RICORDI STORICI

Studiamo la storia

di Giovanni Bettollini

PREMESSA

 “ Carissimo Delio,

mi sento un po' stanco e non posso scriverti molto.

Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola.

Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così ?

Ti abbraccio

                                       Antonio Gramsci

 

 CHI FA LA STORIA.

     La storia è sempre stata raccontata e scritta dai vincitori, da coloro, cioè , che sono riusciti ad imporre la loro egemonia,la loro concezione del mondo, la loro morale, il loro costume e che, pertanto, ci hanno prospettato gli eventi storici dal loro punto di vista, ammantato di una presunta “oggettività ed imparzialità“.

    Nelle società evolute il potere della classe dominante si affida sempre meno alla violenza ed alla coercizione e sempre più alla influenza culturale, pedagogica, psicologica delle tecniche di comunicazione di massa, ad una complessa rete di formazione. di orientamento e perfino di manipolazione della pubblica opinione, soprattutto oggi, con l’avvento della società mediatica.

    Normalmente la società vive su un fondamentale “comune sentire”, che è la concezione del mondo della classe dominante, alla quale si conformano i gusti artistici, la cultura, l’etica, le abitudini, i costumi, le usanze, il folclore, cioè tutta la vita spirituale della società. Così, negli Stati Uniti, l’etica dei ceti dominanti si è “popolarizzata” al massimo diventando il sistema di vita (“Way of life”) della grande maggioranza degli americani, intellettuali, tecnici, operai, agricoltori, una sorta di “pensiero unico“ che tende a diffondersi, come modello da imitare, in tutto il mondo industrializzato.

    Il “principio” della classe dominante è stato “popolarizzato”, cioè è stato diffuso e ridotto a “senso comune”, fatto proprio dai ceti subalterni mediante un processo di assimilazione - interiorizzazione e addirittura di imitazione di comportamenti (ricordo l’autobiografia di Malcom X, in cui questo combattente contro la discriminazione razziale nei confronti dei neri raccontava come, nella propria adolescenza, si facesse stirare i crespi capelli per omologarsi ai bianchi ed essere da loro accettato).

    “Una grande esitazione nell’esprimere le proprie opinioni perché persuaso che la sua opinione valga poco, perché abituato a pensare che la sua funzione nella vita non è quella di produrre idee, di avere opinioni, ma invece quella di seguire le idee degli altri, di eseguire le altrui direttive”. Questa, secondo Gramsci, al tempo della prima guerra mondiale la condizione di sudditanza psicologica delle classi subalterne, in virtù della quale si volle far credere che bisognava combattere per la Patria di tutti nell’interesse comune.

    In questo processo, determinante è stato il ruolo svolto dagli intellettuali.

    “Il gruppo dominante si serve degli intellettuali, oltre che per suscitare attorno a sé l’adesione, anche per plasmare ideologicamente e moralmente le masse alla propria visione del mondo. La ”società civile”, questa rete fittissima di istituti che vanno dalla scuola, alla Chiesa, ai sindacati, ai partiti, non potrebbe funzionare senza la partecipazione di masse imponenti di intellettuali.

    Prima di giungere alla trasformazione degli ordinamenti che li opprimevano, le vittime hanno creduto nel “principio” della classe dominante: lo schiavo, il servo, il proletario sono stati (quanti proletari lo sono ancora?) acquiescenti al loro sfruttamento e non sempre per paura, ma più spesso per convinzione o ignoranza. Basta pensare a quante guerre i più umili hanno combattuto con entusiasmo per i padroni che li sfruttavano e per fini che non li riguardavano! ( Antonio Gramsci)”.

     In altri termini, si può ritenere che ancora oggi i ceti dominanti mirino alla affermazione di un’etica che individui nella “propria” ragione, la ragione “tout-court”; nel “proprio” interesse l’interesse di tutti, quello generale; nel proprio pensiero, quello unico.

