In questo
lavoro ci si propone di affrontare la tematica delle nuove esigenze, dei
rischi e delle opportunità che, dal punto di vista culturale, il
crescente fenomeno della globalizzazione impone alle organizzazioni contemporanee.
In particolare, il percorso della tesi prende avvio dalla considerazione
dellesistenza, nella storia del pensiero sociologico, di due opposti
paradigmi analitici attraverso cui sono state interpretate le peculiarità
e le caratteristiche delle organizzazioni. Ci si riferisce, nello specifico,
allalternanza tra paradigmi razionalista e culturale, che rappresenta
loscillazione continua con cui gli studiosi sociologici hanno affrontato
la tematica organizzativa nel corso del tempo; essi si sono dedicati,
rispettivamente, allanalisi degli aspetti formali, strutturali e
tecnici, da un lato, e allo studio delle componenti informali, delle risorse
umane e delle norme culturali, dallaltro.
Anche alla luce dei risultati cui sono giunti gli studi e le ricerche
che hanno approfondito la tematica di questa alternanza di interpretazione
dei fattori organizzativi, è stato rilevato che attualmente si
assiste ad una caduta del paradigma razionalista, che ha calcato le scene
sociologiche per circa trentanni, a favore di un maggiore sviluppo
dellapproccio culturale ai fenomeni organizzativi.
Nello specifico, nel testo si porterà ad esempio il caso del modello
di produzione giapponese, che è stato ed è al centro di
numerosi dibattiti circa i particolari aspetti hard e soft che consentono
di distinguerlo nettamente dagli altri modelli organizzativi. Il cosiddetto
modello J, infatti, ha rappresentato una forme di organizzazione del lavoro
cui i ricercatori hanno rivolto maggiormente lattenzione nella storia
del pensiero organizzativo: in effetti, lo studio sociologico ha approfondito
ora lanalisi dei fattori tecnico-strutturali del modello, come quelli
caratterizzanti il Just in Time e il controllo della Qualità Totale,
ora quella delle variabili socio-culturali che ne hanno contraddistinto
il contesto.
Nello svolgimento della tesi si cercherà altresì di precisare
alcuni dei maggiori autori che, nella sociologia organizzativa, hanno
favorito lo spostamento di attenzione degli studiosi dalle componenti
tecnico-strutturali, formali e, in generale, da una concezione meccanicistica
dellorganizzazione del lavoro, ad un interesse preminente per il
fattore umano, i valori culturali e, in generale, la struttura informale
dellorganizzazione.
Partendo da queste premesse, dopo aver individuato cioè il percorso
storico che ha condotto alla preminenza dellapproccio culturale
alle organizzazioni, che permette tra laltro di tenere in maggiore
considerazione i contributi delle risorse umane allorganizzazione
di cui fanno parte, si indicheranno anche gli elementi distintivi individuabili
in unorganizzazione che voglia essere veramente antropocentrica.
Da questultimo punto di vista, cioè partendo dalla maggiore
volontà delle organizzazioni di valorizzare le proprie risorse
umane, in quanto fattori capaci di accrescerne la competitività
nel mercato del lavoro, nonché di dare un vero valore allattività
lavorativa, ci si soffermerà su una delle necessità ritenute
in ambito sociologico di crescente importanza per le organizzazioni: ci
si riferisce al bisogno per le organizzazioni contemporanee di sviluppare
al proprio interno una cultura capace di dirigere i propri partecipanti
verso levento organizzativo e gli obiettivi aziendali.
Oltre ad assicurare una base di comportamento comune e di credenze condivise
nei membri dellimpresa, la cultura organizzativa tende ad assolvere
alla funzione di facilitare laccettazione e laccreditamento
dellorganizzazione allinterno del proprio contesto sociale
di appartenenza.
Rispetto a tale questione, il lavoro cercherà di approfondire le
particolari caratteristiche che contraddistinguono lambiente cui
oggigiorno le organizzazioni devono adattarsi. In effetti, è stato
rilevato in numerosi studi che, rispetto al passato, il contesto ambientale
odierno sembra aver perso le connotazioni di stabilità, immutabilità
ed equilibrio culturale, per trasformarsi continuamente a causa degli
improvvisi cambiamenti strutturali e culturali che lo contraddistinguono.
Lambiente sembra contrassegnato da una instabilità tale da
produrre un mutamento continuo nelle richieste e nelle domande rivolte
alle organizzazioni da parte delle istituzioni, dei clienti e dei consumatori,
del pubblico dei cittadini in generale.
Questa instabilità sembra accentuata dallavvento del fenomeno
della globalizzazione, che investe il mercato da molteplici angolazioni:
dalla struttura delle professioni alleconomia, alla crescente diffusione
delle informazioni a livello planetario. Questo complesso fenomeno, di
cui oramai si discute a molteplici livelli e secondo ogni modalità
possibile, impone alle organizzazioni molte nuove opportunità,
ma altresì numerosi rischi, soprattutto dal punto di vista culturale.
In questo lavoro si cercherà dunque di affrontare la tematica della
globalizzazione dal particolare punto di vista delle sollecitazioni culturali
cui vengono sottoposte le organizzazioni contemporanee. In particolare,
alla luce della maggiore importanza attribuita, nel corso dello sviluppo
del pensiero organizzativo, alla identità culturale dellorganizzazione
ai fini della sua sopravvivenza nellambiente e al suo sviluppo,
saranno posti degli interrogativi in merito al futuro che le organizzazioni
globali dovranno affrontare.
Nella trattazione dellargomento si tenterà quindi di indicare
alcune possibili vie di sviluppo dellimpresa, pur nella consapevolezza
dei rischi che si corrono nel mercato globale, soprattutto sul fronte
della formazione e della gestione della cultura organizzativa.
Ci si riferisce, in particolare, al pericolo di un appiattimento culturale
che potrebbe investire le strutture organizzative che, superando i propri
confini nazionali, decidano di entrare a far parte di un mercato globale.
Si porterà ad esempio il caso delle piccole organizzazioni produttive
, così diffuse in Italia, che, affrontando il fenomeno della globalizzazione,
risultano essere quelle che probabilmente espongono a rischio più
delle altre le proprie specifiche connotazioni culturali. Entrando a far
parte di un mercato globale potrebbero in effetti subire effetti di omologazione
alle grandi strutture organizzative che hanno ottenuto un successo internazionale.
Riconoscendo tuttavia, anche alla luce del percorso che ha condotto alla
preminenza del paradigma culturale nella sociologia organizzativa, che
nella struttura delle norme e dei valori culturali tradizionali di ogni
organizzazione è possibile individuare un fattore di diversificazione
tra le imprese, si cercherà di articolare una concezione del fenomeno
della globalizzazione che non ritiene impraticabile, negli scenari indotti
dalla globalizzazione, la valorizzazione delle peculiarità di ogni
cultura locale.
Proseguendo in questa direzione di analisi si cercherà, infine,
di qualificare lorganizzazione globale sulla base di
una più ampia visione sia della globalizzazione, sia delle specificità
locali che contraddistinguono le imprese luna dallaltra, adottando
così una prospettiva che riconosce il significato e limpatto
dei fenomeni di glocalizzazione.
