Documenti dell'ANED di Milano

Dalle carte del processo a Michael Seifert

a cura di Giorgio Mezzalira e Carlo Romeo

 

Introduzione

 

A mezzo secolo di distanza, grazie alle testimonianze degli ex-internati del campo di concentramento di Bolzano e alle indagini della Procura militare di Verona, Michael Seifert, uno delle due SS ucraine addette alla vigilanza del Lager è stato condannato all’ergastolo. Nel processo che si è celebrato a Verona nel novembre del 2000 e che lo ha chiamato a rispondere della morte di almeno diciotto prigionieri, è stato riconosciuto colpevole di aver torturato, seviziato ed ucciso, insieme all’inseparabile Otto Sein, ancora oggi considerato “irrintracciabile” per la giustizia italiana. I “due ucraini che servivano da boia”, così come li ricorda nel suo memoriale l’ex-internato Alfredo Poggi, scaricarono tutta la loro violenza ed il loro sadismo soprattutto contro i detenuti del blocco-celle. Dopo l’archiviazione nel 1999 del procedimento contro gli ufficiali delle SS responsabili del campo - per insufficienza di prove a carico del tenente Titho e per l’avvenuto decesso del maresciallo Haage - l’accertamento delle responsabilità in merito ai crimini commessi nel Lager di Bolzano ha avuto così un suo importante riscontro. Il lavoro d'indagine condotto dal Procuratore Militare della Repubblica, Bartolomeo Costantini, che in questo volume ricostruisce la storia del processo Seifert, è stato determinante per rimettere in moto il corso della giustizia, che si era interrotto bruscamente nel gennaio del 1960 con il provvedimento di “provvisoria archiviazione” nei confronti dei responsabili degli atti criminosi e delle violenze, ai danni di militari e civili internati nel Pol. Durchgangslager Bozen. Elementi di accusa contro Seifert erano emersi con chiarezza dalla sentenza pronunciata il 10 dicembre 1946 dalla Sezione Speciale di Corte di Assise di Bolzano, che aveva condannato a 30 anni di reclusione Albino Cologna, un altro famigerato guardiano SS del campo. In quella sentenza gli «ucraini Micha e Sain Otto» erano indicati espressamente come responsabili «di numerose uccisioni di internati», di «sevizie, torture e percosse», di aver trattato «gli internati del blocco celle in modo bestiale» e di aver commesso nel blocco «ogni sorta di atrocità». A giudizio di Mimmo Franzinelli, che nel suo recente libro Le stragi nascoste cerca di ricostruire le vicende processuali legate ai crimini ed ai criminali nazisti, se la magistratura militare nell’immediato dopoguerra non verificò, né approfondì le informazioni che scaturivano dalle accuse e dalle denunce circostanziate degli ex internati del Lager di Bolzano, fu perché: evidentemente la magistratura militare aveva altre priorità che non l’assicurare alla giustizia quei criminali di guerra. Per i reati compiuti nel campo di Gries furono aperti nel 1946-47 ben quattro distinti procedimenti penali: tre da parte della Procura militare del Regno, uno dalla Procura militare di Verona. Tipico caso di dispersività e di mancanza di coordinamento, preliminare all’insabbiamento generalizzato.(1) I cinquant’anni di silenzio imposto alla ricerca della verità, sepolta dentro il cosiddetto “armadio della vergogna”, si leggono nelle date delle oltre tremila pagine di atti del processo Seifert, dove ai documenti relativi alle testimonianze e alle sentenze dei procedimenti penali del 1946, si accompagnano le testimonianze e i verbali della fine degli anni Novanta. Come pure si avvertono nelle incertezze che contraddistinguono alcune delle dichiarazioni dei pochi testimoni sopravvissuti, dove il vivido ricordo di un incubo vissuto stenta talvolta a trasformarsi in riscontro preciso ed oggettivo. Nella dichiarazione resa davanti al giudice per le indagini preliminari il 10 gennaio 2000 e al momento di indicare con precisione chi sia Michael Seifert, tra le 11 diverse fotografie segnaletiche che gli vengono sottoposte (Seifert è ritratto nelle foto numero 6 e numero 11), Sergio Passera, ex-internato del Durchgangslager di Bolzano, afferma: Ecco, io l’ho riconosciuto subito, perché questo è quello con il quale … Ecco, avevo dei dubbi su questo primo. Ma quello che ci dava quella brodaglia e ci dava i pugni è questo qui. … Sei. Numero 6. … Riconosco appunto uno dei due, Otto o Miscia, … Non è che si presentavano con il loro nome, mai. Io non mi sono mai preoccupato di sapere chi dei due era Otto e chi dei due era Miscia. Sapevo che erano Otto e Miscia, e questo non l’ho mai dimenticato in tutti i cinquant’anni. Un’altra ex-internata, Giulietta Rossini, sentita dal Procuratore Bartolomeo Costantini il 9 marzo 2000, dopo aver attentamente osservato le 11 fotografie segnaletiche, dichiara: No, non riconosco alcuno dei tedeschi guardiani del lager nelle foto che mi sono mostrate. Faccio presente che già allora ero molto miope ed inoltre per paura evitavo perfino di guardare i due ucraini. Per altri testimoni il riconoscimento fotografico è stato più facile, a volte confermato senza la minima esitazione, come nel caso di Gustav Mair che, dopo aver indicato nella foto numero 6 il ritratto di Michael Seifert, aggiunge: “E’ quasi impossibile che mi sbagli”. Di certo, la ricostruzione dell’identità dell’imputato è stato un lavoro paziente, che per la prima volta ha dato un preciso volto ed un preciso nome ad uno dei temuti “padroni delle celle”: l’”ucraino biondo” dal “viso tondo e di colorito roseo”, chiamato Miscia/Mischa/Misha/Micha/Misca (a seconda dell’incerta grafia che, negli atti processuali e nelle memorie degli ex-internati, accompagna il nomignolo molto probabilmente usato dai suoi camerati). Chi è Michael Seifert? Qual è l’identikit dell’imputato? Che cosa oggi si conosce della sua storia? Dalla memoria conclusiva presentata dal Pubblico Ministero Bartolomeo Costantini il 23 novembre 2000, prima del pronunciamento della sentenza, emergono alcune risposte a queste domande:

