Documenti dell'ANED di Milano
Hartheim
Maestri e scuole di genocidio
di
Giacomo Bertazzoni
Un castello irto di guglie e di
pinnacoli che si trova ad Hartheim, nell'alta Austria, nei pressi del Danubio,
è stato negli anni 1941-1944, una scuola per gli operatori dello sterminio
nazista. Di lì sono usciti i "funzionari della morte", gli addetti
alle camere a gas e ai forni crematori, gli specialisti del genocidio che poi,
nei campo di sterminio di tutta Europa, hanno messo a frutto la preparazione
tecnica maturata entro quelle mura, con regolari corsi di tirocinio. Questi
operatori di morte non erano autodidatti né degli improvvisatori, e nel
loro mestiere hanno dimostrato di possedere una tecnica e una tempra che non si
poteva acquisire se non attraverso una preparazione specifica. Nella loro
proverbiale perfezione organizzativa, i tedeschi hanno istituito scuole per la
formazione di tecnici della morte da impiegare nei campi di sterminio, tecnici
che si sono poi dimostrati perfettamente all'altezza del compito. La più
importante di queste scuole sembra sia stata proprio quella di Hartheim.
Centinaia di aguzzini sono passati di qui e nel castello si sono svolte
regolarmente le lezioni fino agli ultimi mesi del nazismo. Il laboratorio
principale era costituito dalle camere a gas e dal forno crematorio: insegnanti
ed allievi avevano bisogno, per le loro esperienze, di 35-40 vittime al
giorno e si calcola che così 30.000 persone siano state annientate in circa tre
anni. Dopo la gassazione venivano effettuate alcune autopsie, quindi i resti
bruciati nei forni e le ceneri disperse nel Danubio o utilizzate per la concimazione
dei campi. Hartheim è stato anche ospedale sperimentale per medici nazisti e i
suoi impianti utilizzati per quel vasto programma di eutanasia che era stato
delineato già agli albori del nazismo. Della "Gnadentod" (della morte
misericordiosa) si parlò però concretamente solo nel gennaio del 1940. Per
ordine di Hitler vennero convocati tre medici illustri: il Reichsfuhrer Philip
Bouhler, il Reichsfuhrer per la sanità, dott. Leonardo Conti, e il medico
personale di Hitler, dott. Karl Brand, e fu assegnato loro il compito di
preparare un piano per la distruzione delle "vite indegne di vivere".
Con questi termini venivano indicate quelle categorie di persone, portatori di
handicap, mongoloidi, psicopatici, dementi senili, definite anche "Unnutze
Esser", cioè bocche inutili, gente che non valeva il cibo che
consumava. Era quindi giusto che morissero. Così i primi a morire furono
tedeschi e austriaci ricoverati in ospedali per cronici: i nazisti consideravano
l’eutanasia una soppressione moralmente giustificabile, quindi applicabile
anche ai loro concittadini e necessaria per bonificare la razza tedesca da
questa presenza immonda. Il tutto però avveniva nella massima segretezza e il
programma fu ufficialmente designato con la sigla "T4": infatti al n°
4 della Tiergartenstrasse aveva sede il quartier generale degli esperti di
eutanasia, a Berlino. Qui venivano indirizzate dai vari ospedali e ospizi le
cartelle cliniche di quei poveri esseri umani che rientravano nel programma e i
medici, specialisti "T4" le esaminavano: quindi, senza preoccuparsi di
vedere i pazienti esprimevano un giudizio. Quando veniva tracciato un segno di
croce sulla cartella, veniva pronunciata la sentenza di morte. Le cartelle poi
venivano spedite a un ufficio speciale che organizzava il trasporto e alcuni
robusti accompagnatori scortavano uomini e donne così condannati all'ospedale
"specializzato" più vicino. Nei rapporti sull'eutanasia sono citati
quattro di questi istituti. Tre erano in Germania: HADAMAR, presso Limburg;
SONNENSTEIN, in Sassonia; il Castello di GRAFENEGG, nel Brandeburgo. Il quarto
era il Castello di HARTHEIM, vicino a Linz. Tutto, come già detto, avveniva nel
più rigoroso segreto: le vittime erano pur sempre austriaci e tedeschi e se le
notizie fossero filtrate avrebbero potuto avere conseguenze imprevedibili
Qualche notizia dovette però trapelare da Sonnenstein e Grafenegg: corsero voci
tra la popolazione e si rese necessaria la chiusura dei due istituti. Ad Hadamar,
invece, e ad Hartheim l'organizzazione era perfetta. I due posti erano isolati
ed Hartheim, immerso nel silenzio della campagna. Non ci furono chiacchiere.