Capitolo
1 : Passaggio dal paradigma razionalista allo studio delle organizzazioni
come culture
1.1 Alternanza
dellapproccio razionalista e socio-culturale negli studi organizzativi
Lo studio delle organizzazioni è stato fin dalle origini percorso
da una continua tensione tra lattenzione agli aspetti espliciti,
oggettivi, formali e razionali dei sistemi cooperativi da un lato, e linteresse
per gli aspetti impliciti, soggettivi, informali e non razionali, dallaltro.
Stephen Barley e Gideon Kunda hanno sottolineato che nel suo sviluppo
teorico il pensiero organizzativo ha progressivamente spostato la propria
attenzione dalle forme di controllo esercitato tramite strumenti di coercizione,
a quelle esercitate attraverso mezzi di tipo razionale ed, infine, a quelle
fondate sulle norme culturali ( Barley e Kunda, 1992).
Secondo questi autori i dati storici suggeriscono che fin dal 1870 la
teoria organizzativa si è sviluppato in ondate alterne tra le teorie
razionaliste e quelle culturali. In particolare, la tendenza degli studi
organizzativi ad alternarsi tra teorie razionaliste e culturali sarebbe
radicata nelle fondamentali antinomie proprie delle società industriali
occidentali: ad esempio lopposizione tra solidarietà meccanica
ed organica o tra comunismo ed individualismo. Infine, lalternanza
delle ondate si sarebbe mostrata parallela agli ampi cicli della contrazione
e della espansione economica.
La storia moderna industriale ha dimostrato di essere caratterizzata non
soltanto dallespansione di grandi organizzazioni e di una rinomata
professionalizzazione del management, ma anche dalla formulazione di teorie
che affrontano uno dei problemi centrali della direzione dimpresa:
il controllo delle organizzazioni complesse. Tutte le teorie sviluppate
hanno almeno una componente ideologica, dal momento che tutti i teorici
che le hanno elaborate adottano una posizione ontologica per poter procedere
nel proprio lavoro.
I principali oggetti delle costruzioni teoriche nel pensiero organizzativo
sono stati, solitamente, i seguenti: le organizzazioni, i partecipanti
dellorganizzazione, i responsabili dimpresa e i mezzi con
cui questi ultimi possono dirigere i primi due.
Sebbene alcuni studiosi abbiano sostenuto che la teoria organizzativa
ha prodotto poco più di una pletora di prospettive, molti altri
hanno invece individuato uno sviluppo teorico più preciso. In questa
direzione, in alcuni degli studi più influenti dellideologia
organizzativa, come ad esempio il lavoro svolto da Bendix (1956), è
stata rilevata, fin dalla seconda metà degli anni Cinquanta, una
crescente preoccupazione per gli aspetti socio-psicologici del lavoro.
In particolare, le teorie del Darwinismo sociale, tipiche del diciannovesimo
secolo, avrebbero gradualmente, ma inevitabilmente, aperto la strada alla
credenza che i responsabili dazienda potessero assicurarsi una migliore
prestazione professionale da parte dei partecipanti, incidendo sulle loro
attitudini e sui loro sentimenti.
La storia, a parere di Barley e Kunda, sembra dunque suggerire che fin
dal 1870 cinque distinte ondate teoriche si sono succedute nel pensiero
organizzativo americano, influenzando poi lopera degli stessi studiosi
europei. Si tratta, in particolare, delle teorie sullo sviluppo industriale
(1870-1900), la direzione scientifica del lavoro (1900-1923), la scuola
delle Relazioni Umane (1925-1955), il sistema razionalista (1955-1980)
e, infine, lapproccio alla cultura organizzativa e lattenzione
alla qualità totale (dal 1980 ad oggi).
Queste cinque ondate teoriche sembrano riunirsi coerentemente in due grandi
e contrastanti paradigmi: le teorie della direzione scientifica del lavoro
e del sistema razionalista enfatizzano il controllo razionale dei membri
dellorganizzazione; le teorie sullo sviluppo industriale, le Relazioni
Umane e lapproccio alla cultura organizzativa sottolineano invece
il controllo normativo-culturale dei membri.
Secondo il paradigma razionalista, lorganizzazione è come
una macchina che può essere analizzata in tutti i suoi componenti,
modificata e riassemblata in un insieme più efficiente delle parti.
I sostenitori di questo paradigma esortano i dirigenti dimpresa
ad essere degli esperti, poiché si ritiene che per risolvere i
problemi aziendali si debbano effettuare analisi razionali e possedere
conoscenze empiriche. Inoltre, i partecipanti sono considerati degli esseri
calcolatori con orientamenti strumentali al lavoro, poiché si ritiene
che conoscano i vantaggi economici derivanti da un sistema efficiente,
o che non possano resistere ad una struttura ben articolata.
Secondo il paradigma socio-culturale, invece, lorganizzazione è,
o dovrebbe essere, una collettività: sia che lorganizzazione
possegga unimmagine di comunità, di gruppo o di cultura,
essa sarà sempre comunque un luogo in cui avviene il coinvolgimento
in valori e credenze comuni. Tutte le teorie che appartengono al paradigma
culturale, sfocano i confini tra lavoro e non-lavoro e tra dirigenti dimpresa
e lavoratori. Poiché i sostenitori di questo approccio individuano
nella coesione e nella lealtà lultima vera risorsa della
produttività, essi esortano i dirigenti dimpresa ad essere
dei leader, cioè a dare lesempio, a ispirare, a motivare
e a provvedere al benessere dei lavoratori.
In conclusione, la sequenza delle cinque teorie suggerisce unalternanza
tra le ideologie del controllo organizzativo di tipo culturale e di tipo
razionale. Nonostante sia impossibile individuare una data precisa per
queste ondate ideologiche, secondo Barley e Kunda sembra plausibile affermare
che lapproccio socio-culturale allo sviluppo industriale abbia catturato
lattenzione dei più importanti dirigenti industriali dopo
il 1870, quando è stata articolata una prima filosofia, e dal 1900,
quando le pratiche di miglioramento sono state istituzionalizzate e diffuse
a livello internazionale.
Allo stesso modo, lapproccio razionalista, enfatizzato dalla direzione
scientifica del lavoro, si è spostato dai gruppi di ingegneri industriali
alla comunità degli studiosi di organizzazione tra il 1900 e la
metà del 1920. La nascita della psicologia industriale, nel corso
del 1920, ha poi segnato il ritorno del paradigma culturale che fu rafforzato
dal movimento delle Relazioni Umane, le cui idee furono istituzionalizzate
dalla fine del 1950. In seguito, le teorie razionaliste, ispirate dalla
nascita della teoria generale dei sistemi intorno alla metà del
1950, hanno dominato gli studi organizzativi, se non la pratica, dalla
fine del 1970. Infine, intorno alla metà degli anni Ottanta le
teorie della cultura organizzativa e della ricerca della qualità
hanno acquisito forza quando i dirigenti dimpresa, a fronte della
sempre maggiore competizione estera e dellavvento di una crescente
dipendenza globale fra le organizzazioni, hanno sentito il bisogno di
sviluppare allinterno dellorganizzazione una ideologia culturale
che fosse rappresentativa dei valori e dei comportamenti uniformemente
accettati dalla struttura organizzativa stessa.
Lalternanza dei due paradigmi, razionalista e socio-culturale, suggerisce
quindi chiaramente che lideologia organizzativa si è evoluta
tra i confini di una struttura ideologica bipolare.
Un caso
concreto: il modello J
Un caso concreto
della ambivalenza con cui si possono interpretare le tematiche organizzative
è rappresentato dal modello giapponese di produzione industriale.
