MEMORY
LA STORIA DELLA MIA FAMIGLIA.
di Giovanni Bettollini
MONTEPULCIANO.
Sullo sfondo della cornice generale politico-sociale che caratterizza il nuovo secolo, mio padre nasce nel 1903 a Montepulciano, in quella terra toscana che aveva avuto, prima dell’unità d’Italia, una esperienza di governo illuminato, specie negli ultimi tempi del Granducato di Pietro Leopoldo II, della dinastia austriaca dei Lorena, che precedettero immediatamente la proclamazione del Regno d’Italia.
Questo sovrano, in un certo senso, riuscì ad anticipare e realizzare alcune di quelle esigenze che furono poi alla base della unificazione dell’Italia: libertà di commercio in tutto il Granducato; libera contrattazione, esportazione ed importazione dei prodotti agricoli; soppressione di tutti i pedaggi e dogane interne.
Il Granduca - che i fiorentini, con un misto di familiarità e di ironia popolare, chiamavano “Canapone”, per via della copiosa e scomposta chioma - si sforzò di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei contadini, che costituivano, in un paese a prevalente economia agricola, basata sui rapporti di mezzadria, la parte più cospicua di classe lavoratrice.
Egli alleviò i contadini di una parte dei pesi fiscali che su di loro gravavano; abolì le cosiddette comandate, cioè i lavori di carattere pubblico ai quali i contadini erano “comandati” dai Comuni; permise ai contadini di esercitare altri mestieri; si preoccupò di impedire che i debiti dei contadini fossero fatti pagare dai padroni attraverso prestazioni gratuite di lavoro; mirò, in sostanza, ad affrancare i contadini da una dipendenza di tipo servile.
Tuttavia “la situazione di grave dipendenza economica della maggioranza dei coloni verso i padroni rimase immutata. Rimase il fenomeno generale dell’indebitamento dei mezzadri verso i padroni anche se, per l’esempio dato dal Granduca stesso nelle sue proprietà, si usò in genere far scontare il debito a poco a poco sulla parte di raccolto dovuta al colono e non con lavori gratuiti.
Una fondamentale staticità dei rapporti di produzione resta dunque la caratteristica principale della agricoltura toscana, nonostante l’azione riformistica contro i privilegi di tipo feudale” (Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna).
Quando nacque mio padre, la Toscana non era mutata granché rispetto a come era andata configurandosi ai tempi del Granduca ed i rapporti nelle campagne erano ancora a prevalente conduzione mezzadrile. Si può dire che la sua famiglia avesse una qualche continuità con i tempi del Granduca, essendo mio nonno nato nel 1858, prima, cioè, che avvenisse l’unificazione al Piemonte.
Montepulciano sorge su di una collina a circa 600 metri di altezza, a cavallo fra la Val d’Orcia e la Valdichiana, in una zona in cui si sviluppò certamente la civiltà etrusca. Secondo la leggenda, Montepulciano sarebbe stata fondata da Porsenna, re etrusco vissuto nel VI secolo avanti Cristo. E’ ricordata per la prima volta col nome di Mons Politianus nel 715 dopo Cristo.
Aspramente contesa da senesi e fiorentini, passò a questi ultimi nel 1511 e seguì poi le vicende del Granducato di Toscana. Di queste vicende reca memoria la colonna del Marzocco, all’ingresso della città, sulla cui cima è posto il leone fiorentino che sostituì la lupa senese.
Da allora ebbe inizio un grande sviluppo culturale ed artistico, di chiara e fine impronta fiorentina, anche se, della tradizione umanistica e rinascimentale, aveva già lasciato una significativa impronta il grande poeta Agnolo de’ Cini Ambrogini, detto, appunto, il Poliziano, di cui Montepulciano conserva la casa natale: gli abitanti, in suo onore, sono detti poliziani e la città orgogliosamente definita “la perla del 500”.
“Se vogliamo dire la verità, la prima impressione che abbiamo appena si entra in Montepulciano è quella di una bellezza senza problemi, quasi astuta, addirittura scaltra: la bellezza del pieno Rinascimento così presa di sé, così persuasa della propria perennità”.(Luigi Testaferrata in “Bell’ Italia” - Aprile 1993 ).
Con il ritorno di Montepulciano sotto il dominio di Firenze i poliziani più ricchi cominciarono a farsi costruire splendidi palazzi dagli architetti più illustri.
I Palazzi rinascimentali, molto ben conservati, si susseguono in armoniosa frequenza dalla parte bassa fino al punto più alto della città, a testimoniare la forte presenza nei secoli delle famiglie patrizie appartenenti alla aristocrazia terriera.
Appena entrati in città dalla porta al Prato, si incontra lo splendido Palazzo Avignonesi, attribuito al Vignola ed all’Ammannati, poi il Palazzo Tarugi, attribuito al Vignola, poi Palazzo Batignani e Palazzo Cecconi, attribuito, quest’ultimo, ad Antonio da Sangallo il Vecchio e, via via, altri palazzi ancora, fino ad arrivare alla Piazza Grande, con il trecentesco Palazzo comunale, il Palazzo Contucci ed il pozzo, opere, queste ultime due, di Antonio da Sangallo il Vecchio.
Il patrimonio artistico di Montepulciano annovera, poi, delle splendide Chiese: tra tutte primeggia la Chiesa di San Biagio,
costruita in travertino, posta in una meravigliosa pianura ai piedi della città, capolavoro del grande architetto rinascimentale Antonio da Sangallo il Vecchio, che riprese i canoni architettonici del Bramante. E poi il Duomo, con un magnifico trittico di Matteo di Bartolo, la chiesa di S.Lucia, la chiesa di S.Agostino, quella di S.Agnese e quella dei Servi.
Montepulciano annovera poi una ricca pinacoteca ed un teatro in stile classico, il teatro dei Nobili (nome che tradisce una concezione alquanto aristocratica ed esclusiva dell’arte e della cultura).
In questo scenario di una cultura alquanto elitaria non manca, tuttavia, un filone di carattere popolare: la tradizione contadina è ancora oggi presente nella rappresentazione del Bruscello, antica festa tipica della campagna, che si svolge nei giorni di Ferragosto, nella Piazza Grande della città.
Il carattere assolutamente popolare e dilettantistico della rappresentazione si esprime nel fatto che gli “attori” sono tutte persone del popolo, che coltivano con grande passione e dedizione questo loro autentico patrimonio culturale. Il nome “Bruscello” è da ricollegare al fatto che le storie contadine, di cui si alimenta ancora oggi questa forma di spettacolo, venivano originariamente raccontate “sotto l’ombra dell’arboscello” durante la pausa estiva, quando il lavoro dei campi era finito.
Questa tradizione di cultura popolare è diffusa anche nelle zone vicine: è abbastanza noto il teatro “povero” di Monticchiello, animato da autentici contadini in località vicino Pienza, deliziosa cittadina, quest’ultima, che prende il nome da Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini.
Mio padre nasce a Montepulciano il 2 marzo 1903, quinto di sei fratelli, da famiglia di poverissimi contadini, in una località isolata chiamata “Canneto”, in uno dei tanti poderi (parola derivata da: potere, possesso, sinonimo di ricchezza e privilegio) di cui era proprietaria la famiglia Pilacci.
Già la denominazione della zona – “Canneto” - sembrava voler preannunciare la estrema scarsità di risorse che quel lembo di terra arida ed isolata poteva offrire, una sorta di congenita avarizia a fronte della dura fatica di chi era costretto a lavorarla per strapparle un pezzo di pane.
In quelle condizioni, la povertà era un fatto così soverchiante, con il suo peso di insicurezza e di inquietudini, che finiva per negare alle persone non solo il diritto ad una vita libera e dignitosa ma anche il diritto ad una vita affettiva piena.
Così, i figli che venivano al mondo erano frutto non tanto di una scelta consapevole di amore e di tenerezza quanto di un rapporto quasi meccanico e scontato, per cui il poter un giorno disporre di altre braccia per lavorare la terra era l’unica prospettiva, in luogo di quella che avrebbe dovuto essere una serena e gioiosa aspettativa di vita .
La miseria produceva, inoltre, una vera e propria selezione naturale delle nascite, con la eliminazione dei più deboli, che non riuscivano a sopravvivere ad una vita di stenti e di privazioni. Un nastro nero sull’uscio delle povere case contadine stava spesso ad indicare la presenza del “morticello”.
Il podere dove viveva la famiglia di mio padre era dunque al centro di una zona molto povera attigua, peraltro, ad altre meglio esposte e più generose nella produzione di vini ed oli pregiati.
E questa sembrava essere una prima forma di emarginazione rispetto ad altre famiglie che, sia pur faticosamente e pur sempre in una condizione di sostanziale povertà, potevano contare su di un più generoso raccolto.
Vi era, poi, un’altra forma di emarginazione, tipica, allora, di tutte le famiglie contadine: la lontananza, che finiva per diventare esclusione, dalla vita attiva della cittadina, posta in alto a sovrastare la sottostante campagna, quasi a voler rimarcare una rigida distinzione, la “tenuta a distanza” e la soggezione di quest’ultima rispetto a quei valori artistici, economici e culturali, a quello stile di vita che dovevano restare patrimonio esclusivo di “lor signori” all’interno delle mura cittadine.
Mio padre era ancora ragazzo quando morì mio nonno a seguito di una polmonite (allora non c’era la penicillina e l’unica cura, del tutto empirica e dagli incerti risultati, erano i salassi provocati con la applicazione delle sanguisughe); poco dopo morì anche mia nonna, a seguito di una caduta sulla neve.
I primi due fratelli, Vittorio e Guido, erano stati richiamati per la guerra di Libia contro i turchi del 1911-1912.
Era successo che una campagna di stampa ben orchestrata e sovvenzionata dal nascente capitale finanziario aveva diffuso il mito che la Libia fosse un paese dotato di immense ricchezze minerarie, una sorta di paradiso terrestre, i cui abitanti avrebbero accolto gli italiani come liberatori dal dominio dei turchi.
Un po' la stessa logica che, qualche decennio più tardi, avrebbe portato il fascismo ad imbarcarsi nella avventura dell’aggressione alla Etiopia: la logica della rapina delle risorse altrui e della sopraffazione, nel quadro degli immancabili “destini imperiali”.
Per l’occasione, la propaganda ufficiale si era inventata anche una scialba canzonetta dal titolo accattivante: “Tripoli, bel suol d’amore” una sorta di “faccetta nera” ante-litteram.
In realtà la Libia, a quei tempi, non era affatto un paradiso terrestre ma “un immenso ed inutile scatolone di sabbia”, come scrisse lo storico Gaetano Salvemini.
La sua aggressione era soltanto il tentativo delle vecchie classi politiche, già sconfitte nelle precedenti avventure coloniali ai tempi del Governo Crispi, di prendersi una sorta di rivalsa e conquistare un ruolo di potenza europea.
Per questa avventura occorreva, naturalmente, povera gente, del tutto ignara, da gettare allo sbaraglio in nome di un falso miraggio, quello della conquista di una sorta di “terra promessa” in cui realizzare un riscatto dalla secolare povertà.
Per i miei zii, poveri cristi, Tripoli e la Libia erano solo terre sconosciute e lontane. Per loro, il vero “Paradiso terrestre”, la “terra promessa” poteva essere, in una condizione di dignità e di relativo benessere, il loro paese, la loro terra, loro perché, da tempo immemorabile, generazioni e generazioni di contadini poveri vi avevano sputato anima e sudore; dunque, perché dovevano andare in un paese al di là dal mare a “liberare” un popolo dai turchi, quando avevano tanto bisogno essi di essere “liberati” da una condizione di miseria, di abbandono, di secolare sudditanza al padrone?
Nonostante tutto i miei zii dovettero considerarsi fortunati: videro tante volte la tragedia della morte intorno a loro ma riuscirono a scamparla e tornare a casa.
“IL PANE SECCO”.
Appena tre anni dopo, l’Italia entrò nella prima guerra mondiale, “la Grande guerra” così denominata per via delle enormi cifre in cui si espressero i mezzi, gli armamenti, gli uomini e le risorse impegnate dai vari Paesi in conflitto, i morti e gli invalidati.
A lungo la nostra storiografia ufficiale ha presentato una versione del tutto conformista di questa guerra, come il giusto coronamento del moto risorgimentale, una sorta di quarta guerra di indipendenza per il compimento dell’unità nazionale, attraverso la conquista delle terre “irredente” del Trentino e di Trieste.
“E’ l’ultima guerra dell’indipendenza. Avevamo finito col credere che il libro del Risorgimento fosse ormai pieno e chiuso e consegnato al passato. Ed ecco che si riapre sotto questo cielo di primavera fatidica ed ecco che il generoso sangue italiano, il sangue non mai vano di Palestro e di Novara, di San Martino e di Custoza, si prepara a tracciarvi in linee indelebili il compimento del nostro destino. Erano laggiù le nostre tormentate sorelle, come naufraghe nel mare delle razze diverse, che voleva pure inghiottirle. Ma oggi la nave della nostra fortuna corre a soccorrerle: le naufraghe saranno salvate e la compiuta Italia sarà.”(Dall’editoriale del “ Corriere della sera “ del 24 maggio 1915).
Al di là di questa retorica stucchevole e menzognera, “le forze che determinarono l’intervento non furono, in prevalenza, quelle che ereditavano lo spirito del Risorgimento, ma piuttosto quelle della grande industria, della destra conservatrice e del nazionalismo, alla ricerca di una occasione per accelerare la concentrazione capitalistica. A questa Italia Giolitti non serve più ed è per questo che il vecchio uomo di stato viene messo da parte e scavalcato da rappresentanti politici più adatti ad interpretare la spinta interventistica. Concentrazioni di capitali, compenetrazione fra industria ed alta finanza furono incrementati dalle necessità dello sforzo bellico.
In quattro anni di guerra i 4.000 operai dell’Ansaldo divennero 56.000 e 110.000 contando quelli delle industrie affiliate, il capitale fu elevato da 30 a 500 milioni, furono costruiti 11.000 cannoni, 3.800 aeroplani, 10 milioni di proiettili, 95 navi da guerra” (Paolo Alatri in: 30 anni di storia italiana).
“Ne esce affossata definitivamente la versione più asettica ed inverosimile di un intervento dettato solo da purissime preoccupazioni patriottiche”.(Giorgio Rochat, l’Italia nella prima guerra mondiale).
In realtà, l’ingresso in guerra dell’ Italia attraverso il ribaltamento delle tradizionali alleanze con Austria e Germania, dopo un anno di attendismo, fu dettato da una cinica ragion di Stato che, senza porsi minimamente il problema del baratro in cui sarebbe precipitata l’Europa, badava esclusivamente alle convenienze, agli interessi, ai compensi territoriali conseguibili, in un calcolo che non metteva in alcun conto le centinaia di migliaia di morti e di mutilati che la guerra avrebbe certamente comportato: il tutto in un disprezzo totale della sovranità del Parlamento, che non venne neppure convocato per la dichiarazione di guerra.
“Per anni, la storiografia ufficiale ci aveva fatto intendere che la “Grande Guerra”, per quanto sanguinosa, spietata, era stata una “guerra di popolo”, una prova affrontata con eguale coraggio e dedizione dai giovani figli della borghesia risorgimentale e dalle masse dei contadini semianalfabeti; la “prova virile”, il crogiuolo dove, a quasi settant’anni dalla prima guerra di indipendenza, si era finalmente realizzata l’unità morale e territoriale della comunità nazionale”.(Enzo Forcella in: “La Repubblica” del 23-24 ottobre 1977).
Col tempo, finalmente, questa menzogna è stata smascherata da una storiografia seria ed intelligente che, con rigore di studi e grande passione civile, ha fatto emergere nuovi documenti e testimonianze da cui è risultato un quadro assai diverso, a volte di completo sovvertimento rispetto a quelle che, fino ad allora, ci avevano contrabbandato come verità inconfutabili
Così, da documenti quali le lettere censurate inviate a casa dal fronte, conservate per anni nell’oblio dell’Archivio Centrale di Stato e finalmente fatte venire alla luce da una grande passione di archeologia storica, i contadini-soldati, nella loro approssimativa sintassi e con l’angosciata sincerità propria di chi vede la morte in faccia tutti i giorni, parlavano in prima persona, raccontavano la guerra dal punto di vista delle classi subalterne, rifiutando la violenza, diventando, in un certo senso, essi stessi protagonisti della storia, dell’“altra storia”.
