Documenti dell'ANED di Milano
Scritti e testimonianze sul Lager di Bolzano
Antonio Ruscelli
In quel Lager c’ero anch’io
Antonio Ruscelli, partigiano, venne catturato in Val d’Ossola nel novembre 1944 e rinchiuso nel carcere di San Vittore a Milano; internato nel Lager di Bolzano, vi rimase fino alla liberazione. Testimonianza scritta di Antonio Ruscelli; Villadossola, 7 maggio 1996.
In quel Lager c’ero anch’io. La mia vicenda in sintesi è la seguente. Partigiano combattente dall’ottobre del 1943, fui catturato dai tedeschi sui monti della Val d’Ossola nel novembre del 1944 e rinchiuso nel 5° raggio del carcere di San Vittore di Milano, nella cella d’isolamento n° 51 (nella quale compii i miei 20 anni di età). Il trattamento riservato ai prigionieri politici è ben noto. Fame, interrogatori continui, pestaggi, continue minacce di fucilazione; ma su questi argomenti non voglio soffermarmi per non riaprire dolorosi ricordi. Da Milano fui trasferito con altri al Campo di internamento di Bolzano che era sottoposto all’amministrazione delle "SS" e destinato a fini di sterminio. L’impatto fu subito drammatico. Un prigioniero diciassettenne, giunto con noi, anche per il freddo intenso orinò vicino ai reticolati e fu visto da due "SS". Gli aguzzini lo portarono nelle cosiddette celle di rigore e nessuno lo vide più uscire. Fu il primo segno di quello che avremmo dovuto terribilmente subire tutti. È il caso di raccontare nei particolari il particolare tipo di "vita" condotto all’interno del Campo dove venni sistemato nel blocco E, la denutrizione, le umiliazioni subite, le fatiche del lavoro esterno. Ricorderò solo due aspetti a titolo di esempio. Nelle giornate di pioggia o di neve, al rientro serale dal lavoro esterno, ci veniva tolto quello straccio di divisa inzuppato che portavamo, dormivamo nudi, alle sei del mattino dovevamo rimettere gli stessi indumenti, ancora intrisi di acqua, restare in piedi fermi anche un’ora per la "conta" indi tornare al lavoro. Tutto questo in pieno inverno.. Comandava il Lager il Tenente Tito con la collaborazione dei due aguzzini Hans e Colonia (1) e di una donna chiamata "la iena". Quattro vere e proprie belve naziste. Descrivere e raccontare la loro ferocia fa ancora rabbrividire, i loro nomi mi sono rimasti impressi nella memoria. Il loro sadismo si manifestava nei momenti in cui si restava nel Campo. Ad esempio questi abietti figuri si "divertivano" a costringere i prigionieri alla "marcia del coniglio" che consisteva nel farci strisciare a terra solo con la forza dei gomiti. Per gli anziani, per chi dimostrava fatica, o per chi non riusciva il risultato era sempre lo stesso: pugni, calci e bastonate. Con questi aberranti aspetti della misera esistenza nel campo non sono mancati altri tragici e significativi episodi. Ricordo bene, ad esempio, quel giorno in cui da un camion usato dai Tedeschi, al ritorno dal lavoro esterno, fu scaricato il cadavere di un prigioniero con una ferita da pallottola sulla fronte. Non riuscimmo mai a sapere con certezza cosa fosse accaduto, ma il corpo di quel poveretto fu lasciato per ben tre giorni, steso nel cortile, quale macabro avvertimento. Anche il tipo di lavoro che ci si faceva eseguire fuori dal Campo dimostrava lo scopo di sterminare le persone, anche se non in maniera evidente. Era implicito nella conduzione, nei metodi e nei sistemi usati. Io ad esempio facevo parte di un gruppo di nove prigionieri che al mattino, scortati dai Tedeschi, si recava a piedi a lavorare presso un certo maggiore Schu. (2) Lì dovevamo, a mani nude, caricare silice su due vagoni. Il silice si presentava a grosse, pesanti