In particolare, si può affermare che linteresse per il modello
J si sia sviluppato prevalentemente lungo due direzioni principali:
lanalisi dei concreti meccanismi di produzione applicati in questo
tipo di organizzazione del lavoro; e lattenzione ai fattori culturali
ed istituzionali che caratterizzano il peculiare senso di appartenenza
ad una comunità, tipica del modello di impresa giapponese ( Monaci
, 1995).
Chi si focalizza sugli aspetti hard del modello giapponese solitamente
ripone lattenzione sui fattori che costituiscono il cosiddetto Just
In Time e sugli elementi che garantiscono il controllo della qualità
totale, ovvero del Total Quality Management.
Il modello del Just in time, volto a costituire un sistema produttivo
che garantisca la perfetta corrispondenza fra domanda di mercato e beni
prodotti tramite il coordinamento e la sincronizzazione delle unità
organizzative che intervengono nel processo produttivo, si contrappone
in modo radicale al modello di produzione occidentale. In effetti, mentre
il modo di produrre classico delle imprese occidentali si fonda sulla
fabbricazione continua ed omogenea di prodotti e in specifiche quantità
definite a priori, il modello giapponese realizza invece piccole serie
di prodotti, non uniformi, che consentono, da un lato, di evitare laccumulo
di materiale nei magazzini e, dallaltro, di riuscire a rispondere
in modo continuativo alle nuove richieste del mercato.
Il secondo approccio attraverso cui gli studiosi delle realtà organizzative
hanno interpretato il modello giapponese enfatizza invece la centralità
degli aspetti soft, ovvero dei fattori socio-culturali del contesto di
appartenenza in cui il modello stesso si è sviluppato ed affermato.
Nello specifico sono stati individuati alcuni tratti tipici della società
giapponese che avrebbero favorito lo sviluppo e il successo delle imprese
comunitarie di questo paese orientale. È stato rilevato,
ad esempio, che lorganizzazione in Giappone è solitamente
concepita come una collettività cui il singolo addetto appartiene,
piuttosto che come un luogo di lavoro in cui si trovano diversi individui.
Lo spirito collaborativo pervade quindi tutta lesperienza lavorativa
ed acquistano rilevanza valori quali quello dellinterdipendenza,
della condivisione delle preoccupazioni e dellaiuto reciproco. Molti
studiosi hanno inoltre sottolineato la cruciale importanza del lavoro
nella vita degli individui giapponesi, molto flessibili e disponibili
nei confronti dellimpresa, nonché la generale alta professionalizzazione
delle maestranze, dei dirigenti e lalto livello della scolarità
media della popolazione.
Alla luce di quanto fin qui affermato, è possibile ritenere il
modello di produzione industriale giapponese un esempio tangibile di come
si possano differentemente interpretare i fattori costitutivi di unorganizzazione
del lavoro. In effetti, i ricercatori, soprattutto quelli di origine occidentale,
che a vario titolo si sono occupati del modello J hanno focalizzato lattenzione
alla struttura produttiva, agli aspetti razionali e formali dellorganizzazione
giapponese, da un lato, e alle componenti culturali, soggettive e informali,
dallaltro.
Da questultimo punto di vista, cioè dallo studio dellorganizzazione
nei suoi aspetti culturali, bisogna ricordare che proprio da quando il
Giappone cominciò ad emergere come uno dei Paesi più competitivi
sotto il profilo industriale, sia gli studiosi dei problemi organizzativi,
sia i dirigenti dimpresa iniziarono a rendersi conto dello stretto
rapporto che esiste tra cultura e filosofia manageriale. In effetti, questa
presa di coscienza è considerata oggi uno degli stimoli che provocarono
una crescente attenzione da parte degli studiosi dei fenomeni organizzativi
alle loro componenti soft, cioè culturali.
Dalla descrizione del modello J e delle diverse prospettive con cui è
stato interpretato dagli studiosi organizzativi, è possibile descrivere
il paradigma razionalista nei termini di una promessa di razionalità,
efficienza, oggettività, valorizzazione delle capacità individuali,
di cui si rendeva portatore. Al contrario, lapproccio culturale
alle organizzazioni si dimostrò in grado di evidenziare limportanza
dellidentità culturale e degli aspetti soggettivi per uno
sviluppo integrale dellorganizzazione.
Come accennato, il successo ottenuto negli anni Ottanta e Novanta da questultimo
approccio fu, in parte, dovuto allesempio delle imprese giapponesi,
che spinse gli studiosi occidentali di management ad analizzare i rapporti
esistenti tra le culture nazionali e il comportamento delle
organizzazioni dislocate e/o radicate in vari paesi.
1.2 Breve percorso degli approcci teorici alle organizzazioni
Per capire
come, quando e perché il paradigma razionalista, dominante la scena
degli studi sociologici sulle organizzazioni per molti anni attraverso
le teorie organizzative poco sopra ricordate, sia stato ultimamente messo
in discussione, può essere utile riferirsi alle idee di alcuni
autori che, nel corso dello sviluppo della disciplina, hanno consentito
di focalizzare sempre più lattenzione su alcune componenti
informali, soggettive e valoriali che caratterizzano le organizzazioni,
comportando una diminuzione di interesse e di fiducia nellapproccio
razionalista .
La tendenza che incide maggiormente nelle considerazioni odierne sulle
organizzazioni è quella di considerare sempre più limpresa
come unorganizzazione di uomini, che collaborano per raggiungere
finalità comuni. In particolare, gli individui sono maggiormente
valorizzati rispetto al passato grazie alla più rilevante considerazione
riconosciuta allinsieme di significati, di valori e di convincimenti
di cui sono portatori, e che portano o maturano allinterno dellorganizzazione
in cui lavorano. Se tale insieme di risorse risultava del tutto insignificante
per una situazione produttiva prettamente eterodiretta, caratterizzata
da rigide gerarchie e precise normative, e in cui al singolo veniva richiesto
unicamente di vendere la propria forza-lavoro, ciò non avviene
più allinterno di una realtà molto più complessa,
in cui diviene essenziale non solo la motivazione individuale al lavoro,
ma altresì la disponibilità a lasciarsi coinvolgere allinterno
della cultura dellimpresa ( Bocca, 1998).
Volendo ripercorrere brevemente le principali tappe che, nella storia
degli studi sociologici delle organizzazioni, hanno concorso a raggiungere
questa nuova visione dei membri delle imprese, nonché la preminenza
del paradigma culturale alle organizzazioni, si può affermare che,
mentre agli inizi del 900, sotto la spinta di una lettura meccanicistica
dellorganizzazione basata sul sistema tayloristico - il fattore
umano era trascurato poiché luomo era analizzato e studiato
al pari di una macchina, già a partire dagli anni 20 furono
elaborate numerose critiche a questo approccio, che indirizzarono verso
nuovi orientamenti gli studi organizzativi.
In effetti, un paradosso nella storia del taylorismo è che, mentre
cresceva il suo successo nelle fabbriche, aumentavano anche le voci che
ne denunciavano i limiti e ne reclamavano il superamento. Il nuovo modo
di organizzare lofficina si presentava in sostanza come uno strumento
ideato per intensificare lo sfruttamento del lavoro operaio. Daltra
parte, proprio limposizione di un lavoro uniforme, frantumato e
impersonale favorirono la nascita di numerosi studi sullorganizzazione
del lavoro (Bonazzi , 2000).
