Documenti dell'ANED di Milano

Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano

Vito Arbore

Ho compiuto vent’anni nel Lager

 

Vito Arbore è nato a Milano il 3 novembre 1924; partigiano nella 45a Brigata Garibaldi, combatté nell’Astigiano. Catturato nell’ottobre 1944 nel corso di un combattimento, fu rinchiuso nel carcere torinese Le Nuove e quindi, nel novembre 1944, condotto a Bolzano. Il 18 gennaio 1945 fu deportato a Flossenbürg, ove arrivò il 23 dello stesso mese (numero di matricola 43452).Venne quindi trasferito nel sottocampo di Zwickau/Sachsen. L’intervista è stata effettuata il 29 dicembre 1998 da Cinzia Villani.

 

Ho compiuto vent’anni a Bolzano. Quando una persona mi chiede: "Ti ricordi quando avevamo vent’anni?", io penso: "Caspita se mi ricordo! Ho compiuto vent’anni a Bolzano!". Sono entrato nella Resistenza a diciannove anni, il mio nome di battaglia era "Sirena"; ero nelle "Brigate Garibaldi", il mio era un comandante partigiano abbastanza leggendario, un uomo di cultura ed uno scrittore importante, si chiamava Davide Lajolo. Dopo la guerra è stato per tanti anni direttore dell’Unità. Raccontare le mille azioni che abbiamo fatto sarebbe troppo lungo, un vero romanzo... Ricordo che un giorno siamo stati accerchiati dalle SS ed io, piuttosto che farmi catturare, ho rischiato il tutto per tutto e mi sono buttato giù per un burrone profondo circa un centinaio di metri. Chissà cosa mi sarebbe successo se mi avessero preso, io avevo sparato loro addosso! Avevo un piede ferito, tutto insanguinato; sono caduto su un cespuglio, poi su un altro e così via... Quando mi sono fermato, in fondo al burrone, ero tutto scorticato, avevo persino un labbro spaccato! I tedeschi intanto sparavano dall’alto, alla cieca però, perché non riuscivano a vedermi in mezzo alla vegetazione. Quando mi sono ripreso dalla caduta, mi sono alzato in piedi; sono riuscito a percorrere una cinquantina di metri ed a rifugiarmi sotto un castagno, in mezzo a un boschetto. Ad un tratto ho visto arrivare una pastorella con due pecorelle... era una bambina, avrà avuto 12 o 13 anni, probabilmente non si rendeva bene di quello che stava succedendo. Era così serena, io ho pensato: "Questa è un’apparizione! È la Madonna". Vicino a noi c’era un piccolo ruscello, io le ho dato uno straccio e lei mi ha asciugato tutto il sangue che sgorgava. Ho poi ripreso a camminare, appoggiandomi solo sulle dita di un piede perché il tallone doveva restare sollevato; i tedeschi intanto continuavano a sparare e io dicevo a questa bambina: "Scappa via con me!". E lei camminava, serena, con queste pecorelle... io mi son detto: "Questa è la Madonna!". Ad un certo punto son crollato, per fortuna avevo un bel vantaggio sui tedeschi, che per raggiungermi avrebbero dovuto fare un lungo giro... E’ stato veramente un periodo intenso della mia vita! Un giorno è arrivato l’ordine di far saltare un ponte ferroviario d’importanza strategica a Bistagno, vicino ad Acqui Terme; io avevo fatto per quattro mesi il miliare nel genio minatori e conoscevo un po’ le mine, anche se non ero certo uno specialista. Il comandante mi ha chiamato per spiegarmi quello che avrei dovuto fare, senza però dirmi dov’era il ponte; mi hanno dato un disegno e mi hanno tenuto isolato da tutti gli altri compagni. Mi hanno detto: "Qua il ponte deve saltare, se non salta ti facciamo fuori!"; probabilmente era una frase così, lo dicevano e basta, però ad azione finita io ho ben chiarito: "Guardate che il ponte poteva anche non saltare!". Si sono messi a ridere, ma in quelle circostanze non c’era tanto da ridere! Durante la notte ci siamo avvicinati al ponte che era