schegge taglienti. È facile immaginare come si riducevano le mani al termine di tale faticosa operazione. Nel pomeriggio invece venivamo condotti alla Lancia dove su altri vagoni caricavamo bombole di ossigeno. Tutti questi lavori, anche gli scavi di sgombero sulla linea ferroviaria dopo i bombardamenti, si svolgevano in pieno inverno, con qualsiasi tempo e sommariamente vestiti. Ripensando a quelle uscite dal campo sotto scorta, mi rammento di un particolare che mi vide protagonista anche se a rischio della vita. Certi prigionieri genovesi mi pregarono, per alcune volte, di portare all’esterno alcune lettere da consegnare ad un casellante. L’operazione riusciva perché quando transitavamo ad un passaggio a livello le sbarre erano di solito abbassate, il casellante si avvicinava alla colonna, praticamente ferma, e mi prendeva la lettera nascosta in petto eludendo le guardie naziste che di solito restavano in coda. Rischiavo la vita perché di norma all’uscita dal Campo le guardie perquisivano i prigionieri. Dopo alcuni giorni di lavoro esterno riuscirono a fuggire due prigionieri. Solo molto più tardi seppi che uno di loro era Carlo Venegoni, grande figura di antifascista che nel campo stesso aveva organizzato un movimento di resistenza clandestina. (3) I rischi ed i pericoli, da me personalmente corsi, si sarebbero però estesi a tutti e non per le fatiche e le sevizie del Campo. Nel mese di marzo del 1945, infatti, fummo caricati e stipati a forza su carri ferroviari con destinazione Germania, e quindi Mauthausen o Buchenwald. (4) Quel treno però non partì mai. Tutti quanti, chiusi nei vagoni, sopportammo per una giornata, con paura, ma anche con speranza, il bombardamento degli Alleati che martellò e distrusse la linea del Brennero. Venimmo pertanto riportati a Bolzano, da dove, caricati su camion, venimmo trasportati in Val Passiria dove esistevano alcuni sottocampi.5 Eravamo circa 120 prigionieri e fummo impiegati in lavori di scavo. Nell’aprile del 1945, in otto prigionieri, valutato il momento favorevole, organizzammo una fuga fidandoci della collaborazione di una guardia di origine ucraina incorporata nelle "SS". Purtroppo essa faceva il doppio gioco e la fuga non riuscì. Fummo sottoposti a duri interrogatori, pensammo che saremmo stati fucilati, invece si compì l’insperato miracolo. Fummo ritrasferiti a Bolzano, ma il campo era ormai in disarmo, probabilmente le Guardie erano rimaste senza ordini. Fummo così liberi di andarcene. Dopo tante peripezie ci ritrovammo finalmente a casa. Di fronte all’immane sterminio perpetrato nei campi di Germania, la tragedia vissuta nel Lager di Bolzano può apparire in chiave minore. Ma è un fatto che coloro che ne sono usciti hanno conosciuto privazioni, umiliazioni, la paura della morte, il pensiero ossessivo e rassegnato di non tornare mai più casa, di non rivedere più i propri famigliari. Leggo sul giornale "La Stampa" di mercoledì 28.5.96 la notizia che la procura di Verona ha individuato in Germania, due ex Ufficiali delle SS. Si tratterebbe dell’ex comandante e del suo vice del Lager di Bolzano, l’ex tenente Friedrich Karl Tito e del maresciallo Hans Haage rispettivamente di 85 e 90 anni. A me risultava che, oltre ai due citati, l’altro aguzzino Colonia e la donna soprannominata la "iena", precedentemente citati, sarebbero stati fucilati alla Liberazione dai partigiani (come riportato da una cronaca giornalistica di allora che ho purtroppo smarrito). Per tutti questi avvenimenti anche il Campo di Bolzano è stato riconosciuto a pieno e tragico titolo come un luogo famigerato (KZ). (…) (6)
da www.deportati.it