… alto 178 cm; peso 90 Kg., occhi blu, capelli biondi (…) nato a Landau (Ucraina) il 16 marzo 1924 (…) viene arruolato alla fine del 1943 nelle forze armate tedesche, esattamente nelle SS e, dopo un breve periodo presso il comando SS di Nikolajew (…) emigra in Germania con un “treno speciale” e il 14 marzo 1944 è localizzato a Stargard in Pomerania (zona divisa fra Polonia e Germania) dopo un transito presso il “campo delle persone trasferite” del vicino paese di Kallies (oggi Kalisz Pomorski). (…) Viene poi assegnato al Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des Sicherheitdienst bei Höhrer SS- und Polizeiführer Italien (Comando della polizia di sicurezza e del sevizio di sicurezza presso il comando supremo delle SS e della polizia in Italia) (…) I familiari attestano di avere ricevuto le ultime notizie di Seifert il 12 marzo 1945 con lettera «dall’Italia». Il 4 agosto 1951 il Seifert, proveniente da Hannover e fornito di un passaporto rilasciato nella città tedesca di Göttingen, si imbarca nel porto di Bremerhaven (Germania) sulla nave «M.S. NELLY», diretto a Victoria – British Columbia (Canada), come risulta dalla lista di imbarco fornita dalla Croce Rossa di Bad Arolsen. Il 14 agosto 1951 sbarca “nel Quebec”, come attesta nella richiesta di passaporto del marzo 1969, trasmessa dal Canada. Ivi afferma di essere nato a Narva – Estonia, deve ritenersi per nascondere la vera provenienza dall’Ucraina. Qualche mese dopo l’arrivo di Seifert in Canada, dove utilizza una falsa identità da cui risulta nato in un altro luogo e da altri genitori, il padre in Germania chiede all’Ente di Assistenza di Düsseldorf la pensione di reversibilità per morte del figlio Michael, precisando che le ricerche per sapere se è ancora vivo hanno dato esito negativo. Sulla veridicità di queste dichiarazioni il Pubblico Ministero Costantini nella sua memoria conclusiva solleva qualche ragionevole dubbio: Se esse non costituiscono il mezzo di una frode pensionistica, mirano probabilmente ad occultare la fuga del Seifert verso il Canada, avvenuta solo quattro mesi prima. Sembra infatti poco credibile che il Seifert sia rimasto irreperibile in Germania per oltre sei anni e che i suoi parenti residenti a Düsseldorf ignorassero tutto di una persona che al momento dell’imbarco risiedeva a Hannover. L’11 agosto 1953 l’Ente di Assistenza emette una “delibera di scomparsa” per Michael Seifert alla data del 30 marzo 1945. Nel frattempo il criminale nazista in Canada ha trovato lavoro, nel 1956 si sposa e diventa padre, nel 1961 compra casa a Vancouver, in 5471 Commercial Drive (dove ancora risiede). Le tracce della sua esistenza in vita riaffiorano nel 1960: (…) la Croce Rossa tedesca lo rintracciò, nel corso dell’istruttoria per la concessione alla signora Berta Seifert del sussidio per il figlio disperso in guerra [il padre di Michael Seifert muore nel 1959, ndr]. Curiosamente, se per la Croce Rossa germanica il domicilio di Seifert era noto, l’ex SS risultava irreperibile alla Procura di Dortmund che dal 1963 al 1971 indagò sui crimini perpetrati nel Lager di Bolzano. Nel marzo del 1969, ritenendosi finalmente fuori pericolo, l’immigrato regolarizzò la propria posizione e acquisì la nazionalità canadese; a quel punto si fece raggiungere dalla madre. (2) A fine marzo 1999, dopo che la Procura militare di Verona aveva riaperto le indagini sui crimini commessi nel Lager di Bolzano e sui loro responsabili, dal direttore dell’Ufficio centrale del Land Nord Renania-Westfalia per la trattazione dei crimini di massa nazionalsocialisti presso la Procura della Repubblica di Dortmund giunge al Procuratore Bartolomeo Costantini la conferma dell’esistenza in vita di Michael Seifert. Il 25 giugno, con l’iscrizione nel registro degli