“Mi dovete perdonarmi, che la mia testa non sta più aposto che di fare il militare.....perché veniamo trapazzati come tanti cavalli, facciamo istruzione sulle montagne e pure giù, sempre col zaine affardellato e di corse e chissà la finitura di questo problemo come finirà. Che si sta sempre inpensiere da un momento a un’altre possiamo partire per il fronte. Quindi il mio pensiero non è più aposte non so da un momento alatro dove mi trovo che è un corpo un po' difficile più peggio dei bersaglieri, che ci dobbiamo arrabiccare come tanti catti nei punti più disastrosi, nei cespugli, pariame tanti muli montagnoli “(Lettera di un fante in: La Grande Guerra degli italiani di Antonio Gibelli -Ed.Sansoni).
Era questa l’altra faccia della guerra, “la realtà di coloro che non volevano più combattere e, costretti, lo facevano bestemmiando o piangendo. Per tanti motivi: perché non condividevano le idealità e gli obiettivi della guerra patriottica, perché rifiutavano la logica del “morire sul campo”, del “sacrificio e dell’onore”, o semplicemente perché avevano paura e non se ne vergognavano” (Enzo Forcella, idem).
Quello che, nei fatti e nei comportamenti, veniva messo in discussione era lo stesso concetto di Patria come supremo valore etico, punto di riferimento e di aggregazione per tutti i membri della comunità .
La Patria: questo ideale che avrebbe dovuto rappresentare una sorta di casa comune, premurosa di tutti i suoi figli in egual misura, se non addirittura in misura maggiore per i più deboli ed emarginati; questa Patria che, al contrario, si era sempre disinteressata di loro, per farsi viva e materializzarsi solo nell’uniforme del carabiniere mandato a rintracciare, anche nei più sperduti angoli del paese, poveri braccianti per sottrarli alle loro famiglie ed al loro lavoro e mandarli a morire sui vari fronti di guerra combattendo ed uccidendo altri disgraziati come loro; questa immagine di Patria veniva, dunque – è quanto emerge dai nuovi sconcertanti documenti - rifiutata dal fante-contadino che aveva fatto la terribile esperienza della trincea.
“Uscire dalla trincea per andare all’attacco voleva dire andare incontro alla morte: i reparti abbandonavano i ricoveri inquadrati e sospinti dagli ufficiali (che non poche volte dovevano puntare le armi contro i recalcitranti) per affrontare, a ondate, il nemico in attesa su posizioni riparate e dominanti. Particolarmente devastante era il fuoco delle mitragliatrici nemiche (circa quattrocento colpi al minuto ), soprattutto quando entrava in azione su di un terreno piatto e senza ostacoli “(Lucio Fabi- La Prima Guerra mondiale- Editori Riuniti).
Il rifiuto della guerra ebbe la sua manifestazione più significativa con la rotta di Caporetto, in cui l’esercito austriaco dilagò in profondità in territorio italiano per circa 150 chilometri e fummo sull’orlo della definitiva sconfitta.
“I soldati fuggivano con tutta l’ira accumulata in tre anni di guerra terribile, tre anni di sofferenze indescrivibili e, per loro, immotivate” (Ferruccio Parri).
Caporetto mette a nudo la frattura tra le masse combattenti e lo Stato, l’insipienza dei generali, l’impostazione repressiva dei comandi militari, il loro tentativo di scaricare sui soldati la loro ottusità strategica. Secondo il comunicato del Generale Cadorna, Comandante Supremo delle nostre forze armate, uno dei tanti macellai della prima guerra mondiale, giusta la definizione di Indro Montanelli, “…..la mancata resistenza dei reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico” sarebbe stata all’origine della disfatta. Di qui la feroce e cinica direttiva: “il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi”.
“Caporetto è una manifestazione di dissenso di massa che rimette in discussione il principio stesso su cui si erano retti sino ad allora gli Stati: la Patria come valore supremo, punto di riferimento e di coagulo per ogni membro della comunità al di là di tutti i contrasti politici ed ideologici.
Dopo di allora il patriottismo, in Italia e altrove, non potrà più essere al di sopra di ogni sospetto e di ogni discussione, il “valore” per il quale si è tenuti a sacrificare la vita.”(Enzo Forcella, idem ).
I fanti contadini.
Tra i tanti fanti-contadini strappati alle loro famiglie per essere mandati al fronte c’erano anche Guido ed Aurelio, secondo e terzo fra i fratelli di mio padre.
Che ne potevano sapere, essi, dell’attentato di Sarajevo che provocò la morte del Principe ereditario al trono d’Austria, recatosi in Bosnia per ribadire la volontà egemonica dell’Austria nei Balcani contro le aspirazioni nazionalistiche ed autonomistiche dei popoli slavi, attentato rappresentato dalla storiografia ufficiale come causa della Prima Guerra mondiale, in realtà semplice scintilla incendiaria di quella autentica polveriera che era divenuta l’Europa a seguito della “corsa agli armamenti”, in un intreccio assurdo di schieramenti militari contrapposti a difesa delle rispettive pretese egemoniche?
Come potevano rendersi conto, i miei zii, che la guerra, al di là della retorica della canzone del Piave che, in una atmosfera quasi bucolica, era rappresentato mormorante “calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio”.... durante le “radiose giornate di maggio”, era soprattutto una grossa occasione di espansione dei profitti per la nascente industria delle armi e di normalizzazione interna contro il pericolo di una avanzata delle classi lavoratrici. C‘entrava ben poco la redenzione di Trento e Trieste, terre che l’Austria, fino ad allora nostra alleata, sembrava essere disposta a cederci in cambio della nostra neutralità nel conflitto. Ed invece, con grande spregiudicatezza, per un mero calcolo di “convenienze e di compensi territoriali” il nostro Governo, dopo la iniziale neutralità, passò all’altro fronte della guerra, ottenendo la promessa della cessione, in caso di vittoria, di una parte del Tirolo da sottrarre all’Austria, quella che oggi chiamiamo Alto-Adige, abitata da gente di una etnia tutta particolare che si sentirà sempre estranea alla nuova “Patria“, imposta dai patti di guerra dopo la conclusione del conflitto mondiale.
Ironia della storia: eravamo entrati in guerra per “nobili” ragioni patriottiche, per liberare le “terre irredente” dal giogo austriaco e finivamo, a nostra volta, per imporre, in una logica da “bottino di guerra”, la nostra sovranità a gente che per storia, tradizioni culturali, lingua e costume era e sarebbe rimasta austriaca.
Al di là della retorica ufficiale la guerra fu una “inutile strage”, come disse il coraggioso Papa dell’epoca, l’esile Benedetto XV:
“Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba pesare il futuro assetto dei popoli. Nel presentarle a voi siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così, quanto prima, alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage”.
Le cifre di questa strage: “Nessuno ci convincerà mai che un nazionalismo idealizzato, un confuso sentimento autonomistico o l’irredentismo serpeggiante nel Trentino ed a Trieste possono giustificare tredici milioni di soldati caduti, venti milioni di feriti e mutilati, la distruzione di enormi ricchezze e di grandi risorse economiche”.(Lucio Villari “La Repubblica” del 28 giugno 1977).
Ed a queste cifre vanno aggiunti i morti per esecuzioni sommarie e per decimazione.
“Le esecuzioni sommarie, corrispondenti ad ogni grave atto di insubordinazione o di viltà nei confronti del nemico, per non parlare delle decimazioni che non distinguono tra colpevoli e non colpevoli, furono la regola invalsa nel nostro esercito per reprimere fulmineamente l’indisciplina delle truppe”. (Pietro Melograni, Storia politica della grande guerra).
Il più giovane dei due fratelli di mio padre, Aurelio, classe 1896, un ragazzo, morì agli inizi del 1916, a vent’anni, dopo una prigionia in Bosnia, sembrò per una polmonite. In realtà la polmonite sarà stata, assai verosimilmente, il punto di arrivo di una serie di stenti e di sofferenze via via accumulate, dovute alla denutrizione, al freddo, ad una vita passata tra pidocchi, scarafaggi ed insetti di ogni genere, a turni estenuanti in prima linea senza avvicendamenti per giorni e giorni, alle dure condizioni della prigionia.
La famiglia di mio padre venne a sapere della morte allorché il curato disse loro che era ormai inutile mandare al fronte il pacco del “pane secco”, unico sostegno che le famiglie dei poveri potevano permettersi di inviare ai loro cari.
Di questa vicenda di mio zio Aurelio - al quale, a detta di mio padre, somiglio moltissimo e di cui porto il secondo nome - io venni a sapere in circostanze davvero singolari.
Ero bambino, frequentavo la seconda elementare, inquadrato dal regime tra i cosiddetti “figli della lupa”, secondo una impostazione militaresca, allorché un giorno si presentò in classe la “fiduciaria del Fascio”, una donna in completa uniforme, per comunicarmi che avevo diritto, quale nipote di un “caduto” per la Patria, ad un particolare riconoscimento: ricordo che andai con mio padre a ritirare il dono presso la sede del fascio di Porta Maggiore e, quando vidi che si trattava di un moschetto di legno, come si conveniva ad un futuro Balilla, rimasi alquanto deluso, perché la mia passione erano le automobiline di latta con la carica a molla.
Dietro questo gesto retorico più tardi avvertii una vera e propria operazione di sciacallaggio: il regime si era appropriato del sacrificio di mio zio e lo aveva piegato a strumento di mera propaganda.
Il Monumento ai caduti.
Come in tutti gli angoli d’Italia, anche a Montepulciano c’è il Monumento ai caduti. Questa storia del monumento ai caduti è una delle tante ipocrisie nazionali.
Uno vede la lapide dei “caduti” e, nella versione “ufficiale” dei fatti, è portato a considerarli in una sorta di eroica leggenda, a vedervi un atto di altruismo consapevole per difendere e fare più grande e bella la “Patria”.
L’eroismo, sin dai tempi antichi, è sempre stato rappresentato con riferimento ad imprese di guerra, a vincitori ovvero a “caduti in combattimento”.
Ricordo che sin dalle elementari la storia veniva insegnata come storia di eroi: così, a proposito della prima guerra mondiale, ci additarono ad esempio , in perfetta continuità con gli eroi risorgimentali, le imprese di Francesco Baracca, “eroe dell’aria” per aver abbattuto tanti aerei nemici prima di essere a sua volta abbattuto e quelle di Nazario Sauro, “eroe del mare”.
Volevano inculcarci, sin da bambini, l’idea che i “caduti” fossero morti immolandosi consapevolmente per la Patria e, chissà, forse anche per assicurare un futuro di benessere e di libertà alle famiglie. Nella stragrande maggioranza andarono a combattere perché costretti, contro la loro volontà, ma ne avrebbero fatto volentieri a meno. E morirono maledicendo la guerra.
I veri eroi, ammesso che sia eticamente giusto lo stesso concetto di “eroismo”, sono coloro che, in una scelta pienamente consapevole ed all’insegna di una totale abnegazione e gratuità, spendono tutta la loro vita - e non un attimo di essa, un gesto - per una vocazione di amore, di solidarietà, per un anelito di giustizia e di libertà: penso ai missionari ed ai volontari che condividono la terribile esperienza della fame e della miseria dei popoli più diseredati del cosiddetto “terzo mondo”.
A Montepulciano, in particolare, esiste un ulteriore “monumento”, del tutto singolare: all’ingresso del Cimitero di San Biagio vi è un lungo filare di cipressi, presso ciascuno dei quali è stata posta una piccola lapide con il nome dei “caduti per la Patria”.
La prima volta che mio padre me la fece vedere, confesso che provai quasi un certo orgoglio, fiero di avere uno zio “eroe”. Poi mi sono reso conto che questi monumenti dovrebbero indurre solo a sentimenti di pietà e di profonda solidarietà, a fare memoria nei confronti di chi, del tutto ignaro, venne mandato a morire ingiustamente, perché nessuna guerra può essere giusta né tantomeno “sacrosanta”: come sta scritto nel monumento a Bertold Brecht, il grande drammaturgo tedesco, uno dei pochi oppositori al nazismo, che ho visto eretto a Marina di Carrara, “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”.
L’altro fratello Guido riuscì a salvarsi “grazie” alle ferite riportate alle gambe a seguito della esplosione di uno di quei micidiali proiettili austriaci che, cadendo in terra, seminavano schegge impazzite. Venne infatti inviato in congedo e, dopo varie peregrinazioni da un ospedale all’altro, morì per quelle ferite austriache. Il suo nome non venne compreso nella lapide degli “eroi” caduti per la Patria: in compenso morì nel suo letto ed ebbe una tomba, anziché una fossa comune.
A Roma per sopravvivere.
All’inizio degli anni venti, dunque, mio padre, essendosi maritate le due sorelle ed essendogli morti i genitori, venne a trovarsi solo nell’affrontare la vita.
Montepulciano si estende su di una collina posta a cavallo fra due valli: la Valdichiana, famosa per bellezza e dimensione dei suoi bovini, che fanno orgogliosa mostra di sé nelle fiere paesane; la Val d’Orcia, famosa per la rinomata produzione di formaggi.
Inizialmente mio padre trovò da sfamarsi andando a lavorare come garzone in Val d’Orcia. Vita durissima con sveglia all’alba per circa quattordici ore di lavoro al giorno. In compenso mangiare a volontà e cinque lire al giorno di paga. Per dormire, un giaciglio di paglia: ma, diceva mio padre, a quell’età si dorme anche sui sassi!
Si trattava, tuttavia, di un lavoro stagionale, finito il quale c’era di nuovo da risolvere il problema della sopravvivenza.
Dapprima mio padre tentò di arruolarsi nella Guardia di Finanza.
Senza grandi illusioni fece domanda a Siena e, nella speranza di essere chiamato a visita medica, decise, con un suo compaesano, di cercare, nel frattempo, fortuna a Roma.
Quando venne a Roma, erano in corso avvenimenti che avrebbero portato a grandi rivolgimenti politici e sociali.
La vecchia classe politica liberale, avendo ormai consumato l’esperimento del riformismo giolittiano, ritenuta responsabile di aver “svenduto” la vittoria del 1918 al tavolo della conferenza di pace, appariva del tutto incapace di affrontare i gravi problemi sociali sorti nel dopoguerra.
Essa era perciò entrata in piena crisi di credibilità sia nei confronti dei ceti medi, frustrati nelle loro aspettative di ascesa sociale da una situazione economica sempre più pesante (l’inflazione crescente colpiva sia gli stipendi che i piccoli risparmi, questi ultimi vero e proprio “status symbol” dei ceti medi ), che aveva finito per ridurre notevolmente - cosa questa intollerabile per la cultura piccolo borghese - le distanze rispetto alle condizioni degli operai; sia nei confronti delle classi dominanti dell’economia e della grande finanza, le quali cominciarono a vedere nel nascente squadrismo fascista, dapprima agrario e poi cittadino, un potente strumento di superamento dei conflitti sociali sempre più aspri, promossi da un partito socialista e da organizzazioni sindacali sempre più agguerrite e combattive (a settembre 1920 c’era stata la occupazione delle fabbriche a Torino). Verso lo stesso fascismo, quindi, i gruppi economicamente più forti cominciarono a dirottare le loro attenzioni e ad investire le loro risorse finanziarie, in vista di una soluzione autoritaria del conflitto sociale.
La Monarchia, che avrebbe dovuto essere la suprema garante dell’ordine costituzionale, cominciò a tollerare ogni forma di illegalità e di insubordinazione da parte delle squadre fasciste, fino ad arrendersi completamente alle loro minacce, consegnando nelle loro mani l’Italia con la stessa viltà con cui, vent’anni più tardi, avrebbe abbandonato l’Italia all’invasore tedesco dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
La stessa Chiesa di Roma, con l’avvento del nuovo Pontefice Pio XI iniziò una strategia di attenzione verso il nascente fascismo destinata a diventare vera e propria complicità allorché, con il Concordato del 1929, attribuì piena dignità al regime (il Papa definì lo stesso Mussolini “Uomo della Provvidenza”), ricevendone in cambio cospicue contropartite, alcune delle quali particolarmente spregevoli per la coscienza civile, come quella prevista dalla clausola secondo la quale, qualora un sacerdote avesse deciso di tornare allo stato laico, ovvero vi fosse stato ridotto dalla stessa Chiesa perché ritenuto dissidente, in quanto apostata egli non avrebbe potuto più esercitare alcuna professione che lo ponesse a contatto con il pubblico, quasi fosse un appestato: una sorta di deterrente molto pesante verso la libertà di coscienza del clero, una garanzia quasi assoluta di conformismo e di acquiescenza alle gerarchie ecclesiastiche: insomma, ameno su questo punto, l’incontro fra due regimi.
