Documenti dell'ANED di Milano

Dalle carte del processo a Michael Seifert

a cura di Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo

Alfredo Poggi

Polifemo senza legge

 

Il prof. Alfredo Poggi dell'Università di Genova, socialista, fu arrestato dalla Gestapo nell'ottobre del 1944 e dopo un periodo di detenzione a Marassi, trasferito nel campo di Bolzano (matricola 9096). Dopo la liberazione, fu direttore de «Il Lavoro Nuovo», quotidiano della Federazione ligure del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). In seguito fu membro del Consiglio Superiore della Magistratura. La testimonianza che segue è il testo (pressoché integrale per quanto riguarda il Durchgangslager) di due conferenze radiofoniche tenute a Genova, acquisito dalla Procura Generale Militare presso il Tribunale Supremo Militare di Roma il 10 dicembre 1946.

 

...Si giungeva a Bolzano generalmente al mattino alle 4 e si era allucinati dai fari che illuminavano il Campo. Dopo le pratiche dell'Ufficio matricola, vi erano il taglio dei capelli ad alzo abbattuto, la distribuzione delle coperte e quindi per i pericolosi, chiusura in capannoni detti blocchi, da cui non poteva uscire mai. La disciplina era tenuta da soldati tedeschi comandati dal feroce Haage e si svolgeva non a forza di consigli ma a forza di bastonate che precedevano sempre la condanna ad essere rinchiusi in cella. Le celle erano in un fabbricato cupo e basso; esse erano senza luce perché le finestre, per ordine tedesco, restavano sempre chiuse e spesso i detenuti erano condannati a non uscirne mai per nessuna ragione, cosicché dovevano servirsi dello stesso recipiente (della stessa gamella) tanto per mangiare quanto per orinare. I guardiani del campo erano alto-atesini ma non per questo erano meno severi. Fra di essi il più cinico era un ex alpino dell'esercito nostro, un certo Cologna (1) che per timore di apparire protettore degli italiani infieriva sui rinchiusi nei blocchi o nelle celle anche se costoro per le orribili piaghe prodotte sul loro corpo dalle bastonature, non potevano stare né seduti né coricati. Anzi un soldato tedesco che, rara avis, ebbe pietà di questi poveri feriti ed osò chiedere per loro il ricovero in infermeria, fu mandato in Germania per denuncia del Cologna, il quale si distraeva dai dolorosi incubi allettando con dolciumi le donne giovani chiuse in cella, che costringeva così alle sue voglie di bruto. I soldati, dall'esempio di quanto era successo al loro compagno mite, furono consigliati alla crudeltà, perché questo era l'ordine dato dal freddo e impassibile maresciallo tirolese Haage (2). Egli, quando si trattava di ordinare o di dare bastonature, restava imperturbabile come chi sa di compiere soltanto un dovere: sorvegliava la triste faccenda per vedere se tutto era compiuto secondo gli ordini e se per caso l'esecutore dimenticava un colpo di verga, egli tranquillamente si avvicinava, prendeva il bastone che era anche di legno fasciato di filo di ferro e dava lui il colpo dimenticato. Poi come se si alzasse dal suo tavolo, si voltava e senza alcuna commozione per i lamenti dei feriti ci guardava e se ne andava sereno e tranquillo. Mi accadde una volta di entrare in infermeria mentre curavano uno di questi disgraziati bastonati e vidi che la sua schiena era tutta una piaga senza più pelle e mostrava soltanto la carne viva e tumefatta. Pensate, o ascoltatori, che queste vittime, così ferite da non potersi muovere, dovevano poi partire per la Germania, caricandosi sulle spalle i loro fagotti.  