controllato da due sentinelle; noi eravamo una ventina di ragazzi e avevamo delle mine anticarro tedesche, potentissime: una sola era in grado di far saltare un carro armato. Ma non era detto che avrebbero funzionato con un ponte! Avremmo avuto bisogno della dinamite, avremmo dovuto fare i buchi ed avere delle conoscenze che io non avevo. Poi avevamo sì e no una mezz’ora di tempo. Io dirigevo un po’ le operazioni: abbiamo messo le mine e fatto i collegamenti. In quel mentre, io ero proprio in mezzo al ponte, è arrivato un treno... ho pensato: "Magari gh’è su i tedeschi!". Invece era un treno merci normale. I due macchinisti ci hanno visti, si son spaventati e hanno frenato subito; noi abbiamo detto: "Andate via svelti, altrimenti saltate in aria anche voi!". Poverini, sono andati via di volata. Allora ho fatto tutti i collegamenti; vicino al ponte sono rimasto solo io con altri tre compagni: "Ulisse", "Moscone" e "Piero", tutti nome di battaglia. Gli altri si erano allontanati con i carri. Ho preso la miccia bianca, l’ho accesa e ho detto: "Da adesso sono sessanta secondi!". Ulisse ha detto: "Conto io!". Forse aveva anche lui un po’ di paura, perché ha contato troppo in fretta, mentre i secondi invece vanno proprio scanditi. Noi ci eravamo riparati dietro una quercia enorme ed alla fine del conteggio non abbiamo sentito nulla... Ulisse si è alzato da terra, ha cominciato a parlare e in quel momento ho sentito un’esplosione fortissima.... non ne avevo mai sentito di simili in vita mia. Erano una ventina di mine, pesavano almeno 10 chili l’una e dopo la prima sono esplose tutte, in termine tecnico si dice che sono saltate "per simpatia". Noi però ancora non sapevamo se il ponte fosse saltato o meno, anche perché ci siamo allontanati subito. Al mattino abbiamo visto arrivare in bicicletta una vecchietta, di circa sessantina d’anni, con un pentolino per il latte attaccato al manubrio. Io non sapevo chi fosse, ma i miei compagni sì, perché le sono corsi incontro: lei in dialetto ha annunciato: "Le cinque arcate sono saltate tutte". Aveva oltrepassato i posti di blocco, aveva corso dei rischi per venire ad avvisarci... Quella era la vera resistenza, non i paroloni o i gran discorsi! Radio Londra ha continuato per una settimana a trasmettere la notizia dell’azione importante compiuta dalla "45a Brigata Garibaldi"! E’ per questo motivo che dopo venti giorni o un mese è arrivata la vendetta e sono incominciati i rastrellamenti: i tedeschi sapevano bene o male che eravamo stati noi. Io sono stato catturato in Piemonte : mi hanno portato giù dalla montagna e condotto a Cortiglione d’Asti, un paesino di circa mille abitanti, proprio nella zona del Barbera. Sono stato subito messo al muro, assieme ad altri due compagni e abbiamo veramente rischiato la fucilazione. È una scena che ricordo proprio bene! Quelli delle Brigate Nere ci hanno portato nella piazzetta dove c’era la chiesa, nel centro del paese e ci stavano per fucilare; noi eravamo tutti e tre legati e ci hanno anche chiesto se volevamo che ci bendassero gli occhi. Fra loro c’era un ragazzo, avrà avuto 14 anni, impaziente di usare il fucile; si divertiva a sparare ad alcune oche che passavano e ci diceva: "Adesso farete anche voi la stessa fine!". Uno dei miei compagni s’era fidanzato con una ragazza di quel paese, era una questione seria, si dovevano sposare. Lei abitava proprio nel centro e ha visto la scena dalla finestra; è scesa, s’è buttata in mezzo ... al fuoco, si può dire, perché il plotone d’esecuzione era già pronto. S’è abbracciata al fidanzato e ha detto: "No, fucilate anche me!". In quel momento è arrivata una macchina, si è fermata lì