    Così da poter contrabbandare perfino una guerra di aggressione, cioè il massimo della violenza e del cinismo, per un atto compiuto nell’interesse di tutti, addirittura ispirato da “nobili ragioni umanitarie“.

    Questa opera di penetrazione di massa del pensiero dei “vincitori“ è avvenuta con tutti i possibili mezzi di comunicazione, fino a manifestarsi attraverso forme subdole di manipolazione delle coscienze. Chi di noi non ricorda gli appassionanti film western in cui, sullo sfondo della guerra di secessione negli Stati Uniti, i nordisti erano rappresentati come coloro che combattevano per la nobile causa della abolizione della schiavitù, difesa, invece, dai sudisti - secessionisti? In tal modo quella che, per i tempi di allora, fu una drammatica guerra civile ci venne, invece, rappresentata come una “guerra santa“ dei democratici contro i razzisti: e noi eravamo fatalmente indotti a stare da una sola parte, dalla parte di chi voleva l’abolizione della schiavitù.

    In effetti, alla radice della guerra non c’era affatto una discriminante razzista, non c’erano affatto nobili ideali di emancipazione degli schiavi ma precisi interessi economici tra loro in conflitto: per i ricchi Stati del nord, in fase di avanzata industrializzazione, bisognosi di una grande mobilità nei più svariati settori produttivi e nella dislocazione della forza lavoro - che si voleva libera di potersi spostare dove le esigenze del mercato lo richiedessero - non era più tollerabile una economia preindustriale, come quella sudista, basata su di un unico settore produttivo - la coltura del cotone – con una manodopera legata, come un’appendice, per vincolo di schiavitù, al territorio della piantagione.

    Verosimilmente, del nobile principio della liberazione degli schiavi non importava gran che a nessuno dei contendenti: il discorso sulla schiavitù era un alibi per nascondere ben altri motivi di contrasto tra due diversi modelli di sviluppo della economia. Ci vorrà ancora un secolo di lotte e di grandi movimenti di emancipazione perché il processo di integrazione e di pari dignità dei cittadini di colore possa fare decisivi passi in avanti, perché anch’essi possano uscire dal ghetto della emarginazione ed essere riconosciuti, almeno sulla carta, cittadini al pari degli altri.

    Come pure, chi ha dimenticato quegli “appassionanti” film western in cui l’esercito americano finiva sempre, magari all’ultimo momento (chi non ricorda la carica travolgente e liberatrice del “mitico“ 7° Michigan?) per sconfiggere i feroci indiani, dipinti come selvaggi incendiari, assassini e stupratori di vittime innocenti? In realtà fu una vera e propria operazione che oggi diremmo di “pulizia etnica“ per massacrare popoli pacifici ed inermi e depredarli delle loro terre, spogliarli della loro civiltà, della loro identità e memoria storica, per distruggere quell’armonioso ed amorevole rapporto da essi costruito con il mondo della natura, rispettata come fonte di vita ed immagine quasi di divinità cui ispirarsi anche nei comportamenti di vita sociale, tutti improntati a grande lealtà, schiettezza,non violenza e solidarietà.

 

L’ALTRA STORIA.  

 

    Ma accanto alla storia raccontata e scritta dai vincitori c’è un’altra Storia, la storia che dovremmo sforzarci di vedere e leggere dalla parte dei “perdenti“, la storia di cui sono stati attori gli “uomini in carne ed ossa”, cioè gente semplice, modesta, autentica, un po’ quella che il Vangelo definisce ”i piccoli”, cioè tutti coloro che, secondo le gerarchie sociali disegnate dai poteri forti, non contano nulla (“o rest’e niente”, direbbero a Napoli ), sono proprio gli ultimi. E, tuttavia, sono proprio questi “piccoli” i destinatari privilegiati del messaggio di amore e di tenerezza contenuto nel Vangelo, “della grande speranza di salvezza tenuta, invece, nascosta, ai sapienti ed agli intelligenti”( Mt.11,25-27), cioè a tutto quel ceto di intellettuali che, arroccati nel circuito della loro egemonia culturale, hanno fatto di essa uno strumento di potere e di sopraffazione.

