Documenti dell'ANED di Milano
Dalle carte del processo a Michael Seifert
a cura di Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo
Tortura al campo di concentramento di Bolzano
La seguente relazione, attribuita al professor Alfredo Poggi, è stata trasmessa il 27.04.1946 alla Procura Generale Militare di Roma e per conoscenza al Ministero degli Affari Esteri, Segreteria Generale (dott. Prunas) dall'Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore dell'Esercito (colonnello V. Pasquale). Proviene dall'Archivio Storico-Diplomatico del Ministero Affari Esteri (ASDMAE), Roma, Affari Politici 1946-1950, Busta 175 «Criminali di guerra tedeschi». Si tratta di una delle prime denunce che vengono raccolte e trasmesse per l'azione giudiziaria nei confronti dei responsabili del «Durchgangslager» di Bolzano. Servì, inoltre, al professor Poggi come testo di riferimento per le due conferenze radiofoniche, che tenne a Genova nel 1946. A parte le molte inevitabili imprecisioni riguardo a date, nomi e ruoli, il documento è interessante proprio per l'immediatezza della testimonianza, che riferisce alcuni fatti e circostanze per conoscenza diretta. Tra i personaggi che ricorrono più spesso vi sono: l'SS-Untersturmführer (tenente) Friedrich Karl Titho, comandante del campo; l'SS Oberscharführer (maresciallo) Hans Haage, responsabile della disciplina; Hilde Lächert, responsabile del settore femminile, probabilmente originaria di Berlino; Paula Plattner, nativa di Chiusa, condannata nel 1946 a sette anni di reclusione e arrestata nel 1950; Albino Cologna, nato in Austria da famiglia nonesa, prima muratore e poi guardiano interno del campo, processato e condannato nel dopoguerra; Hans Majeski, internato, Capo-campo; le due famigerate SS ucraine Otto Sain e Mischa Seifert, formalmente internati per lo stupro di una ragazza bolzanina ma che godevano invece di molta libertà all'interno del campo.
Comandava il campo l'Untersturmführer delle SS Tito, non meglio identificato; ma il vero comandante ed esecutore di tutti gli ordini era il maresciallo Haage che ora abita presso il Gutweniger Karl a Merano. (In caso che l'Haage non fosse trovato presso il Gutweniger, la polizia può aver informazioni di lui presso il signor Malajer negoziante qui a Bolzano). Le due anime dannate e veri massacratori erano gli ucraini, traditori dell'esercito russo: Michel Seifert e Otto Sain, che sono stati visti circolare in borghese per le strade di Bolzano. Essi più e più volte dissero che, finita la guerra, per tema di ritornare in Ucraina, si sarebbero dati al vero brigantaggio. Fra i soldati delle S.S. uno dei più feroci seviziatori era il soldato Cologna (abitante in Egna-Bolzano); egli per tema di passare come protettore degli italiani cadeva in questi eccessi spaventandosi: lasciava i segregati in cella senza luce per più giorni, di modo che i poveri detenuti dovevano restare al buio completo, perché la finestra era chiusa ermeticamente da imposte di legno; proibiva ai detenuti di uscire dalla cella per vari giorni in maniera che i detenuti dovevano servirsi della gamella sia per mangiare e sia per orinare. Il Capo-cella Rella fece osservare una volta al Cologna che lasciava i martiri con le piaghe delle bastonate doloranti e senza cure in modo che non potevano stare né seduti, né sdraiati; per questo il Cologna denunciò il Rella, che fu subito mandato in Germania per ordine del maresciallo Haage. Il Cologna, fuori delle celle si divertiva a bastonare gli internati per ogni piccolezza e allettava le giovani internate delle celle e del blocco con pane e dolciumi perché aderissero alle sue voglie di bruto. Del resto questa mancanza assoluta di rispetto per le donne era un'abitudine per l'autorità del campo e se ne può dare esempio ricordando due fatti gravi: 1) - Nel dicembre furono portate da Genova circa 20 prostitute scelte fra i peggiori luoghi malfamati, tutte ammalate di malattie veneree e furono messe insieme alle oneste famiglie degli ostaggi e degli ebrei, a cui fra