In particolare, si possono distinguere due principali ordini di critiche
che, a partire dagli anni 20, furono rivolte al taylorismo. Il primo
ordine riguarda soprattutto le lacune che derivano dalla mancata attenzione
agli aspetti psicologici del lavoro, e rileva:
a. lerrore del metodo di considerare i movimenti elementari dellazione
lavorativa anziché la sua totalità;
b. lerrore di imporre dallesterno ritmi, pause e modalità
di lavoro che prescindono dalla fisio-psicologia umana;
c. linattendibilità dei tempi ottenuti sottoponendo lavoratori
eccezionali a condizioni sperimentali anchesse eccezionali;
d. la pretesa di stabilire norme standardizzate uguali per tutti, senza
tener conto dei fattori particolari che definiscono le diverse personalità
dei lavoratori;
e. lapprossimazione e la pseudo-scientificità di molte asserite
relazioni tra tipi di utensili, posizioni del corpo, ritmi e tempi da
osservare;
f. la trascuratezza degli effetti frustranti di natura psico-nervosa che
intervengono in lavori monotoni, parcellizzanti, privi di senso e di qualsiasi
autonomia.
Come detto, questi limiti cominciarono ad essere denunciati nelle ricerche
di psicologia industriale fin dagli anni 20.
Il secondo ordine di critiche riguarda invece la troppo elementare antropologia
tayloristica, che sta alla base dello scambio tra il semplice incentivo
monetario e lesecuzione passiva di un lavoro privo di senso.
Questa insufficienza apparve sempre più chiaramente con lo sviluppo
delle ricerche sociologiche sulla condizione operaia. Una prima fase di
questi nuovi studi è rappresentata dalla Scuola delle Relazioni
Umane, che già fin dalla metà degli anni 20 mise in
risalto limportanza dei fattori emotivi e micro-ambientali per il
rendimento dei lavoratori. Ma anche le Relazioni Umane furono poi sottoposte
a critica per il carattere limitato e strumentale delle loro proposte,
che non affrontavano il problema dei contenuti reali del lavoro, ma si
limitavano di fatto ad interventi psicologici sui dipendenti.
Friedmann e Simon, negli anni 40 e 50, e poi la scuola motivazionalista
negli anni 60-70, sottolinearono invece lesigenza di
una realizzazione integrale delluomo, con importanti ripercussioni
sullanalisi dei contenuti lavorativi e della struttura dellorganizzazione.
Elton
Mayo e la scuola delle Relazioni Umane
Elton Mayo
e la scuola delle Relazioni Umane, che da egli ebbe sviluppo anche grazie
alla famosa serie di studi e di esperimenti condotti presso la sede della
Western Electric Company di Hawthorne negli ultimi anni Venti e nei primi
anni Trenta, misero il luce un più complesso modello di motivazione
dei lavoratori, rispetto a quello individuato nelle ricerche e negli studi
precedenti. In effetti Mayo, scoprendo e valorizzando lorganizzazione
informale, fu in grado di dimostrare che gli stimoli al lavoro di cui
abbisognavano maggiormente i membri dellorganizzazione non erano
soltanto di tipo economico, bensì anche di tipo socio-psicologico
(Scott, 1994).
Mayo, esponente della nuova psicologia industriale emersa dalle ricerche
e dagli studi che tentavano di spiegare i motivi dellinsoddisfazione
e demotivazione dei lavoratori, evidenziò limportanza dei
rapporti umani che si instaurano allinterno delle organizzazioni,
non solo a livello formale, ma anche, e soprattutto, a livello informale.
Tra gli aspetti più significativi sottolineati da Mayo e dalla
Scuola delle Relazioni Umane, i tre principali sono sintetizzabili nel
modo seguente:
· Il rendimento dei lavoratori è in buona parte legato ai
rapporti umani che si instaurano allinterno dellorganizzazione.
Compito dellimpresa è di eliminare le tensioni e le conflittualità,
favorendo un attaccamento dei lavoratori allazienda e la loro spontanea
collaborazione.
· Gli uomini agiscono spesso non come singoli, ma come membri di
un gruppo. Tale tendenza è positiva e deve essere favorita, in
modo da sviluppare uno spirito di gruppo che possa diventare, in seguito,
spirito di corpo per tutti i lavoratori dellazienda. In tale logica,
si deve tenere conto dei leader naturali dei gruppi, anche se ciò
potrebbe generare una gerarchia aziendale diversa da quella imposta dallimpresa.
· La direzione è da intendere come guida di uomini visti
come collaboratori, e non come subalterni. Lautorità non
deve basarsi sulla minaccia di sanzioni o sulla promessa di ricompense,
bensì sulla persuasione dei lavoratori che il raggiungimento delle
finalità aziendali comporta anche la soddisfazione delle esigenze
individuali ( Bazzanti, 1997).
È su queste premesse teoriche che nasce la politica della ricerca
del consenso.
Tra le tematiche più rilevanti che emergono dalle opere di Elton
Mayo, riconosciuto come il principale rappresentante teorico della scuola
delle Relazioni Umane, si può indicare innanzi tutto limportanza
della dimensione umana: in polemica con lo scientific management, accusato
di considerare i dipendenti come puri erogatori di forza lavoro, Elton
Mayo sottolineò la necessità di una visione più completa
del rapporto uomo-azienda, per recuperare il cosiddetto fattore
umano, cioè il complesso dei fattori psicologici latenti
che condizionano il comportamento manifesto dei soggetti ( Bonazzi , 2000).
Un secondo tema caro a Elton Mayo fu quello relativo alla cosiddetta anomia
della società industriale e alla visione dellazienda come
unistituzione reintegratrice: la società industriale appariva
a Mayo come turbata da crisi e tensioni. Per spiegare questi fenomeni,
Mayo riprese il concetto durkheimiano di anomia, che denota una condizione
di allentamento delle norme morali che regolano il funzionamento di una
società. Mayo propose che le fabbriche non si interessassero soltanto
del profitto, ma che si impegnassero in programmi sociali per far sì
che i dipendenti potessero allontanarsi da situazioni conflittuali, per
sviluppare in seguito unidentificazione emotiva con lazienda.
Infine Mayo, in tutta la sua opera, proclamò il primato degli aspetti
informali nellorganizzazione produttiva: al di là delle strutture
ufficiali e dei rapporti formali, esisteva in azienda, secondo lautore,
una fitta rete di rapporti non istituzionalizzati, ma di fondamentale
importanza per lo sviluppo dellimpresa stessa e altresì per
limpegno offerto dai lavoratori sul luogo di lavoro.
Dalla Scuola delle Relazioni Umane nacquero, negli anni 50 in Giappone,
i cosiddetti circoli di qualità, costituiti da gruppi di operai
ed impiegati che lavorano nello stesso reparto e che periodicamente si
riuniscono per discutere dei problemi riguardanti il proprio lavoro e
delle modalità con cui raggiungere la qualità del prodotto.
Infatti, lelevata competitività dei mercati interni ed esterni
aveva portato le aziende alla necessità di un controllo di qualità
sempre più ampio, se non capillare, dei propri prodotti. E, in
effetti, la problematica dellindustria giapponese negli anni 50
era proprio quella di ottimizzare la qualità finale dei prodotti,
per vincere la competitività dei mercati esteri. Per ottenere ciò,
però, ci si rese conto della necessità di conquistare il
coinvolgimento e il consenso dei lavoratori dellazienda.