    Partendo da tanti piccoli fatti della vita quotidiana, dalle vicende di tante persone vissute nell’anonimato, nella semplicità, spesso soverchiate da avvenimenti più grandi di loro; da tante “storie” di affettività negata, di diritti mai riconosciuti, è possibile ricostruire altrettanti segmenti di un’altra storia, di un’altra verità; è possibile vedere praticati e realizzati valori quali la solidarietà, l’autenticità dei sentimenti, il rispetto per la dignità della propria e della altrui persona, la serietà e l’impegno nel proprio lavoro, la correttezza ed il rispetto nei confronti degli altri, l’amore per la giustizia e per la libertà, valori che, nel “perbenismo” di gran parte di noi, pur condivisi a parole rimangono spesso solo astratte enunciazioni di principio, al più confinate nel limbo dei buoni propositi, schermo dietro il quale nascondere la nostra sostanziale ignavia.

    Questa storia non è fatta, come quella ufficiale, di date più o meno famose ; non si alimenta tanto di avvenimenti eclatanti e fragorosi, individuabili attraverso precisi riferimenti temporali, bensì di una continuità di comportamenti che finiscono per essere caratterizzanti della persona, per rappresentare e connotare lo svolgimento dei compiti che la vita ci affida quotidianamente in quanto esseri umani appartenenti ad una determinata comunità: insomma ciò che ciascuno di noi ha fatto e ,specialmente, ciò che non ha fatto.

    “La storia siamo noi”, come recita una celebre canzone di Francesco De Gregori: tutti coloro che, senza clamori di notorietà, senza costruirsi immagini artefatte, nella discrezione dell’anonimato, in spirito di disinteresse e di gratuità  hanno lottato per strappare la vita di tutti i giorni, per “migliorare sé stessi e gli altri”, spesso soggiacendo ad ingiustizie secolari e tuttavia, contribuendo anch’essi a far andare avanti il corso degli eventi nella direzione di un mondo diverso e migliore, di una vita più bella e più ricca, più degna di essere vissuta.

    Di costoro la storia ufficiale non tiene conto perché deve continuare a dispensarci la “sua” verità, quella che fa notizia e, soprattutto, opinione irreggimentata, potere di comando sociale.

    Per scoprire questa “altra“ verità occorre, dunque, una umile, paziente ed appassionata opera di ricerca, di collocazione dei fatti e degli eventi, anche i più modesti, nel loro contesto sociale e nelle loro interconnessioni: in altre parole, quella continua ed incessante ricerca della verità in cui può riassumersi il senso stesso della vita (“fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtude e canoscenza“).

 

PERCHE’  QUESTE  RIFLESSIONI.

 

    Lo spunto per queste riflessioni mi è venuto  dall’annuncio della uscita di un libro  “scritto” dalla canzonettista  Romina Power, una biografia - businnes del padre Tyrone,  attore mediocre, inautentico  anche nel nome “d’arte” ( power ‘ potenza, allusivo di chissà quale virilità) secondo i classici schemi  dei divi hollywoodiani ,  interprete  soprattutto di film di basso profilo commerciale .

    Storia, suppongo,  tutta romanzata, tipo telenovela,  priva di qualsiasi autentica ispirazione e mossa solo dall’intento di realizzare un buon incasso, secondo un andazzo ormai diffuso per cui tutto, anche i rapporti affettivi, anziché custoditi in amorevole riservatezza vengono mercificati e collocati sul mercato del prodotto globale.