In questa situazione di grandi turbolenze sociali e politiche era estremamente difficile trovare un lavoro a Roma.
Mio padre si sarebbe volentieri adattato a fare il muratore, un settore che fino ad allora aveva avuto una certa espansione in relazione al notevole sviluppo demografico della città, conseguente all’insediamento a Roma capitale di tutte le strutture burocratiche del Regno. Ma non fu possibile trovare alcuna occupazione e furono tempi durissimi, tanto è vero che mio padre ed il suo compaesano passarono alcune notti sotto le volte del Colosseo.
Fortuna volle che mio padre avesse con sé l’indirizzo di un suo compaesano il quale, tramite un suo conoscente, lo raccomandò ai frati di Mondragone, che avevano un istituto presso Frascati. Si trattava di un lavoro da garzone in cucina, che mio padre accettò di buon grado, sia perché non aveva di meglio, sia perché significava vitto e alloggio sicuri.
Poco tempo dopo venne la chiamata a visita per entrare in finanza. Mio padre non aveva grandi aspettative: aveva appena conseguito la terza elementare (la licenza di quinta elementare la conseguirà da adulto, in un corso serale, richiestagli dal suo nuovo lavoro, operaio presso le officine di riparazione dei tram); era di statura modesta ed aveva una leggera malformazione al 2° dito del piede destro.
Dopo la visita medica fecero attendere tutti gli aspiranti in un salone finché si presentò un addetto con l’elenco dei prescelti. Mio padre aveva già perso le speranze quando sentì chiamare anche il suo nome. Evidentemente la modesta statura era stata ininfluente, anche per una forma di “rispetto” per il Re che, per una poliomelite, aveva avuto bloccato lo sviluppo degli arti inferiori. Quanto alla malformazione al piede, evidentemente ebbe la fortuna di incontrare un medico umano e comprensivo.
La Scuola Allievi della Guardia di Finanza aveva sede in Via XXI aprile a Roma, dalle parti di Piazza Bologna. A mio padre venne offerto un posto di aiutante cuoco che accettò volentieri, forse perché quella storia di miseria e di fame che lo aveva fino ad allora accompagnato lo spingeva, sia pure inconsapevolmente, verso occasioni che sembravano costituire una sorta di “rifugio” contro le privazioni alimentari.
Naturalmente mio padre era del tutto inesperto ed ebbe, perciò, un “incidente di lavoro”, sbagliando i tempi per “buttar giù la pasta” che, con grandi rimostranze dei commilitoni, si trasformò in un indecente “pappone”. Il Capitano, dopo avergli addebitato la spesa (27 lire, ricordava mio padre, una discreta cifra a quei tempi) volle concedergli una prova d’appello, che mio padre superò agevolmente.
Ormai con un posto in grado di assicurargli uno stipendio, mio padre poteva pensare anche a metter su famiglia.
Dopo un periodo di rapporti alquanto “libertini”, conobbe una bella ragazza di Albano, Luigia, venuta “a servizio” a Roma presso una famiglia che la prese molto a benvolere.
Mio padre è sempre stato una persona avveduta e prudente: la vita gli aveva insegnato a “fare il passo secondo la gamba”: se di matrimonio si poteva parlare, ne andavano, tuttavia, programmati i tempi, senza fretta, anche perché la famiglia di Luigia, di sano stampo paesano, voleva, come era giusto, una buona sistemazione per la figlia, che era, oltretutto, l’unica femmina.
Sennonché tutte le previsioni ed i programmi saltarono perché Luigia si trovò ad attendere, anzitempo, un figlio.
A quei tempi la morale corrente esprimeva riprovazione per tutte le situazioni che non si collocassero entro la logica di una famiglia “normale”: le unioni di fatto erano rarissime, a malapena tollerate e soggette ad ogni forma di discriminazione. La concezione della centralità della famiglia “regolare” era da ricollegare ad una impostazione, particolarmente accentuata nella società dell’epoca, in cui il principio di autorità doveva, partendo appunto dalla famiglia fondata sul “capo”, irradiarsi a tutta la società, come principio d’ordine, fino al capo supremo, il “duce”. Solo questo principio di comando garantiva alla società una struttura gerarchica, in cui ognuno fosse “al suo posto”, pronto ad obbedire al “superiore” fosse il marito, il datore di lavoro, una qualsiasi “autorità”. Solo così potevano essere eliminate, alla radice, le conflittualità di qualsiasi tipo. Chi si fosse posto fuori dalle “regole” veniva emarginato e condannato sulla base di quello che passava come comune buon senso.
Anche la famiglia di Luigia partecipava di questo comune sentire che, in un paese di provincia, assumeva le caratteristiche di un moralismo bigotto: la maternità non era comunque concepibile al di fuori del matrimonio, la verginità era un valore patrimoniale, anche se ammantato di principi etici; la ragazza-madre, perduta la verginità, diveniva quasi una “cosa usata”, deprezzata: insomma, l’unica via d’uscita era il cosiddetto matrimonio riparatore che spesso, se salvava la facciata della “rispettabilità e della onorabilità”, si rivelava, in effetti, un fallimento sotto il profilo affettivo, proprio perché frutto di una forzatura delle volontà.
Questo non avvenne per mio padre che sposò sì Luigia per “riparare” alla colpa del precoce concepimento - colpa sempre riconducibile, secondo il comune sentire, all’uomo, in quanto la donna era considerata succube della sua volontà - ma conobbe finalmente un periodo di vera serenità familiare specie quando, il 1° Maggio 1927, nacque una bellissima bambina che fu chiamata Margherita.
Nel frattempo mio padre aveva lasciato la Finanza (come soleva dire,”le stellette non facevano per me”) e dopo un breve periodo di lavoro quale muratore (quando avevamo occasione di passare per Piazza dei Re di Roma, al quartiere San Giovanni, mi mostrava sempre, con una sorta di orgoglio professionale, quel bel palazzo d’angolo che anche lui aveva contribuito a costruire), tramite il solito “paesano” venne assunto dalla Impresa Ugolini, che gestiva i trasporti urbani a Roma.
Poco tempo dopo, con la costituzione della Azienda tranviaria del Governatorato (ATAG), l’impresa Ugolini venne incorporata nella nuova struttura pubblica e, finalmente, fu un posto sicuro e fisso.
Sembrava, dunque, che le cose, finalmente, volgessero al meglio.
Il regime, eliminata ogni forma di dialettica politica e sociale (partiti e sindacati), si era ormai del tutto consolidato al potere e, quindi, iniziò una politica che, allora, venne generalmente considerata di notevole apertura sociale (costruzione di ospedali, linee ferroviarie, politiche previdenziali e di sostegno al lavoro, assistenza alle famiglie, specie se numerose). Sembrava, dunque, che, anche su di un piano più generale, le cose volgessero al meglio.
Mio padre non si è mai dichiarato fascista e soleva ripetermi, con un certo orgoglio, di non aver mai messo la “cimice” (il distintivo del regime, da portare all’occhiello della giacca; così definito, all’epoca, da un certo disincanto popolare, quasi per indurre un naturale senso di ripulsa). Aveva, in proposito, avuto una esperienza per lui molto singolare.
Una mattina, molto presto, mentre aspettava solitario l’arrivo del tram per recarsi al lavoro, venne avvicinato da due individui, poi qualificatisi come agenti della Milizia, che avevano ritenuto che fosse un “sospetto” per il solo fatto che andava in giro di mattina presto. La esibizione della tessera di tranviere chiarì ogni cosa. Ma lasciò un brutto ricordo per mio padre: non riusciva a capire come un onesto operaio potesse essere scambiato per una persona sospettabile di chissà quali cose. Ma questa era la filosofia del “sospetto”, tipica di tutti i regimi che, quasi avvertendo un senso di colpa per aver tolto le libertà individuali, si sentono assediati, temono e vedono dappertutto personaggi pericolosi, spie, sovversivi. E perciò pretendono di controllare capillarmente tutti gli aspetti del vivere, fino ad inoltrarsi dentro le stesse famiglie, attraverso la funzione di controllori -spia che avevano, all’epoca, i cosiddetti capi-fabbricato (oggi diremmo portieri).
Ancora oggi si sente, talvolta, ripetere dai più anziani che uno dei “meriti” del fascismo sarebbe stato quello di avere garantito la sicurezza ed il tranquillo vivere delle persone. In realtà molto spesso la delazione diveniva strumento di vendette personali: bastava che qualcuno segnalasse una o più persone come “sospette” perché scattassero i provvedimenti di polizia. Ricordo che un fratello di mio zio era solito riunirsi con alcuni giovani come lui, ora in questa, ora in quella abitazione, per una partita a carte. Furono segnalati come cospiratori ed inviati al confino di polizia: Carlo non ebbe un breve permesso neppure per sposarsi e ricordo sempre mio zio raccontare di quel matrimonio avvenuto per procura. Altro che sicurezza e tranquillità delle persone!
Nella nuova realtà della famiglia che si era creato dopo tante vicissitudini e sofferenze, mio padre era portato ad un atteggiamento, umanamente comprensibile, di arroccamento attorno al suo mondo affettivo, e a dare poco rilievo alle vicende politiche, finendo anche lui per partecipare di quella sorta di rassicurante ottimismo che, attraverso una sapiente propaganda, sembrava pervadere anche gli strati popolari della società.
Furono circa quattro anni di vita serena in una modesta casetta in subaffitto, in quella che, allora, era estrema periferia di Roma, la zona del Pigneto, al quartiere Prenestino.
Purtroppo si trattò solo di una breve parentesi: la moglie Luigia, a seguito di una polmonite che poi degenerò in tisi, morì ad appena ventinove anni. Allora la penicillina, che avrebbe definitivamente debellato la malattia, era stata da poco scoperta e sarebbe entrata in terapia generale solo alla fine degli anni trenta.
Mia sorella rimase, dunque, orfana, all’età di quattro anni, in quella notte del 5 gennaio 1932 in cui tutti i bambini attendevano fiduciosi l’arrivo della Befana.
Mio padre si trovò solo: provò a chiedere una mano alla nonna materna di mia sorella, ma dovette desistere per la insensibilità di lei, che nemmeno la tragedia della morte della figlia riuscì a muovere ad umana comprensione verso la nipotina.
Tentò allora con alcuni conoscenti che avevano anch’essi dei figli della stessa età di mia sorella. Ma la cosa si rivelò ben presto insostenibile e mio padre fu allora indotto a vedere in un nuovo matrimonio, con una donna “adatta” ad ereditare il ruolo di madre, l’unica possibilità di soluzione.
Mio padre aveva già conosciuto quella che sarebbe poi divenuta la sua seconda moglie e mia madre allorché ella, giovanissima, era “a servizio” presso una facoltosa famiglia di Montepulciano. Stando a quello che raccontava mia madre, le aveva fatto anche “la corte”, ma senza successo, perché mia madre era già fortemente innamorata di un bravo giovane; e, comunque, sempre stando a mia madre, mio padre, con un certo suo modo di fare da persona che ha una grande considerazione di sé, le era del tutto antipatico.
Le loro vite, però, erano destinate ad incrociarsi di nuovo sotto il segno di un comune destino di sfortuna.
Mia madre aveva avuto anch’essa una vita molto tormentata dalle avversità.
Era nata in un paese alle pendici del Monte Amiata, Abbadia San Salvatore, così chiamata dall’antica Abbazia, la più ricca della Toscana, costruita nel 1036, appartenuta prima ai benedettini poi ai cistercensi.
Nel paesino la vita era dura, strappata nelle viscere della terra da un esercito di minatori che estraevano mercurio nelle gallerie a 400 metri di profondità con turni di otto ore al giorno, in mezzo al frastuono del martello che scavava la roccia, con la polvere estrattiva che finiva quasi sempre per ulcerare i polmoni , le cosiddette “polveri”, che provocavano la silicosi. E, paradossalmente, questo tipo di malattia finiva per essere “ambita” e quasi cercata in quanto, una volta riconosciuta, dava diritto ad una rendita vitalizia. Ed era tale lo stato di miseria ed anche di sottocultura che non mancavano i casi di familiari che facevano riesumare i loro parenti per cercare di ottenere, quali superstiti, la rendita delle “polveri”.
L’alimentazione, pressoché esclusiva, era costituita dalla polenta di castagne, che veniva data anche ai neonati, quando la madre non poteva allattare e che costituiva un vero e proprio test di sopravvivenza per una spietata selezione naturale.
A quei tempi era abbastanza frequente che le donne morissero di parto: l’assistenza, infatti, sia per la donna che per il nascituro era scarsissima, rimessa, nel migliore dei casi, ad una delle rare “levatrici” esistenti o, in mancanza, a qualche anziana “praticona”.
Mia madre nacque praticamente orfana, in quanto la sua morì subito dopo averla data alla luce.
Mio nonno, che era rimasto con tre figli, un maschio ed una femmina, oltre mia madre, non indugiò neppure un anno e riprese in moglie una donna più giovane di lui di circa venti anni, con la quale ebbe ben presto una quarta figlia. Ciò determinò l’ostracismo verso i primi tre figli: infatti la nuova moglie, una povera donna analfabeta proveniente da una famiglia di pastori della maremma, non poteva certo avere quella apertura umana che le sarebbe stata necessaria per far da madre anche agli altri figli. L’unica figlia, nella sua primitiva sensibilità, era quella da lei partorita mentre gli altri erano, appunto, “altri”.
Così mia zia, che era la più “grandicella” (aveva, in realtà, appena dodici anni) fu mandata “a servizio” a Montepulciano.
Fu per lei una esperienza molto amara, come può essere, per una bambina, l’allontanamento da casa, anche se per lei, come per gli altri due fratelli, mia madre e mio zio, quella casa non avrebbe mai comunque rappresentato un luogo di affetti e di tenerezze. E, tuttavia, era pur sempre vista come il naturale rifugio da cui non ci si sentiva di distaccarsi.
L’amarezza fu resa ancor maggiore da una ulteriore dimostrazione di gelo affettivo: mia zia, presa dalla nostalgia di tornare “a casa!, scappò dal “servizio” e si fece, a piedi, in otto giorni, i circa sessanta chilometri che separano Montepulciano da Abbadia.
Ma, arrivata a casa, si vide respingere di nuovo e dopo essere stata per alcuni giorni ospite della “compassione” dei vicini, dovette tornare a Montepulciano, questa volta con il “postale”, come veniva allora chiamato il pullman di linea, grazie ad una colletta raccolta sempre tra i vicini.
A Montepulciano mia zia Vincenzina, come spesso succede alle persone respinte dalla famiglia e sradicate dal proprio ambiente, ebbe la sventura di affezionarsi ad un uomo che, dopo averla resa madre, non ne volle più sapere perché lui, maresciallo dell’Aeronautica, doveva sposare una donna “benestante”, come volevano i suoi genitori. E mia zia, con grande abnegazione e pari dignità, si adattò ad ogni forma di lavoro finché non riuscì ad ottenere una licenza di commercio ambulante per vendere frutta e dolci che lei stessa confezionava.
Anche mia madre, all’età di otto anni, senza neppure aver portato a termine la seconda elementare, venne mandata a servire presso una famiglia di Abbadia finché, raggiunta anche lei l’età di dodici anni, fu mandata a raggiungere la sorella maggiore a Montepulciano.
Quanto a mio zio, essendo un maschio poté difendersi meglio dall’ostracismo della famiglia finché, raggiunta una certa età, fu preso a benvolere dai maggiorenti del posto, i fratelli Baiocchi che, a loro volta, diventarono influenti personaggi del regime, in grado, quindi, di assicurare protezioni ed opportunità di vario genere.