Un giorno il maresciallo Haage credette di dover schiaffeggiare circa 30 internati: li pose in fila e freddamente incominciò la sua operazione, contando cioè puntualmente 25 schiaffi per ognuno. Durante questa eroica operazione di disciplina, le sue mani si insanguinarono ed allora egli mandò a prendere un secchio d'acqua portato da un'internata che, piangendo, doveva seguirlo mentre egli regolarmente si lavava le mani e poi continuava a picchiare sul viso di quegli inermi. Generalmente queste operazioni erano compiute davanti a tutti gli internati messi sull'attenti e guardati a vista dai militi armati, ma l'angoscia più penosa sorgeva in noi dai lugubri lamenti di quei poveretti nostri compagni che erano in cella sottoposti alle quotidiane sevizie: il suono cupo di quei gridi soffocati resta nel nostro cuore come un ricordo e ci rabbrividisce e ci disturba i nostri sonni perché essi si andavano affievolendo man mano che la vittima si avvicinava alla morte. Ho ancora viva nella memoria la messa della Domenica delle Palme: il prete Don Piola (3), un genovese, distribuiva i rami di olivo per incitarci al confortevole pensiero della pace; ma tutti noi ed il sacerdote restammo ad un tratto esterrefatti per gli urli di un povero detenuto che era stato bastonato nelle celle, urli che si sentivano come soffocati perché la cella delle bastonature era stata fasciata con una parete di legno piena di segatura e la finestra era stata riempita e chiusa di altra segatura. Al soffocato grido del morente che invocava la mamma lontana in quel momento per lui estremo, noi restammo immobili senza proferire parola: solo il maresciallo Haage mantenne indifferente il suo viso volgendo soltanto i suoi occhi severi verso di noi per timore di qualche rivolta. La tragedia si concluse il giorno dopo quando vedemmo entrare nelle celle una disadorna cassa da morto e vedemmo fermo dinanzi alla porta il carro che portava nel campo le patate e portava fuori i cadaveri delle vittime. Poco dopo due ucraini uscirono e sgarbatamente gettarono sul carro la cassa che rinchiudeva il cadavere di un'altra vittima eroica: il carrettiere, sempre con il cappello in testa ed il sigaro in bocca, la coprì con una coperta, poi, salito sul carro, come al solito, si sedette sulla cassa e aizzò il cavallo che fece traballare il carro sul selciato sassoso. Questo era, o mamme, il funerale del campo che i tedeschi preparavano ai vostri figlioli! E, secondo il calcolo di un maggiore americano prigioniero (4) con noi, ben 75 funerali di questa specie erano stati celebrati. Fra questi anche quello di due ragazzi (giacché nel campo erano vecchi di 80 anni, giovanetti di 16 anni e bambini di 4 anni): due ragazzi svelti e intelligenti che avevano tentato di sottrarsi alla fame e di fuggire verso le loro mamme lontane: erano sorridenti alla loro primavera, ma furono ripresi, bastonati e poi strozzati. Una povera donna, impazzita perché suo marito era stato deportato in Germania, fu chiusa in cella e, siccome con le sue urla dava a noi e agli ucraini fastidio, fu denudata, legata al pancone e inondata con due secchi d'acqua mentre dalla finestra aperta entrava la gelida tramontana con 18° sotto zero. Al mattino la poveretta aveva finito di soffrire, stecchita come un pezzo di ghiaccio. La fucilazione forse era una pena minore di quella che aveva sofferto un internato genovese (Monteleone Foca) che aveva tentato di fuggire e, ripreso, fu appeso per i polsi legati ad un chiodo, in modo da non poter toccare la terra con i piedi; così restò per più ore davanti all’indifferente Haage ed agli internati terrorizzati; quando fu distaccato, il corpo si afflosciò con le mani rese violacee: un soldataccio se lo caricò sulle spalle e lo portò in cella. Un altro fuggitivo fu ucciso ed il corpo fu portato in una coperta nel Campo e buttato per terra agli internati in fila e sull’attenti e fu … commemorato con un rabbioso discorso di Haage e con due sputi che sul cadavere lanciò il soldato Cologna. Un terzo fuggitivo fu solo ferito e, prima di essere curato, fu portato sul piazzale, mentre aveva il vestito in brandelli sporco di polvere e di sangue ed il braccio destro penzolante. Dovette rimanere in piedi per sentire le ingiurie del maresciallo Haage e la traduzione dell’interprete, poi fu spinto all’infermeria per le cure e quindi, tutto fasciato, fu portato in cella. Questi spettacoli si svolgevano in uno scenario di serenità e di rigogliosa vita naturale