Documenti dell'ANED di Milano
Dalle carte del processo a Michael Seifert
a cura di Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo
Il processo contro Seifert
di Bartolomeo Costantini*
*Procuratore militare della Repubblica di Verona
Il processo contro il caporale delle SS Michael Seifert - “Mischa” in antiche carte processuali e nel ricordo di tutti i sopravvissuti - per gli omicidi commessi fra il 1944 e il 1945 nel Polizeilisches Durchgangslager Bozen non è iniziato nel 1999, anno di iscrizione del suo nome nei registri della Procura militare di Verona. Fin dal 1946, infatti, Seifert, nato in Ucraina da genitori tedeschi ivi residenti (Volksdeutsche) ed arruolatosi meno che ventenne nelle SS, era stato sottoposto a procedimento penale insieme con altri guardiani del Lager, uomini e donne, per il reato di "violenza con omicidio contro privati nemici e prigionieri di guerra" previsto dagli articoli 13, 185 e 211 del codice penale militare di guerra. Il fascicolo, distinto dal n. 1250/46 R.G., fu costituito in Roma dalla Procura Generale Militare del Regno presso il Tribunale supremo militare – Ufficio procedimenti contro criminali di guerra tedeschi -. Una sommaria descrizione degli addebiti precisa che costoro “nel campo di concentramento di Bolzano, durante il lungo periodo della occupazione nazista, trattarono in modo inumano gli italiani (militari, ebrei, ed altri civili), sottoponendoli a continue sevizie e bastonature, imprigionamenti lunghi, terribili ed estenuanti. Per questo brutale trattamento, alcuni internati perirono”. Il fascicolo si apre con un memoriale anonimo ricevuto il 25 aprile 1946 dallo Stato Maggiore del Regio Esercito, che lo classificò con la stampigliatura "SEGRETO", e che venne poi riconosciuto come stilato dall’ex internato professor Alfredo Poggi di Genova. Si intitola "Tortura al campo di concentramento di Bolzano" e contiene accuse molto circostanziate nei confronti del comandante Karl Titho e vari suoi subordinati, a cominciare da Michael Seifert e Otto Sain, descritti come «due anime dannate e veri massacratori", i quali "servivano da boia". Ma non va trascurata la denuncia del 10 maggio 1945, rinvenuta fra le carte del processo a carico di un altro aguzzino del Lager e poi acquisita anch’essa al fascicolo Seifert del 1999. La sua concisione permette di riportarla per intero, con le sue imprecisioni:
Pieve di Cadore, 10 maggio 1945
Al Comitato di Liberazione Nazionale di Bolzano. Ritengo opportuno segnalare a codesto Comitato per i Provvedimenti del caso alcuni nominativi di soldati e funzionari tedeschi e italiani addetti al campo di concentramento di Bolzano, il trattamento dei quali nei confronti degli internati è stato veramente inumano:
Seuffer Michele Caporale delle SS (Ucraino)
Zain Otto Soldato SS (Ucraino)
Colonia Albino Soldato SS (Bolzano)
Maresciallo Hage (Addetto alla disciplina del campo)
Tenente Tito (Comandante del campo)
Maresciallo König (Comandante della guardia addetta agli operai del campo)
Tenente Müller (Addetto al campo)
Sig.na Zigler (Bolzano) addetta all’ufficio del maresciallo König
Sig.na Paola Plattner (Bolzano) addetta all’ufficio del maresciallo Hage,
In particolare si distinsero per maltrattamenti, per offese e insolenze a tutti gli internati le due guardie delle SS Seufer Michele e Zain Otto, nonché il maresciallo Hage, il tenente Tito e la Sig.na Paola Plattner. Viva l’Italia
Ing. Emilio Da Rè Internato politico Nr. 7438
Questi documenti vanno ricordati a coloro che, pur dovendoli conoscere per aver acquisito tutti gli atti del processo Seifert, hanno ritenuto di poter dipingere l’ucraino come vittima di una "campagna di tipo razzista scatenata da gruppi politici e circoli finanziari interessati a screditare l’esercito tedesco". Ma torniamo al fascicolo 1250/46 per osservare che la Procura Generale militare presso il Tribunale Supremo Militare, giudice di sola legittimità allora equivalente per i processi penali militari alla Corte di cassazione, non aveva alcuna legittimazione a svolgere istruttorie penali. Tuttavia, un temporaneo accentramento presso di essa delle denunce pervenute da varie fonti contro criminali di guerra non sarebbe stato in sé illegittimo, anzi appariva idoneo ad agevolare il passaggio dalla giurisdizione di guerra a quella di pace e ovviare allo sfascio in cui si trovavano gli uffici giudiziari italiani alla fine delle ostilità. Né può tacersi che sarebbe stato difficile alle sole Procure territoriali istruire procedimenti senza la collaborazione delle autorità alleate, nei cui campi di concentramento molti degli ex militari tedeschi erano ristretti. Va aggiunto che le denunce per i misfatti del Lager erano state indirizzate anche all’autorità giudiziaria