    Rispetto a questa iniziativa, del tutto strumentale a fronte dei sentimenti che dovrebbero alimentare una autentica memoria del rapporto genitori-figli, ho avvertito un grosso fastidio, una sorta di bisogno di contrapposizione, la esigenza, quale figlio, di fare vera memoria partendo dalla esperienza autentica dei miei genitori, di capire la loro storia quale fu condizionata, sin dagli anni della loro nascita (primi del 1900), dal contesto storico e socio-economico della Italia e della loro terra di origine in particolare, la Toscana.

    Attraverso lo studio dello scenario generale, della cornice storico – politica dell’ epoca, ho cercato di pervenire alla ricostruzione della loro storia autentica, mi sono sforzato di capire il rapporto tra loro e con loro, di riviverlo senza mitizzarlo, di capire anche la mia storia, i miei errori, i condizionamenti positivi e negativi subiti, il mio carattere, i miei complessi.

    Il tutto partendo dalla mia passione per la storia in generale, come sforzo di comprensione dei fatti e degli eventi nella loro effettiva dinamica, come rivisitazione degli stessi per cercare di scoprire se per caso esistesse una verità storica “altra” rispetto a quella ufficiale letta sui libri di scuola e su molti altri testi di impostazione tradizionale: questo non per improvvisarmi storico, (fare storiografia è da  scienziato, occorre la possibilità e la capacità di consultare e studiare archivi e documenti), ma per una mia profonda esigenza, una sorta di “passione” per la ricerca della verità, un impegno che dovrebbe poi essere il sale della vita per ognuno di noi.

 

L’Italia fine 1800 - inizi 1900.

 

    Ho cercato, pertanto, di ripercorrere il quadro storico, politico, sociale ed economico in cui collocare l’inizio della storia della mia famiglia. Forse si potrà avvertire una sproporzione tra la “ grandiosità” di certi eventi (l’unità d’Italia, l’avvento del nuovo secolo, le guerre  mondiali)  e la modestia delle vicende relative alla mia vita familiare. Ma, secondo me, sono state proprio queste modeste vicende a stimolare e animare la mia navigazione in un mare indubbiamente vasto, ma con la bussola costantemente orientata in direzione della ricerca  dell’ “altra storia”.

    Con la presa di Roma nel 1870 e la fine del potere temporale dei Papi, era giunto a compimento il processo di formazione dello Stato unitario, così tenacemente perseguito dai “padri” del Risorgimento. Ricordo che, alla scuola elementare - eravamo nell’emergenza dell’immediato dopoguerra (1945) e non c’erano i singoli libri di testo per le varie materie- il “sussidiario”, un testo “omnibus” sommariamente comprensivo di tutte le materie, titolava la parte dedicata al Risorgimento: “L’Italia di cento anni fa”, per rappresentare in maniera particolarmente suggestiva a noi bambini il passaggio, attraverso successive annessioni plebiscitarie al Regno del Piemonte, dalla geografia di un’Italia suddivisa in tanti staterelli a quella di un’Italia che “s’è desta” ed è divenuta, finalmente, “Patria comune” di tutti gli italiani.


