Documenti dell'ANED di Milano
Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano
Quintino Corradini
Lass mich schauen
Quintino Corradini, nome di battaglia "Fagioli", è nato a Castello di Fiemme l’11.10.1924. Entrato nelle formazioni partigiane che operavano in Val di Fiemme nell’aprile del 1944, fu catturato nel dicembre dello stesso anno e internato nel blocco celle del Lager di via Resia. L’intervista a Quintino Corradini è stata raccolta il 29 settembre 1998 da Giorgio Mezzalira e da Lionello Bertoldi.
Il gruppo di resistenti della Val Cadino fu organizzato con una prima piccola cellula di cui facevamo parte io e un amico d’infanzia: Bruno Frank. Frank, figlio di un optante per la Germania, era stato arruolato dall’esercito del Reich e mandato in Jugoslavia per essere addestrato nella lotta antipartigiana, prima di essere spedito in Russia. Aveva all’epoca 21 anni. Quando capì che sarebbe finito a combattere in Russia, scappò. Arrivato clandestinamente in paese, a Molina, andava dicendo di essere in permesso di licenza. In realtà aveva disertato. Dopo una settimana, o quindici giorni, i gendarmi di Cavalese lo mandarono a chiamare. Da quel momento, visto che anch’io dovevo essere arruolato nell’esercito del Reich e la stessa sorte riguardava pure suo fratello minore, Tullio, decidemmo di darci alla clandestinità. cercammo subito di costruire dei collegamenti. Io avevo un cugino socialista, che aveva fatto nove anni di confino per attività antifascista. Si chiamava Silvio Corradini, detto "Riboldi", aveva fatto il tranviere a Milano ed era stato arrestato ancora negli anni Venti, nel periodo 1923-1924, per aver distribuito clandestinamente volantini in tram; fu confinato a Pisticci. Poi conobbi Armando Bortolotti, detto "Mando", un comunista che lavorava come operaio a Bolzano a scavare ghiaia sul Talvera per la costruzione delle nuove case vicino al Monumento della Vittoria. Il Mando, che sarà poi comandante della nostra brigata "Cesare Battisti", conosceva compagni a Bolzano; Riboldi, futuro commissario politico, conosceva compagni a Trento. cominciarono a prendere contatti, spargendo la voce che eravamo entrati nella clandestinità. (1) Eravamo nel febbraio-marzo del 1944. Da Trento e Bolzano arrivò subito la conferma dell’appoggio a noi tre e ad altri due amici che si erano nel frattempo aggiunti. Il primo aprile del 1944 partimmo con lo zaino, una coperta, un po’ di roba da mangiare - presa da casa nostra - per raggiungere la malga Caseratte, con ancora un metro di neve. Gli aiuti da Trento e Bolzano arrivarono subito. A Cavalese, intanto, avevano formato il CLN. (2) Da Borgo Valsugana organizzarono un collegamento con staffette e anche a Trento si mobilitarono per l’organizzazione del gruppo. Ci raggiunsero Manlio Silvestri, nome di battaglia "Giovanni Monteforte", (3) che doveva essere un funzionario politico di brigata, amico e collaboratore di Mario Pasi. (4) Entrammo in contatto con Mascagni, (5) che manteneva i rapporti tra Trento e Bolzano. Era quest’ultimo che ci faceva arrivare le armi da Ora, col trenino della Val di Fiemme. Mentre attraverso il capitano Marangoni, (6) del gruppo dirigente del CLN di Cavalese, ci arrivavano i viveri. Obiettivo strategico delle azioni partigiane era la linea ferroviaria del Brennero. Il nostro gruppo in montagna in poche settimane era considerevolmente aumentato, fino a raggiungere circa le 35 unità. Arrivavano da Trento e da Bolzano ed erano per la maggior parte renitenti. Il 20 aprile ci spostammo per piantare il campo più in alto, a un’ora di cammino dalle Caseratte, in una montagna da cui si poteva controllare il passo Manghen e tutta la Val Cadino. Non avevamo però fatto i conti con la presenza tra le fila partigiane di una spia della Gestapo, infiltratasi a Trento, che a sua volta aveva portato nel nostro gruppo in montagna un altro delatore. Era un mantovano di nome Bruno Gherardi, nome di battaglia "Marinaio". Fu Silvestri, non a conoscenza che questi fosse una spia, a presentarcelo come