vicino ed uno dei passeggeri ha chiesto chi eravamo. "Banditi", anzi, "Banditen", così ci chiamavano. Un alto ufficiale tedesco, un colonnello, ha ordinato: "Portateli al comando tedesco". Volevano catturare il comandante partigiano della zona e ci hanno condotto in un paese vicino dove avevano stabilito un piccolo comando delle SS. Le torture che ho provato lì! Ci hanno martoriato! Poi siamo stati portati a Le Nuove, il carcere di Torino; era il mese di ottobre del 1944. Io ero detenuto nel reparto ostaggi: quando le formazioni partigiane, i "gappisti", ammazzavano un tedesco, arrivavano da noi, ci portavano nel corridoio e un graduato sceglieva dieci prigionieri. La scelta non veniva effettuata in base ad un criterio, era casuale. "Eins, zwei, drei, vier...". Spesso non capivi neppure se stesse indicando te o un tuo compagno vicino! Quando invece veniva ammazzato un fascista di prigionieri ne sceglievano cinque. Anche questo è un fatto abbastanza discutibile, un tedesco valeva dieci persone ed un fascista cinque. Sono rimasto in carcere circa una ventina di giorni, poi i fascisti mi hanno portato, assieme ad altri partigiani, a Bolzano con due pullman. Io avevo i capelli lunghi, perché ero rimasto in montagna otto mesi e lì non avevo avuto la possibilità di tagliarli; ricordo che nel campo le donne dietro il reticolato soffrivano nel vedere che me li tagliavano. A Bolzano le celle ed il blocco in cui erano rinchiusi i prigionieri più pericolosi erano pieni, "esauriti", così mi hanno richiuso in un blocco, non ricordo quale, dove c’erano tutti "triangoli rossi". Io ero considerato "rosso pericoloso", forse avevo addirittura due "bollini". Non ricordo neppure il mio numero di matricola... probabilmente se non fossi stato poi deportato a Flossenbürg mi ricorderei molto di più. A confronto di quello che ho visto e vissuto dopo, Bolzano è stata una cosa leggera... se vogliamo dire così! Fra i prigionieri ricordo un medico, il professor Ferrari, grande fisiologo, che sarebbe diventato nel dopoguerra sindaco di Milano; lui e la dottoressa Ada Buffulini mi sono stati di aiuto... Facevano quello che potevano. Anche il marito della Buffulini era internato, faceva il panettiere... Fra milanesi ci si conosceva un po’ tutti e poi loro, in qualità di medico e di panettiere, avevano ogni tanto la possibilità di circolare per il campo; così si riusciva ad avere, magari solo di sfuggita, qualche contatto. Come "rosso pericoloso" io a Bolzano non lavoravo; i "sospetti" che avevano invece il "triangolo rosa" e gli ebrei con il "triangolo giallo" uscivano invece dal campo per fare qualche lavoro. Ricordo del tentativo di fuga di due prigionieri: in due sono saltati su un treno, ma sono stati catturati dopo pochi chilometri. Ad un fuggitivo hanno sparato perché aveva cercato di nuovo di scappare, un altro invece è stato riportato nel Lager. L’hanno legato ad un palo al centro del campo e nessuno si poteva avvicinare, perché c’era una sentinella armata che sparava a vista. È rimasto lì non so quanti giorni, finché è morto, così, al gelo, nel mese di gennaio. A Bolzano in inverno la temperatura non scherza. Durante la giornata io stavo nel campo; ricordo che nel blocco c’era una stufa con la segatura e noi prigionieri eravamo talmente numerosi che ci si scaldava abbastanza... Non faceva caldo, però si riusciva, se non proprio a vivere, almeno a sopravvivere. L’appello era abbastanza rapido, durava circa venti minuti o mezz’ora, non ore ed ore come a Flossenbürg. I prigionieri rinchiusi nelle celle ed i pericolosi non uscivano mai. C’era un’organizzazione di resistenza clandestina all’interno del campo ed i miei