che era in contrasto stridente con l’angoscia del nostro cuore. A ponente la montagna nevosa proteggeva l’artistico ed antico castello di Bolzano, cupo nei tramonti quasi fosse torvo per il ricordo dei lontani delitti medioevali, certo non così malvagi come quelli “ civili “. Ad oriente sfolgorava, in mezzo ad uno scenario di colline in penombra, il Rosengarten che, quasi gonfio di ira umana, drizzava contro il cielo sereno ed indifferente le punte del Vaiolet colorate di rosa, non so se per gli ultimi raggi di sole o per la vergogna dei delitti umani cui doveva assistere. A causa delle frequenti fughe, il Maresciallo Haage a tutti gli internati riuniti nel piazzale comunicò che per ognuno che fosse fuggito sarebbero state date 25 vergate ai componenti della squadra di lavoro. Questa minaccia non servì ed anzi consigliò la fuga a squadre intere, cosicché il maresciallo Haage in un’altra adunata comunicò che sarebbe stato fucilato il capo squadra. Il nutrimento che ricevevamo al Campo di Bolzano era poco propizio ai riposi estetici: un mestolino e mezzo di brodaglia a mezzogiorno ed eguale razione alla sera ed un panino di 150 gr. per tutto il giorno: per ogni inezia piombava la condanna del “senza rancio“ accompagnata da bastonate che, se erano dolorose dopo la terza, erano quasi piacevoli ai primi colpi perché eravamo tormentati dai pidocchi, dalle cimici e dalla scabbia. A chi si lagnò perché i ricoverati, e specialmente gli ammalati, pativano la fame, il maresciallo Haage rispose cinicamente che… non era necessario che vivessero i politici pericolosi, esclusi dal lavoro e tanto meno gli ammalati, impossibilitati al lavoro, mentre erano utili gli internati che, pure essendo medici o avvocati, andavano fuori del Campo a lavorare come manovali o minatori, e perciò ricevevano razione doppia. Ma questo tipico esemplare di uomo bestia (come egli usava chiamare noi) faceva finta di non sapere che per ogni internato che andava a lavorare nelle industrie di Bolzano il Comando tedesco riceveva e teneva per sé £. 60,= al giorno, somma che non andava a profitto degli internati, i quali spesso dovevano lavorare e… non mangiare. Così fu nel tragico Natale del 1944, quando il maresciallo Haage scoprì che al blocco E, i “pericolosi “ ivi rinchiusi notte e giorno, avevano scavato un cunicolo sotto il muro di cinta per fuggire. Egli fece uscire tutti i 200 ivi ricoverati e comandò che si presentassero i colpevoli. Ma, di fronte al mutismo del blocco intero, furono scelti 11 a caso che, davanti ai compagni, furono bastonati con 25 vergate ciascuno e poi chiusi in cella. Tutti gli altri furono costretti a rimanere, durante i giorni 24 e 25, senza rancio né al mattino né alla sera e sull’attenti sotto la neve, si pensi, per capire la maggior gravità della cosa, che fra essi ve ne erano 16 giunti al Campo già con i piedi congelati. Uno di questi, svenuto, fu portato all'infermeria del Campo, ma il maresciallo Haage si precipitò ad ordinare che fosse riportato nelle file ed accompagnò il suo ordine con una scarica di calci sul povero infermo. Mentre questi disgraziati stavano sull'attenti sotto la neve e svenivano per la fame e per il freddo, davanti ad essi brillava di luci argentee l'albero di Natale preparato per i tedeschi. Unico conforto che potevano avere i deportati era quello di ricevere posta o pacchi dalle famiglie o dal C.L. (5), ma la prima era saltuaria ed irregolare perché i tedeschi non volevano perdere tempo nel lavoro di censura e quindi strappavano le lettere che poi gli scopini trovavano nelle casse spesso contenenti ancora biglietti da 100 in pezzi; il servizio pacchi era profanato perché o i tedeschi si appropriavano dei pacchi mandati dal Comitato, o il Campo li apriva (un tedesco maestro di musica a Milano, già interprete al comando delle SS di Milano ed internato poi, per la sua disonestà, a Bolzano, li saccheggiava a profitto della sua mensa e del suo guardaroba). Così noi restavamo per parecchi mesi senza avere o poter