ordinaria di Bolzano e quel pubblico ministero procedette contro altre persone, diverse dai militari italiani e tedeschi, coinvolte nei crimini del Lager: appartenenti alla RSI, ex militari delle forze armate italiane, collaboratori civili più o meno volontari. Ma, mentre i processi così promossi furono sollecitamente istruiti e definiti, anche con pesanti condanne, dalla Sezione speciale della Corte d’assise di Bolzano, costituita come le altre nel 1945 per una rapida repressione dei reati di collaborazionismo che valesse a dare soddisfazione al desiderio di giustizia della popolazione scoraggiando le vendette private, il procedimento penale militare a carico di Seifert e degli altri militari tedeschi non venne mai definito. Infatti, il fascicolo 1250/46, anziché essere trasmesso alla Procura militare istituzionalmente competente per territorio, quella di Verona, fu trattenuto presso la Procura generale militare di Roma e le indagini procedettero fiaccamente sino alla fine del 1947, limitandosi ad acquisire un altro memoriale del professor Poggi e alcuni verbali di testimonianze, peraltro estremamente dettagliate anche contro Seifert e Sein, rese al pubblico ministero presso la Corte di assise di Bolzano. Infine il Procuratore generale militare della Repubblica, con provvedimento di data 14 gennaio 1960, ordinò la "provvisoria archiviazione" del fascicolo, motivando che, "nonostante il lungo tempo trascorso dal fatto, non si sono avute notizie utili per l’accertamento della responsabilità". Ora, a parte il rilievo che l’inutile decorso del tempo era attribuibile all’inerzia dei tre alti magistrati che dal 1945 al 1960 si erano avvicendati al vertice della Procura generale militare, si trattava di un provvedimento assolutamente illegale, sia per il suo contenuto intrinseco che per la rilevata carenza di legittimazione del suo autore. Sul fenomeno della provvisoria archiviazione dei procedimenti accentrati presso la Procura generale militare ha indagato anche il Consiglio della magistratura militare, che, dopo aver sentito testimoni ed acquisito documenti fin allora coperti da segreto di Stato, il 23 marzo 1999 ha concluso i lavori riconoscendo il concorso di responsabilità lato sensu politiche degli organi governativi e dei titolari della Procura generale militare nell’attività di insabbiamento. Val la pena di citare i passi salienti della relazione del Consiglio: … nell’estate 1994 in un locale di palazzo Cesi in via degli Acquasparta 2 in Roma, sede degli uffici giudiziari militari di appello e di legittimità, veniva rinvenuto un vero e proprio archivio di atti relativi a crimini di guerra del periodo 1943-1945. Il carteggio era suddiviso in fascicoli, a loro volta raccolti in faldoni. Nello stesso ambito venivano alla luce anche un registro generale con i dati identificativi dei vari fascicoli, e la corrispondente rubrica nominativa. Già ad un primo sommario esame ci si era resi conto che il materiale rinvenuto era piuttosto scottante, in quanto in gran parte costituito da denunce e atti di indagine di organi di polizia italiani e di Commissioni di inchiesta anglo-americane sui crimini di guerra; documentazione che risultava raccolta e trattenuta in un archivio, invece di essere stata a suo tempo inviata ai magistrati competenti per le opportune iniziative e l’esercizio dell’azione penale. … Pertanto, per iniziativa congiunta dei Procuratori Generali [di cassazione e di appello] veniva istituita una Commissione mista, formata da esponenti dei due uffici, con il compito di fare una ricognizione del materiale rinvenuto e di individuare i provvedimenti da adottare… . Ed in questo modo si è poi giunti alla trasmissione alle Procure Militari del gran numero di fascicoli per i reati di circa cinquant’anni prima, commessi durante il secondo conflitto mondiale; fatto che, com’era naturale, ha suscitato l’interesse della stampa e creato disagio e perplessità tra i magistrati militari… . Ne deriva che il trattenimento presso la Procura Generale Militare dei rapporti e denunce che vi erano arrivati provenienti da tutta Italia … non è stata semplice conseguenza di decisioni non condivisibili o inopportune, bensì più particolarmente il frutto di un insieme di determinazioni radicalmente contrarie alla legge, adottate da un organo privo di ogni competenza in materia, che hanno sistematicamente sottratto gli atti al Pubblico Ministero competente e perciò impedito qualsiasi iniziativa di indagine e di esercizio dell’azione penale. E dunque la grave violazione della legalità, sia pure con conseguenze ormai irreparabili e di ampia portata sul funzionamento dell’intera Giustizia Militare nel secondo dopoguerra, non può essere attribuita agli uffici giudiziari