l'indifferenza e le risate dei tedeschi davano lezione di morale postribolare; 2) - I due ucraini sopra nominati furono arrestati perché avevano violentato due ragazze di 12 anni, furono perciò condannati a quattro mesi di reclusione, ma il maresciallo Haage li rimandò a scontare le reclusioni nelle celle del campo non come reclusi ma come guardiani. Il periodo di terrore nel campo di Bolzano durò specialmente fino al 15 marzo e l'anima dannata di tutti i supplizi che gli internati dovettero subire sempre fu il maresciallo Haage. È impossibile ricordare ora tutto ciò che egli fece: enumereremo solo alcuni fatti come esempio. Un giorno il maresciallo credette di dover schiaffeggiare (giacché lo schiaffeggiamento era secondo lui la pena minore e più comune) circa 30 internati; li pose in fila e freddamente cominciò l'operazione matematicamente studiata alla tedesca: cioè 25 schiaffi per ognuno. Durante questa fredda operazione le sue mani s'insanguinarono ed allora egli mandò a prendere un secchio d'acqua portato da una internata che, piangendo lo doveva seguire; egli si lavava regolarmente le mani e poi continuava a schiaffeggiare. L'ordine era (e le SS italiane insieme ai tedeschi ed agli ucraini ubbidivano fedelmente a questo ordine) di bastonare per due volte al giorno con ferri e con bastoni i poveretti delle celle, segnalati dal comando, i quali così, invece del rancio ricevevano percosse sanguinose. Nel piazzale del campo gli internati liberi udivano terrorizzati gli urli delle vittime, sebbene il maresciallo Haage avesse provveduto a far foderare una cella d'imbottitura di legno e di segatura perché non si udissero gli urli di dolore. Nella domenica delle palme, mentre il sacerdote Don Piola diceva la messa, tutti restarono terrorizzati per gli urli di un povero detenuto bastonato: solo il viso del maresciallo Haage rimase indifferente e si limitò a farsi maggiormente severo verso il pubblico pregante, timoroso di qualche rivolta. La tragedia si concluse il giorno dopo, quando gli internati videro entrare nelle celle l'uomo che portava le patate nel campo e che era anche l'agente funebre; poco dopo gli ucraini portarono fuori una cassa da morto e la caricarono sgarbatamente sul carro delle patate. Il carrettiere la legò, la coprì con una coperta, poi salì sul carro, come al solito si sedette sulla cassa e aizzò il cavallo che fece traballare il carro fuori del campo. Questo era il "funerale del campo". Secondo un maggiore americano prigioniero, gli uccisi dai tedeschi superano i 50: tra essi due ragazzi (giacché nel campo erano vecchi di 80 anni, giovanetti di 16 anni e bambini di 3 o 4 anni) , che avevano tentato di fuggire. Così furono chiusi in cella ed uccisi a bastonate. Una povera donna ebrea impazzita perché avevano deportato in Germania il marito, siccome dava noia con le sue urla, fu denudata, legata alla branda e inondata di acqua gelida nel mese di dicembre, mentre la finestra era aperta: al mattino la poveretta era stecchita per assideramento. Può testimoniare su questo anche l'ex internato Laraspata che fu schiaffeggiato sanguinosamente perché non aveva denunciato i due ragazzi massacrati perché avevano tentato di fuggire. In seguito alle frequenti fughe il maresciallo Haage a tutti gli internati riuniti nel piazzale diede comunicazione: per ognuno che fosse scappato sarebbero stati bastonati con 25 vergate tutti i suoi compagni di squadra. Questa minaccia non servì e anzi consigliò la fuga a squadre intere; allora il maresciallo Haage ad un'altra adunata comunicò che sarebbe stato fucilato il caposquadra. Ma per fortuna gli eventi precipitarono. Ad ogni modo coloro i quali tentavano di fuggire ed erano ripresi, erano mandati in cella, certamente con ordine speciale di Haage perché questi poveretti erano regolarmente bastonati o in cella o nel gabinetto delle celle fino alla morte. L'opera seviziatrice dei tedeschi era accompagnata da un'altra azione meno dolorosa ma forse più offensiva della dignità umana: i tedeschi insieme col