RICORDI PERSONALI
SCAMPATI ALLA MORTE
Nel 1944, assieme alla mia famiglia composta da papà, mamma e due fratelli, uno più grande ed uno più piccolo di me, ci trasferimmo (allora si diceva "sfollammo") in un paesino del reatino per sfuggire al pericolo dei frequenti bombardamenti aerei.
In quel paesino si viveva tranquilli ma, c’è sempre un ma …, per gente di città era difficile procurarsi da mangiare.
Infatti gli abitanti locali erano, per lo più, contadini con piccoli appezzamenti di terreno che coltivavano a "mezzadria" (cioè facendo a metà del raccolto con il "padrone"), e da queste coltivazioni ricavavano il necessario per i loro bisogni.
Noi "sfollati" non avevamo nulla se non la misera "paga" di mio padre (tra l’altro reduce dal fronte) e qualche occasionale introito di mia madre per qualche servizio presso alcuni padroni. Insomma avevamo solo "soldi" che non sono affatto "nutrienti"!
Per fortuna la solidarietà umana che si trova sempre fra i "poveri" ci veniva incontro e, sia pure a quella che allora si chiamava "borsa nera" trovavamo da acquistare del grano, delle uova, dell’olio e dei polli.
Il grano, però, bisognava macinarlo per farlo diventare farina e poi pane.
Per far questo si doveva andare al mulino che era a valle del paese. Poiché mio fratello più grande studiava e quello più piccolo aveva solo otto anni, l’incombenza spettava a me.
Un giorno, mentre ritornavo dal mulino con il mio bel sacchetto di farina sulle spalle, mi ritrovai circondato da una pattuglia di soldati tedeschi che mi requisirono e, assieme ad altri uomini, mi rinchiusero nella scuola del paese come ostaggio.
Cosa era successo?
Era successo che, nella vallata sottostante, dei partigiani avevano ucciso tre soldati tedeschi!
Vigeva allora il cosiddetto "bando Kesserling" secondo il quale per ogni tedesco ucciso dai partigiani, dovevano essere uccisi 10 italiani qualsiasi. Ogni comando tedesco, sia pur piccolo, alla notizia dell’uccisione di soldati tedeschi doveva rastrellare un numero di italiani tale da soddisfare quanto richiesto dal bando. Poiché i soldati tedeschi uccisi nell’imboscata dei partigiani erano tre gli italiani da trucidare per rappresaglia, dovevano essere trenta! Fra questi c’ero capitato anch’io pur avendo solo 15 anni.
Come mai sono qui a raccontare questi fatti?
Non saprei ma credo di doverlo all’interessamento del Parroco del luogo che, con una appassionata difesa, protrasse l’esecuzione per quasi l’intera giornata, al fatto che il distaccamento tedesco non fosse formato da fanatiche SS ma da militari dell’Esercito e, per ultimo ma non meno importante, al fatto che, ad un certo punto della giornata, al comando tedesco fosse arrivata la notizia che, sempre nella vallata, altri tedeschi avessero già eseguito la rappresaglia!
Così, quella volta, mi salvai!
Purtroppo la guerra non era finita. Con lo sfondamento della linea Gustav a Cassino, gli alleati marciarono rapidamente verso Roma che fu "liberata" il 5 giugno 1944; ovviamente i tedeschi, che non avevano approntato altre difese fino alla linea Gotica a nord di Firenze, dovettero ritirarsi pressati dalle truppe alleate.
Durante questa ritirata anche nel paesino dove eravamo sfollati, ci fu un episodio che mi ha segnato: un gruppo di militari tedeschi si fermarono per riposarsi ma, temendo attacchi da parte dei partigiani e rivolte da parte degli abitanti, requisirono tutti gli uomini validi e li rinchiusero nella Chiesa. Passando casa per casa per rastrellare gli uomini, capitarono anche nella nostra abitazione; presero me, mio padre e mio fratello più grande; allora mia madre, che sarebbe rimasta senza sostegno alcuno, disse all’ufficiale tedesco: perché non prendete anche il figlio più piccolo, così almeno me li avrete tolti tutti! E l’ufficiale tedesco rispose: Nein, Kinder(cioè, bambino)!
Chiusi in Chiesa attendevamo con trepidazione gli eventi. Per nostra fortuna non sapevamo cosa era successo in altre località … comunque la paura faceva "novanta"! Il solito Parroco ci sosteneva con frasi di circostanza. Ad un certo punto chiese all’organista di "dare fiato alle trombe" suonando qualsiasi cosa che potesse distrarci. Ogni tanto qualcuno, più coraggioso, sbirciava dal portone ma era sempre ricacciato indietro dai mitra dei soldati tedeschi! Ci si domandava quanto lunga sarebbe stata l’attesa e quale sarebbe stato l’esito finale. Verso mezzogiorno sentimmo un movimento all’esterno della Chiesa. Erano le donne che venivano a portarci del mangiare ed a chiedere la nostra liberazione ma i tedeschi le respinsero sparando vari colpi in aria. Ci preoccupammo ancora di più ed, a questo punto, nemmeno più le preghiere del Parroco servivano a rassicurarci!