A Montepulciano mia madre trovò lavoro presso una famiglia di origini fiorentine: marito ingegnere e moglie insegnante, con un figlio di pochi mesi.
Raccontava mia madre di essere stata presa a “benvolere” a tal punto che la signora le insegnava quello che non aveva potuto apprendere a scuola: leggere e scrivere, anzitutto.
Ma anche questa opportunità non era destinata a durare a lungo: in un incidente d’auto (cosa, a quei tempi, veramente insolita ), trovò la morte l’ingegnere e la famiglia si trasferì.
Questa volta mia madre, oltre a trovare un nuovo lavoro, trovò una cosa ancora più importante, l’amore di un bravo giovane, Ruggero.
In poco tempo decisero di sposarsi, anche perché Ruggero, che faceva il muratore, si era nel frattempo trasferito a Roma.
Vivevano sereni, in una casa in subaffitto (pratica, a quei tempi, molto diffusa tra la povera gente) ed una domenica decisero di andare al mare ad Ostia. Era stata da poco attivata la ferrovia elettrica Roma Lido ed aveva inizio quel pendolarismo domenicale che dura tuttora.
Al ritorno Ruggero aveva un gran febbrone. Sembrava una semplice insolazione ed invece era un tumore ai polmoni. Così, nel giro di pochi mesi, mia madre si trovò sola in una grande città. Provò a tornare qualche giorno a casa ad Abbadia ma, come già mia zia, trovò la porta chiusa.
Oggi sembra inverosimile tanta insensibilità verso le disavventure ed il dolore ma, a quei tempi, la legge della chiusura e del rifiuto verso persone in stato di bisogno, fossero anche dei familiari, era abbastanza frequente: c’era una sorta di arroccamento a difesa di quel poco che si aveva in casa e non si intendeva spartirlo con chi fosse da considerare, come nel caso di mia madre, una “estranea” rispetto alla nuova famiglia che mio nonno si era ormai ricostituito.
Fu in questi frangenti che, attraverso quella rete misteriosa e quasi invisibile di conoscenze e di informazioni che circolavano tra “paesani”, mio padre venne a sapere della situazione di mia madre e, senza troppe esitazioni, tornò a proporsi.
Come già detto, mia madre non aveva avuto in simpatia mio padre quando, anni addietro, lo aveva conosciuto a Montepulciano: per lei, quindi, fu alquanto difficile entrare nell’ordine di idee di sposarlo. Aveva paura di fare un matrimonio forzato dalla necessità e contaminato dalla “convenienza”, specie nel raffronto con l’amore che aveva nutrito per il “povero Ruggero”. Ciò che, alla fine, la determinò al passo, fu l’incontro con mia sorella, una bimbetta molto graziosa e vivace, verso la quale sentì subito un forte trasporto: mia madre, persona di grande semplicità e mitezza, raccontava di averla subito presa in grande affezione. Effettivamente fu per lei una seconda mamma, come soleva ripetere mia sorella, e riversò su Margherita tutta quella carica affettiva che ella non aveva mai potuto avere dai propri genitori.
Mio padre era un uomo dalla mentalità alquanto rigida ed in un certo senso anche diffidente. Aveva sposato mia madre soprattutto per trovare una soluzione al problema costituito dalla necessità di accudire mia sorella. Non che mia madre dovesse essere una sorta di semplice bambinaia; tuttavia, la principale preoccupazione era quella di sapersi sicuro della presenza di una persona che, amorevolmente, si prendesse cura della bambina. In questa ottica, mio padre temeva che l’eventuale nascita di altri figli determinasse uno spostamento di affetto, da parte di mia madre, verso i nuovi arrivati.
Così, quando mia madre rimase incinta, mio padre non esitò a farla abortire, con i metodi empirici propri di quei tempi. Quando fu di me, tuttavia, nonostante alcuni tentativi di interrompere la gravidanza (un “paesano” di mio padre lavorava come commesso in una farmacia ed era solito procurargli intrugli vari) io riuscii ad arrivare al nono mese ed a vedere la luce.
Naturalmente mia madre mi volle un gran bene ed anche mio padre, passata la iniziale preoccupazione, prese ad amarmi, sia pure a modo suo, senza tante effusioni esteriori e senza quelle ansie, talvolta, forse, anche eccessive di cui mi circondava mia madre.
Con mia sorella si creò subito quel rapporto affettuoso-protettivo che è tipico del maggiore rispetto al più piccolo. Appena riuscii a pasticciare le prime parole, presi a chiamare mia sorella con il nomignolo “Dida”, continuando a farlo anche da grande, quasi a voler conservare una continuità con quella schiettezza ed intensità di affetto che aveva accompagnato la nostra infanzia.
Io sono nato a settembre del 1935, sotto il segno della Bilancia, proprio alla vigilia della aggressione all’Etiopia da parte del fascismo .
Erano tempi di grande consenso al regime, sull’onda di una infatuazione pressoché generale che la propaganda aveva saputo sapientemente canalizzare intorno ai “destini imperiali” dell’Italia, alla sua “vocazione” espansiva fino all’oceano indiano. Nell’occasione, come alla vigilia di tutte le imprese coloniali, era stata rispolverata una motivazione di grande presa popolare: il miraggio di uno sbocco verso grandi opportunità di lavoro e di arricchimento (il “posto al sole”) in terre che, a detta della propaganda ufficiale, sembravano solo attendere di essere conquistate dalla nostra grande “missione” di civiltà e di progresso (“noi ti daremo un altro Duce e un altro Re”, diceva la famosa canzonetta intitolata “Faccetta nera”). Nessuno poteva immaginare le atrocità che sarebbero state commesse contro le popolazioni somale: c’era l’informazione unica dell’Istituto-Luce, tutta all’insegna del trionfalismo di regime ed anche i giornali dal passato prestigioso si erano completamente asserviti. Nessuno poteva sapere che “l’incidente” di Ual-Ual era stato appositamente costruito per simulare una aggressione alle truppe italiane e trovare così un pretesto per scatenare una guerra di conquista contro un popolo inerme.
Tutte cose che avrei appreso dopo, sui libri: ma se fossi stato adulto a quell’epoca forse, chissà, anch’io sarei stato suggestionato dalla retorica del “posto al sole” e forse sarei stato tra coloro che, il sei maggio 1936, a piazza Venezia, in un bagno di entusiasmo popolare e di bandiere al vento, accolsero l’annuncio che “sui colli fatali di Roma risorge l’impero”.
Mi sono spesso domandato: perché tanto consenso ad un regime che aveva soppresso ogni libertà individuale , che aveva fatto della esaltazione del militarismo la propria bandiera, che aveva la pretesa di intervenire anche negli aspetti più intimi e riservati della nostra esistenza, all’interno della stessa famiglia, delle mura domestiche? (in ogni palazzo c’era il “capofabbricato” che aveva il compito di controllare la vita all’interno dell’abitato, la eventuale esistenza di persone “sospette” di sovversivismo e riferirne al fascio di zona).
Ricordo che una volta, giocando per strada con i miei amichetti, facendo, come era naturale, un po' di chiasso, un “fiduciario del fascio” avvertì mio padre che, se la cosa si fosse ripetuta, “lo faccio rinchiudere dal fascio”. E mio padre ebbe veramente paura che non fosse un semplice bonario rimprovero, perché, effettivamente, si viveva in un clima di paura, di sospetto, di diffidenza anche all’interno di uno stesso stabile.
Nonostante tutto questo, suggestionata dalla sapiente propaganda che, attraverso la retorica della Patria “finalmente rispettata” all’estero, riusciva a suscitare nelle moltitudini un malinteso sentimento di “orgoglio nazionale”(che era, poi, il riflesso di quell’individualismo che è presente in ognuno di noi); colpita ed ammirata dalle “opere” del regime, alcune delle quali di sicuro impatto sociale (Ospedali, sanatori, bonifiche di terre già insalubri, disoccupazione “ufficialmente” inesistente), la grande maggioranza degli italiani si sentì tutt’uno con il fascismo, felice di essersi appiattita in una delega generale ad esso, in una sorta di “pensiero unico” (tanto c’era chi pensava a tutto).
Questa generale colpevole deresponsabilizzazione si trasformerà, poi, in una storica responsabilità collettiva allorché il fascismo, forte del consenso popolare fino ad allora goduto, con suprema incoscienza e cinismo (“mi occorrono poche migliaia di morti per sedermi al tavolo dei vincitori”, dirà Mussolini) trascinerà l’Italia nella guerra e nella catastrofe nazionale, con un paese ridotto, alla fine, ad un cumulo di macerie ed umiliato di fronte al mondo intero.
Una casa tutta per noi.
Nel 1938 la nostra famiglia fece un piccolo passo in avanti in termini di promozione sociale: mio padre poté, finalmente, permettersi di affittare, tutto per noi, un piccolo appartamento in un quartiere allora di estrema periferia, il Prenestino, abbandonando quella condizione di forzata coabitazione in subaffitto che tanti disagi arrecava ad ogni famiglia che vi fosse costretta.
Mio padre raccontava che si era deciso a questo passo anche perché era riuscito a mettere da parte alcuni risparmi inaspettati.
Cosa era successo? Era successo che c’era stata, nel mese di maggio, la visita di Hitler a Roma e tutta la città era stata mobilitata per una accoglienza festosa, “degna” del personaggio (chi poteva, tra la gente comune, pensare che, di lì a pochi mesi, dopo l’annessione della Cecoslovacchia e dell’Austria, avrebbe scatenato la seconda guerra mondiale?). Mio padre faceva il tranviere e, nell’occasione, gli vennero imposti turni straordinari di lavoro, per dare all’illustre ospite l’immagine di una città moderna ed efficiente nei servizi essenziali. Mio padre decise di investire la piccola somma aggiuntiva percepita in virtù degli “straordinari”, dandola in deposito per l’affitto di un appartamento “tutto nostro”.
Era l’anno 1938 - entrammo nella nuova casa il giorno di San Pietro - e nubi di guerra cominciavano ad addensarsi minacciose sull’Europa.
A settembre la conferenza di Monaco avrebbe segnato la resa delle “democrazie occidentali” al nazismo, resa contrabbandata come una “offensiva di pace”: con un documento presentato come una mediazione dall’Italia - su cui il regime impiantò la fama di Mussolini salvatore della pace - in realtà predisposto nei minimi particolari dalla stessa Germania, con l’Italia a fare da passacarte, il nazismo incorporava il territorio dei Sudeti, in Polonia, da tempo rivendicato in ragione della presenza di una popolazione in maggioranza di ceppo tedesco. Già c’era stata la annessione dell’Austria e, nel marzo del 1939, mediante la istituzione di un protettorato tedesco sulla Moravia e sulla Boemia, praticamente spariva la Repubblica cecoslovacca.
I tempi erano ormai maturi e la Germania, dopo essersi assicurata la neutralità dell’Unione Sovietica, nel settembre 1939 scatenò la seconda guerra mondiale.
In Italia l’entrata in guerra venne rinviata in quanto, nonostante il militarismo ed il bellicismo fossero stati tra i motivi dominanti della propaganda di regime, si dovette ammettere che, quanto a mezzi e risorse militari, eravamo del tutto inadeguati ad affrontare un grande sforzo bellico. Cominciava, tuttavia, il clima di guerra e le prime restrizioni, soprattutto alimentari, che colpivano in primo luogo gli strati popolari.
La nostra entrata in guerra nel giugno 1940 fu decisa nella convinzione, rivelatasi tragicamente errata, che il nazismo avesse ormai vinto: le truppe tedesche avevano già sfilato sotto l’Arco di Trionfo a Parigi e la Francia stava già trattando la resa: insomma il regime gettò il paese nella guerra non solo all’insegna dell’incoscienza e della più assoluta irresponsabilità, con lo stesso cinismo dei giocatori d’azzardo, ma anche all’insegna di una vera e propria “vigliaccata” verso un paese tradizionalmente amico come la Francia, ormai in ginocchio.
Con la guerra in atto ci fu la introduzione della cosiddetta tessera annonaria, un cartoncino grigio recante un numero, le generalità dell’intestatario e tanti tagliandini rettangolari, a ognuno dei quali corrispondeva una certa quantità dei beni razionati, rigorosamente assegnati a ciascuno quali pasta, riso, olio, burro, zucchero.
Via via vennero razionati anche altri prodotti, fino al pane. Per quest’ultimo la razione di 200 grammi giornalieri a testa era assolutamente insufficiente: cominciava lo spettro della fame.
Spesso i prodotti scarseggiavano e bisognava “fare la fila” per ore e ore, scontrandosi con vere e proprie ingiustizie poiché le prime scorte andavano agli appartenenti alla Milizia, alle Forze Armate, al Podestà, agli esponenti del fascio: le mogli di questi ultimi erano esentate dal fare la fila e, naturalmente, guai a protestare.
Sorse, allora, accanto al mercato ufficiale, un mercato illegale parallelo, la cosiddetta “borsa nera”, cui si faceva sempre più ricorso a causa dell’assoluta insufficienza dei prodotti razionati.
Il luogo della contrattazione è quasi sempre lo stesso locale del negoziante abituale ed il cliente non discute il prezzo, perché si tratta, in realtà, di un “prendere o lasciare”: tutt’al più poteva sperare in una dilazione del pagamento. Ed il pagamento avveniva, talvolta, spogliandosi di alcuni beni personali, oggetti di un grande valore affettivo, pezzi di storie individuali, che tuttavia potevano servire ad acquistare a malapena qualche chilo di carne. La guerra era anche questa umiliazione, questa ferita morale che si aggiungeva a quelle fisiche degli stenti e della fatica quotidiana.
Ma neppure la “borsa nera” può bastare a risolvere il problema della fame.
I prezzi, con il protrarsi della guerra, lievitano rapidamente fino a limiti intollerabili, falcidiando le già misere retribuzioni che il regime, tramite i sindacati corporativi, aveva dal canto suo ridotto in nome della “salvezza della lira”.
Allora ci si organizza e col tram, con dei carretti o, addirittura, in bicicletta, si esce dalla città per recarsi nelle campagne più vicine dove si accaparra tutto quanto è possibile acquistare a prezzi più accessibili.
Ricordo che dalla parti dove abitava la mia famiglia veniva a vendere i suoi prodotti, direttamente casa per casa, una donna che chiamavano “la burina” perché veniva dalle zone della Ciociaria, sobbarcandosi quasi tutti i giorni un lungo e faticoso viaggio sulla “corriera” traballante e mezzo scassata, camminando, una volta sbarcata dal pullman sulla via Casilina, con una enorme cesta di vimini poggiata sul capo, piena di tutte le possibili merci (verdura, frutta, uova, pollami), avendo come base una ciambella fatta con un fazzoletto di stoffa. Come se non bastasse, nella mano destra riusciva a portare sempre un’altra cesta più piccola: era incredibile vederla mantenere quel miracoloso equilibrio e ricordo di non aver mai visto cadere nulla del prezioso carico contenuto nella cesta. Ragazza madre con un figlio disabile da mantenere, non aveva nulla della profittatrice di guerra ma cercava di strappare la vita, anzitutto per il suo bambino, portando la sua croce con grande dignità.
A parte la penuria di mezzi alimentari, a Roma, fino al luglio 1943, non c’erano state incursioni aeree e lo stato di guerra veniva avvertito non direttamente dal frastuono delle armi ma da alcuni segni esteriori .
Sui tram facevano la loro comparsa le “ausiliarie”, donne assunte con contratto a termine, fino alla fine della guerra, in sostituzione degli uomini “richiamati”.
A quell’epoca, infatti, il lavoro delle donne era considerato una anomalia, una eccezione, quasi una devianza rispetto alla “naturale” vocazione femminile, tutta rivolta alla riproduzione della prole ed all’accudimento delle faccende domestiche .Gli unici lavori concepibili come “normali” per una donna erano quelli cosiddetti “manuali e donneschi” - tipo cucinare e rammendare - da svolgere nell’ambito della propria casa, i quali costituivano, addirittura, materia di insegnamento scolastico, come risulta dalle pagelle dell’epoca. Tutto ciò rendeva bene l’idea della donna ritenuta, in quanto tale, incapace di svolgere, salvo rare eccezioni, lavori che richiedessero un certo impegno di intelligenza.