indagati, si apre formalmente il procedimento a carico di Seifert per il reato di «Concorso in violenza con omicidio contro privati nemici, aggravata e continuata». Sebbene con mezzo di secolo di ritardo, un tribunale ha pronunciato la definitiva condanna di uno dei nazisti colpevoli dei crimini commessi nel Lager di Bolzano, ma questo potrebbe essere il processo che mette la definitiva parola fine su quei fatti. Pochi sono, infatti, i testimoni ancora in vita e poche le certezze che sia possibile perseguire qualche altro criminale. La celebrazione di simili processi ha poi dimostrato che una giustizia tardiva, quand’anche in grado di raggiungere e perseguire il colpevole, corre il rischio non trascurabile di essere male interpretata, nella ricezione pubblica, come “accanimento”, nei confronti di uomini ormai molto anziani. Un problema di non poco conto, se si pensa che tali procedimenti penali hanno avuto ed hanno, al di là dell’atto di giustizia dovuto, un innegabile significato di alto richiamo morale, civile e democratico. Qualche anno fa sulla questione è intervenuto pubblicamente anche il più famoso "cacciatore di nazisti", Simon Wiesenthal, nel pieno della discussione sviluppatasi in Germania sull’opportunità di processare Friedrich Engel (ex capo delle SS a Genova, giudicato colpevole della morte di 250 uomini nel 1944): …io ho contribuito ad alcune note istruttorie contro criminali nazisti. Alcuni di loro avevano passato gli ottant’anni. Erano curvi, canuti vecchietti, non più spavaldi e spietati ufficiali nazisti con l’uniforme nera. In quei casi tutta la simpatia del pubblico – non solo in Germania – andava al vecchio portato alla sbarra, gli avvocati della pubblica accusa ricevevano lettere di protesta contro il processo, e ho visto persino il caso di giovani che non erano mai stati nazisti, eppure lanciavano dibattiti e chiedevano pubblici appelli di “lasciare che quel vecchio muoia in pace”. Adesso prendiamo il caso Engel: ha 92 anni. Spesso quando un imputato è così anziano i tribunali decidono udienze al ritmo di non più di un’ora alla settimana per non affaticare l’imputato e non nuocere alla sua salute. Piaccia o no è così: viviamo in Stati di diritto, le cui garanzie sono valide anche per gli ex nazisti. Allora dico: di processi del genere è meglio non celebrarne. Alla fine non ne viene fuori nulla. (3) Le conclusioni di Wiesenthal pongono alcune serie questioni di fondo. Quando il corso della giustizia e quello degli eventi sono separati da tali abissi temporali, viene seriamente compromessa la possibilità di trovare prove e precisi riscontri. Inoltre, si può produrre un cortocircuito tra le ragioni della giustizia ed il significato che quell’atto di giustizia viene ad assumere per l’opinione pubblica e, soprattutto, per i giovani. Da tutto ciò consegue che la strada per perseguire i criminali nazisti è assai stretta e che i magistrati, consapevoli degli ostacoli che affrontano, devono procedere caso per caso e fare appello ad un inequivocabile criterio di giustizia: fino a quando ci saranno in vita le vittime, anche i carnefici dovranno – se in vita – rispondere delle loro colpe. Il processo Seifert, insieme alla risonanza che ha avuto nei media e nell’opinione pubblica, ha contribuito non poco a far ricordare che a Bolzano era in funzione un campo di concentramento nazista; che questo faceva parte integrante della rete concentrazionaria e di sterminio del Terzo Reich; che vi si commettevano stragi, torture, maltrattamenti sistematici. Ha fatto ricordare anche che vi erano internati sia italiani che sudtirolesi. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che l’apertura e la chiusura di un procedimento penale possa corrispondere anche all’apertura e alla chiusura di un intero capitolo di storia dell’Alto Adige. L’approccio a quella storia deve saper ripartire dalla chiara individuazione delle cause che fino ad oggi non hanno permesso una efficace elaborazione dell’intero periodo 1943-1945. Nell’immediato dopoguerra l’urgenza di ricostruire il tessuto sociale, politico e dei rapporti tra italiani e sudtirolesi, così profondamente lacerato dagli eventi che hanno accompagnato l’età dei regimi e la seconda guerra mondiale, ha "congelato" qualsiasi serio tentativo di fare i conti con quel passato. Chiudere, anche sommariamente - come d’altra parte avveniva per ragioni in parte diverse nell’Italia appena liberata, alle prese con i cosiddetti processi di epurazione - parve uno dei modi possibili per non provocare scossoni nel delicato processo di rinascita della coscienza democratica, per non riaprire lacerazioni all’interno di singole comunità, per aiutare i primi difficili passi della pacifica convivenza, dopo che fascismo e nazismo, proprio in una provincia di confine come l’Alto Adige, avevano trovato terreno fertile per incanalare il consenso strumentalizzando le questioni nazionali. Ragioni che a posteriori possono pure apparire lungimiranti. Rimane il fatto che c'è voluto mezzo secolo per poter guardare a quelle pagine di storia (si pensi in particolare alla grande mostra sulle opzioni del 1989), per promuovere l’avvio di un processo di rielaborazione collettiva del passato, per riconoscersi – anziché nascondersi – in quella storia. Nel caso del Lager di Bolzano non possiamo che constatare la presenza, a tutt’oggi, di un vuoto nella conoscenza e coscienza storica, che solo in parte riesce ad essere colmato dalla “memoria” – ovvero dalle testimonianze degli internati sopravvissuti – e da quanti la raccolgono, per farla diventare memoria comune. Con la consapevolezza di questo limite, ma anche con la convinzione di contribuire a rendere meno oscura la storia dell’internamento e della persecuzione nazista nel campo di concentramento di via Resia a Bolzano, diamo alle stampe questo secondo numero della collana “QUADERNI DELLA MEMORIA”, che rappresenta la prosecuzione ideale del nostro primo “quaderno”, dedicato completamente al Lager. (4) Va detto in premessa che non abbiamo inteso scrivere la storia del processo Seifert, ricostruita in questa pubblicazione dalle autorevoli voci del Pubblico Ministero e degli avvocati di parte civile. Gli atti processuali ci hanno piuttosto permesso di attingere a testimonianze e a memoriali in gran parte inediti che, al di là della loro importanza nel procedimento penale, hanno un importante valore documentario. Alcune di queste “carte”, ci riferiamo alle dichiarazioni di testimoni rese a verbale, le abbiamo riprodotte volutamente in modo integrale, affinché emergesse esemplarmente il difficile lavoro di istruzione di simili processi, oltre che il complesso esercizio di “traduzione” dalla lingua della “memoria” a quella della “giustizia”. Il nostro ringraziamento va a tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione di questa pubblicazione e, particolarmente, agli studenti ed alle studentesse della II C del Liceo Classico “G. Carducci” di Bolzano.

Note

(1) Mimmo FRANZINELLI, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano 2002, p. 243

(2) Cfr. Mimmo FRANZINELLI, 2002, p. 248

(3) Tratto dall’intervista di Andrea Tarquini a Simon Wiesenthal “Processare i nazisti? Non serve più”, in il Venerdì di Repubblica, 24.04.2001, p. 52

(4) Giorgio MEZZALIRA, Cinzia VILLANI (a cura di), Anche a volerlo raccontare è impossibile. Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano, QUADERNI DELLA MEMORIA 1/99, Circolo Culturale dell’ANPI, Bolzano 1999

da www.deportati.it

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