Il tempo sembrava essersi cristallizzato, non passava mai! Verso sera alcuni, fra i più coraggiosi, fecero, ancora una volta, capolino dal portone della Chiesa e … non successe nulla! Allora spalancammo la porta ed uscimmo. I tedeschi non c’erano più! Se ne erano andati zitti, zitti senza far del male ad alcuno.
Così, ancora una volta, scampai alla morte assieme a tutti gli abitanti del paese!
Franco
Ostia Lido, 25 giugno 2009
La fuga dal recinto e le eroiche donne.
Mio padre mi raccontava, che ad Ostia c’era un ristorante sul mare a forma di cupola. Purtroppo lui è tornato solo una volta ad Ostia. E’ deceduto giovane. Quella volta che è stato ad Ostia mi raccontava di tutto, mi spiegava come era a quel tempo Ostia. Siamo andati a fare una passeggiata sul pontile. Gli domandai se quello era il luogo dove era il ristorante, ma lui senza esitazione mi rispose "no", il ristorante era lì, e mi indicava un luogo, dove c’era solo mare. Poi mi disse che il ristorante era. stato distrutto dagli aerei tedeschi e lui era presente a quel massacro Vedeva gi aerei venire dal mare per colpire.
Questo mi fa ricordare alcuni episodi della sua vita che lui spesso raccontava a mamma ed agli amici.
Aveva fatto sette anni di militare da "permanente".
Erano militari dell’esercito regolare e portavano le stellette, quindi nemici sia dei tedeschi che delle camice nere.
Finita la guerra non gli fu riconosciuto nessuno di questi anni passati a servire l’Italia. Questo lo rattristava molto.
Era stato fatto prigioniero insieme ad alcuni compagni e stavano per essere fucilati. Aveva davanti il plotone di esecuzione che aspettava solo l’ordine di fare fuoco. Per la disperazione, mise la testa dentro un covone di paglia mostrando bene il petto, in modo che il proiettile lo colpisse nel cuore e soffrire meno. I suoi pensieri era rivolti a me e alla mamma. Allora ero l’unico figlio, poi ne sono venuti altri quattro.
Mentre pensava a tutto questo, arrivò l’ordine di sospendere l’esecuzione e furono portati in un campo di prigionieri poco lontano da Ostia Antica. Non si ricordava quanti giorni lui è stato in questo campo di prigionia. Era un campo di prigionia molto semplice. Un pezzo di terreno recintato da tre o quattro fili spinati, in fondo ad un angolo di questo recinto c’era una tenda o una baracca, che serviva ai tedeschi che facevano le sentinelle, per riposarsi tra un turno e l’altro di guardia. Le sentinelle non erano tante, quattro o cinque per turno di guardia. Nonostante le poche sentinelle era impossibile tentare la fuga. Tutti i prigionieri che stavano dentro il recinto, erano completamente nudi; per questo tutte le persone che si trovavano fuori dal recinto, nude, venivano fucilate. Di giorno era visibile, di notte c’erano i fari e tutte le ombre che si spostavano fuori dal recinto venivano prese di mira dalle sentinelle. In quel recinto il vitto era scarso sia per i prigionieri che per i soldati tedeschi.
Alcune donne di Ostia Antica, portavano dei cesti dì alimenti ai prigionieri. Le guardie le lasciavano fare, perché le signore davano anche a loro del cibo. Ai prigionieri il cibo veniva buttato per il prato dentro al recinto, alle sentinelle lo consegnavano a mano. Papà pensava come poter fuggire da questo recinto. Un giorno mentre le donne buttavano gli alimenti dentro il filo spinato e le guardie erano intente a prendere la loro parte, lui si avvicina ad una donna per domandargli come si poteva uscire da questo recinto. La donna gli disse che sarebbe tornata il giorno successivo e avrebbe portato un pacchetto di vestiti. Lei d’accordo con le altre avrebbe buttato un cesto di alimenti in un luogo e il pacchetto di vestiti in un’altro. Nel pacchetto c’era vestiti da donna che lui doveva indossare. Nel momento in cui i prigionieri sì affollavano a prendere qualcosa da mangiare e le sentinelle erano distratte a prendere la loro parte di cibo, lui doveva con grande velocità, prendere il fagottino, vestirsi e transitare sotto il filo spinato, per trovarsi fuori dal recinto vestito. Una volta fuori dal recinto, vestito da donna e unendosi al loro gruppo, non correva più pericolo.
Tutto questo doveva avvenire in pochissimo tempo. Così avvenne e lui fu libero!
Mentre facevo servizio alla mensa mi sono incontrato con una signora di Ostia Antica e le ho raccontato questo episodio. Lei mi ha confermato tutto sulle donne. Una di quelle era la sua mamma. Il padre la supplicava di non fare più questo servizio, era pericoloso e se succedeva qualcosa, metteva in difficoltà tutta la famiglia. Lei non gli dava ascolto e continuava, insieme alle sue amiche a rischiare la vita per questi poveri uomini.
Non sono donne eroiche queste signore? Non meritano anche loro il ricordo dell’otto marzo, festa della donna?
Per me si, hanno salvato mio padre e hanno dato la possibilità a dare la vita ad altre quattro esseri umani, rischiando la loro.
NICOLA
Ostia Lido, 8 marzo 2009