partigiano. Gherardi rimase quindici giorni in montagna con noi. Era un delinquente, perché andava giù per la Val Calamento a far dispetti ai contadini, affinché covassero odio nei confronti dei partigiani. Inutile dire che i rapporti con i valligiani erano ottimi, avendo noi tutti assicurata l’assistenza logistica dai CLN. Proprio per questo suo comportamento da non-partigiano Gherardi fu oggetto di discussione in un consiglio, che si tenne tra una ristretta cerchia di noi e il comandante commissario. Ci fu chi si dichiarò per la sua fucilazione. Ma per fucilare un partigiano si doveva avvisare Trento, perché doveva essere celebrato un processo. Il problema era che non c’erano sufficienti prove per smascherarlo. Improvvisamente Gherardi sparì; scappato. Il 23 maggio del 1944, dopo circa dieci giorni dalla sua fuga, iniziò il rastrellamento: erano circa le sette di mattina e a guidare quel gruppo di armati, (7) c’era proprio lui. Venivano dal passo del Manghen e avevano nel frattempo catturato sia Silvestri che Angelo Peruzzo, un altro partigiano di Borgo Valsugana. Ci accerchiarono, proprio nel momento in cui i due fratelli Frank stavano salendo dalla malga Cadinello con un carretto di rifornimenti per il gruppo. Mentre il carro saliva, i tedeschi spararono le prime raffiche per intimare l’alt. Bruno Frank saltò in una gola per ripararsi dagli spari e Tullio, nome di battaglia "Ras", cercò di raggiungere la staffetta dei compagni, che nel frattempo erano stati mandati a scortare i rifornimenti, per avvisarli dell’arrivo dei tedeschi. Seguirono altri spari che raggiunsero uno della staffetta, il Mendini, poi ucciso con un colpo di pistola dell’ufficiale tedesco. Mentre la manovra di accerchiamento si stringeva, io riuscii a trovare rifugio in mezzo ai cespugli e lì restai, fino a quando, verso le cinque di pomeriggio, vidi salire i tedeschi per passo Manghen in marcia di ritorno verso Trento. A quel punto, ormai solo, decisi di raggiungere la baita del nostro campo...era già in cenere. Piano, piano, scesi verso un’altra malga e la mattina seguente mi avvicinai al paese. La stessa cosa fecero quelli che erano scampati al rastrellamento; il gruppetto di partigiani di Molina, composto da una decina di persone più due di Anterivo, andava verso il paese, come me, mentre il gruppetto di quelli della Valsugana si dirigeva verso quella valle. Per caso riuscii ad incontrare i compagni di Molina. Nessuno di noi sapeva che fine avessero fatto gli altri. Solo dopo la guerra venimmo a conoscenza che alcuni dei nostri erano stati arrestati e che cinque di questi erano stati condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Zona delle Prealpi (8) il 25 luglio del 1944. Tre dei condannati a morte - Silvestri, Bortolotti e Peruzzo - furono impiccati nella piazza di Sappada di Cadore. Tullio Frank, allora diciannovenne, fu fucilato a Fonzaso. Non va dimenticato che suo padre, optante per la Germania, aveva rifiutato di chiedere la grazia per suo figlio, dicendo che aveva sbagliato e che doveva pagare per questo. Il quinto, Alberto Del Favero, ventenne, fu graziato e deportato in Germania. I luoghi delle esecuzioni non venivano scelti a caso; i partigiani venivano giustiziati là, dove c’erano state azioni contro i tedeschi. Tornando agli avvenimenti del maggio 1944, decidemmo di rientrare alle nostre case. Il giorno dopo, il 25 maggio, ci fu un nuovo rastrellamento; questa volta in paese. Tutti credevamo di essere al sicuro, ma evidentemente i tedeschi erano stati informati. Il "Mando" fu arrestato, mentre era a letto con il mitra vicino, in casa dei signori Tomasi, che abitavano vicino a casa mia. Poi toccò a me. Mio papà mi chiuse in casa e scese in stalla. Sentivo che giù parlavano in tedesco. Qualcuno poi chiese in italiano: "Non avete visto Corradini Quintino andare e venire da casa?" Mio papà rispose che non mi vedeva da ormai due mesi. Capito che le SS mi stavano cercando, mi rifugiai con ancora tutto il mio armamento in una stanzetta intercomunicante e abbastanza nascosta, che