È da ricordare, infine, che nel corso degli anni Sessanta, molte
delle teorie definite dagli studiosi delle Relazioni Umane è stato
codificato da Douglas McGregor, nel suo autorevole testo intitolato Laspetto
umano dellimpresa. McGregor, uno dei maggiori esponenti della Scuola
Motivazionalista, evidenziò che le differenze più significative
tra la teoria amministrativa classica, fondata sul paradigma razionalista
e indicata come Teoria X, e lapproccio delle Relazioni Umane, denominato
Teoria Y, erano date dalla natura degli assunti riguardanti gli attori
umani.
Il principale assunto della teoria economica classica, detta Teoria X
consisteva, in sintesi, nella convinzione che le persone non amano il
lavoro e tentano di evitarlo; di conseguenza, si riteneva che la maggior
parte delle persone debba essere costretta, comandata e controllata affinché
realizzi uno sforzo adeguato per il conseguimento degli obiettivi dellorganizzazione;
ed infine si reputava che luomo medio preferisce essere diretto
da altri, evitando in tal modo ogni tipo di responsabilità.
Per contro, la Teoria Y, privilegiata da Mc Gregor, si fondava sulla convinzione
che la maggior parte delle persone non disprezza naturalmente il lavoro,
in modo tale che il controllo dallesterno e la minaccia di sanzioni
non sono lunico mezzo per indirizzare gli sforzi verso il conseguimento
degli obiettivi aziendali; si aggiungeva inoltre lidea che le gratificazioni
più significative sono quelle associate al soddisfacimento dellio
e allautorealizzazione dei bisogni ( Scott, 1994).
Superando le teorie della direzione scientifica del lavoro, nonché
il concetto di motivazione introdotto dalla Scuola delle Relazioni Umane,
che lo limitava essenzialmente ai rapporti interpersonali, Mc Gregor inserisce
questultimo aspetto individuale allinterno del processo di
gestione dellazienda; in tale ottica, la motivazione viene concepita
come premessa indispensabile per la partecipazione alle decisioni da parte
dei soggetti e quindi come presupposto dellallargamento della base
gestionale dellimpresa (Bazzanti , 1997).
Herbert
Simon e il sistema decisionale
In questa
analisi dei contributi che, nello sviluppo del pensiero organizzativo,
hanno enfatizzato il ruolo preminente rappresentato dai partecipanti dellorganizzazione,
può risultare utile ricordare anche Herbert Simon.
Questo autore, nel corso degli anni 40, favorì lo spostamento
dellattenzione degli studiosi dai fini e dalle funzioni dellorganizzazione,
ai comportamenti dei singoli attori che la costituiscono, teorizzando
come le decisioni approvate allinterno dellimpresa non dipendano
unicamente dallottimizzazione della relazione metodi-obiettivi,
ma anche e soprattutto dai giudizi di valore e dai convincimenti personali
di cui il singolo si fa portatore nel momento in cui entra a far parte
di unorganizzazione. Ciò che ha reso famoso Simon in questo
campo è stata la rivoluzione da lui apportata al modo di concepire
le organizzazioni e il comportamento umano al loro interno (Bonazzi, 2000).
Innanzi tutto, secondo Simon, per studiare il comportamento umano nelle
organizzazioni, non bisogna partire dallidea stereotipa dellorganizzazione
come un organigramma composto da tante caselline disposte
secondo un astratto schema, e in cui sono minuziosamente descritti i ruoli
di ciascun dipendente. Le caselline, infatti, non dicono nulla riguardo
ai comportamenti reali dei soggetti. Il ruolo descritto non consente di
affermare che chi lo interpreta agisce in modo razionale, ma soltanto
che recita una parte che gli è stata assegnata. È perciò
necessario capovolgere lottica e non partire dallorganizzazione
considerata come una struttura che prescrive dei ruoli, ma piuttosto dagli
uomini che agiscono allinterno di essa e che vanno considerati come
dei soggetti che prendono continuamente delle decisioni. Studiare il comportamento
umano allinterno di unimpresa significa, allora, vedere lorganizzazione
come un paradigma che fornisce ad ogni appartenente al gruppo buona parte
dellinformazione, delle premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti
che influenzano le sue decisioni. Lorganizzazione è un luogo
sociale in cui gli uomini decidono secondo una certa programmazione e
un certo coordinamento.
Un secondo punto della rivoluzione teorica stimolata da Simon è
il non considerare luomo come un soggetto perfettamente razionale,
come invece fa solitamente leconomia classica. Assumere questultimo
postulato significherebbe ritenere, secondo lautore, che luomo
decide sempre in base a criteri di ottimizzazione dei risultati da conseguire;
Simon afferma che luomo dispone, al contrario, di una razionalità
limitata. I limiti oggettivi della conoscenza, limpossibilità
di anticipare con precisione tutte le conseguenze delle proprie azioni,
la disposizione mentale e i convincimenti dovuti alla formazione culturale,
nonché i vari condizionamenti sociali, fanno sì che nella
maggioranza dei casi le decisioni vengano prese non secondo lastratto
criterio dellefficienza, ma secondo criteri più concreti
di soddisfazione.
Simon, contraddicendo le assunzioni della teoria economica relative alla
massimizzazione del profitto degli individui, giunge alla conclusione
che gli uomini e le organizzazioni sono destinati a perseguire una razionalità
limitata e a ricercare delle decisioni che risultino buone abbastanza,
basate sulle regole del buon senso e su una ricerca limitata di informazioni
(Morgan, 1997).
Infine, una terza novità apportata dagli studi di Simon sulle organizzazioni
consiste nel riprendere il modello, proposto tempo prima da Barnard (1938),
dellequilibrio tra incentivi e contributi, come principio generale
di funzionamento di unorganizzazione. Questo equilibrio appare come
la risultante nel tempo di una complessa serie di decisioni, tutte limitatamente
razionali. Esse riguardano, da un lato, il flusso delle attività
interne alle organizzazioni e le procedure che regolano quei flussi, e
dallaltro, le scelte che gli individui compiono in rapporto allorganizzazione
( Bonazzi, 2000).
Lapproccio
funzionalista di Philip Selznick
Philip Selznick,
studente di burocrazia con Merton alla Columbia University, ma discendente
sul piano intellettuale da Michels, ha sviluppato tra gli anni 50
e 60 un lavoro in seguito applicato ed esteso da molti suoi allievi,
tra cui Burton Clark, Charles Perrow e Mayer Zald.
Secondo Selznick, le organizzazioni, pur essendo strumenti razionali predisposti
a raggiungere determinati fini formali, tendono inevitabilmente a sviluppare,
come sistemi sociali adattivi, una propria vita naturale.
Egli, cioè, concorda con Robert Merton sul fatto che il tratto
caratteristico delle organizzazioni formali è che esse siano strumenti
razionalmente ordinati e progettati per raggiungere obiettivi. Tuttavia,
queste strutture formali non potranno mai, secondo Selznick, riuscire
a dominare le dimensioni non razionali del comportamento organizzativo.
Le fonti di queste dimensioni non razionali sono innanzi tutto gli individui
che partecipano allorganizzazione, e, in secondo luogo, il fatto
che la struttura formale è soltanto un aspetto della struttura
organizzativa concreta, che deve adattarsi in vari modi alle pressioni
del proprio ambiente istituzionale (Scott, 1994).