    Ma se a quei tempi era abbastanza comprensibile l’esigenza pedagogica di far pervenire a noi bambini, appena usciti da una esperienza terribile e distruttiva, quale quella della guerra, una immagine in qualche modo positiva ed edificante, appunto quella della unificazione nazionale all’insegna del tricolore e dell’amor patrio, della retorica patriottica, della epopea popolare e garibaldina per una Patria finalmente liberata dalla tirannia dello straniero: insomma l’immagine suggestiva di un Risorgimento tutto passione e slancio popolare, quasi agiografica (tutti eroi, Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele anche se, nell’intimo, talvolta addirittura ostili l’un l’altro); mi sarei, poi, una volta diventato adulto e desideroso di una conoscenza critica dei fatti, domandato: ma si era giunti, veramente, ad una Patria di tutti gli italiani in una grande comunione di intenti? C’era  stato veramente un  Risorgimento, cioè un “rialzarsi”, un “sorgere di nuovo”, una riscossa, un risveglio di tutti gli italiani a nuova vita, dopo secoli bui di divisioni e sottomissioni al dominio straniero? C’era veramente stato, alla base di tutto il periodo risorgimentale, un processo di unificazione non solo territoriale ma anche economico, sociale, culturale, di emancipazione e di crescita tale da investire tutto il popolo e, quindi, anche le classi fino ad allora tenute in condizione subalterna? oppure,  come mi sembrò di capire attraverso la mia ricerca, c’era stata, quale fattore decisivo  nel processo di unificazione, al di là dei conclamati ideali di fraternità, (“Fratelli d’Italia”), di unità e di indipendenza, una intollerabilità, per la borghesia, di quei vincoli doganali e burocratici esistenti fra i vari staterelli; l’esigenza , tutta pragmatica e niente affatto “eroica”, di una libera espansione del mercato interno, così da pervenire ad un mercato unico nell’ambito di un moderno Stato unitario, secondo una logica del tutto simile a quella che ha portato, ai tempi nostri, al processo di unificazione economico-monetaria dell’Europa?

    “Perché, dunque, in Francia il moto fu popolare e in Italia no ? La famosa minoranza italiana che condusse il moto unitario, al di là degli ideali di indipendenza e di libertà, in realtà si preoccupava  di interessi economici  più che di formule ideali e combatté più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell’unità” (Gramsci - Il Risorgimento).

    “Il Risorgimento si concluse con la formazione di uno Stato, non solo indipendente e unitario, ma anche di tipo moderno, modellato sull’esempio dei più progrediti Stati dell’Europa contemporanea. Soprattutto dal Risorgimento nacque uno Stato dominato dalla borghesia, ordinato e diretto in modo da favorire, entro certi limiti, in una certa forma ed in una certa direzione, lo sviluppo ulteriore della società borghese”.(Giorgio Candeloro, Storia dell’talia moderna ).

    Lo Stato unitario, dunque, nei suoi ordinamenti costituzionali, giuridici ed amministrativi, era sorto ed era andato poi configurandosi nel segno della difesa e del consolidamento degli interessi delle classi dominanti, cui faceva riscontro la sostanziale disattenzione verso le condizioni delle classi subalterne, rappresentate dai contadini e dal nascente movimento operaio, fino a giungere, nei momenti di maggiori tensioni sociali, alla repressione armata  dei primi moti dei lavoratori, organizzati nelle leghe contadine e nel Partito Socialista.

 

“IL FEROCE BAVA“.

 

        E' noto che certi racconti, certe storie apprese nella età della fanciullezza rimangono impresse con assoluta nitidezza nella nostra memoria e finiscono per caratterizzare la nostra personalità nella delicata fase dello sviluppo, improntandola anche per gli anni futuri.

    Io ricordo di avere ascoltato, a casa di un mio amichetto, incisa su di un vecchio disco del padre, un’antica canzone in cui una voce roca, quasi lamentosa, parlava del “feroce Bava”.

    Questo titolo alquanto strano ed insolito, con un che di sinistro e di inquietante, mi restò a lungo impresso nella memoria, finché non riuscii a saperne di più.

    Venni, così, ad apprendere, negli anni del Liceo, che il disco riproduceva un vecchio canto di protesta popolare nato a seguito dei moti che c’erano stati a Milano dal 6 al 10 maggio 1898 contro il costo della vita ed , in particolare, contro  il  caro pane, il cui prezzo era salito da 35 a 60 centesimi al chilo, pari alla paga di  tre ore di lavoro di un operaio (qualcosa di simile a quanto descritto dal Manzoni a proposito dei tumulti che portarono a Milano, nei periodi di carestia del 1628, all’assalto dei forni).