non si usava quasi mai. Perquisirono dappertutto, ma non mi trovarono. Mio papà, settantaquattrenne, fu arrestato come ostaggio e insieme a lui: il farmacista Franzelin, Degiampietro, Gino March. Tutti trasferiti su un mezzo delle SS nelle carceri di via Pilati a Trento. Gino March venne poi deportato in Germania. Il 26 o 27 maggio, mio papà e Degiampietro, gli ostaggi, furono trasferiti a Bolzano e occupati nei lavori per la sistemazione del Lager di via Resia in allestimento. Degiampietro mi disse, a guerra finita, che lui e mio padre furono di fatto i primi due internati. Nel campo in allestimento c’erano anche altri lavoratori, questi però liberi, forse di un’impresa di Bolzano. Loro due rimasero lì a lavorare circa per 15-20 giorni, poi furono riportati a Trento e liberati. Io, Bruno Frank e "Riboldi", scampati al rastrellamento, decidemmo di riprendere i collegamenti con Cavalese, ma la situazione era critica: colpita l’organizzazione e arrestato il conte Manci. (9) Passammo un periodo di crisi; ci mancava l’assistenza logistica e anche politica. Dopo ci riorganizzammo con l’aiuto di forze che venivano da Bolzano: ricordo Marco Zadra e "Avio". (10) Visto che la formazione partigiana "Cesare Battisti" ormai era stata disfatta - eravamo rimasti solo noi tre - entrammo a far parte del battaglione "Fabio Filzi" comandato da "Avio". Ci incontrammo alla malga Regnana in Val di Pinè. Eravamo accampati a Costalta in una tenda. La prima nostra azione fu l’attacco alla caserma dei carabinieri di Molina nell’agosto del 1944. L’ordine venne da Trento. (11) Si era a conoscenza che il maresciallo Gualtieri, comandante di quella caserma, era una spia e un collaboratore dei tedeschi. Avevamo, inoltre, bisogno di armi. Accerchiammo la stazione dei carabinieri e intimammo la resa. Ci fu una sparatoria e nel corso dell’attacco "Avio" rimase ferito; anch’io riportai una ferita all’occhio destro, che più tardi persi totalmente. Alla fine il maresciallo si arrese e fu preso in consegna da cinque partigiani. Io, Alfredo Reich e Sandro Bonvicini (12) - il gruppo era formato da otto uomini - rimanemmo ad assistere "Avio", che aveva perso i sensi. Mandammo una staffetta in bicicletta a Bolzano, Arturo Corradini "Nanchio", perché Bonvicini era in contatto con i medici dell’ospedale. Il compito della staffetta era quello di comunicare che avevamo bisogno urgente di una crocerossa per "Avio". Alle 11 di sera "Nanchio" era a Bolzano. Intanto io andai a prendere un carretto a due ruote con sopra un tavolone e cercai di procurare un materasso, per adagiarvi "Avio". Più tardi venni a sapere che il maresciallo era stato ucciso nella concitazione determinata dall’arrivo di un camion sulla strada di Molina, che si credeva trasportasse le SS avvertite del fatto. Con il carretto portammo "Avio" in un luogo sicuro, il maso della Giuditta da Zisa, nella speranza che la croce rossa arrivasse presto, almeno verso le 3 o le quattro di mattina. Era il tempo utile calcolato affinché i tedeschi riallacciassero le comunicazioni, che noi eravamo riusciti ad interrompere. Tenemmo in nostra custodia "Avio" fino alle 5 di mattina, quando per noi era ormai tempo di decidere sulla sua sorte. L’impegno tra noi era chiaro; nel caso di feriti gravi non restava che il colpo alla nuca. Ma chi ne aveva il coraggio? Bonvicini disse: "Io non lo uccido"; il Reich: "Neanch’io" e io tantomeno. Così decidemmo di portarlo vicino al cimitero di Stramentizzo, dove lo lasciammo, mentre noi cercavamo un riparo sicuro. La crocerossa arrivò tra le sette e le otto di mattina e fu fermata dai tedeschi, che nel frattempo avevano già iniziato a pattugliare il paese. "Avio" fu preso. Il nostro gruppo decise di sciogliersi, perché non eravamo in grado di far fronte alla caccia dei tedeschi e all’inverno. Io, con Frank e Reich, restammo nella zona di Molina presso il maso di Sabina Ventura, una parente di Bruno. Il 24 dicembre i tedeschi bloccarono le strade della Val di Cembra, pensando che alcuni partigiani potessero rientrare