Selznick interpreta la struttura organizzativa come un organismo in continuo
adattamento, la cui forma reagisce alle caratteristiche ed al coinvolgimento
dei membri che la compongono, oltre che alle influenze dellambiente
esterno.
Selznick recepisce il messaggio pessimistico di Michels, convinto che
in ogni organo di una collettività nato da una divisione del lavoro
sorgano interesse propri, e inserisce questa tesi in un approccio funzionalistico
rivolto alle conseguenze che derivano dal funzionamento delle organizzazioni
burocratiche.
Esaminare i processi degenerativi provocati dalla tirannia dei mezzi sui
fini dellorganizzazione diventa così il tema centrale dellopera
di Selznick. Lautore sostiene che il progressivo scostamento dai
fini originari, provocato dalla tirannia dei mezzi, sia una tendenza universale,
e solo in parte contrastabile. Le origini del processo degenerativo, esaminato
per la prima volta da Michels, secondo Selznick vanno ricercate principalmente
nei costi di adattamento al contesto esterno, che lorganizzazione
paga per garantire la propria sopravvivenza.
Per Selznick, quindi, il contesto esterno non è soltanto lo sfondo
su cui lorganizzazione agisce, ma linsieme dei centri di potere
che operano per condizionare strategie e fini dellorganizzazione.
Si aprono così problemi qualitativamente nuovi, che riguardano
il significato della funzione che lorganizzazione svolge nel contesto
e lideologia a cui ricorre per autoleggittimarsi nei suoi progressivi
adattamenti.
Selznick designa il processo attraverso cui ogni organizzazione sviluppa
un suo particolare carattere come istituzionalizzazione, durante la quale
lorganizzazione si infonde di valore al di là
delle esigenze tecniche del compito immediato. In questo processo un ruolo
cruciale può essere svolto dalla leadership, che deve definire
in modo preciso la missione dellimpresa, selezionare la base sociale,
il personale centrale e determinare la natura e i tempi di formalizzazione
delle strutture e delle procedure (Bonazzi, 2000).
In sostanza il modello istituzionale di Selznick cerca di spiegare i mutamenti
degli obiettivi dellorganizzazione, ma non di quelli ufficiali,
bensì di quelli effettivamente perseguiti, ossia degli obiettivi
operativi (Scott, 1994).
Questo breve
percorso teorico testimonia una lenta, ma progressiva, maturazione delle
riflessioni organizzative, che interpretano sempre più le imprese
come delle collettività in cui le strutture comportamentali vengono
intese allo stesso livello dimportanza di quelle normative formali.
Dallanalisi sociologica delle realtà organizzative del lavoro
emerge, come dato essenziale, la necessità, per lazienda,
di acquisire consenso, e di gestirlo in modo attivo e strategico, per
poter coordinare il processo produttivo e al contempo introdurre innovazioni.
In particolare, si rileva come risulti più importante della contrattazione
monetaria del consenso, quella culturale, attraverso la quale è
possibile accedere a tutta una serie di spazi, di controllo e di progettazione
dellorganizzazione del lavoro, che vanno ben oltre le discussioni
sullorario o sul salario.
Dalle
Risorse Umane ad una conoscenza diffusa nellimpresa
Da quanto
esposto, finora si evince che nella storia del pensiero sociologico
sulle organizzazioni è sempre esistita una netta contrapposizione
tra gli autori che hanno dato maggiore attenzione agli aspetti razionali
dellimpresa e coloro che, al contrario, hanno valutato in prevalenza
i fattori socio-culturali che caratterizzano lidentità organizzativa.
Tuttavia, ripercorrendo il corso delle principali prospettive di analisi,
si è potuto notare una crescente tendenza, da parte degli studiosi,
a prestare maggiore attenzione agli aspetti umani e culturali che costituiscono
il nucleo organizzativo.
La tematica della risorsa umana come capitale intellettuale e culturale
dellorganizzazione è, quindi, ormai particolarmente attuale
e diffusa. Si enfatizza sempre di più una piena valorizzazione
dellindividuo, in quanto soggetto delle attività professionali,
cui conferisce valore e significato grazie alla propria azione e alle
proprie caratteristiche. Luomo, portatore di un mondo di valori
ed esperienze in grado di arricchire la cultura aziendale, è considerato
una risorsa influente per lo sviluppo organizzativo. È perciò
maggiormente sentita, al giorno doggi, lesigenza di avere,
allinterno delle imprese, persone che siano in possesso non soltanto
di unalta specializzazione, ma anche di una competenza sociale.
Nello specifico, risulta necessaria la capacità del singolo di
inserirsi in unorganizzazione dialogica, in cui sia in grado di
collaborare con i propri colleghi, scambiando con loro informazioni e
conoscenze, ed aumentando in tal modo non solo la ricchezza dei propri
saperi, ma anche il know how complessivo dellorganizzazione.
Ma unorganizzazione apprende non solo quando acquisisce conoscenze,
ma anche, anzi soprattutto, quando produce nuovi schemi mentali. Lapprendimento
quindi non è la semplice somma degli apprendimenti individuali,
bensì la capacità di trasformarli in cultura organizzativa.
Per raggiungere questo scopo, le organizzazioni tendono allora ad abbattere
le barriere nelle proprie strutture, favorendo la diffusione di conoscenza
ad opera dei knowledge worker, e aiutandoli ad interpretare il proprio
ruolo allinterno dellorganizzazione non più come un
territorio da proteggere, ma piuttosto come un insieme di risorse disponibile
per gli altri e per lazienda.
Limpresa viene così ad impegnarsi sempre più nellopera
di abbattimento di barriere:
· al proprio interno, al fine di produrre unimmediata messa
in circolo di conoscenze, competenze, soluzioni innovative maturate nei
gruppi;
· allesterno, nei confronti della rete di clienti e fornitori
al fine di migliorare la qualità del prodotto e dellorganizzazione
in quanto tali;
· nei confronti degli ambiti di istruzione e formazione, al fine
di collaborare alla produzione di un sapere convergente con le proprie
esigenze, e al contempo ricercando in essi capacità e competenze
utili a sviluppare unanalisi di sé in quanto ambito formativo
(Bocca, 1998).
Diviene essenziale, dunque, mantenere elevata la disponibilità
alla collaborazione pur in presenza di situazioni fluide, in grado di
produrre riposizionamenti dei livelli professionali e delle rendite di
ciascuno allinterno del sistema. Si articolano così processi
di sviluppo delle conoscenze e delle competenze, frutto di strategie coerenti
che creano un sistema in cui il lavoratore gestisce unattività
di formazione verso i compagni, acquisisce competenze per sé e
partecipa in modo attivo alle attività lavorative.
Ma risulta necessario anche sviluppare una leadership in grado di costruire
rapporti basati sulla fiducia reciproca e sul dialogo. Una leadership
innovativa che sappia accettare, nel sistema aziendale, anche le componenti
emotive, che mobiliti le migliori energie delle risorse umane e che incoraggi
i collaboratori ad agire e pensare in modo non standardizzato, ma originale
e diverso.
In effetti, trovandoci nellera post-capitalista in cui i fattori
fondamentali non sono più il capitale e la forza-lavoro fisica,
bensì la conoscenza e la cultura, oggi nelle imprese le risorse
umane non possono più essere concepite come dei meri esecutori
di compiti pratici, ma piuttosto come operatori di conoscenza e sapere.