Nulla trapelava all'esterno. Medici e paramedici erano vincolati al segreto con
giuramento. Dopo che ospedali e ricoveri furono liberati dalle molte
"bocche inutili", all'organizzazione furono affidati nuovi compiti:
l’impiego dei deportati nei lager per la sperimentazione clinica e la
successiva distruzione per incenerimento. Un'organizzazione ebraica istituita a
Vienna dopo la guerra e tuttora operante riuscì, un giorno, a individuare a
Linz un ex-soldato della Wehrmacht che aveva lavorato come fotografo al Castello
di Hartheim. Vennero esercitate pressioni sulla gendarmeria di Linz che non poté
rifiutarsi di intervenire e un funzionario si recò ad interrogare questo
fotografo, Bruno Bruckner, sull'attività che aveva svolto durante la guerra al
Castello di Hartheim. "Che genere di fotografie faceva ad Hartheim,
Bruckner?" "Foto scientifiche. Facevano esperimenti nei sotterranei e
io li fotografavo attraverso un pertugio della porta". Si era offerto
volontario per quel lavoro. Un giorno gli era stato chiesto se fosse stato in
grado di far funzionare un laboratorio fotografico di prim'ordine. Aveva
risposto che quel lavoro gli andava perfettamente a genio. Allora gli fu
ordinato di firmare una dichiarazione che lo impegnava a non parlare con
nessuno di questo lavoro; poi, l’indomani, fu accompagnato al Castello dove il
comandante Wirth gli mostrò una attrezzatissima camera oscura e gli indicò
l’alloggiamento dove avrebbe dormito. Gli disse inoltre che avrebbe dovuto
eseguire tre foto di ciascun paziente. Bruckner fotografava circa trenta
pazienti al giorno, talvolta di più. Era un lavoro duro. "Alcuni
erano pazzi furiosi e dovevano essere legati. Il peggio era che non riuscivo a
mangiare. Nell'aria ristagnava un tanfo orribile, proveniente dai forni
crematori. Dopo qualche giorno andai dal capitano Wirth, gli dissi che non ce la
facevo più e che mi sollevasse dall'incarico." Wirth mi rispose: "O
lei sta qui e tiene la bocca chiusa, o sarà mandato a Mauthausen. Oppure, se
preferisce, la uccideremo seduta stante". Bruckner tornò scoraggiato nella
sua camera, ma quella sera il capitano gli mandò una bottiglia di grappa.
Bruckner si ubriacò e finì per non pensare più all'odore insopportabile che
ammorbava l’aria. "Che genere di esperimenti si compivano nei sotterranei
del Castello?" chiese il funzionario di polizia. "I pazienti venivano
uccisi col gas. lo dovevo fare i primi piani della loro agonia. In seguito
dovetti fotografarne anche il cervello. Il comandante Wirth chiamava queste
fotografie materiale scientifico e le mandava a Berlino. Non mi era
permesso tenerne nemmeno una. Accanto alla stanza per la sperimentazione c’era
il forno crematorio. lo non facevo domande. Era un lavoro che rendeva bene: mi
davano trecento marchi al mese. Si mangiava bene e c’erano sempre liquori. La
sera stavamo in compagnia: nessuno dormiva mai solo". "Non notò altro
mentre era ad Hartheim?" "Sì - disse
Bruckner - una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi. Ogni giorno venivano
uccisi col gas trenta o trentacinque pazienti. Tuttavia nel Castello c'erano
almeno ottanta persone alcune delle quali venivano nel sotterraneo a vedere gli
esperimenti". E chi potevano essere questi osservatori disciplinati e
attenti? Erano gli angeli della morte, o meglio, quelli che si preparavano ad
esserlo, uomini che si addestravano ad organizzare lo sterminio in massa:
infatti dopo questo tirocinio sarebbero stati spediti a lavorare nei campi di
sterminio. Venivano scelti tra i più fanatici credenti nell’ideologia nazista
da un alto funzionario, il Gau-Inspecteur, che ne rispondeva personalmente alla
Cancelleria del Fuhrer. Erano tenuti al più stretto riserbo e dovevano
sottoscrivere un impegno alla più assoluta segretezza. Tutti hanno svolto i loro
compiti con la dovuta, scrupolosa attenzione. Dapprima assistevano agli
esperimenti poi li eseguivano personalmente. I medici sovrintendevano a tutto il
lavoro e controllavano ogni sperimentazione. La morte delle vittime era studiata
clinicamente, minuziosamente fotografata, perfezionata scientificamente.