nelle loro case. Quel giorno qualcuno bussò alla porta del maso: la polizia. L’anziano padre di Sabina aprì. Io e Bruno, da poco entrati in casa, avevamo appena finito di cenare ed eravamo scalzi. Pensavamo che ci avessero seguiti e visti entrare. Di corsa io e Bruno raggiungemmo la finestra, dalla quale saltammo, mentre partiva una raffica dal mitra del sergente del CST (Corpo di Sicurezza Trentino) (13) Camin. La polizia in realtà non cercava noi; avevano bussato a quella casa solo per chiedere, se potevano utilizzarla per il cambio turno delle pattuglie. Mentre Bruno aveva trovato la fuga, io nella caduta dalla finestra mi ruppi una gamba: doppia frattura al femore. Mi trovarono disteso e dolorante per terra. Con insulti e pedate mi dissero di alzarmi. Impossibile. Mi presero e mi portarono in casa. Iniziarono con l’interrogatorio e le torture. Ma non ero l’unica vittima; tutta la famiglia Ventura era oggetto delle "cure" dei due del CST. Con il calcio del fucile pestavano forte sulle unghie dei piedi. Volevano sapere tutto. Mi fecero dapprima sdraiare per terra e, per farmi parlare, il sergente seduto su una sedia, mi sparava dei colpi di mitra vicino alla testa. Poi vennero a prelevarmi con un carrettino tirato da un cavallo e da un asino. Sabina Ventura e l’anziano padre finirono nelle carceri di Trento. Alle 11 di sera, con la luna piena, senza scarpe, in camicia e calzoni, mi portarono nell’edificio delle scuole di Castello di Fiemme, dove era sistemato il comando di polizia. Sotto interrogatorio fino alle tre di mattina. Anche qui volevano sapere tutto. Io gli raccontai una sfilza di balle. Finito l’interrogatorio mi trasportarono, sempre in carretto, nel carcere di Cavalese. Il giorno dopo il carceriere mandò a chiamare il medico condotto, perché urlavo dal dolore. Il medico, il dottor Bernardi di Cavalese, disse che non c’era niente da fare, solo tranquillanti e morfina. Nella settimana tra Natale e Capodanno vennero su due della Gestapo di Trento per interrogarmi, in Gendarmeria a Villa Edera. C’era anche un interprete. Durante l’interrogatorio ricevetti pugni e pedate, ma non fui torturato; non ero neanche nelle condizioni di venir torturato. Il primo gennaio 1945 alle 7 e mezza di mattina arrivò la carrettina della polizia di Castello di Fiemme, tirata da un cavallo e un mulo: la stessa carrettina, lo stesso cavallo, lo stesso mulo, che avevano requisito durante il rastrellamento in Val Cadino e che portavano i nostri rifornimenti. Mi sdraiarono sul carretto e mi diedero una coperta; partimmo verso Bolzano. Alle 8, a Cavalese, passando davanti ad un bar, qualcuno chiese di far sostare il carretto per un momento: "Fermatevi, che almeno porto un caffè al Fagioli". Via; niente! Alla stazione ferroviaria di Castello di Fiemme si avvicinò mio papà, nel frattempo avvisato, per darmi un paio di calzini. Via; niente! A Ora la mia scorta, il sergente Vianini e un soldato semplice, si fermò per andare a mangiare all’albergo Rosa. Io rimasi fuori al freddo gelido di quel primo giorno di gennaio, vestito con gli stessi indumenti di quando mi avevano preso. Circa alle 3 di pomeriggio eravamo sotto il portico d’entrata del Corpo d’Armata di Bolzano. Trascorse un po’ di tempo, durante il quale io ero sempre sdraiato sulla mia carrettina al freddo. Poi ripartimmo. Riconobbi alcune zone di Bolzano: via S. Quirino, via Torino, le Semirurali. Il carretto si fermò davanti ad un portone. Era quello del Lager di via Resia! "Abbiamo un partigiano ferito" disse uno della mia scorta. Si avvicinò un sergente delle SS, credo si chiamasse Hans. Lass mich schauen! (Fammi vedere!), disse. Mi presero in due. Uno si mise la gamba sana sulla spalla e io, con la testa e la gamba rotta penzoloni, attraversai il campo. Si aprì una porta. Se ne aprì un’altra. Mi presero e mi misero su un pagliericcio a castello. Solo il giorno dopo mi resi conto che mi trovavo in una cella del Lager: la numero 5. Ero solo, in uno spazio angusto, senza finestre, una bocca di lupo di legno e il freddo