genitori, tramite la Lancia, sono riusciti a farmi pervenire un pacchetto con dentro dei salamini, della marmellata ed altre cose. Questo pacco è arrivato a Bolzano e mi è stato consegnato di nascosto. Abbiamo fatto festa! Fra i prigionieri c’era un ragazzo molto intelligente, laureando in ingegneria : aveva sostenuto tutti gli esami all’università e doveva solo dare la tesi; era piuttosto delicato di salute, nel Lager si era ammalato ed io gli ho detto: "Vieni che ti accompagno in infermeria!". Ho portato con me un salamino che ho dato al professor Ferrari e lui l’ha visitato per bene. Questo ragazzo proveniva da una famiglia nobile, importante; aveva due anni più di me, ma io gli facevo un po’ da papà. Io avevo trascorso otto mesi in montagna come partigiano, ero stato sul punto di essere fucilato ed ero già abbastanza temprato dalla vita; lui mi considerava un po’ suo papà, mi abbracciava, mi baciava... Io avevo 20 anni, lui 22! Anche lui è stato deportato a Flossenbürg, ma ha resistito solo una decina di giorni; gli si staccavano le dita dei piedi perché erano congelate e lui si trascinava, cercava di resistere. Io cercavo di aiutarlo, ma lì a Flossenbürg la solidarietà era un reato bestiale, era considerata Sabotage. Se aiutavi qualcuno e ti pescavano, ti impiccavano per sabotaggio. Questa era l’infamia più grossa che facevano! Sono arrivato a Bolzano i primi di novembre, ho trascorso lì il Natale ed il 18 gennaio 1945 sono partito con altri 400, 450 prigionieri. Non conoscevamo la nostra destinazione, viaggiavamo verso l’ignoto; siamo rimasti rinchiusi nel carro merci al freddo per sei giorni e sei notti, senza ricevere nulla, non hanno aperto il portellone una sola volta... eravamo in 60, 70 per ogni vagone. In quella situazione abbiamo cominciato ad intuire la fine che avremmo fatto! Poi siamo arrivati a Flossenbürg, uno dei campi più terribili. Tanti miei compagni erano morti durante il viaggio, alcuni congelati; molti si erano ammalati d’influenza, tossivano... All’arrivo le SS, con dei cani lupo ferocissimi, hanno aperto il vagone e ci hanno obbligato a scendere; alcuni di noi però non si reggevano in piedi, saltando giù dal treno cadevano in ginocchio perché avevano gli arti inferiori congelati. Non ce la facevano ad alzarsi in piedi! Nel vagone avevamo viaggiato tutti accatastati, non ci si poteva muovere e loro non si erano accorti di avere i piedi congelati. Allora le SS li caricavano su un carro trainato da cavalli, mentre noi abbiamo raggiunto a piedi il campo, distante circa un chilometro. Gli abitanti del paese guardavano da dietro le finestre, erano impassibili, nessuno che avesse un’espressione di solidarietà negli occhi... niente, assolutamente niente! Anzi, quasi ridevano! A Flossenbürg è cominciata la strage. Noi eravamo gli ultimi arrivati ed il campo era già sovraffollato, era stato costruito per 3000 - 4000 prigionieri e ne conteneva 10.000. In una baracca per cento prigionieri ce ne stavano in realtà 500, in un letto dormivamo in cinque, uno addosso all’altro, proprio accatastati. Se qualcuno moriva durante la notte, lo si metteva di traverso sul letto. Nel campo c’era una certa gerarchia: all’ultimo posto c’erano gli ebrei, un po’ sopra russi ed italiani, mentre francesi, olandesi venivano trattati... un po’ meno peggio. Per gli italiani non era facile: quando siamo arrivati là i tedeschi ci consideravano traditori, mentre i russi ci chiamavano fascisti, loro non sapevano che fossimo. Abbiamo vissuto un dramma non indifferente! Io pensavo : "Ma come?! Vengo giù dalla montagna, ho combattuto fino adesso e mi prendo anche del fascista!". Dopo con i russi ci siamo