dare notizie alle nostre famiglie che, lontane, piangevano e si logoravano nell'angoscia di tutte le ore. Certo che noi a Bolzano ci sentimmo quasi beati fra tutte queste torture, dopo il fallito tentativo di portarci in Germania. Il maresciallo Haage aveva preparato una spedizione di 700 internati (6) (di cui circa 200 erano politici e gli altri, purtroppo, con nostra mortificazione, erano ladri comuni) e di 200 ebrei. Questi poveretti partivano allora vestiti, mentre la volta precedente erano laceri e scalzi in pieno inverno. Gli internati allora li rifornirono a proprie spese di zoccoli: i tedeschi lasciarono fare ma poi, alla stazione, ritirarono a tutti gli zoccoli che si trattennero, secondo il loro costume di veri ladri, e li mandarono a Dackau (sic), dove arrivarono o morti o con i piedi congelati. Fin dal mattino fummo messi in moto per la consegna delle coperte e della gavetta, restando quindi senza rancio. Al pomeriggio, dopo una meticolosa perquisizione, fummo condotti come alla stazione e rinchiusi 65 per ogni vagone merci. Mentre stavamo per partire, vennero i bombardieri inglesi sulla stazione, che fu distrutta senza che una sola scheggia colpisse i nostri vagoni. Restammo chiusi con gli sportelli inchiodati e le porte scorrevoli piombate, fermi alla stazione per ben 30 ore, senza mangiare, senza bere e anche con la proibizione di parlare. Uno del mio vagone fu colto da coliche e diarrea; non vi era possibilità di uscita e quindi egli dovette adattarsi con ogni mezzo, mentre noi dovemmo restare in quell'afa puzzolente, distratti solo dai numerosi pidocchi che ci tormentavano. Un partigiano audace schiodò uno sportello per chiamare la guardia in aiuto del morente, ma la risposta fu un colpo di moschetto (…) Il partigiano si salvò per miracolo scostandosi dallo sportello, ma continuò ad urlare finché il tedesco inumano, rispose: «Morite pure, nessuno esce, a Mauthausen porteremo fuori vivi e morti». Per fortuna l'intelligente bombardamento aveva sconquassato la stazione, e noi, dopo 30 ore di quel supplizio, fummo ricondotti nella notte lunare al Campo, ove arrivammo pallidi e sfiniti come spettri, ma ancora con la forza di sorridere perché alla nostra richiesta, un soldato ci disse che, per il viaggio, avrebbe messo in ogni vagone un secchiello di legno (chiamato bugliolo in gergo del Campo) che avrebbe dovuto servire per mettervi il cibo di giorno, e di notte per il … viceversa. Dopo questo incubo delle 30 ore, i dolori del Campo ci parevano carezze. Nella notte stessa tornavano i bombardieri americani e con 4 spezzoni incendiari bruciarono proprio i 12 vagoni entro cui avevamo tanto sofferto. La più scontenta per questo mancato viaggio in Germania fu la comandante delle donne, la furiosa valchiria tedesca Loescher (7), chiamata dalle internate, per la sua  fredda crudeltà, "la Tigre". Ella, amante del maresciallo Haage, non aveva limiti (…) La Tigre schiaffeggiava gli uomini se non la salutavano, bastonava specialmente le povere ebree vecchie e chiudeva in cella, dopo aver fatto loro tagliare i capelli, le donne che, per misericordia, davano un pezzo di pane a qualche internato affamato. Quando bastonava soleva enumerare a voce alta le 25 vergate regolamentari, senza commuoversi per i lamenti delle vittime che invocavano pietà. Spesso, con l'aiuto degli ucraini, chiudeva le donne denudate in celle umide, ove sapeva che non avrebbero potuto vivere più di tre giorni e, quando le poverette morivano, se il cadavere non entrava nella cassa comune, era ridotto alle dimensioni necessarie a pugni e a calci. Esisteva nel campo una famiglia di ebrei, di cui facevano parte madre e due figlie (8); la più giovane, anormale psichica per un'infermità sofferta da bambina, era quieta e tranquilla e non dava fastidio a nessuno, tranne che alla Tigre, la quale, la quale la fece chiudere in cella. I parenti della disgraziata andavano ogni giorno sotto il finestrino per parlarle e per tentare di gettarle un tozzo di pane, perché