capo-campo saccheggiavano regolarmente i pacchi inviati dalle famiglie agli internati. Il capocampo era un certo Hans Majersrki (o Majeski, ndr.) abitante a Milano, Via Archimede 5/54. Egli era stato assunto dal comando tedesco di Milano come interprete, ma in seguito ad abusi che egli commise, fu mandato nel campo di concentramento, ove perché era tedesco fu dapprima nominato capo-disciplina e poi capo-campo. In questa sua funzione egli si comportò sempre villanamente, distribuendo urli, schiaffi e pedate. Ma la sua specialità era di saccheggiare i pacchi, il cui contenuto a lui serviva per imbandire lauti pranzi ai suoi amici. In uno di questi un certo Gino Radaelli di Milano (Piazza Grande n. 4) arrivò al cinismo di prendere da un pacco un paio di scarpe nuove e di sostituirle con un paio di vecchie. La cosa è più grave perché il Radaelli era un internato non politico, bastonato già una volta per furto avvenuto in seno al campo, e chiamato poi da Hans alla carica di vice capo disciplina. Nel mese di marzo fu fatta l'ultima deportazione in Germania di 42 internati fra cui vi era il dott. Vincenzo Poggi, figlio del prof. avv. Alfredo Poggi, rinchiuso nel blocco del campo. Il dott. Poggi partendo fu avvisato che non avrebbe potuto portare con sé null'altro che ciò che aveva indosso e allora egli lasciò lire 1.600, un sacco da montagna pieno di biancheria e medicinali perché fosse tutto consegnato al suo povero padre. Nulla fu dato di tutto questo al destinatario il quale, quando le condizioni del campo lo permisero, fece le dovute indagini e, dopo sforzi e testimonianze, ricevette dall'internata Gianna Zucchetti (abitante a Milano in Via Foscolo, 4) le lire 1.600. Recatosi poi con la Gianna dal capo-campo per avere lo zaino a lui consegnato dalla stessa Gianna, il prof. Poggi dovette subire l'umiliazione di sentirsi rispondere che il capo-campo non poteva interrompere il pranzo per cercare il sacco. Il prof. Poggi rispose che avrebbe denunciato per furto il signor Hans, che non consegnò né allora né dopo la roba lasciata dal dott. Poggi per suo padre. Seguendo il corso dei nostri ricordi, un po' disordinati, perché ancora bruciano le ferite sul nostro corpo e sul nostro spirito, accenniamo all'episodio doloroso di 8 internati che furono messi in cella perché avevano bastonato un soldato delle SS italiano. Essi furono sottoposti a due ore di bastonatura quotidiana, ciò che gli ucraini facevano servendosi di un bastone formato da parecchi fili di ferro spinoso. Di questo episodio può fare testimonianza uno degli 8 rimasti in Italia (poiché gli altri 7 erano stati deportati in Germania). Il signor Radice fratello di Suor Clementina, la quale presta servizio all'ospedale militare di Bolzano. Non è da dimenticare il milite o sergente Pescosta delle SS tedesche, che nel campo si vantava di aver preso parte ad un plotone di esecuzione. Nemmeno può essere dimenticata l'opera nefanda e nefasta della così detta "Tigre", cioè della virago Hilde Loscher di Berlino la quale è stata vista in Bolzano in Via Belluno 9 (ad ogni modo si può interrogare per informazioni il signor Koverich). Questa valchiria che era quasi sempre armata e che ostentava la sua abilità come tiratrice di pistola, questa donna ossessionata urlava per il campo, con il viso di pazza, prendeva a schiaffi gli uomini che non si toglievano il cappello davanti a lei e poi nel blocco femminile manifestava il suo furore di violenza perseguitando e bastonando le donne internate specialmente ebree vecchie e malate. Una povera vecchia fu sottoposta al taglio dei capelli e solo perché andando al lavoro nell'interno del campo s'era fermata a dare una patata ad un internato, per ordine della Tigre fu trascinata nelle celle e fu bastonata sadicamente dalla Tigre stessa che enumerava con freddezza inumana le bastonate, mentre la poveretta implorava invano pietà. La Tigre con la connivenza degli ucraini trascinava le ebree in cella, ove le costringeva a rimanere nude e nell'umido per un periodo che non