Altro segno che si era in guerra veniva dal fatto che i palazzi, nelle facciate laterali, venivano dipinti di nero per “meglio mimetizzarli” nella oscurità e non offrirli quali possibili bersagli ai bombardamenti. A questo proposito c’era un corpo specializzato, l’Unione Nazionale Protezione Antiaerea (U.N.P.A.), che entrava in azione al calar della sera, quando iniziava “l’oscuramento” ed, urlando dalla strada, invitava le famiglie che tenessero troppe luci accese ad abbassarle (ricordo l’urlo: “luce al quarto piano!”).
Sui vetri delle finestre era fatto obbligo di stendere delle strisce di carta adesiva, così da proteggere i vetri stessi contro lo spostamento d’aria provocato dalle bombe. Sulle terrazze dei palazzi, poi, erano state installate alcune mitragliatrici che avrebbero dovuto costituire lo sbarramento antiaereo: nelle intenzioni di chi ve le aveva messe avrebbero dovuto contrastare le fortezze volanti, i micidiali bombardieri americani che seminarono morte e distruzione anche a Roma.
Ogni edificio di nuova costruzione aveva, poi, nel sotterraneo, “rifugi antiaerei”, in realtà locali privi di qualsiasi efficace struttura di sostegno, tanto che, in occasione dei bombardamenti di Roma, si trasformarono in atroci camere di morte.
Infine, il segno della guerra veniva anche da circostanze che oggi indurrebbero al sorriso ma che, all’epoca, venivano presentate come cose estremamente serie e, addirittura, patriottiche: i cosiddetti “Orti di guerra”, inventati dal regime nell’illusione di incrementare la produzione del grano (orti di guerra furono piantati in tutti i giardini pubblici, come nel giardino antistante la stazione di Milano) e forse anche per suscitare il mito della nazione che stringe la cinghia e i denti ma rimane unita al regime e non si arrende.
Nel dicembre del 1940 la guerra bussa anche alla porta di casa nostra: mio padre è richiamato alle armi e deve al più presto partire.
In tali momenti non c’è amore di patria che tenga : la prima preoccupazione è quella di evitare di finire al fronte.
Noi avevamo un carissimo amico di famiglia, Ernestino, una persona veramente dabbene, attaccatissimo a mia sorella Margherita sin da quando era rimasta, all’età di quattro anni, orfana della mamma che, da giovane, era stata al servizio appunto presso la famiglia di Ernestino.
Di famiglia della alta borghesia livornese, Ernestino era cognato del Generale Emilio Gamerra, aiutante di campo del Principe di Piemonte Umberto, il futuro Re Umberto II il “Re di maggio”. Con la più classica delle raccomandazioni mio padre riuscì ad evitare il fronte e venne assegnato, quale ex finanziere, alla batteria costiera presso il litorale di Ostia.
Conservo ancora una vecchia foto di mio padre accanto ad un capanno sulla spiaggia, con una mitragliatrice puntata verso il mare: era quello il tipo di sbarramento di cui disponevamo in caso di sbarco nemico; quelle le armi con cui avremmo dovuto ricacciare il nemico “sul bagnasciuga”, secondo una infelice frase di Mussolini passata alla storia per la sua tragica comicità (aveva confuso il “bagnasciuga” con la battigia).
Nel dicembre del 1941, insolitamente, a Roma nevicò. Le vicende della guerra si stavano mettendo male per noi ed avevamo già perso le nostre colonie in Africa settentrionale. Svanita l’illusione della guerra-lampo il Duce, come già i generali felloni durante la prima guerra mondiale, dava la colpa dei rovesci militari “alla viltà dei soldati”, mandati a morire in Russia di fame e di freddo, equipaggiati con stracci e scarpe di cartone.
“Questa neve e questo freddo vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana. Una delle principali ragioni per cui ho voluto il rimboschimento dell’Appennino è stata per rendere più fredda e più nevosa l’Italia”: così farneticava Mussolini da dietro i vetri di Palazzo Venezia, secondo quanto riferisce Ciano.
Tra i poveracci mandati a morire in Russia ricordo un uomo di nome Orazio la cui moglie, Tuta, abitante nella nostra stessa via, per essere stata coinvolta in una storia di aborto era finita in carcere alle Mantellate (l’antico monastero di Trastevere a suo tempo convento di suore che, dal mantello che indossavano, erano appunto dette “mantellate”).
In carcere aveva anche partorito un figlio che, divenuto grandicello, era un nostro compagno di giochi.
In tempi di guerra, di fame e di miseria, la nascita di un figlio poteva divenire un grosso problema: l’aborto clandestino tramite qualche “praticona” poteva allora avere anche ragioni sociali abbastanza comprensibili. Ma per un regime che aveva fatto della espansione demografica il fondamento della propria etica militarista, un aborto equivaleva ad un vero e proprio tradimento. La donna che abortiva, così come chi, con mezzi del tutto empirici, procurava un aborto, venivano puniti con inflessibile rigore, come “sabotatori e sovversivi”.
In questa demonizzazione dell’aborto il regime aveva tutto l’appoggio della Chiesa che, da tempo compromessa con il fascismo (come già detto, il Papa Pio XI aveva definito Mussolini “l’uomo della Provvidenza”), era a sua volta impegnata “a difesa della vita”. Ma allora perché non battersi a difesa della vita anche di coloro che, fra i ghiacci della Russia, come il povero Orazio e tanti altri , morivano a centinaia di migliaia?
La Borsa nera.
Con la guerra non c’era più la paga dell’azienda tranviaria: al suo posto il “sussidio” alle famiglie dei richiamati. Già i soldi di una paga operaia erano pochi, figuriamoci poi se un sussidio poteva bastare, dovendo mia madre, come tutti, fare ricorso ai prezzi selvaggi della “borsa nera” per non morire di fame.
Come in tutti i periodi di grandi ristrettezze economiche, si torna all’economia del baratto. Stando ad Ostia mio padre conobbe alcune famiglie di contadini dell’entroterra alle quali portava, mettendole in bella mostra sul portabagagli della bicicletta, sigarette, scarponi e quant’altro riuscisse a rimediare: in cambio riceveva farina, fagioli, patate, qualche gallina e qualche uovo.
Da questo iniziale rapporto di scambio nacque una profonda amicizia, per una sorta di solidarietà tra gente che, per molti aspetti, aveva percorso le stesse sofferenze ed era abituata alla stessa schiettezza e sincerità di rapporti.
E così mio padre faceva la staffetta fra Ostia e Roma: ricordo che mia madre, essendo la nostra casa molto piccola, metteva le patate sotto il letto e, col tempo, sbirciavano fuori, invadendo il pavimento, grovigli di bianche escrescenze filamentose.
Tutto sommato, la guerra, per noi, poteva dirsi ancora lontana.
Ad Ostia gli alleati non pensarono mai di sbarcare. A Roma, poi, i bombardamenti sembravano da escludere: c’era il Papato che, con la sua autorità spirituale, in qualche modo faceva da deterrente rispetto a qualsiasi proposito aggressivo e sembrava preservare la città dalla sorte toccata a molte altre città italiane.
Il Presidente americano Roosevelt dette assicurazioni in tal senso al cardinale Spellman senza escludere, tuttavia, che ,”ove le circostanze lo avessero imposto.............”.
E le circostanze vennero.
ROMA SOTTO LE BOMBE.
Era il 1943 e l’Italia aveva ormai perso la guerra. Gli alleati, ai primi di luglio, erano sbarcati in Sicilia senza trovare alcuna resistenza e stavano risalendo la penisola.
Il fascismo aveva le ore contate, lo stesso Mussolini se ne era reso conto e, nell’estremo tentativo di salvare il regime, cercò, senza riuscirvi, di ottenere da Hitler l’assenso ad una uscita dell’Italia dalla guerra, incontrandolo a Feltre lo stesso giorno che gli alleati bombardarono Roma.
Era così giunto il momento di sferrare un colpo mortale al regime e lo strumento più opportuno fu ritenuto, da parte degli anglo-americani, un bombardamento terroristico su Roma, con apparenti obiettivi di strategia militare ma, in realtà, con l’unico scopo di seminare terrore e panico nelle popolazioni civili, così da indurle a liberarsi dalla oppressione del regime e spingerle verso la richiesta dell’armistizio.
Il 19 luglio del 1943 era una bella e calda giornata di lunedì.
Mia madre doveva andare a riscuotere “il sussidio”, corrisposto alle famiglie dei richiamati alle armi, nella zona di Piazza Mazzini, al quartiere Prati e, siccome le scuole erano ormai chiuse, non potendo lasciarmi solo in casa mi portò con sé.
Mia sorella Margherita, infatti, nonostante avesse appena sedici anni, era stata assunta al Ministero della Guerra quale avventizia dattilografa in sostituzione degli impiegati richiamati alle armi. A casa era rimasto solo un canarino, che, in mancanza di un balcone, tenevamo in una gabbietta appesa fuori dalla finestra.
Nessuno credeva alla eventualità di un bombardamento su Roma: fino ad allora, infatti, a differenza di altre città come Milano, Torino, Genova e Napoli, la città “sacra” era stata risparmiata in ossequio alla presenza del Papa.
Durante la notte tra la domenica ed il lunedì c’era stata, anche nel mio quartiere, un pioggia di volantini con i quali gli alleati, preannunciando il bombardamento, raccomandavano alla gente di tenersi lontana dagli obiettivi militari. In verità nessuno vi credette più di tanto, anche perché, nella zona, non vi erano veri obiettivi militari: quello che venne poi addotto a motivo del bombardamento, lo scalo ferroviario di San Lorenzo, era ufficialmente uno scalo merci apparentemente privo di importanza strategica.
Verso le undici suonarono le sirene di allarme ed insieme ad altre persone ci rifugiammo all’interno della Chiesa del Cristo Re, nei pressi di Piazza Mazzini.
Non avvertimmo nulla e verso le due, suonato il cessato allarme, con mia madre prendemmo la “circolare rossa” per tornare verso casa.
Giunti nei pressi del Policlinico cominciammo a renderci conto di quanto era successo: tram fuori dai binari, alcuni completamente capovolti, altri incastrati fra di loro.
Fatta poca strada vedemmo la Chiesa di San Lorenzo ridotta ad un cumulo di macerie. Ma ancor più agghiacciante fu lo scenario che vedemmo nel piazzale antistante l’ingresso del cimitero del Verano: qui i poveri corpi dei fiorai giacevano accanto ai loro banchi, falciati dagli spezzoni incendiari e dalle schegge sprigionate dalle bombe che avevano colpito l’interno del cimitero devastando numerose tombe (tra cui quella della famiglia del Papa Pacelli e quella del celebre attore romano Ettore Petrolini), le cui macerie si vedevano sparse qua e là.
Ispirandosi a questo episodio il poeta Vincenzo Ungaretti scriverà una poesia che comincia con le parole: cessate di uccidere i morti.
Questo atto veramente profanatore, questo non rispettare nemmeno i defunti, venne a lungo considerato un errore di mira da parte dei bombardieri, una sorta di incidente di percorso che, secondo la pudica terminologia usata recentemente per la guerra dei Balcani, si sarebbe potuto definire, anche a quel tempo, “danno collaterale”.
Studi recenti hanno accertato che non si trattò di errore di mira, anche perché i bombardieri erano dotati di sofisticati strumenti di individuazione degli obiettivi: gli alleati, in realtà, avrebbero colpito l’interno del cimitero nella convinzione che vi si celassero postazioni tedesche.
Ad accrescere ancor più l’aspetto apocalittico del momento, accanto a palazzi ridotti ad un cumulo di macerie ovvero tagliati a metà come colpiti dalla lama di un coltello, con i mobili ancora sospesi sui solai; a gente disperata che fuggiva portandosi le povere masserizie su mezzi di trasporto improvvisati (carrette, tricicli, carrozzine), la cosa che più mi colpì fu il vedere alcuni edifici trasformati in un immenso rogo: bruciavano il palazzo della “Birra Peroni” e la vetreria “Sciarra”, due ditte molto conosciute. Ed ancora, poco più avanti, erano stati colpiti l’edificio del carcere minorile e quello dell’orfanotrofio di Via dei Volsci: insomma le bombe non avevano fatto sconti proprio a nessuno.
Con mia madre camminavano quasi di corsa, ansiosi di arrivare nel nostro quartiere per vedere cosa vi fosse successo : in un intreccio di paure trasversali noi non sapevano nulla di mia sorella che, a sua volta, si preoccupava di noi; mio padre, poi, militare ad Ostia, aveva saputo del bombardamento anche del nostro quartiere ma non poteva sapere nulla della nostra sorte. Insomma ci sentivamo del tutto separati gli uni dagli altri e tutti egualmente in preda ad una tremenda angoscia.
Del resto questo era ed è tuttora la guerra: non solo distruzione materiale ma anche qualcosa di più profondo, che devasta i circuiti affettivi sommergendoli di paure, incertezze, angosce.
Giunti nei pressi della Porta Maggiore vedemmo l’edificio del Pastificio Pantanella tutto in preda alle fiamme. E fiamme ci cadevano sulla testa nell’attraversare il sottopasso del ponte sulla ferrovia Roma – Cassino.
Arrivammo finalmente nel nostro quartiere che, almeno a prima vista, ci sembrò abbastanza scampato alle bombe: solo alcuni palazzi antistanti la ferrovia erano stati danneggiati, ma non c’era quello spettacolo terrificante che avevamo visto poco prima a San Lorenzo.
Ricordo che per il gran caldo, l’arsura, l’angoscia e la corsa fatta, avevamo una gran sete e ci parve una visione miracolosa quella di mia zia Nunzia che ci veniva incontro con un fiasco di acqua fresca: fu insieme ristoro e commozione grandissima, il primo segnale di una qualche speranza dopo tanta disperazione. Ancora oggi sono portato ad identificare il ricordo di mia zia con quell’acqua ristoratrice, un gesto che forse andava oltre il sollievo dalla sete per divenire un segno di tenerezza e di solidarietà familiare che, comunque, neppure la guerra era riuscito ad infrangere.
A casa trovammo mia sorella che ci poté finalmente abbracciare. Fuori dalla finestra il canarino in gabbia era sopravvissuto all’inferno delle bombe. Purtroppo finì poi per morire in un secondo tempo, cadendo con tutta la gabbia e rimanendo schiacciato dalla tavoletta di base della stessa.
Rimaneva, per noi e per mio padre, l’angoscia di non sapere nulla delle condizioni in cui reciprocamente ci eravamo venuti a trovare.
In effetti mio padre era riuscito in qualche modo ad arrivare da Ostia fino alla zona della Magliana dove, però, alcuni appartenenti alla Milizia fascista, vistolo in divisa da finanziere, lo costrinsero a tornare indietro.
Mio padre non era tipo da rassegnarsi facilmente, figuriamoci poi in una situazione del genere. Il giorno dopo si procurò degli abiti civili e dopo varie vicissitudini riuscì a raggiungerci a casa.
Si trattava, ora, di non rimanere più in una zona esposta ai bombardamenti.
Iniziava, anche per noi, quello che fu chiamato lo “sfollamento”, la fuga dai quartieri colpiti per andare alla ricerca di un posto più sicuro al centro di Roma.
Il bombardamento si era, infatti, abbattuto sui quartieri popolari di periferia: San Lorenzo, Prenestino, Tiburtino, ove ci furono circa tremila morti sotto circa quattromila bombe.
Non furono, invece, neppure sfiorati i quartieri centrali.
A pensarci bene le ragioni di questo “privilegio” potevano essere anche comprensibili: non toccare il Vaticano, non danneggiare le grandi zone archeologiche come il Foro Romano, il Foro Italico (allora si chiamava “Foro Mussolini”), la via Appia Antica. Da questa specie di zona franca il Re potè così “osservare” il bombardamento dei quartieri periferici con il cannocchiale dalla residenza estiva di Villa Savoia (oggi Villa Ada).
Sta di fatto che il bombardamento segnò, nella sua terrificante logica, una precisa discriminante sociale, colpendo esclusivamente quelle zone popolari periferiche dove, per ragioni economiche, tradizionalmente viveva la povera gente, in una sorta di emarginazione che la accomunava ad altre fasce di disagio sociale: il carcere minorile di via dei Reti e l’orfanotrofio di via dei Volsci a San Lorenzo, luoghi di “accoglienza” per un’infanzia precocemente segnata dalle avversità della vita.