    Questa situazione di grave disagio sociale - che riguardava tutta l’Italia per le altissime percentuali di disoccupazione - era da ricondurre non solo ai cattivi raccolti che caratterizzarono quegli anni, ma anche alla esistenza di odiosi dazi doganali sul grano e sulle farine, veri e propri balzelli sui generi di prima necessità, che finivano per gravare soprattutto sui ceti popolari.

    Di fronte ad una moltitudine di gente - tra cui molte donne e ragazzi, del tutto disarmati- che protestava contro il caro pane, la reazione della polizia e dell’esercito divenne cieca e crudele, con  la proclamazione addirittura  dello stato d’assedio, decisa dal Governo nella convinzione di trovarsi di fronte ad un moto insurrezionale e sovversivo.

    “Sotto la guida del generale Fiorenzo Bava Beccaris, comandante il corpo d’armata di Milano, la repressione diede luogo ad episodi  tragici ed al tempo stesso grotteschi: basta ricordare il cannoneggiamento del convento dei cappuccini di via Monforte, presunto fortilizio dei ribelli, dove si trovavano soltanto alcuni frati inermi ed un certo numero di mendicanti  in attesa della distribuzione della minestra. La barbarie fu tutta dalla parte delle forze di repressione, come risulta dalle  cifre ufficiali delle vittime, certamente inferiori al vero: 80 morti - di cui solo due militari - e 450 feriti - di cui solo 22 fra i militari”(Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna).

    Il Re Umberto I ritenne  talmente “meritoria” la soluzione, attraverso le cannonate sulla popolazione inerme, di un conflitto sociale, da insignire il “feroce Bava” di una particolare onorificenza per i servigi resi alla monarchia ed alla civiltà, attribuendogli la croce di  grande ufficiale e nominandolo senatore del Regno.

     Questa ostentata  provocazione  verso il lutto della povera gente esasperò quella spirale di violenza già innescata dalla dura repressione dei moti del maggio, finendo per ritorcersi  contro lo stesso sovrano, ucciso a Monza nel 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci “per vendicare i morti di Milano”, in quella cittadina dove il Re, sobbarcandosi quello che per i tempi di allora era un faticoso viaggio da Roma, rinverdendo una tradizione di famiglia era solito incontrare, alla Villa reale, la sua amante Eugenia Litta.

    Nei libri di testo nacque sin da allora la oleografica immagine del “Re  buono”, vittima di una mano assassina. In realtà Umberto I fu tutt’altro che una vittima ed un “buon” re: intimamente reazionario, autore di veri e propri attentati allo Statuto, più volte tentò di imbavagliare il Parlamento e di insabbiare clamorosi scandali del ceto politico (“fu scialbo, mediocre, probabilmente coinvolto fino ai capelli nello scandalo della Banca Romana”, come afferma lo storico Sergio Romano); “responsabile, più di ogni altro, del declino e dell’anarchia del governo parlamentare in Italia”( In “I Savoia re d’Italia”, Denis Mack Smith).

    Questa storia di repressione e di inaudita  violenza contro povera gente scesa in piazza per rivendicare  pane e giustizia e presa addirittura a cannonate, quasi si trattasse di un esercito nemico, nella mia giovanile passione per la libertà e la giustizia provocò una tale indignazione che, da allora in poi, cominciai a sentirmi schierato sempre dalla parte “di tutti gli uomini  in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano sé stessi”.

    Nacque allora, in me, con la scoperta di una verità completamente diversa da quella dei libri di scuola tradizionali, quel bisogno di conoscere e capire la storia andando oltre la versione ufficiale, avendo come punto di riferimento per la mia ricerca la individuazione dei reali interessi che muovevano gli avvenimenti, anche tragici, come le guerre; dei riflessi che gli avvenimenti stessi  avevano sugli strati più deboli delle popolazioni; di chi, in ultima analisi, era chiamato a “pagare il conto”.

 

IL NUOVO SECOLO.

 

    Il 1800 si era chiuso all’insegna della repressione dei moti popolari da parte di una classe politica del tutto screditata e talvolta sommersa dagli scandali.