capiti, siamo diventati amici, perché io parlavo un po’ il tedesco e sono riuscito a spiegare qualcosa. Fra i prigionieri c’era anche il contrammiraglio Canaris, capo del controspionaggio; era sempre circondato da altri prigionieri, ufficiali prussiani, molto alti. Venivano bastonati spesso, soprattutto lui; sono stati impiccati poco prima della liberazione. Canaris l’hanno impiccato nudo, gli hanno fatto l’ultimo affronto. Io lavoravo dalla mattina alle 5 fino alla 9, alle 10 di sera; a mezzogiorno mangiavamo un pezzo di pane con una zuppa fatta di acqua e rape, alla sera invece non ricevevamo nulla. Il terreno era coperto di ghiaccio e i cavalli che tiravano i carri con i rifornimenti per le SS rischiavano di scivolare; noi dovevamo spaccare il ghiaccio, andare al crematorio a prendere la cenere, caricarla nelle carriole e poi la spargerla per terra perché i cavalli non scivolassero. Dovevamo anche togliere lo sterco dei cavalli  dalla strada ed accatastarlo, poi con la cenere facevamo il concime per i campi. Siccome i forni crematori, anche lavorando giorno e notte, non ce la facevano più a bruciare, avevano ideato una griglia, alta più o meno un metro, costruita con le rotaie in disuso custodite nei capannoni. Noi avevamo capito a che cosa sarebbe servita, infatti ci abbiamo messo sopra decine di cadaveri. Sotto c’era della legna alla quale poi hanno dato fuoco, forse usando del petrolio, perché di benzina non ce n’era molta. In Alta Baviera la temperatura media d’inverno è di 10 gradi sotto zero e questi corpi erano tutti tesi, congelati; col calore del fuoco i nervi s’allentavano e si vedevano braccia o gambe che si alzavano... sembrava una danza macabra. Alcuni corpi si rizzavano in piedi, anche perché pesavano 30-40 chili al massimo. Lì al campo base di Flossenbürg abbiamo fatto altri lavori forzati, molto umilianti. Alle 10, 11 di sera ci coricavamo sul legno, senza coperte, senza niente; all’interno della baracca c’era un caldo soffocante, il fiato di 500 prigionieri faceva alzare di molto la temperatura. Ogni tanto venivamo svegliati alle 3 di notte per il controllo dei pidocchi: il Kapò ci faceva uscire dalla baracca uno ad uno, facendoci passare così dai 30 ai 15 gradi sotto zero, per guardare con una lampada se avevamo i pidocchi. In realtà erano tutti pretesti per far fuori la gente! Se sobbalzavi perché magari, facendo finta di niente, ti avevano toccato vicino ai testicoli con la lampada rovente, venivi accusato di sabotaggio ed era la fine. Stavamo in piedi, tutti nudi, per un’ora o due, poi ritornavamo nella baracca per rialzarci poco dopo. Non c’era un attimo di pietà, non ci si poteva rilassare mai, ogni minuto poteva essere l’ultimo! Al mattino il Kapò ci svegliava urlando: "Aufstehen! Raus, raus!". Una mattina un deportato, era di Busto Arsizio, proprio non ce l’ha fatta ad alzarsi e allora gli hanno spaccato la testa con una sgabello di legno massiccio che si trovava in una angolo della stanza. E tu non potevi fare assolutamente niente! Al gabinetto ci potevi andare solo una volta al giorno, al mattino, a quella data ora. Poi c’era l’appello, la tortura più infame: voleva dire stare un’ora o due sotto la neve, al freddo. Eravamo in tantissimi prigionieri ed ora che ci contavano tutti... Se poi ne mancava qualcuno ricominciavano da capo. In tutto a Flossenbürg sono stati deportati 3500 italiani e siamo tornati solo in una quarantina; due giornalisti di Torino hanno fatto anni fa una ricerca proprio su questo lager e hanno calcolato che solo l’1% dei prigionieri è riuscito a sopravvivere, mentre a Mauthausen è sopravvissuto il 7-8%. Per aver bevuto dell’acqua inquinata io