militari o alle Procure Militari in generale, bensì solamente alla Procura Generale presso il Tribunale Supremo Militare, il solo Ufficio responsabile, senza possibilità di controllo da parte di altri organi giudiziari, dell’indebito trattenimento dei fascicoli sui crimini di guerra. La scoperta di quell’armadio aveva suscitato notevole eco nella stampa e un giornalista aveva coniato la colorita espressione di "armadio della vergogna", poi divenuta largamente nota. Fra gli oltre cento fascicoli trasmessi alla Procura militare di Verona fra il 1994 e il 1996 vi era anche quello distinto dal n. 1250/46 di cui si è detto, nei confronti dell’SS Untersturmführer Titho e di altri guardiani del Lager ("Maresciallo Haage, Ucraini Michael Seifert e Otto Sain, soldato Calogna, Hans Majerski, Paola Plattener, Hilda Loscher"). A conclusione di laboriose indagini iniziate contro ignoti e svolte con la intensa collaborazione dei Carabinieri di mezza Italia, la Procura militare veronese aprì infine procedimento a carico di Titho e Haage. Il procedimento peraltro si chiuse nel marzo 1999 con decreto di archiviazione, nei confronti di Titho per insufficienza di elementi probatori in ordine a responsabilità di ordine personale che non fossero riconducibili al mero sospetto o a criteri di responsabilità oggettiva, nei confronti di Haage per l’intervenuto suo decesso. Ma negli stessi giorni di quel marzo 1999 il Direttore dell’Ufficio centrale nel Land Nord Renania-Westfalia per la trattazione dei crimini di massa nazionalsocialisti presso la Procura della Repubblica di Dortmund, con cui da tempo la Procura militare veronese attivamente collaborava, trasmise le prove dell’esistenza in vita del Seifert e della sua residenza in Canada. Da qui la riapertura delle indagini a carico del Seifert ed il relativo procedimento, in cui sono confluiti anche gli atti dei vecchi fascicoli che direttamente o indirettamente lo riguardassero. Non sono state indagini facili. Come è stato osservato, "chi c'era e ha sofferto non vuole tornare a soffrire, chi c'era ed era dalla parte sbagliata non vuole fare i conti con la propria coscienza". E tuttavia, la massa di elementi probatori a carico del Seifert desunti dai vecchi fascicoli della Corte d’assise di Bolzano e dalle testimonianze direttamente acquisite dalla Procura militare di Verona era tanto imponente da giustificare il rinvio a giudizio. Al Seifert è stato contestato il reato di “violenza con omicidio contro privati nemici”, uno dei reati contro le leggi e gli usi della guerra previsti dal codice penale militare di guerra del 1941. Tale reato, previsto dall’articolo 185 del codice come perpetrabile dai militari italiani in danno dei civili nemici, soggiace, per il disposto dell’articolo 13 del codice, al medesimo trattamento penale quando le violenze siano commesse da militari nemici in danno dei civili italiani. E sarà il caso di non dimenticare che i militari tedeschi, fra i quali si ritiene pacifico dovessero annoverarsi le SS nelle loro varie articolazioni, erano nemici dello Stato italiano dopo l’armistizio seguito alla caduta del fascismo. Per l’art. 185 citato, ove la violenza consista nell’omicidio, si applicano le pene stabilite dal codice penale ordinario del 1930: la reclusione non inferiore a 24 anni e l’ergastolo in presenza di talune aggravanti (ad esempio, premeditazione, sevizie, crudeltà). Michael Seifert è stato quindi giudicato, ironia della storia, in base a norme emanate durante il regime fascista, anche se è lecito dubitare che il capo del fascismo avrebbe mai potuto immaginare che un soldato del suo potente alleato germanico sarebbe stato un giorno giudicato da magistrati italiani per crimini di guerra. Come è noto, il processo di primo grado a carico di Michael Seifert si è concluso il 24 novembre 2000 con la condanna all'ergastolo dell'imputato per undici dei diciotto omicidi contestati. La sentenza, impugnata dalla difesa senza negare in alcun modo i fatti ma solo invocando vizi di procedura, è stata integralmente confermata dalla Corte militare di appello di Verona il 18 ottobre 2001 e, definitivamente, dalla Corte Suprema di Cassazione l'8 ottobre 2002. Spero non mi si accusi di piaggeria verso il Tribunale militare di Verona ed in particolare verso il giudice che ha esteso la motivazione della sentenza, il dottor Sandro Celletti, se affermo che si tratta di un documento che, per acume giuridico, cultura storica e tensione morale, fa onore all’Italia. Davvero una sentenza pronunciata, come il pubblico ministero aveva auspicato concludendo la requisitoria, "in nome di tutti i popoli che hanno ancora caro il rispetto della dignità umana e della giustizia". Per non dimenticare
da www.deportati.it