di via Resia. Di mattina presto la porta della cella si aprì. Entrò uno delle SS, facendomi cenno di far silenzio; i guardiani delle celle, i famigerati ucraini, fino ad una certa ora non arrivavano. Mi diede due panini, che gli erano stati dati da un’infermiera, Bianca Zuliani, un’internata che faceva servizio di assistenza nel campo. Il 2 gennaio venne a visitarmi il dottor Pisciotta, un medico internato. Poi ci fu un consulto sulle mie condizioni di salute con il dottor Pittschieler, che prestava servizio nel campo ma era libero cittadino. Questi andò a parlare con il maresciallo Haage per permettere un primo intervento ospedaliero. Niente da fare. Ordine del Corpo d’Armata di Bolzano: segregato nelle celle di punizione come soggetto pericoloso. Il giorno 3 gennaio fui portato in una sorta di infermeria del campo. Pittschieler chiamò alcuni dei medici internati per procedere ad un intervento, ma non c’era né gesso, né medicinali adatti, niente. L’unica cosa che avevano trovano erano due pezzi di legno e un lenzuolo con cui tentarono di steccarmi. Mi addormentarono con un po’ di etere e mi svegliai con una stretta fasciatura d’emergenza. Poi fui ricondotto in cella. Il 5 gennaio, se non ricordo male, grazie forse al dottor Pittschieler fui portato in una stanzetta dell’infermeria del campo; anche lì isolato e sorvegliato a vista. Avevano paura che potessi entrare in contatto con altri "pericolosi" internati. Quella stanzetta era frequentata dal dottor Dalle Mule – un bellunese internato come ostaggio, perché il figlio era partigiano - che preparava le bustine di medicinali. Quando la sorveglianza delle guardie non era così assidua, qualcuno mi veniva a trovare: ricordo tra gli altri la Clementina di Genova, Bianca Zuliani, il dottor Ferrari e il dottor Meneghetti. (14) Devo anche dire che, in particolare, il dottor Pittschieler riuscì a fare entrare nel campo e a farmi avere delle vitamine per tenermi un po’ su. Un giorno, non ricordo se di gennaio o febbraio, portarono in infermeria un ferito e qualcuno mi disse che si trattava di un partigiano ferito in Val di Fiemme, un tale Emer Luigi. Pensai e ripensai a chi potesse essere questo partigiano, anche perché io lo conoscevo solo come "Avio", il suo nome di battaglia. Mi feci aiutare per andare a vedere. Quando lo riconobbi, ci fu fra di noi un lungo e commosso abbraccio. Durante il periodo in cui rimasi nella stanzetta dell’infermeria, mi capitò di vedere un certo dottor Leoni di Milano. Lo portarono lì, sdraiato di pancia sulla barella, con la schiena che era ormai carne viva. Non so che fine abbia fatto. I miei compagni delle celle cominciai a conoscerli, quando i tedeschi iniziarono a lasciarci una mezzora d’aria. Eravamo "liberi" di continuare a girare intorno al blocco celle, senza mai fermarci. Io non riuscivo a camminare e per uscire dalla prigione mi aiutava la Nella. (15) Mi fermavo in un angolo del blocco, mentre i tedeschi sorvegliavano affinché nessuno si avvicinasse. Il mio angolo era piuttosto riparato dalla vista delle guardie, per cui capitava che alcuni compagni mi facessero avere qualche pacchettino. Generalmente si trattava di maccheroni e, rientrando in cella, si divideva un maccherone per uno. I panini sarebbero stati troppo voluminosi. Alla fine di marzo iniziarono ad arrivare dei pacchi. Dei compagni delle celle, oltre alla Nella, ricordo Enrico Pedrotti, don Longhi (16) e una certa Gisella di Trento. Ho ancora nelle orecchie le urla di due compagni bergamaschi reclusi nella cella numero 3, pestati a sangue fino alla morte. Un giorno di febbraio, forse il 12, (17) fui preso e caricato su un camion insieme ad altri. Ci portarono in zona industriale e ci fecero salire su un vagone, destinazione Germania. Rimanemmo chiusi nel vagone per un giorno intero e, poi, riportati nel campo. I bombardamenti sulla linea ferroviaria avevano bloccato quella tradotta verso i campi di sterminio. Fui liberato la mattina del 30 aprile insieme agli altri internati trentini e bolzanini.
da www.deportati.it