mi sono preso il tifo petecchiale: avevo sete e continuare a mangiar neve può supplire a quest’esigenza solo fino ad un certo punto. Così sono andato a bere l’acqua al Waschraum, il lavatoio, dove però accatastavano anche i corpi dei prigionieri morti durante la notte; al mattino poi alcuni di noi avevano l’ordine di trasportare i cadaveri al crematorio. Il giorno dopo mi è venuto il tifo, avevo la febbre altissima e gli arti ricoperti di croste, ma non potevo marcar visita; mi avrebbero subito fatto un’iniezione letale. Tu in buona fede mettevi lì il braccio e quelli... Chi le faceva era un medico deportato, che in questo modo si salvava la vita, non ubbidendo si sarebbe compromesso. Ho avuto la febbre alta, a 39, 40 gradi per più di un mese; una sera proprio non ce la facevo più ed è arrivato il comandante dicendo che cento di noi sarebbero stati trasferiti in una dipendenza del lager. Flossenbürg era il campo principale, ma poi c’erano vari sottocampi. Io sono riuscito a trascinarmi, di notte, fino alla stazione ferroviaria, dove siamo stati caricati su un treno, naturalmente senza riscaldamento ed a mezzogiorno siamo arrivati a Zwickau. Il grosso della febbre e del male l’ho smaltito proprio quella notte... non che fossi guarito del tutto, però la febbre cominciava a diminuire. Il pane che ci avevano dato da consumare durante il viaggio, io l’ho dato a tre miei compagni dicendo: "Ragazzi, dividetelo e mangiatelo voi!". Praticamente voleva dire rinunciare alla vita, però in quelle ore mi sentivo proprio morire. La mattina dopo, invece, ho incominciato a star bene, la febbre era calata e mi sono anche pentito di aver dato via il pane, perché avevo fame. Alla stazione siamo scesi dal treno; ricordo che con noi c’era un ragazzo, un suonatore di tromba, al quale si erano congelati gli arti inferiori: noi l’abbiamo trascinato fino al campo, ma quando siamo arrivati lì gli hanno subito fatto l’iniezione. A Zwickau era un po’ meno peggio... Si lavorava 12, 13 ore in una fonderia, io che pesavo 40 chili dovevo trasportare tutto il giorno blocchi motori da 50 chili. Cercavo di resistere. Il 13 aprile 1945 ci hanno fatto l’ultima infamia. Hanno riunito tutti i prigionieri in mezzo al campo, ci hanno dato una coperta, una rapa ed un pezzetto di pane nero e ci hanno comunicato che saremmo stati trasferiti. Ma noi non conoscevamo la nostra destinazione. Eravamo circa 2000 prigionieri ed è iniziata la marcia: per chi non ce la faceva più a camminare c’era subito il colpo alla nuca. Il 14 aprile l’Armata Rossa ha raggiunto Zwickau ed il giorno prima, nel giro di poche ore, 2000 prigionieri avevano lasciato il campo. Non ci potevano lasciare lì? Non potevano andarsene via loro? Abbiamo percorso a piedi 300 chilometri per ritornare al campo base di Flossenbürg; io avevo ai piedi degli zoccoli che dopo due giorni di cammino erano completamente distrutti. Allora cercavo di fasciarmi i piedi: con dei pezzi di stoffa strappati dalla coperta e dalla divisa facevo delle specie di "ciocie". Siamo partiti in 2000 e siamo arrivati in una ventina; il campo però era già stato sgomberato perché gli Alleati erano a poche centinaia di metri. Allora i tedeschi che cosa hanno fatto? Ci hanno portato in un boschetto, hanno piazzato i mitragliatori e hanno cominciato a sparare... Chi c’era c’era! Io per nascondermi mi sono gettato in una pozza d’acqua paludosa; dopo un po’ le SS se ne sono andate, erano completamente ubriache perché ormai se la vedevano brutta! Io però non riuscivo più ad uscire da questa palude: l’acqua era bassa, ma ormai non avevo più forze, alzavo una gamba e con l’altra sprofondavo. Avrò lottato circa