ella si lamentava della fame. Al terzo giorno i familiari sentirono solo un sommesso lamento che si spense a poco a poco ed alla sera ci fu il solito triste funerale con il carro delle patate. Ma ciò non bastò alla Tigre, che lo stesso giorno fece rinchiudere in cella anche la madre senza nessuna ragione ed anche questa, dopo breve tempo, morì. L'altra sorella, terrorizzata, pur avendo 39° di febbre, volle andare a lavorare e, fortunatamente, poté fuggire. Non poté fuggire un'eroica genovese che, pur essendo incinta, fu bastonata sul ventre tanto che abortì (…) Dopo tutto questo che vi ho narrato, o ascoltatori, sorge spontanea in noi la domanda: come mai i politici e … gli scienziati tedeschi abbiano osato forzare la scienza per creare, con uno sproposito teorico e morale, il mito della razza superiore. Un popolo è superiore in civiltà e cultura non per i progressi tecnici ma per i progressi morali, non se si dimostra feroce e violento, ma se manifesta le doti cristiane di bontà e giustizia. Se noi volessimo seguire i tedeschi nel principio scientifico sostenuto da Carlo Schmitt (9) che la loro razza è superiore perché gli scheletri dei loro avi sono giganteschi, noi potremmo ironicamente affermare che il proavo dei tedeschi è Polifemo, il monocolo gigante descritto da Omero come bestione sciolto da ogni legge, athemistos, come dice appunto il poeta, guidato da un solo occhio, cioè unilaterale come unilaterale si è dimostrato il popolo tedesco in questa guerra, ove non ha considerato il diritto degli altri popoli, non ha previsto le reazioni possibili dei popoli liberi, si è dimostrato privo di onestà, di umanità, di intelligenza. Anzi più pericoloso delle bestie perché ha usato la ragione per rendere più violente le sue azioni (…) Ma come Polifemo fu facilmente ingannato dal piccolo Ulisse, così il barbaro maresciallo Haage fu ingannato da noi che nel campo facevamo funzionare regolarmente le sezioni dei partiti socialista, comunista, democristiano e d'azione; avevamo il C.L. interno, la nostra squadra di partigiani in ogni blocco pronta ad opporsi a qualche tentativo dei non politici o dei repubblichini, purtroppo detenuti insieme a noi. Come i compagni di Genova ci mandavano aiuti a Marassi, così a Bolzano ricevevamo dai compagni di Milano pacchi e soldi che poi distribuivamo agli indigenti. Dall'esterno, con cui eravamo in regolare comunicazione, per merito del caro compagno Sacchetta (10), ora morto improvvisamente, sapemmo che la guerra era finita. Sfidando la fucilazione prendemmo contatto con il Maresciallo e chiedemmo di avere il comando del Campo in nome del C.L. Ma egli non cedette e così lo scioglimento del Campo avvenne disordinatamene, di modo che i delinquenti comuni ebbero modo di svaligiare prima i magazzini. Ma infine fummo liberi anche noi, non senza aver prima distribuito agli indigenti le ultime 50.000 lire. Partimmo ingannati un'altra volta. Quando ci liberarono, ci dissero che i camions ci avrebbero portato a Trento, mentre invece ci buttarono sulla strada, sotto la pioggia a dirotto a 10 chilometri da Bolzano. (…)

Note

1) Albino Cologna, condannato nel 1946 dalla Corte d'Assise straordinaria di Bolzano a 30 anni di carcere, poi ridotti in Cassazione; tornato in libertà nel 1964.

2) L'SS-Oberscharführer Hans Haage era in realtà germanico.

3) Monsignor Giuseppe Piola

4) Probabilmente si tratta del tenente Salvatore Fabrega della missione OSS «Tacoma».

5) C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale)

6) Può trattarsi del 19 o 25 febbraio 1945, date di due "Transporte" sospesi per i bombardamenti sulla ferrovia.

7) Ilde Lächert, già in servizio a Majdanek, scontò nel dopoguerra 10 anni nelle carceri polacche.

8) La famiglia Voghera-Leone di Verona. La figlia Augusta morì il 7 e la madre Giulia il 17 febbraio 1945.

9) Karl Schmitt, il filosofo che aderì al nazismo.

10) Armando Sacchetta, milanese (matr. 5194)

da www.deportati.it

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