superava mai i tre giorni perché perivano, irrise dalla Tigre e dagli ucraini, specialmente quando i miseri resti di queste vittime erano messi nella cassa. Quando le casse erano piccole i cadaveri erano ridotti nelle dimensioni volute a pugni e calci. Nel cuore degli internati resta pungente come una lenta tortura il suono lugubre dei gemiti di questi poveri martiri che lentamente si spegnevano nel silenzio del carcere. Ci viene in mente anche questo episodio. Esisteva in campo una famiglia di ebrei, la famiglia Voghera, di cui facevano parte la madre e due figlie. La più giovane di queste, Augusta, sposata Manasse, era un'anormale psichica per un'infermità sofferta anni prima; era tuttavia quieta e tranquilla e non dava fastidio a nessuno. Essa diede tuttavia ai nervi della Tigre, la quale dapprima le fece tagliare i capelli e poi senza nessuna ragione la fece portare in cella. I parenti della disgraziata andavano ogni giorno sotto il finestrino della cella a parlarle e la disgraziata riferiva che non aveva da mangiare ed era sempre chiusa al buio. Il terzo giorno essa non rispose più e la sera si vide uscire dalla cella il triste carico della cassa da morto. Ciò non bastò alla Tigre che lo stesso giorno fece rinchiudere nelle celle anche la madre, senza nessuna ragione, ed anche questa ne uscì soltanto col triste "carro delle patate". L'altra sorella terrorizzata, pur essendo ammalata con più di 39 gradi di febbre il giorno dopo andò a lavorare in galleria e da lì riuscì a fuggire. Queste due ebree morirono così nella disperazione come altre ebree, Giulia Bianchini di 79 anni, che la Tigre portò via dall'infermeria, Elda Levi e come Guido Raffa e Pezzuto. Nelle celle per moltissimo tempo i carcerati non avevano affatto la possibilità di lavarsi; gli isolati riferiscono di essere rimasti 45 giorni senza avere un po' d'acqua per sciacquarsi la faccia. Finalmente un giorno fu deciso di portarli alle docce. Ma le donne ebbero qui una brutta sorpresa; al bagno assistettero oltre al medico ed alla Tigre il sottotenente Tito, il sottotenente Muller, la guardia Lanz ed il sergente delle celle Kirker, i quali si divertivano ad osservare l'imbarazzo delle poverette ed a fare i loro commenti. Ricordiamo anche che il 22 dicembre 1943 il maresciallo Haage venne a conoscenza che gli internati del blocco E avevano preparato un cunicolo sotterraneo per fuggire. Egli mise sull'attenti tutto il blocco nel piazzale, volle che si presentassero i colpevoli, che, di fronte all'atteggiamento negativo del blocco, furono scelti a caso in numero di 11 e davanti ai compagni, mentre nevicava abbondantemente, furono bastonati con 25 vergate ciascuno e poi furono chiusi in cella. Tutti gli altri furono condannati a rimanere durante i giorni 24 e 25 sull'attenti, sotto la neve, senza rancio, né del mattino né della sera. La cosa si aggravava se si rileva che tra questi vi erano 16 internati giunti al campo già con i piedi congelati. Uno di questi svenuto fu portato in infermeria per la cura necessaria, ma il maresciallo Haage si precipitò ad ordinare che fosse riportato nelle file ed egli accompagnò il suo ordine con una scarica di calci sul povero infermo. Bisogna rilevare ancora che mentre questi disgraziati stavano sull'attenti sotto la neve e svenivano dalla fame e dal freddo, davanti ad essi brillavano le luci dell'albero di Natale, nudo però di cibarie, perché tutti i regali che per la somma di circa 40.000 lire erano stati mandati al campo per gli internati, erano stati trattenuti dai tedeschi per festeggiare la loro festa. Ma un altro ricordo punge l'animo dei firmatari di questa esposizione dolorosa e cioè quello del servizio posta. Per ordine tirannico dei tedeschi i detenuti politici nelle carceri d'Italia dovevano restare spesso parecchi mesi senza avere nessuna comunicazione con la loro famiglia e senza avere neppure il cambio della biancheria. Nel campo poi avevano teoricamente il diritto di scrivere e di ricevere due lettere familiari al mese. Ma molti sono