una o due ore, non sentivo più le mani, tanto che alla fine mi sono attaccato ad alcuni cespugli con la bocca e piano piano sono riuscito a venir fuori. Ero completamente inzuppato, così mi sono avvicinato ai compagni morti fucilati: ho tirato via ad uno la giacca, ad un altro i pantaloni, poi una coperta asciutta... Mi sono rifugiato nella foresta, dove sono rimasto per diversi giorni. Flossenbürg era ormai solo una distesa di cadaveri, non c’erano persone vive. Poi sono arrivati gli americani: quando mi sono comparsi davanti con le baionette io sono rimasto fermo, non avevo neppure la forza di alzare le mani. Mi hanno caricato sulla macchina di un ufficiale e mi hanno portato in ospedale, dove sono rimasto per mesi senza ricordare più chi fossi. Ero proprio arrivato allo stremo delle forze, pesavo 30 chili; non potevano darmi da mangiare perché il mio stomaco non era più abituato al cibo e non trovavano neppure le vene per farmi le iniezioni. Dopo 15, 20 giorni ho cominciato a mangiare qualcosa ed a reagire fisicamente. Sono rimasto in ospedale dal mese di maggio ad agosto; poi son partito con un treno ospedale, che in realtà era un treno merci con il pavimento coperto di paglia. Dopo circa quattro giorni di viaggio sono arrivato ad una stazione vicino a Verona, poi ho raggiunto Milano con un camion del Vaticano, perché la linea ferroviaria era distrutta dai bombardamenti. Quando sono arrivato a casa un vicino è andato a chiamare mia mamma; io camminavo con le stampelle, lei è corsa giù, ma non mi ha riconosciuto subito. Mi guardava, mi guardava... io ero ridotto così male che non riusciva a riconoscermi. Ed ero già aumentato di cinque o sei chili! E’ impossibile descrivere l’ambientazione dei lager... era una cosa assurda, era una cosa irreale. Era tutto organizzato scientificamente. Tanti scrittori, anche bravi, come Primo Levi o Pappalettera o Caleffi, hanno parlato dei campi, ma nessuno riuscirà mai a dire quello che è stato, a far capire fino in fondo. Tanto è stato scritto, ma anche a volerlo raccontare è impossibile. Un ragazzo di 15 anni, figlio di operai, è stato fermato il suo primo giorno di lavoro da quelli delle Brigate Nere e perquisito. Aveva con sé una borsa e dentro hanno trovato un pentolino, con la roba da mangiare, avvolto in un manifestino partigiano, c’era la stampa clandestina. Lui magari non se n’era neppure accorto, la carta scarseggiava. L’hanno arrestato, portato a S. Vittore e poi a Bolzano. Lì l’hanno affidato a me, eravamo tutti e due milanesi, ogni tanto parlavamo in dialetto. Quando siamo arrivati a Flossenbürg, lui era totalmente frastornato, era impietrito dall’assurdità, da tutto quello che vedeva attorno a sé. Non si rendeva conto, non capiva più niente, gli sembrava impossibile!Io avevo vent’anni... le brutture dei fascisti e dei nazisti le conoscevo! A Flossenbürg eravamo andati oltre, però riuscivo a capire qualcosa.... l’unica cosa era subire, non c’era modo di reagire. Lui era impietrito dall’assurdità di quello che vedeva, non reagiva più. Io cercavo di parlargli... Una sera, poverino, se l’è fatta addosso; siamo rientrati in baracca, il Kapò sente l’odore e capisce... Sa cosa ci hanno fatto fare? Una cosa che nessun libro potrà mai spiegare. L’hanno portato nel Waschraum, dove ci si lavava con l’acqua gelata; hanno fatto aprire rubinetti dell’acqua, tappare gli scarichi e hanno messo il ragazzo.... nell’acqua gelata, di notte. Poi ci hanno fatto rientrare, minacciandoci. Al mattino siamo andati fuori e l’abbiamo trovato dentro nel ghiaccio. Era dentro! Un ragazzo di 15 anni.

da www.deportati.it

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