La discriminante sociale finì per assumere anche un carattere politico.
“Sotto le bombe c’era San Lorenzo, uno dei quartieri popolari romani di più forte tradizione comunista e antifascista, l’unica zona della città in cui gli squadristi della marcia su Roma, nel 1922, non riuscirono ad entrare” (Cesare De Simone, Venti Angeli sopra Roma, Ed.Mursia).
Tragica ironia della sorte - ma fu veramente un caso? - il quartiere più popolare ed antifascista finì per pagare il prezzo più elevato per quel bombardamento che, secondo gli alleati, aveva lo scopo principale di accelerare la caduta di Mussolini: insomma, una sorta di bombardamento “antifascista” che, tuttavia, finì per colpire soprattutto i veri antifascisti dei quartieri popolari della periferia.
Tornando ora allo sfollamento, contando sull’amicizia e sulla generosità di Ernestino, come affettuosamente chiamavamo quella cara persona che tanto aveva preso a ben volere mia sorella sin da quando era rimasta orfana della mamma, i miei genitori ritennero che la sua casa, che era molto ampia e posta in una zona centrale, ci avrebbe potuto ospitare.
Così, radunate alla meglio alcune masserizie sulla bicicletta di mia sorella, ci mettemmo in marcia insieme a tutto il popolo degli sfollati, verso quella che per noi era la “terra promessa”, la casa di Via Silvio Spaventa, n.10, una traversa di Via Flavia, in pieno centro, dove oggi ha sede il Ministero del Lavoro.
Il primo bombardamento di Roma più che una operazione militare fu una operazione politica: far capire agli italiani che se non avessero ripudiato il fascismo la guerra continuava, ed il prezzo sarebbe stato solo quello, macerie e annientamento.
Di lì a pochi giorni, il 25 luglio, Mussolini fu arrestato e cadde il fascismo, non certo a seguito di una sommossa popolare che non ci fu (e, forse, non avrebbe potuto esserci) ma a seguito di una operazione di palazzo in cui fascisti e ministri della Real Casa si trovarono uniti nel comune proposito di liberarsi della ormai intollerabile presenza del Duce e di salvare, nella continuità di un regime autoritario (una sorta di fascismo senza Mussolini), le proprie sorti.
Eliminato Mussolini, sarebbe stato necessario fare quello che lo stesso “Duce” non ebbe il coraggio di fare il giorno in cui incontrò Hitler a Feltre (era il 19 luglio 1943, il giorno del primo bombardamento su Roma): dire con chiarezza ai tedeschi che l’Italia non ce la faceva più a continuare una guerra ormai persa e che, quindi, avrebbe iniziato a trattare la resa con gli alleati.
Una iniziativa del genere sarebbe dovuta partire dal Re, rientrato nel pieno possesso delle sue prerogative di Comandante supremo delle Forze Armate. Invece si cercò solo di prendere tempo, rassicurando i tedeschi sulla fedeltà all’alleanza con la nota frase: “la guerra continua….”. Ancora al mattino dell’8 settembre, il giorno dell’armistizio, il Capo di Stato maggiore generale, Roatta, ribadirà al nuovo ambasciatore tedesco a Roma, con una vera e propria presa in giro, “la decisione di continuare fino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale l’Italia è legata per la vita e per la morte”.
“Come non provare il dubbio che, se ci fu in Italia tanta ferocia, se la bestialità nazista si scatenò con tanta efferatezza, se avemmo tanti impiccati, torturati, massacrati, ciò non sia dipeso anche dal modo come Vittorio Emanuele III, Badoglio, Ambrosio aizzarono i carnefici?“ (Ruggero Zangrandi).
Questo meschino espediente dilatorio non fu che l’inizio di quella pusillanime ambiguità che durò fino all’armistizio e divenne vera e propria vigliaccheria di lì a poco, con la fuga del Re e del Governo a Pescara.
Avendo appena otto anni, non potevo rendermi conto dell’importanza della caduta del fascismo. Vidi gente scendere in piazza in segno di grande giubilo. Vidi - e questo mi colpì davvero - esposta in una edicola della adiacente via Quintino Sella la pagina della “Domenica del Corriere”, il settimanale di cronaca più diffuso, con un ritratto del famoso disegnatore Beltrame raffigurante il Maresciallo Badoglio, il successore di Mussolini designato dal Re alla guida del nuovo Governo.
Con curiosità chiesi a mia madre chi fosse e lei mi disse che era il “nuovo Duce”.
In effetti la figura del “Duce del fascismo” , del tutto estranea all’ordinamento costituzionale, non poteva più esserci, era stata solo una invenzione del regime. E, tuttavia, nella ingenua logica di mia madre - finito un Duce non poteva che venirne un altro - c’era un fondo di verità: Badoglio, nelle intenzioni degli autori del colpo di Stato, avrebbe dovuto rappresentare la piena continuità con il fascismo, un Governo forte ed autoritario, pronto a reprimere qualsiasi manifestazione popolare. I detenuti politici, infatti, non furono subito liberati ed il Generale Roatta intimò di sparare a vista in caso di manifestazioni: “nella situazione attuale, col nemico che preme, qualunque perturbamento dell’ordine pubblico, anche minimo e di qualsiasi tinta, costituisce tradimento e può condurre, ove non represso, a conseguenze gravissime. Qualunque pietà e qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertanto un delitto. ….Non è ammesso il tiro in aria. Si tira sempre a colpire come in combattimento”. Insomma, una sorta di fascismo senza Mussolini, divenuto ormai estremamente scomodo ed impopolare, un inutile impaccio in vista di una via di uscita che la Monarchia perseguiva nell’ esclusivo intento di salvare sé stessa dallo sfacelo di una guerra ormai irrimediabilmente perduta e della quale portava la gran parte di responsabilità.
Tra le tante responsabilità il Re - che, a norma dello Statuto, era il Comandante supremo delle forze armate - aveva anche quella di avere delegato a Mussolini tutta la gestione delle operazioni militari, avallandone tutte le decisioni, anche quelle più avventate, pago del titolo di “Re d’Italia e di Albania ed Imperatore d’Etiopia”, con cui il fascismo lo aveva ancor più legato ai suoi scellerati destini, facendo leva sulla sua meschina ambizione personale.
ANCORA BOMBE SU ROMA.
Di lì a pochi giorni, il 13 agosto, Roma subì un altro bombardamento.
Anche questo fu un bombardamento privo di valenza strategico - militare, avendo l’unico scopo di esercitare una pressione sul nuovo Governo italiano che, timoroso della reazione tedesca ad un nostro eventuale sganciamento dalla guerra, continuava a tenere una condotta ambigua e contraddittoria.
Di questo bombardamento non ricordo nulla perché eravamo al sicuro presso la casa di Ernestino. Furono colpiti i soliti quartieri, anche se le bombe questa volta lambirono il quartiere San Giovanni nei pressi di Piazza Ragusa e la zona di Torpignattara, attigua al Prenestino.
DUE SACERDOTI DA RICORDARE.
Ci fu un episodio, a proposito di questo bombardamento, di cui venni a conoscenza poco dopo, allorché feci la prima Comunione. Presso la Parrocchia di S.Elena, sulla via Casilina – l’unica Parrocchia del quartiere a quei tempi - vidi una lapide - esiste tuttora - che ricorda il sacrificio di Padre Raffaele Melis.
Proprio davanti alla Chiesa correva la ferrovia Napoli - Roma: all’altezza del ponte casilino una bomba aveva centrato la motrice facendo capovolgere un treno che riportava in Italia circa 1200 rimpatriati dall’Africa orientale. Scesi dai vagoni, mentre cercavano di trovare riparo attraversando la strada, i passeggeri furono falcidiati dalle mitragliatrici degli aerei “alleati” scesi a bassa quota. Fu un atto di pura crudeltà che non poteva avere nessuna ragione militare, se non quella di spargere ancora terrorismo psicologico fra la povera gente della zona del Pigneto, già duramente colpita dalle bombe del 19 luglio.
Accortosi di quanto stava accadendo, il Parroco Don Raffaele Melis accorse in un generoso slancio di aiuto. Così recita la lapide:
“Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Durante l’incursione aerea del 13 agosto1943 veniva trovato morto accanto ad altri morti, stringendo nella mano sinistra il vasetto dell’olio santo, mentre la destra faceva ancora l’atto di segnare col pollice la croce della estrema unzione”.
Una vita spesa in assoluto spirito di servizio ed in piena oblatività, una coerenza totale con il messaggio cristiano: sono queste le persone alle quali, tutti noi, dovremmo guardare come a “luce del mondo”, per usare la espressione dei Vangeli.
Un’altra figura di sacerdote che ha fatto la storia di quei tragici giorni è quella di Don Giuseppe Morosini. Antifascista militante, dopo aver prestato assistenza ai bambini rimasti orfani o senza casa a seguito del bombardamento di Roma del 19 luglio, prestò assistenza ai gruppi partigiani operanti lungo la Cassia, l’Appia e la Casilina. Arrestato a seguito di una spiata fascista, portato a via Tasso e torturato, condannato a morte:”la scarica di fucileria non lo uccise, i militi avevano mirato altrove. L’Ufficiale che comandava il plotone lo finì con un colpo di rivoltella alla nuca”. (Marisa Musu – Ennio Polito:”Roma ribelle” -Teti editore).
La figura di Don Morosini ha ispirato il regista Roberto Rossellini per il personaggio di Don Pietro, mirabilmente interpretato da Aldo Fabrizi nel film “Roma città aperta”.
Nella storiografia ufficiale Padre Raffaele Melis e Don Morosini non hanno avuto il rilievo che pur avrebbero meritato. Rilievo notevole ha, invece, avuto, sullo sfondo di una Roma martoriata dalle bombe, il Papa Pio XII, definito “defensor civitatis” per aver tentato di evitare che Roma fosse bombardata: la sua figura vestita di bianco con le braccia levate al cielo fra le macerie ancora fumanti del quartiere di San Lorenzo subito dopo la fine delle incursioni americane si ritrova su tutti i libri di testo ed ha contribuito a creare l’immagine del buon pastore che corre in soccorso del suo martoriato gregge.
In realtà Pio XII - che di fronte alla guerra ed al fascismo non tenne certo un atteggiamento coraggioso, quanto meno di presa di distanza – tentò di evitare che gli alleati bombardassero Roma, “in ossequio al carattere sacro della città, sede del romano Pontefice”, ma il suo tentativo non si spinse mai oltre l’ambito delimitato dalle mura capitoline: ed in effetti gli alleati, seppure non risparmiarono Roma, colpirono, però, solo le zone periferiche e popolari, “rispettando” le zone centrali della città, anche perché esse esulavano dalla strategia delle loro incursioni aeree, tutte miranti a seminare terrore tra la povera gente, quella più provata dalla guerra, così da indurla a sollevarsi contro il fascismo.
Da tempo la Chiesa ufficiale ha intrapreso la causa di beatificazione di Pio XII; il processo è tuttora in corso e si stanno raccogliendo le prove a testimonianza di presunti miracoli che soli potrebbero suffragarne “l’ascesa agli altari”. Sicuramente ne troveranno di “miracolati”, testimoni di guarigioni “inspiegabili”, a riprova di un Dio “onnipotente” che sovverte le leggi naturali, che “tutto può” purché si chieda con fede. E su questi miracoli edificheranno un altro culto, creeranno altri santuari, luoghi in cui recarsi in pellegrinaggio ad implorare altri miracoli da parte del “beato”.
Secondo questa stessa logica sta per concludersi il processo di beatificazione di Papa Giovanni XXIII. Per lui il “miracolo”, infatti, è già stato trovato e, quindi, tra poco inizierà il culto ed il pellegrinaggio al paese natale di Sotto il Monte per implorare grazie e guarigioni miracolose dal “Papa buono”.
Questo significherà svilire la figura di questo grande Pontefice facendone un altro Padre Pio. In realtà Papa Giovanni è stato un continuo “miracolo” di stupore, di semplicità, di immediatezza nell’andare al cuore della gente. Come non ricordare quel “miracolo” di tenerezza con cui, in una splendida notte illuminata dalla luna, invitava i presenti sulla piazza di San Pietro a portare a casa ai bambini “il bacio del Papa”? Con la beatificazione la Chiesa tenta di riappropriarsi e di normalizzare una figura pur così innovativa, di grande carica umana: “trovato” il “miracolo”, la beatifica e la mette in catalogo. Il “miracolo” serve a dare garanzia che, con l’inizio del culto, altri “miracoli” verranno a chi saprà pregare ed implorare con fede. La religione sarà, ancora una volta, improntata ad una sorta di rapporto di scambio - devozione da un lato e miracolo dall’altra – e le rimarrà del tutto estraneo quel principio della gratuità che pure costituisce uno dei valori essenziali del messaggio cristiano, come insegna la parabola del buon samaritano.
Per Padre Raffaele Melis e per Don Morosini, come pure per Don Milani, il parroco “scomodo” esiliato in una località sperduta tra le montagne del Mugello per avere, tra l’altro, difeso l’obiezione di coscienza contro il servizio militare, non è prevista alcuna causa di beatificazione. In una società multimediale dove tutto viene sublimato ad immagine spettacolare capace di indurre forti impatti emotivi tra moltitudini sempre più vaste, i loro veri miracoli non contano, non fanno notizia, non creano santuari, non servono ad una religiosità sempre più ridotta a mera ritualità anziché ad autentico moto dell’animo.
Essi hanno testimoniato la coerenza, l’amore, la gratuità di Cristo vivente in loro, hanno condiviso le sofferenze di molti, fino alla morte (Padre Melis e Don Morosini) ovvero facendo di poveri ragazzi semianalfabeti dei cittadini a pieno titolo, artefici del loro domani (Don Milani): questi autentici miracoli di abnegazione, di vita cristianamente spesa come servizio per i più deboli non danno punteggio nella contabilità della Chiesa istituzione.
L’ 8 SETTEMBRE 1943.
Occorsero altre devastazioni ed altri morti perché si arrivasse ad un armistizio che, sottoscritto in gran segreto con gli anglo-americani, il Governo, nonostante gli impegni assunti, si ostinò a mantenere nascosto per il timore della reazione tedesca, fino a quando gli alleati ruppero gli indugi e lo resero pubblico l’ 8 settembre 1943.
Questa volta, pensavamo, “la guerra è veramente finita”.
Con mia madre e mia sorella ci unimmo alla manifestazioni di giubilo popolare che si riversarono sulla via XX settembre per raggiungere il Ministero della Guerra. Per festeggiare ci prendemmo un gelato e ce ne tornammo a casa tutti pieni di una gioia liberatoria.
Ed invece cominciava uno dei momenti più tragici perché, nel giro di poche ore, i tedeschi, animati da un terribile furore per quello che essi definirono “il tradimento dei badogliani”, occuparono Roma dopo aver occupato tutta l’Italia centro-settentrionale, dando inizio a nuove ondate di terrore verso le popolazioni (rastrellamenti, deportazioni, esecuzioni sommarie, introduzione del coprifuoco ).
Legati alla data dell’8 settembre ci sono alcuni episodi che ricordo benissimo.
Nella tarda serata il nostro amico Ernestino scese al portone “per salutare mio cognato, il Generale, che sta partendo”.
Il Generale era Emilio Gamerra, primo aiutante di campo dell’erede al trono Principe Umberto II. Nella nottata, insieme alla famiglia reale e ad alcuni altri militari, si sarebbero tutti riuniti presso il Ministero della Guerra per partire, all’alba dell’indomani, alla volta di Brindisi, mettendosi così al sicuro nelle zone già liberate dagli anglo-americani.
Con la fuga del sovrano e del suo seguito si ripropose la storica viltà dei Savoia: come già nel 1922 il Re aveva consegnato pavidamente l’Italia a Mussolini, rifiutandosi all’ultimo momento di controfirmare il decreto, già deliberato dal Governo Facta, di proclamazione dello stato d’assedio per fronteggiare le squadracce fasciste, così l’8 settembre consegnò il Paese ai tedeschi, di null’altro preoccupandosi che di mettere in salvo la pelle, lasciando l’Esercito e l’intero Paese allo sbando totale (“Signori, se i tedeschi ci mettono le mani addosso, ci fucilano tutti. E perché farsi fucilare?”, disse il Generale Roatta, l’ispiratore della fuga insieme al Ministro della Guerra Sorice).