    Clamoroso fu il caso di Francesco Crispi, più volte Presidente del Consiglio, noto per le sue sciagurate tentazioni colonialistiche, forse meno noto nella veste di accusato di peculato, di appropriazione indebita di fondi destinati ad opere di carità e di aver razziato fondi pubblici raccolti a beneficio delle vittime del terremoto calabrese: una sorta di tangentopoli “ante litteram”, insabbiata grazie all’intervento delle “alte sfere”.

    Il 1900 si apre con due fatti che, per certi aspetti, rappresentano una inversione di tendenza rispetto al secolo appena trascorso: l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III  e l’avvento dell’età giolittiana, caratterizzata da un indirizzo di governo che, “entro certi limiti, può definirsi liberale e progressista” (Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna).

    Quanto al nuovo sovrano - passato alla storia ufficiale e conformista come “Il Re soldato” per le sue apparizioni al fronte durante la prima guerra mondiale ma che, come vedremo, non si dimostrò, col tempo, né un buon Re né un buon soldato, prima consegnando l’Italia al fascismo e poi, nel tentativo di salvare sé stesso dalle conseguenze della disfatta militare,  di cui era pur sempre uno dei massimi responsabili, fuggendo da Roma per consegnare il Paese alla occupazione tedesca - egli rifiutò, inizialmente, in un tentativo di prendere le distanze dal padre predecessore, il metodo di usare sistematicamente la forza contro le agitazioni sociali .

    Riteneva che “quando i lavoratori scendevano in sciopero, spesso la colpa era dei proprietari terrieri, che non sempre fanno il loro dovere verso coloro che vivono sulle loro terre. Le sue personali simpatie andavano piuttosto agli scioperanti e non poteva essere contrario a un movimento che tendeva a ridurre le ore lavorative e a migliorare le condizioni di lavoro”(Denis Mack Smith- I Savoia Re d’Italia ).

    Questa iniziale apertura “liberale” di Vittorio Emanuele III venne successivamente a ridimensionarsi, allorché lo stesso sovrano spedì un esercito di ben centomila uomini a reprimere le manifestazioni svoltesi in Ancona in occasione dello sciopero generale (“la settimana rossa “, giugno 1914 ) . Qualche decennio prima suo nonno Vittorio Emanuele II, il “Re galantuomo”, aveva spedito le truppe del colonnello Pallavicino a fermare Garibaldi, fino a sparargli contro sull’Aspromonte, nel timore che il movimento garibaldino potesse acquistare troppa autonomia e consenso popolare ed innescare una idea repubblicana e democratica dell’ unificazione dell’Italia, sovvertendo così il progetto di una progressiva espansione ed egemonizzazione della Monarchia piemontese su tutta la penisola.

    Quanto al “giolittismo”, esso fu caratterizzato da una prassi di governo che tendeva a favorire lo sviluppo dell’industrializzazione nascente e, al tempo stesso, ad inserire il movimento operaio nel sistema politico-sociale esistente al fine di ammortizzarne le spinte rivendicative.

    Lo Stato cessò di intervenire a sostegno delle classi più forti accantonando l’arma della repressione, anche violenta: rimase al margine del conflitto, cercando solo che l’ordine pubblico non venisse turbato ed attendendo la soluzione dalle trattative dirette tra lavoratori e proprietari. Questa politica conobbe un periodo di interruzione con i Governi che si succedettero prima e durante la guerra mondiale – come già detto, nel giugno del 1914 le truppe tornarono a sparare contro i dimostranti antimilitaristi in quella che venne definita la “settimana rossa” in Ancona ed in altre città – per riprendere poi nel dopoguerra. Così, durante l’occupazione delle fabbriche a Torino nel settembre del 1920, il Governo Giolitti, dietro una apparente neutralità, lasciò che il corso degli eventi portasse alla inevitabile sconfitta del movimento rivendicativo, sconfitta che, per la sua dimensione politica, andò ben oltre i confini della classe operaia torinese, creando un riflusso d’ordine da parte dei ceti medi i quali, scampata la paura dei “rossi”, con la loro fobia antisocialista finirono per creare una base di massa al nascente fascismo.