Il valore dellazienda sarà, dunque, determinato dalla capacità
organizzativa di trasformare le singole informazioni in un apprendimento
collettivo, che garantisca una crescita culturale per tutta limpresa.
Infatti, si ritiene che le organizzazioni debbano oggi fare maggiore attenzione
allimportanza che le informazioni stanno assumendo. Le organizzazioni
elaborano continuamente delle informazioni e su di esse realizzano processi
di comunicazione e sistemi decisionali. Inoltre la conoscenza applicata
alla conoscenza diviene uno dei principali fattori produttivi, dal
momento che la capacità di apprendimento continua è la nuova
condizione di sviluppo per ogni organizzazione.
Stiamo evolvendo verso una società della conoscenza, una società
di valori intangibili. Conoscenza significa dare un senso e un valore
alle informazioni, e le informazioni sono ormai la più grande risorsa
che viene scambiata sul pianeta.
Le organizzazioni risultano essere dei sistemi complessi: esse sono contemporaneamente
sistemi informativi, sistemi di comunicazione ed infine sistemi decisionali.
Qualunque aspetto del funzionamento di unorganizzazione dipende
da un qualche tipo di trattamento dellinformazione; i processi decisionali
dipendono dallelaborazione di informazioni secondo standard reperibili
in norme aziendali ben precise.
In questo mondo in cui la rapidità del cambiamento e le trasformazioni
stanno diventando una costante, le organizzazioni si trovano di fronte
a nuove sfide. Oltre a dover pianificare ed eseguire compiti in maniera
razionale, le organizzazioni devono far fronte alla sfida rappresentata
dalla necessità di un apprendimento continuo e dalla necessità
di imparare ad apprendere.
Originariamente concepita come un tentativo di creare delle learning organizations
, lidea di sviluppare le capacità individuali ed organizzative
ad apprendere è ormai considerata come un perno fondamentale sia
nella progettazione sia nella gestione dimpresa (Morgan, 1997).
Per unorganizzazione
antropocentrica
Si colloca
così, nei termini di una concezione antropologica del lavoro, la
questione delluomo come capitale essenziale per limpresa;
un uomo inteso nella sua totalità, in quanto portatore di un proprio
mondo e, in esso, di un particolare percorso di autoeducazione, la cui
piena valorizzazione allinterno dellimpresa è la condizione
per una sua forte disponibilità dimpegno nella produzione
e nellorganizzazione dellimpresa stessa. È la persona
il vero detentore del patrimonio aziendale, dal momento che lo sviluppo
dellorganizzazione è legato alla crescita individuale di
ognuno dei suoi membri.
Il ruolo del management sarà allora quello di favorire lo sviluppo
dellimmaginazione e della creatività dei partecipanti dellorganizzazione.
Si tratta di passare dal controllo delle persone e del loro operato, ad
una gestione del contesto capace di favorire la maturazione di idee ed
acquisizioni di sapere sempre nuove (DEgidio, 1998).
Ad un modello meccanico della struttura interpretativa dei sistemi sociali
che agiscono nellorganizzazione, si sovrappone, dunque, un modello
organico, in grado di allargare la definizione di comportamento umano
rilevante per lorganizzazione, per includervi sempre più
numerosi
aspetti degli atteggiamenti e delle attività dei singoli. Così
le organizzazioni sono intese non solo come strumenti predisposti al raggiungimento
di determinati obiettivi, ma anche come sistemi sociali, i cui membri
si fanno portatori di un mondo di conoscenze e di valori personale ed
irripetibile.
La struttura sociale di questa collettività è composta,
nello specifico, da due sotto-strutture: quella normativa, composta da
valori, norme e aspettative di ruolo; e quella comportamentale, costituita
dai comportamenti effettivi, in parte limitati dalla struttura normativa.
Tutti i gruppi sociali, che costituiscono le organizzazioni, si caratterizzano
per una serie di norme applicabile ai partecipanti e per un modello comportamentale
che li lega in una comune rete di attività, interazioni e sentimenti
( Scott, 1994). Ed è proprio in questo contesto che emerge il peculiare
apporto di ogni individuo allorganizzazione: apporto che non viene
confuso con quello degli altri membri dellimpresa, ma che distingue
e caratterizza ognuno rispetto a tutti gli altri.
La questione fondamentale che emerge consiste, quindi, nel chiedersi se
la crisi della prospettiva della razionalità nei confronti del
mercato del lavoro, emersa col costituirsi delle organizzazioni produttive
moderne, costituisca un vero superamento dei limiti del razionalismo antropologico.
Ci si deve domandare se si sarà in grado di favorire lo sviluppo
di nuove modalità con cui concepire lumanità del lavoratore,
alla luce della sua indispensabilità, in quanto capitale
umano su cui poter contare, cioè come risorsa collaborativa
adatta alle organizzazioni che vogliano stare in un mercato turbolento
ed irrazionale ( Bocca, 1998).
Oggi le organizzazioni complesse che vengono definite antropocentriche
sono quelle che dimostrano di essere capaci di una piena valorizzazione
del proprio capitale umano. Ogni tipo di organizzazione presenta una combinazione
particolare di esigenze e di risorse: economiche, tecniche e sociali.
Si ha bisogno di una base tecnologica sempre disponibile; la manodopera
deve essere addestrata e mobile; ci deve essere la disponibilità
a rischiare un capitale; le norme culturali presenti nella società
devono sostenere limpresa. Di tutte le risorse necessarie ad unorganizzazione,
la più importante consiste, però, nei contributi dei suoi
componenti umani. Non solo questi contributi sono essi stessi di uninfinita
varietà; essi sono anche i soli mezzi attraverso cui tutti gli
altri contributi vengono acquisiti.
Barnard, già negli anni 30, fu tra i primi a sottolineare
limportanza, per lorganizzazione, di offrire delle motivazioni
ai partecipanti, in modo che continuino a fornire apporti, di tempo, risorse
e sforzi, allorganizzazione. Simon, riprendendo gli argomenti di
Barnard, ha elaborato poi la teoria dellequilibrio organizzativo,
affermando che lequilibrio dipende dalla decisione di ogni individuo
di continuare ad essere membro attivo di unorganizzazione.
Le organizzazioni moderne sembrano allora interpretare sempre più
luomo come soggetto del proprio lavoro, capace di apportare quellindispensabile
incremento di valore che procede unicamente dal suo impegno personale,
non certo dalla sola attività manuale né da un impegno puramente
cognitivo.
Se lorganizzazione non riuscisse ad interiorizzare la convinzione
che la risorsa intellettuale, valoriale ed esistenziale, portata dallindividuo
al proprio interno, è lunica in grado di dare un senso allattività
lavorativa, si rischierebbe di cadere nuovamente in una concezione meccanicistica
del lavoro, che porta cioè ad una considerazione delluomo
come oggetto del lavoro stesso, al pari della merce, della materia prima
e delle macchine che contribuiscono alla produzione. In caso contrario
luomo sarà inteso come lunico capitale in grado di
significare a livello valoriale lattività professionale.
In effetti, cadere in una logica economicista potrebbe risultare rischioso,
poiché si potrebbe intendere la vita del lavoratore come unesistenza
confusa fra le tante altre, come una vita vissuta da ogni dipendente in
modo impersonale. Ciò significherebbe far vivere lattività
lavorativa senza averle assegnato un senso compiuto, senza creare un sistema
di valori che la rendano significativa (Heidegger, 1990).