Eppure, appena quaranta giorni prima, all’indomani della caduta di Mussolini, il Re esortava gli italiani a riprendere “ognuno il suo posto di dovere, di fede e di combattimento”, dichiarandosi “indissolubilmente unito a voi dall’incrollabile fede nell’immortalità della Patria”.
Evidentemente “il posto di dovere” per il Re e per Badoglio era solo quello che poteva garantire di salvare la pelle; quanto, poi, alla “indissolubile fede nell’unità della Patria”, era una Italia tragicamente divisa e lacerata quella che il sovrano, con la sua fuga, si lasciava alle spalle.
Questa vicenda della fuga a Pescara ha continuato ancora ad oggi ad essere avvolta nel mistero. Infatti i tedeschi controllavano tutte le vie di uscita da Roma, esclusa stranamente la via Tiburtina, che il convoglio dei reali percorse in assoluta tranquillità, trovando addirittura modo di rifocillarsi in una villa di proprietà di alcuni devoti sudditi. Perché, dunque, i tedeschi chiusero gli occhi davanti al Re in fuga con il suo seguito?
Sono state fatte varie ipotesi, nessuna delle quali risulta, però, confortata da documenti o testimonianze ma semplicemente affidate a delle ricostruzioni logiche.
Così è stata avanzata la ipotesi che il lasciapassare per la fuga a Pescara rappresentasse il corrispettivo per un’ altra operazione che stava a cuore ai tedeschi: la liberazione di Mussolini - prigioniero sul Gran Sasso d’Italia - ad opera di un commando tedesco, che lo trasportò in Germania dove lo attendeva Hitler per porlo a capo dello Stato fantoccio della “Repubblica di Salò”.
La tesi, avanzata dallo storico-giornalista Silvio Bertoldi, non sembra convincente: in realtà la mancata resistenza della sparuta pattuglia italiana al colpo di mano tedesco va, assai verosimilmente, spiegata con la volontà di non contrastare il piano tedesco di dar vita ad una occupazione “mascherata” dell’Italia del Nord (la cosiddetta Repubblica di Salò) in un momento in cui, a quattro giorni dalla proclamazione dell’armistizio, le truppe italiane erano allo sbando totale e grande era il timore di crudeli rappresaglie che, invece, con un atteggiamento di condiscendenza verso i tedeschi, da parte italiana si sperava di scongiurare.
E’ stata anche sostenuta la tesi secondo la quale il salvacondotto per Pescara sarebbe stato concordato in cambio della mancata difesa di Roma da parte dell’esercito italiano. Anche questa ipotesi, avanzata dal medesimo Bertoldi, non appare convincente in quanto la resistenza che avrebbero potuto opporre le truppe italiane alla soverchiante forza tedesca sarebbe stata, per lo stato in cui erano ridotte le nostre forze armate, assai limitata. Che bisogno c’era, pertanto, da parte tedesca, di contrattare con una controparte praticamente priva di forza contrattuale?
Si potrebbe, allora, tentare un’ altra interpretazione.
Indubbiamente i tedeschi erano sì crudeli e spietati ma anche degli intelligenti calcolatori: impedendo la fuga del Re e riducendolo in prigionia avrebbero finito per farne una sorta di eroe e, comunque, pur sempre un punto di riferimento nazionale. E questo avrebbe anche potuto provocare un sussulto di orgoglio patriottico. Invece un Re - tornato ad essere, dopo la caduta del fascismo, il Comandante supremo delle Forze Armate - ed un capo di Governo entrambi in fuga esclusivamente per salvare la pelle, lasciandosi alle spalle un popolo abbandonato alle prevaricazioni di ogni tipo da parte dei tedeschi, avrebbero rappresentato il massimo della viltà agli occhi degli italiani, la completa distruzione della immagine dello Stato, la sicurezza del completo sbandamento dell’esercito e dell’intero Paese.
Ed allora a che pro contrastare la fuga? “A nemico che fugge ponti d’oro”. Non ci furono, probabilmente, intese particolari tra le due parti ma solo il convergere di rispettive convenienze.
Aggiungasi che sia il Re che Badoglio erano figure notevolmente compromesse con il fascismo, che ora dicevano di voler ripudiare. Il Re aveva a suo tempo avallato l’ascesa al potere dello squadrismo, aveva insignito Mussolini della massima onorificenza reale, il cosiddetto “Collare dell’Annunziata”, con cui il Duce saliva al rango di “cugino” del Re. A sua volta il fascismo aveva blandito il sovrano attribuendogli il titolo di “Re d’Italia e di Albania, Imperatore di Etiopia”.
Quanto a Badoglio, Mussolini lo aveva nominato Maresciallo d’Italia e Duca di Addis Abeba.
Questi personaggi, dunque, erano già abbastanza squalificati per la loro sostanziale complicità ed il loro opportunismo verso il regime, che ora avevano frettolosamente abbandonato per salvare sé stessi: con la fuga davano l’ultimo tocco di estrema spregevolezza alle loro figure, che divenivano emblematiche di viltà e codardia, a fronte di un Paese distrutto e sofferente. E, forse, proprio questa immagine di vili fuggiaschi finì per costituire la più raffinata e feroce vendetta dei tedeschi nei confronti di quelli che essi definivano con disprezzo “traditori”.
Questa viltà delle massime istituzioni ebbe drammatici risvolti: un Paese allo sbando totale, un esercito lasciato senza direttiva alcuna e, quindi, maggiormente esposto alle rappresaglie tedesche.
Qualcuno cercò di opporsi in un sussulto di coraggio e di dignità.
Tra questi un Maggiore dell’Esercito di stanza con le sue truppe a Livorno, Giampaolo Gamerra, il figlio del Generale fuggito a Pescara con la famiglia reale.
Ai tedeschi che pretendevano la consegna delle armi rispose con fierezza che aveva giurato fedeltà a casa Savoia e che ordini ne riceveva solo dagli ufficiali italiani. Venne ucciso sul posto, davanti ai suoi soldati sgomenti, in località Stagno di Livorno, sulla strada per Pisa (ove oggi ha sede la Caserma paracadutisti della “Folgore”, intitolata al suo nome insignito di medaglia d’oro).
Il sacrificio di una vita generosa e coerente stroncata da un atto di barbarie si intrecciava con il dramma di un padre distrutto, oltre che dal dolore, anche dal comprensibile rimorso per la propria condotta di fuggitivo. Era pur vero che, nella sua qualità di alto ufficiale, egli era vincolato da un dovere di obbedienza direttamente verso il sovrano in fuga. Ma, quale Generale ai massimi vertici militari, egli portava una grossa parte di responsabilità nell’aver determinato, anche con la propria condotta omissiva di qualsiasi direttiva operativa, quella situazione di sbando generale che ridusse i nostri soldati alla mercé della rappresaglia tedesca, purtroppo abbattutasi anche su suo figlio.
Certo, le nostre truppe non erano in grado di opporre una efficace resistenza a quelle tedesche, soverchianti in numero e mezzi. Ma ciò che indusse le armate hitleriane a scatenare una feroce rappresaglia fu la condotta irresponsabile del Governo Badoglio che, all’indomani dell’arresto di Mussolini, nel tentativo di prendere tempo, si affrettò a dichiarare che la guerra sarebbe continuata e che l’Italia sarebbe rimasta fedele alla alleanza con la Germania. In effetti si stava già trattando, in gran segreto, la resa agli alleati e questo fatto venne bollato dai tedeschi come un vero e proprio tradimento.
In questo contesto avvenne uno degli episodi più tragici della feroce ritorsione tedesca: la strage della Divisione italiana “Acqui” di stanza nell’isola di Cefalonia, nel Mar Egeo, dove alcuni contingenti italiani erano affluiti dall’epoca della aggressione alla Grecia. Tra i pochi soldati che riuscirono a salvarsi c’era il figlio di un vecchio amico di mio padre, Luigino Pietroni, il quale ebbe modo di raccontare di essere stato per ben due notti in balia del mare aggrappato ad un salvagente, a seguito dell’affondamento delle navi italiane da parte dei tedeschi, finché non venne tratto in salvo da una nave inglese.
“Cosa sarebbe avvenuto a Cefalonia se la nostra guarnigione avesse ricevuto, come tutte le altre truppe dislocate sui vari teatri di guerra, l’ordine di arrendersi?” si domanda Indro Montanelli. Se, cioè, invece dello sbando in cui furono lasciati i nostri soldati, ci fosse stata una precisa direttiva di resa alle soverchianti forze tedesche? Le quali ebbero modo di abbandonarsi ad una vera e propria caccia all’uomo con non meno di cinquemila fucilazioni.
Del resto, ancor prima dell’armistizio dell’8 settembre, quando non vi era stato alcun “tradimento” da parte dell’Italia, i tedeschi avevano avuto modo di accanirsi contro i nostri soldati, infierendo contro di essi a colpi di baionetta allorché, durante la ritirata dalla Russia, cercavano disperatamente di aggrapparsi ai camion tedeschi per trovare scampo ad una sicura morte nel gelo del terribile inverno. Questo a dimostrazione dello stato di profondo disprezzo in cui eravamo tenuti dai nostri alleati tedeschi, che ci consideravano, per la debolezza dei nostri armamenti, più che un aiuto un vero e proprio impaccio.
Tra gli sbandati dell’8 settembre c’era anche mio padre, militare nella Guardia di Finanza ad Ostia, addetto alla difesa costiera.
All’indomani dell’armistizio, nella palazzina antistante il Parco della Pinetina ove era alloggiata la caserma dei finanzieri si presentarono, con aria estremamente minacciosa, alcuni tedeschi che, urlando come forsennati e puntandogli la pistola alla tempia, dicevano a mio padre parole estremamente concitate, per lui incomprensibili. Alla fine, mentre mio padre sudava freddo dalla paura, uno dei tedeschi riuscì, a gesti, a farsi finalmente capire: volevano la consegna delle armi. In caserma non c’era più nessuno e mio padre, saggiamente, indicò ai tedeschi le poche armi in dotazione.
A quel punto mio padre capì che non c’era più un attimo da aspettare ed andò a chiedere rifugio per la notte ad un conoscente che, per maggior sicurezza, lo fece rannicchiare in uno dei cassoni già adibiti a serbatoio delle acque. Al mattino, rimediati alcuni abiti borghesi, mio padre, con dei mezzi di fortuna, riuscì a ricongiungersi a noi.
Dismessi gli abiti militari, praticamente congedato, mio padre riprese il lavoro di operaio presso il deposito dei tram della Bainsizza, nella omonima piazza del quartiere Prati.
Il problema più grave era l’approvvigionamento dei mezzi di alimentari. Mia sorella non lavorava più perché il Ministero della Guerra si era trasferito al Nord presso la Repubblica di Salò, il Governo fantoccio insediato dai tedeschi per dare una parvenza di legittimità alla loro occupazione del territorio italiano. C’era solo la modesta paga di mio padre e quasi tutto si doveva comprare alla “borsa nera”, a quel mercato neppure tanto clandestino ove, chi avesse denaro, poteva acquistare i generi di prima necessità che non venivano affatto forniti ovvero forniti in quantità del tutto irrisorie dal mercato ufficiale.
La guerra era anche una valida palestra di addestramento nell’arte di arrangiarsi a sopravvivere. Così, durante la sua permanenza ad Ostia, mio padre aveva conosciuto una bravissima famiglia di contadini di origine marchigiana, gli Giacchè, emigrata ad Ostia Antica a lavorare presso uno dei tanti poderi di proprietà dei Principi Aldobrandini, la vecchia famiglia di patrizi romani che, in passato, aveva espresso anche un Papa, Clemente VIII.
Gli Aldobrandini possedevano un deposito di grano al Campo Parioli che, poco prima della liberazione di Roma, venne assalito da una moltitudine di donne. Presso questo deposito erano sfollati anche tutti i membri della famiglia Giacchè e mio padre, mentre un giorno era in giro a collaudare una vettura tranviaria, ebbe modo di incontrarli di nuovo, rinsaldando, così, anche in quelle difficili circostanze, la vecchia amicizia.
In guerra, come è noto, nella penuria e nel deprezzamento della moneta si torna alla primitiva economia del baratto. E mio padre aveva scambiato con questi contadini, divenuti poi amici carissimi di famiglia, ogni tipo di merce: scarponi militari, indumenti, sigarette per riceverne farina, fagioli, patate, talvolta uova.
Finita la guerra, mio padre continuò a frequentarli: come operaio meccanico, si era a suo modo specializzato nella costruzione di macchinette per fare la pasta, di rudimentali accendigas elettrici, di stufe a legna per cucinare e riscaldarsi. In questa sua attività aveva coinvolto anche alcuni amici elettricisti e falegnami così da costituire una specie di impresa integrata, che riusciva a fare il giro di diversi poderi e, con vari lavoretti, a portare a casa buone provviste alimentari.
Figura centrale di questa rete di solidarietà era la “sora Richetta”, come mio padre aveva preso a definire affettuosamente la moglie del capo della famiglia Giacchè, una donna esile, di una grande mitezza e bontà che, pur a capo di una famiglia numerosa – sette figli - e non certo ricca (era rimasta vedova da poco), sapeva andare oltre il semplice rapporto di scambio praticando, nei nostri confronti, quella che per lei era una naturale ed istintiva generosità.
La cosa che più mi è rimasta nella memoria erano i filoni di pane finalmente bianco che mio padre portava a casa, fatto all’antica maniera e conservato ancora nella madia, frutto del duro lavoro nei campi. In tempo di guerra, come è noto, quel poco di pane che si riusciva a trovare era il cosiddetto “pane nero”, fatto con pochissima farina e molta crusca, divenuto tristemente simbolo delle ristrettezze e della penuria del momento.
Non dimenticherò mai una scena tristissima cui assistetti da bambino. Davanti a noi abitava una famiglia con quattro figli molto povera: il padre si guadagnava da vivere girando con un triciclo con il quale faceva commissioni di ogni tipo. Erano frequenti i giorni in cui non riusciva a rimediare neppure i soldi per il pane. Ricordo uno di questi giorni in cui il più piccolo dei figli – lo chiamavamo, noi poco più grandicelli, “Armanduccio” - piangeva chiedendo alla madre un pezzo di pane: la povera donna, completamente sconvolta, dapprima urlò la propria disperazione e poi, in una sorta di raptus isterico, cominciò a battergli la testa contro il muro facendo sgorgare del sangue. In quel momento non potevo rendermi conto dello strazio di un genitore che non ha di che dare da mangiare al figlio. Poi, a distanza di tempo, rivedendo nella memoria quella scena, mi sono reso conto che uno dei peggiori delitti della guerra era anche questo: far perdere completamente la ragione ad una madre, spogliarla di ogni affettività al punto da indurla ad aggiungere, alla sofferenza della fame, anche quella delle percosse al proprio figlio.
Il ritorno del pane bianco era dunque il ritorno ad un principio di vita normale, meno assillata dalla lotta per la sopravvivenza quotidiana. Il pane, questo bene semplice e prezioso ha, da sempre, accompagnato la vita dell’uomo ed è sempre stato simbolo di condivisione e di fratellanza. La parola “compagno” deriva, infatti, dal latino “cum panis” e sta ad indicare “chi mangia il pane con un altro” nel senso di aiuto reciproco in un comune destino. E nel Sacramento dell’Eucarestia il pane spezzato da Gesù nell’ultima cena è proprio il segno della vita condivisa, del massimo di gratuità e di oblatività (la “vita donata”). Il pane, cioè, assume un valore etico. E l’espressione “guadagnarsi il pane” sta ad indicare un principio di rettitudine, una semplicità e linearità di condotta che dovrebbe essere alla base di ogni comunità.
La nostra famiglia rimase “sfollata” da Ernestino fino alla fine del 1943 e, nel generale trambusto di quell’anno, io non riuscii ad iscrivermi alla terza elementare, perdendo, così, un anno scolastico. Al momento non me ne resi conto, ma nel corso degli anni successivi il fatto di “stare un anno indietro”,quasi fossi un ripetente, mi procurava un grandissimo disagio, quasi un senso di vergogna.