gli internati che per il periodo di 4 o 5 mesi non hanno ricevuto nessuna lettera mentre gli internati falegnami hanno più volte visto casse piene di lettere strappate e strappate senza che neppure fossero aperte, tanto è vero che con le lettere vi erano molti biglietti di banca strappati e gettati via. Era ricoverato nel campo di Bolzano un certo Manfredini di Milano additato come la Tigre da Radio Londra, quale uno dei seviziatori più crudeli per le torture inflitte ai detenuti politici milanesi, fra cui vi era un padre davanti al quale il Manfredini seviziò la figlia piccina piangente. Egli a Bolzano fu messo in cella e poi fu fatto uscire e fu lasciato come capo-cella, ora egli è carceriere a S. Vittore a Milano. Non crediamo di dover narrare le torture subite nelle varie carceri d'Italia dove le varie sezioni delle SS avevano organizzato meticolosamente una maniera di tortura con apparecchi elettrici, su cui riferiranno i rispettivi comitati di liberazione competenti. Vogliamo solo accennare al modo con cui avvenivano le deportazioni. Da Genova i politici (vecchi e ragazzi erano deportati incatenati come bestie e dovevano restare incatenati per tutta la durata del viaggio compresa la sosta a Milano: cioè durante 48 ore. Da Bolzano i deportati erano ammassati in 65 per vagone merci, ove restavano rinchiusi per tutto il tempo del viaggio senza poter uscire per nessun bisogno. L'ultima deportazione tentata il 29 febbraio e poi non avvenuta per l'interruzione della linea, per opera degli aeroplani anglo-americani, si ridusse ad una tormentosa clausura di 700 deportandi in vagoni bestiame durante 30 ore senza che ricevessero né alcun cibo, né alcun bicchiere d'acqua. Qualcuno osò aprire lo sportello per chiamare la guardia perché vi era chi era stato colpito da dissenteria e chi moriva di sete: la risposta fu un colpo di moschetto che per un miracolo non uccise il misericordioso richiedente. E così il malato dovette soddisfare i suoi bisogni entro il vagone ove non v'era spazio nemmeno per muovere una gamba. La miseria della situazione di questi poveri disgraziati era tanto più grave in quanto che erano stati mandati sui vagoni pieni di pidocchi e di cimici, che per il caldo dell'ambiente erano tormentose in modo speciale. Era persino proibito di parlare. Dopo questa tristissima esperienza, tornati miracolosamente al campo, ci parvero delizie tutte le altre torture e mortificazioni! Su molte di queste cose denunciate può testimoniare il maggiore americano Salvator Fabrega, rinchiuso nel campo con l'ufficiale inglese Mc. Arthur. Nel campo si narrava (ma non ci consta) che un ufficiale, rinchiuso in cella, un giorno uscendo vide sua moglie e sua figlia e si slanciò per abbracciarle. Un ucraino uccise con la rivoltella la bimba; allora l'ufficiale disarmò l'ucraino, uccise la moglie, l'ucraino e poi se stesso. Per moltissimi di questi reati può testimoniare il dott. Pittschieler Karl, Via 3 Santi 1 - Bolzano - direttore dell'infermeria del campo, sebbene questo tedesco non avesse ancora la laurea in medicina. Cosa molto grave, in quanto vi erano tra gli internati rinchiusi nei blocchi alcuni medici anziani d'ospedale, alcuni professori di medicina ed alcuni primari di ospedali civili, lasciati inutilizzati o ... utilizzati come manovali. Il maresciallo Haage del resto non aveva tempo di meditare molto sulla migliore utilizzazione degli internati perché era troppo distratto dai suoi amori che egli sceglieva sempre tra queste donne naziste meglio rispondenti alla funzione di carnefice che egli aveva scelto come più cara al suo cuore. Dapprima egli si sollazzava con una certa Plattner Paola, perfida spia degli internati e sadica collaboratrice alle bastonature di Haage: o assisteva ridendo o bastonava insieme col suo drudo. Di poi gli amori di Haage si rivolsero verso la cosiddetta "Tigre", temperamento non di donna, ma di furia. I testimoni di questo doloroso evento sono stati per quasi tutti gli episodi enumerati
testimoni de visu.
da www.deportati.it