1.4 Verso lapproccio culturale
Per comprendere secondo quali modalità il paradigma razionalista
sia stato messo in discussione, si può anche analizzare la struttura
della comunità scientifica degli studiosi di organizzazione e le
trasformazioni che ha subito ( Gagliardi , 1995).
Questa comunità si presenta con una estrema eterogeneità,
e comprende innanzi tutto gli studiosi accademici, che operano allinterno
delle università tradizionali. Questi studiosi sono tendenzialmente
più interessati alla costruzione di teorie, che alla loro applicazione
alla soluzione di problemi pratici; essi godono del prestigio più
elevato e quindi dispongono più di altri gruppi di risorse simboliche.
Tale gruppo è, al suo interno, molto eterogeneo: considerata la
struttura disciplinare dellorganizzazione del sapere accademico,
la conoscenza prodotta tende a riflettere i paradigmi delle singole discipline
nelle quali gli studiosi di organizzazione sono stati prevalentemente
educati.
Il secondo gruppo di studiosi delle organizzazioni, che quindi fanno parte
di questa comunità scientifica, è rappresentato dai consulenti
di organizzazione e dagli operatori organizzativi delle aziende. Il loro
interesse applicativo è molto elevato, modeste le ambizioni e le
attese teoriche, anche se non sono mancati casi di contributi intellettuali
che hanno profondamente influenzato gli studiosi degli altri due gruppi,
di cui lesempio più illustre è lopera di Barnard.
Un terzo gruppo, infine, che fa parte della comunità scientifica
e che si colloca in posizione mediana tra i due sottosistemi precedenti,
è quello degli studiosi di organizzazione che operano nelle business
school. In questo gruppo, la dipendenza più dalle imprese che dallo
Stato (per il supporto finanziario) e la necessità di conservare
credibilità per gli allievi generano un più spiccato interesse
verso lo sviluppo di conoscenze finalizzate professionalmente, che migliorino
cioè le capacità diagnostiche e prognostiche di docenti
e allievi. Lo studioso della scuola di management è interessato
talora in eguale misura alla ricerca di base ed applicata, ma soprattutto
è meno vincolato ad assumere come riferimento esclusivo una specifica
disciplina. La sua ottica è incentrata sul problema e sulla costruzione
di modelli che consentano di interpretarlo e dominarlo.
Il sottosistema delle business school, che a lungo è stato vicino
per valori e credenze più al mondo della pratica che allaccademia,
da cui peraltro traeva idee e teorie, ha acquistato negli ultimi quindici
anni un grande prestigio, sviluppando attività proprie di ricerca,
che coincidono con la istituzione di programmi di dottorato nelle scienze
del management. Queste caratteristiche del gruppo e le sue recenti trasformazioni
possono in parte spiegare perché alla critica del pensiero razionalista
e riduzionista e allo sviluppo dellapproccio culturale partecipino
in misura così rilevante gli studiosi che operano nelle scuole
di management.
Nello specifico, si può affermare che dagli anni 80, mentre
la nascita dellapproccio culturale alle organizzazioni in Europa
avviene allinterno della comunità scientifica, negli Stati
Uniti, dove il rapporto tra ricerca e industria è sempre stato
più stretto che in Europa, la domanda di nuovi modelli interpretativi
della realtà organizzativa è originata soprattutto come
bisogno di spiegare la crisi del primato economico americano a livello
internazionale, nonché come ricerca di nuove teorie per cercare
di spiegare levidente superiorità delle imprese giapponesi.
In sostanza, si può ritenere che la caduta del tradizionale paradigma
di interpretazione delle organizzazioni, e la concomitante attenzione
al nuovo paradigma culturale, sia avvenuta in tutto il mondo industriale
occidentale, nel momento in cui le imprese hanno preso coscienza della
propria identità culturale, e proprio quando questa era stata messa
in crisi.
La globalizzazione dei mercati, la formazione dei nuovi oligopoli, lo
straordinario sviluppo delle tecnologie modificano i confini tradizionali
dei territori dazione delle imprese. Se lorigine, la competenza
e lhabitat sono fattori costitutivi dellidentità e
rappresentano il nucleo attorno al quale ogni impresa sviluppa il proprio
sistema di certezza, le strategie di sopravvivenza di molte aziende richiedono
oggi la capacità di mettere in discussione non soltanto i processi
operativi, le strategie e le strutture, quanto piuttosto gli assunti di
base incorporati nelle proprie tradizioni.
In sostanza, a parte le motivazioni strettamente economiche poco sopra
descritte, alcune delle tendenze più generali che possono aver
favorito il successo della metafora culturale sono:
· la reazione alla crescente tecnocratizzazione della vita sociale
e il rifiuto dellidea che la vita moderna debba essere necessariamente
dominata da una cultura secolare, razionale e fattuale;
· la tendenza a concepire il successo non soltanto in termini materiali,
ma anche come qualità della vita;
· la diffusa coscienza che la complessità della vita sociale
e organizzativa è dominabile solo attraverso rappresentazioni simboliche
semplici;
· la crisi della fiducia incondizionata verso il progresso tecnico,
e il desiderio di riscoprire le tradizioni e la storia.
Questa nuova visione delle organizzazioni, nella prospettiva dellidentità
culturale di cui si fanno portatrici, ritiene che le capacità simboliche
delluomo si rafforzano ed esprimono nel dominio della complessità
implicata dalle organizzazioni formali, attraverso la negoziazione di
codici intersoggettivi di interpretazione della realtà.
Questo filone di studi interpreta la cultura come la chiave unitaria di
attribuzione di senso sia agli aspetti informali che formali dellorganizzazione
reale. La cultura non va considerata, dunque, come un fattore di contingenza,
cioè come qualcosa che lorganizzazione ha, ma piuttosto come
qualcosa che lorganizzazione è (Gagliardi, 1995: 17).
Conclusione
Il nuovo
modello organizzativo che sta prendendo forma nellambito delle organizzazioni
imprenditoriali tende ad interpretare la propria struttura come un reticolo
di persone motivate, dotate di forte autonomia operativa, coinvolte nel
processo decisionale. Limpresa può dunque essere definita
come una rete di individui, considerati come le risorse prioritarie e
fondamentali dellorganizzazione in quanto capaci di accrescerne
la competitività nel mercato del lavoro.
Limpresa, organizzazione sociale con la necessità di valorizzare
al meglio le potenzialità e le capacità delle proprie risorse
umane e di indirizzarle verso il compimento degli obiettivi aziendali,
si vede allora costretta ad acquisire una certa valenza culturale da cui
far discendere, in seguito, una serie di aspetti etici capaci di far identificare
ogni membro dellimpresa negli elementi costitutivi dellidentità
culturale dellorganizzazione.
In questa prospettiva, nei prossimi capitoli si affronterà, dunque,
la tematica della cultura dimpresa sia come corporate culture, capace
di raccontare la storia dellimpresa ai propri membri, sia dal punto
di vista della sua evoluzione in cultura strategica, in grado cioè
di dirigersi non solo verso tutti i partecipanti allevento aziendale
(in modo da costituire una base uniforme di comportamento), ma anche verso
il contesto ambientale esterno, per sollecitare un accreditamento dellorganizzazione
stessa.
Sarà in seguito interessante notare se e secondo quali modalità
questo fenomeno di accreditamento avvenga nellambito di un più
ampio ambiente di appartenenza, come quello globale.