Venivano usate varie miscele di gas per scoprire quale fosse la più efficace. I
medici, cronometro alla mano, osservavano attraverso lo spioncino della porta i
morenti e ne registravano l’agonia al decimo di secondo. Venivano fatte
riprese al rallentatore che gli esperti, poi, esaminavano. Dopo l’autopsia, i
cervelli venivano fotografati. Nulla era lasciato al caso. Così gli allievi
apprendevano l’arte di uccidere e imparavano a superare la nausea della morte.
Perché si abituassero all'odore della carne bruciata dovevano dormire accanto
ai crematori. Chi non resisteva alla logorante tensione, veniva allontanato e
assegnato ad altri incarichi. Chi restava doveva invece dimostrare di possedere
non solo un'efficiente preparazione tecnica ma anche la più sorda insensibilità
umana. In Hartheim è stato creato un nuovo genere di uomo: lo sterminatore
diplomato. La vita che
si conduceva entro le mura del Castello non doveva però essere molto allegra
anche per gli aguzzini: un'atmosfera cupa gravava su tutto. Per rallegrare un
po' l’ambiente arrivavano, ogni tanto, donne e alcolici. Ai tempi di Francesco
Giuseppe nel castello di Hartheim era stato istituito un centro di ricovero per
fanciulli subnormali: ai tempi di Hitler è stato centro di eutanasia, ospedale
sperimentale e scuola di annientamento dei deportati. Dai nazisti con umorismo
veramente macabro, era stato ribattezzato "Centro di Rianimazione" (Erholugslager
Hartheim), sottocampo di Mauthausen. Quando i deportati, stremati dal lavoro e
dalla denutrizione cadevano sotto i colpi dei kapò, venivano raccolti nelle
infermerie e quando le loro condizioni venivano giudicate irrecuperabili,
venivano selezionati e spediti alla "rianimazione" di Hartheim. Le
vittime venivano trasportate al Castello su autobus coi finestrini oscurati da
tende o da uno strato di vernice. Veniva detto loro che sarebbero stati
trasferiti in ospedale. Accanto all'autista stava un SS del comando, di scorta
al convoglio. Aveva l’ordine scritto di impedire ogni controllo o ispezione da
parte della polizia urbana o di pattuglie militari. Arrivati a destinazione, gli
autobus si fermavano accanto a una torretta angolare del Castello, dove
scendevano i detenuti. Venivano introdotti da un'entrata secondaria e, dopo
essersi spogliati, venivano fatti entrare in una stanza a piano terra dove era
situata l'Accettazione. Qui venivano marcati tutti quelli che avevano denti
d'oro, poi col pretesto di essere fotografate, le vittime passavano in un altro
locale da cui si accedeva direttamente alla camera a gas che si presentava come
una sala per docce. Compiuta la gassazione si estraevano i denti d'oro ai
cadaveri contrassegnati e tutti venivano cremati nel forno adiacente. Nessuno
saprà mai con esattezza quante furono le vittime di Hartheim. Non sono stati
trovati gli archivi dell'ospedale. Nei primi mesi del 1945, all'avvicinarsi
dell'Armata Rossa, squadre di demolitori hanno rimosso tutti gli impianti
esistenti. Nel primissimo dopoguerra e per molti anni ancora, le stanze del
Castello hanno ospitato profughi dall'Est. Sembra che molti dei carnefici
abbiano ricevuto la decorazione con croce di ferro di seconda classe per il
servizio reso al grande Reich con una motivazione generica: sarebbe stato
impossibile scrivere: "per aver ucciso dieci-ventimila persone". Alle
vittime di Hartheim non è stato eretto alcun monumento. Alcuni ex deportati
francesi hanno allestito una cappella all'interno di una stanza, a piano terra,
in un angolo del Castello. La città di Sesto San Giovanni ha ricordato questi
morti con una lapide su lastra di acciaio, donata dagli operai della Falck: la
lastra è stata fissata alle pareti della cappella il 7 maggio 1977. Tra poco
entreremo anche noi in questa cappella e vi sosteremo brevemente, in silenzio.