    Comunque, ”il fatto di non adoperare più l’esercito per sparare sugli scioperanti era un appoggio concreto che si dava alle rivendicazioni del proletariato” (Armando Saitta, Il Cammino Umano ).

    Ma il progressismo di Giovanni Giolitti – tra l’altro egli introdusse il suffragio universale maschile - era fortemente condizionato dal carattere clientelare delle maggioranze che lo sostenevano.

    La sua più grave pecca fu, infatti, “l’alleanza tra il Governo e le forze politiche settentrionali realizzata alle spalle del meridione, ove la sistematica corruzione elettorale assicurava a Giolitti l’elezione di candidati, servi del ministero e non portatori della volontà degli elettori Certo si è che all’opera democratica del Giolitti in una parte dell’Italia corrispose, nell’altra parte, l’attività antidemocratica del “camorrista”, del “mafioso” e, soprattutto, del “mazziere” ossia del tristo figuro che, anche con la violenza, coartava la libera volontà degli elettori imponendo i candidati governativi. Ciò valse a Giolitti l’ignominioso nomignolo di “ministro della malavita” da parte dello storico Gaetano Salvemini”(Armando Saitta, Il Cammino Umano).

    In ogni caso, l’elemento caratterizzante, che fa dell’età giolittiana l’inizio di una nuova epoca, è il passo decisivo che allora fu compiuto nella trasformazione dell’Italia da paese agricolo a paese industriale.

    “Giolitti ebbe il grande merito di comprendere che questa trasformazione richiedeva una politica nuova; ma credette di poter attuare questa politica favorendo il potenziamento delle forze più robuste, attraverso riforme che non modificassero il complesso dei rapporti di forza esistenti.

    Vi era, quindi, nel suo sistema una contraddizione profonda, che portò alla situazione di crisi sociale e di svolta conservatrice, con cui l’Italia affrontò la prima guerra mondiale”.(Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia Moderna).

 

L’atteggiamento della Chiesa.

 

    Neppure la Chiesa cattolica seppe dare un significativo contributo di attenzione e di sollecitudine verso i gravi problemi sociali del paese e verso la condizione delle classi subalterne.

    Ancor  “ferita” per la perdita del potere temporale, in posizione ufficiale di “isolamento” rispetto alla vita politica (c’era stato il “non expedit” per i cittadini italiani di fede cattolica, cioè il dovere di astensione dalla vita politica nei confronti del nuovo Stato “usurpatore“), la Chiesa ebbe dapprima, con Leone XIII, una cauta apertura verso quella che veniva definita la “questione sociale”, ossia il primo irrompere delle classi subalterne sulla scena nazionale (Enciclica “Rerum Novarum”, Le cose nuove); ma con Pio X si tornò al peggiore conservatorismo, con la condanna di quelle correnti di pensiero cattolico che auspicavano un  avvicinamento del cristianesimo alla realtà dei nuovi tempi, espresse dal movimento - di cui fu ispiratore l’Abate Loisy -  chiamato “modernismo”, bollato dalla Chiesa come “sintesi di tutte le eresie”.

    “Non stanchiamoci di ripetere che il Vangelo non era una dottrina assoluta o astratta che si potesse applicare in modo diretto a tutti i tempi e a tutti gli uomini per sua propria virtù. Era una fede vivente, impegnata sotto tutti gli aspetti nel tempo e nell’ambiente nel quale è nata. Un lavoro di adattamento è stato e sarà sempre necessario affinché questa fede si conservi nel mondo”.(Abate Alfred Loisy, biblista e storico delle religioni).

 

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