quello sopra, ero indifferente a tutto, stremata nel corpo e nel fisico. Piano piano si fece strada nella mia mente la speranza di vivere. Così assorta nei miei pensieri, sentii aprire lo spioncino e chiamare: "Tea". Ebbi un sussulto, un tremito di paura; lo spioncino si richiuse: chi poteva conoscermi? Nuove paure, nuovi pensieri, non era ancora finita, chi avevano arrestato? Forse nella semi incoscienza avevo parlato? Fatto nomi? Quale tormento, quale angoscia in quei momenti. Lo spioncino si riapre! Io tremo! Mi gettano un bigliettino. A fatica lo prendo e lo leggo: "Essere sorella Nuvolari? Niente paura entro un mese guerra finita". Chi poteva essere, non italiano se si esprimeva in quel modo, ma chi?? Chi conosceva il nome di battaglia di Aldo, cioè Nuvolari? Chi, se non quelli della missione americana? (3) Io non sapevo tutto quello che era successo in quel terribile mese di marzo a Trichiana: rilessi il biglietto; dovevo nasconderlo, ma dove? Tanta era la mia paura che lo mangiai! Per la terza volta lo spioncino si riaprì, intravidi due volti, uno magro e lungo (era il sergente inglese) e l'altro tondo e grassoccio (era il maresciallo americano). Mi passarono del cibo. Appena fu loro possibile aprirono la porta; mi spiegarono che erano liberi all'interno delle celle perché prigionieri di guerra alleati: seppi così che appartenevano alla missione Chappel, quella a cui apparteneva mio fratello Aldo. Erano stati fatti prigionieri il 6 marzo assieme al loro Maggiore Chappel, che dopo diversi stratagemmi riuscì a fuggire. Mi assicurarono che Aldo era vivo ed al sicuro: era la cosa più bella che avessero potuto dirmi! La loro pietosa bugia mi aiutò a sopportare il resto della mia prigionia, perché le mie condizioni erano pietose. Pensai al sogno che avevo fatto quando ero in cella al Corpo d'Armata, mi convinsi che era solo un sogno, ed era sciocco pensar male ora che sapevo con certezza che Aldo era vivo ed al sicuro. Allora avevo sognato che ero a casa, nella mia grande cucina: eravamo in pieno rastrellamento ed io ero molto in ansia per Aldo. In quell'istante lui entrò dalla porta dietro del cortile, trascinandosi una gamba: era ferito, si accasciò sul tavolo, sul quale c'era un grosso grappolo d'uva bianca, ne mangiò tre acini, mi guardò sconsolato e con grande dolore mi disse: "E' finita Tea, per noi non c'è più speranza!" Mi svegliai di soprassalto con un forte dolore al cuore; mi guardai attorno, ero in cella, era un sogno, forse la febbre; eppure era lui, lo vidi così bene, il sogno non era confuso, era così chiaro, come se fosse stato vero. Cercai di calmarmi, con tutte e due le mani mi comprimevo il cuore, che non voleva riprendere il suo battito normale. Quel sogno purtroppo corrispondeva alla realtà; infatti mio fratello quella notte era venuto a dirmi addio.

 

Note

1) Schnell: presto

2) Ilde Lächert, addetta alla sorveglianza delle prigioniere, soprannominata la "tigre" per la sua ferocia.

3) La missione «Tacoma» dell'Office of Strategic Services, paracadutata nel Bellunese nel dicembre 1944, comandata dal capitano Chappel. I due ufficiali catturati e portati a Bolzano nel marzo 1945, sono Fabrega e Silsby. Dalla detenzione al Corpo d'Armata i due passeranno poi al Durchgangslager di Via Resia e quindi a Merano.

da www.deportati.it

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