Alla fine dell’anno, dunque, facemmo ritorno alla nostra casa al quartiere Prenestino. Si pensava che i bombardamenti fossero finiti. Inoltre c’era la preoccupazione che la nostra casa, come tante altre lasciate sfitte, fosse occupata dai “sinistrati”, innescando una guerra fra poveri.
Ed invece i bombardamenti, uniti ai mitragliamenti a bassa quota ed agli spezzonamenti, continuarono con una frequenza quasi quotidiana. In effetti, subito dopo il primo bombardamento di Roma, da parte del Governo Badoglio la stessa era stata dichiarata “città aperta”, cioè demilitarizzata: come tale avrebbe dovuto restare al riparo da nuove incursioni aeree. Ma, ancora una volta, si era dovuta sperimentare tutta la superficialità del Governo italiano. Infatti la dichiarazione di “città aperta” presupponeva la assenza, in Roma, di qualsiasi struttura militare che non fosse di mero presidio per la tutela dell’ordine pubblico e, soprattutto, richiedeva, per essere attuata, la sua accettazione da parte delle altre forze in guerra. Poiché Roma, come tutta l’Italia centro-settentrionale, venne invece, subito dopo l’8 settembre, occupata militarmente dai tedeschi, è evidente che lo stato di città aperta non ebbe mai la possibilità di realizzarsi concretamente.
L’occupazione tedesca di Roma , nonché il fatto che la capitale ed i suoi dintorni rappresentassero un importante riferimento strategico per le divisioni tedesche impegnate a contrastare l’avanzata dal sud degli anglo-americani comportarono, dunque, altri bombardamenti, ulteriori morti e devastazioni (venne, tra l’altro, bombardata per la seconda volta la tomba di Ettore Petrolini nel cimitero del Verano): il tutto nel clima di terrore instaurato dagli occupanti che, con il coprifuoco dalla sera alla mattina e con i rastrellamenti in massa di uomini da deportare in Germania, con la “pulizia etnica” nel ghetto degli ebrei, rendevano estremamente insicura la vita quotidiana, già abbastanza angosciata dalla penuria dei mezzi di prima necessità.
Il bombardamento del 14 marzo 1944 colpì nuovamente il nostro quartiere. Le bombe “alleate” continuavano a cadere su Roma perché i tedeschi, infischiandosene della proclamazione di “Roma città aperta”, cioè smilitarizzata, non solo avevano militarmente occupato la città ma la utilizzavano come retrovia rispetto al fronte attestato al sud.
Questa volta le bombe ci piovvero veramente addosso e solo per un miracolo non restammo sotto le macerie.
Appena suonato l’allarme, tutti gli abitanti del nostro palazzo cercarono rifugio in un salone dello scantinato adibito a ricovero. Vennero colpiti i palazzi adiacenti al nostro e per le scale vedemmo scendere, in mezzo a nugoli di polvere, scariche di calcinacci: pensammo che fosse il crollo del palazzo e tutti, istintivamente, ci abbracciammo in una sorta di aggrappamento alla vita.
Mio padre, nell’intervallo successivo alla prima ondata di bombe, si era recato nel negozio di un suo amico, nella strada accanto, per cercare di telefonare ai vicini di mia zia, abitante poco distante, nella speranza di aver loro notizie. Fortuna volle che le linee telefoniche fossero state colpite per cui mio padre ritornò a rifugiarsi con noi: infatti il palazzo del suo amico venne letteralmente polverizzato dalle bombe e se mio padre vi fosse rimasto un attimo ancora avrebbe incontrato sicura morte.
Passato lo spavento del bombardamento, decidemmo subito di tornare da Ernestino. E questa volta venne con noi anche la famiglia di mia zia Nunzia.
LE FOSSE ARDEATINE
Ad appena nove giorni di distanza dal bombardamento, il 23 marzo 1944 avvenne a Roma uno degli episodi più tragici della guerra partigiana contro l’occupante tedesco: l’attentato di Via Rasella in cui trovarono la morte una trentina di soldati tedeschi. A distanza di nemmeno ventiquattro ore, nel più assoluto segreto, i tedeschi attuarono una spietata rappresaglia: prelevarono dal carcere romano di Regina Coeli 335 uomini, internati a seguito dei tanti indiscriminati rastrellamenti effettuati in città per procurarsi mano d’opera da inviare nei campi di sterminio in Germania, li trasportarono presso una antica cava di tufo all’inizio della via Ardeatina e, uno alla volta, con un colpo alla nuca li trucidarono.
Su questo episodio si è a lungo innescata una polemica tesa a delegittimare, se non addirittura ad infangare, l’azione del commando partigiano. E’ stato detto, da parte di taluni, che gli autori dell’attentato avrebbero dovuto ben tener presente il rischio di rappresaglia cui sarebbe andata incontro la popolazione civile. Soprattutto è stato condannato il loro comportamento per non essersi presentati al comando tedesco ad assumersi la responsabilità dell’evento, scongiurando così ogni rappresaglia.
L’Osservatore Romano, organo del Vaticano, pubblicò un articolo in cui si compiangevano le “trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto”. In realtà, le vittime dei nazisti furono 335.
In effetti, poiché il gruppo di azione partigiana che organizzò ed attuò l’attentato di Via Rasella era composto da comunisti, tra gli altri dal giovane studente di medicina Rosario Bentivegna, che ho avuto modo di conoscere recentemente quale docente di medicina del lavoro e delle assicurazioni sociali e da Carla Capponi, medaglia d’oro della Resistenza, vi è stato per anni un tentativo, da parte delle forze anticomuniste, di delegittimare, quando non addirittura di infangare, l’azione di Via Rasella, anche con azioni davanti alla magistratura.
Al termine di un iter conclusosi solo nel febbraio 1999, è stata ribadita la piena legittimità dell’azione partigiana di via Rasella come azione di guerra contro l’occupante.
Oltre a ciò, va detto che il comando tedesco non intimò affatto ai responsabili dell’attentato di presentarsi, pena la rappresaglia: esso attuò il proprio piano di vendetta - senza neppure cercare di individuare i responsabili - a meno di ventiquattro ore dall’attentato, con la stessa ferocia di ritorsione con cui, pur in assenza di qualsiasi attentato, ma a soli intenti terroristici, aveva compiuto altre stragi come a Marzabotto, a Boves, a Sant’Anna di Stazzena.
In questa ultima località, tra Lucca e Carrara, i tedeschi trucidarono più di quattrocento persone, la maggior parte delle quali donne e bambini: c’era stato l’ordine di sterminare i partigiani ed in quelle zone di montagna si riteneva, da parte dei tedeschi, che lo fossero tutti. Nella loro ritirata verso il nord essi attuarono quella che venne definita la “marcia della morte”, con la distruzione di interi paesi, sanguinose rappresaglie e fucilazioni sommarie.
Per far luce sulla strage di Sant’Anna e su tutte le altre stragi compiute dai tedeschi in Italia venne costituita, da inglesi e da americani, una commissione di inchiesta che individuò i nomi dei criminali nazisti. Ma la azione legale non venne proseguita per motivi di attenzione politica verso la Germania che, nel 1955, era entrata nella NATO, per cui il Governo italiano non volle compromettere il rapporto con il nuovo alleato. Questi procedimenti, scrisse l’allora ministro degli Esteri Martino nel 1956, “potevano solo stimolare le critiche al comportamento dei soldati tedeschi” all’epoca della strage.
In nome di esecrande ragioni di convenienza politica e di sudditanza alle alleanze militari, che furono fatte prevalere sulle esigenze di verità e di giustizia, uscirono di scena diverse migliaia di presunti criminali di guerra.
Delle Fosse ardeatine conservo solo un confuso ricordo. Appena liberata Roma andai a farvi visita con i miei genitori: rimasi colpito dai mucchi di scarponi accatastati nelle grotte e dal senso di morte che ancora incombeva dappertutto.
ROMA, UNA CITTÀ PRIGIONIERA.
Di quei tempi ricordo ancora l’incubo dei rastrellamenti. Praticamente tutti gli uomini che, per ragioni di lavoro o per altri motivi, erano costretti ad uscire di casa correvano sempre il rischio di essere, all’improvviso e senza alcuna apparente ragione, allineati al muro della strada per essere poi caricati su camion tedeschi ed avviati ai campi di lavoro e sterminio in Germania. In questa atmosfera di terrore si aggiungeva, poi, la paura delle cosiddette “spiate”. C’era infatti gente meschina che, magari per motivi di rancore personale, andava a riferire che in quel determinato palazzo abitava un ebreo ovvero un antifascista: questo bastava ai tedeschi per farvi irruzione, seminando terrore e deportando il povero disgraziato.
A volte, ad essere preso di mira fu un intero quartiere. Così il 16 ottobre 1943, alle 5,30 ci fu una deportazione in massa degli ebrei del ghetto: furono catturate 1259 persone, uomini, donne, bambini. Raggiunto il campo di sterminio di Auschwitz dopo cinque giorni di viaggio in vagoni merci piombati, la mattina del 23 ottocentotrentanove tra uomini, donne, bambini, l’82 % dei razziati “passano per il camino”. E nonostante le pressioni esercitate su di lui “il Papa non si è lasciato indurre a nessuna dichiarazione di protesta contro la deportazione degli ebrei di Roma”, secondo quanto riferito dall’allora ambasciatore nazista presso la Sante Sede Weizsacker.
Il 17 aprile 1944, nel popolare quartiere del Quadraro, avvenne un feroce rastrellamento, che si concluse con la deportazione in Germania di 744 uomini. Questo perché alla polizia tedesca erano giunte informazioni secondo le quali il quartiere era il rifugio di tutti i sovversivi.
Insomma, se non c’erano più i bombardamenti – ma continuavano, quasi quotidiani, i cosiddetti spezzonamenti americani a bassa quota che, per quanto meno devastanti delle bombe, seminavano pur sempre morte e panico tra le popolazioni – c’era pur sempre, accanto alla fame ed alla miseria, l’incubo di una presenza tedesca sempre pronta a compiere atti di razzia di ogni bene che fosse ritenuto loro utile e di violenza del tutto gratuita, motivata solo dalla loro arroganza e dal loro odio verso gli italiani “traditori”.
La sera del 4 giugno 1944 gli anglo-americani erano giunti nei pressi di Roma ed i tedeschi erano in ritirata verso il nord. Tra i loro camion in ritirata, sul Viale Tiziano in direzione della Via Cassia, ve n’erano alcuni che trasportavano sacchi di farina razziata tra le ultime scorte alimentari della città. Ad un tratto la popolazione, esasperata dalle quotidiane privazioni e resasi conto che i tedeschi fuggivano, ormai sconfitti, salì in corsa sul retro dei camion e cominciò a rovesciare in terra i sacchi di farina.
Mio padre aveva ripreso a lavorare al deposito dei tram di Piazza della Bainsizza. Giunse voce dell’assalto ai camion tedeschi e mio padre, senza pensarci su due volte , uscì con una vettura e si diresse verso il Viale Tiziano insieme ad altri compagni di lavoro. In poco tempo riempirono la vettura di tutti i sacchi di farina che poterono raccogliere e fecero ritorno al deposito. Ripartito il “bottino”, si trattava ora di portare a casa ciascuno la propria parte. Ricordo ancora la scena di mio padre presentatosi a casa seduto a cassetta sulla carrozzella di un vetturino: fece credere a mia madre che le balle contenessero un po’ di carbone per cucinare, di quello che i “carbonari” vendevano a borsa nera dopo averlo bagnato per farlo pesare di più e che riempiva di fumo tutta la casa. Così mia madre passò dalle rimostranze per quel “carbone” alla gioia nel vedere, invece, della bianchissima farina. E fu festa anche per il vetturino che mio padre pagò in natura, con cinque chili di farina.
Più tardi avrei appreso che sui camion dei tedeschi in fuga verso la Via Cassia c’erano anche alcuni sindacalisti tra cui Bruno Buozzi, socialista, trucidati in prossimità della Storta, appena all’uscita da Roma.
La mattina di domenica 5 giugno ci svegliammo in una atmosfera di grande festa. La sera innanzi le prime truppe anglo-americane erano entrate in Roma dalla Casilina e dalla Prenestina. Con mia sorella ci recammo nella vicina piazza Esedra e vedemmo finalmente i “liberatori” sfilare tra la popolazione festante. La guerra questa volta, almeno per noi, era veramente finita: finito l’incubo degli spezzoni, finito l’incubo dei tedeschi, finito, si sperava, l’incubo della fame. Le truppe si lasciavano volentieri circondare da una marea di gente festante, alla quale dispensavano le loro personali provviste di pane, cioccolata, sigarette, gomme americane.
Di lì ad appena due giorni le truppe alleate, dopo aver chiuso vittoriosamente sia il fronte dell’Africa del Nord che quello orientale, con la disfatta dei tedeschi nella campagna di Russia, sferrarono l’ultimo decisivo attacco con lo sbarco in Normandia. La resistenza dei tedeschi fu particolarmente accanita e, ad un certo punto, le truppe alleate furono sull’orlo di un clamoroso ripiegamento. Tuttavia ormai il divario delle forze in campo era completamente favorevole agli alleati, i quali riuscirono a stringere le armate tedesche in una tremenda tenaglia, ricongiungendosi con quelle russe provenienti dall’est.
Con il bombardamento del bunker della Cancelleria a Berlino, dove Hitler si era disperatamente asserragliato con i suoi fedelissimi e dove tutti trovarono la morte in una sorta di suicidio collettivo - particolarmente tragico e macabro quello del ministro della cultura, Goebbels, che uccise prima i suoi sei figli e poi si suicidò con la moglie – avvenne la resa della Germania. La caduta della Germania fu un tutt’uno con la disfatta delle truppe naziste presenti in Italia e di quelle fasciste appartenenti al Governo-fantoccio di Salò.
Per la conclusione definitiva della seconda guerra mondiale mancava solo la resa del Giappone, ormai in guerra anche con l’Unione Sovietica, ridotto allo stremo dopo la perdita della flotta navale e dell’isola di Okinawa, posta proprio davanti alle coste del Paese, probabile testa di ponte per un eventuale sbarco alleato.
Sarebbe stata giusta e possibile una soluzione che, concedendo al Giappone una resa dignitosa (da tempo lo stesso Imperatore era impegnato in trattative al riguardo), avrebbe sicuramente evitato altre inutili stragi. Ma gli occidentali volevano imporre una resa senza condizioni.
Per accelerare i tempi e chiudere definitivamente la partita – ma, forse, come sostiene lo storico Roberto Battaglia, soprattutto per bloccare in anticipo qualsiasi ipotesi di un dilagare vittorioso nell’estremo oriente da parte delle armate dell’Unione Sovietica, già vittoriose in Manciuria, circostanza, questa, che rischiava di accrescere il peso ed il prestigio internazionale dei sovietici al momento della pace – gli americani, con un vero e proprio atto di cinismo internazionale, contrabbandato come “atto umanitario” (risparmiare altri morti americani e porre fine alla guerra mondiale), con tanto di benedizione apostolica da parte del Cardinale di New York Spellman, decisero di gettare le prime micidiali bombe nucleari della storia nelle due popolose città di Hiroshima e Nagasaki: la prima bomba, quella su Hiroshima, con il suo terrificante carico di distruzione venne battezzata dall’equipaggio, con un misto di incoscienza e di stupidità criminale, “Little boy”, “piccolo ragazzo”, mentre l’aero che la trasportava venne denominato “Enola Gay”, una sorta di ”dedica filiale” alla mamma del comandante, la quale portava tale nome!
Prima di quel tragico giorno, la città contava 250.000 abitanti. Di essi, 78.000 morirono all’istante, altri 70.000 morirono successivamente a causa delle radiazioni e moltissimi tra i superstiti riportano deformazioni e danni permanenti. E dopo appena tre giorni la stessa sorte toccò alla città di Nagasaki.
Del resto, ancora oggi gli americani si divertono a dare nomi “incredibili” alla furia devastatrice degli uragani, quasi a voler suscitare una rimozione collettiva di eventi tragici, così da indurre la gente a considerarli una mera fatale calamità naturale che faccia sparire ogni eventuale responsabilità umana connessa alla mancata predisposizione di misure di emergenza ed alla devastazione idro-geologica del territorio.
Comunque, la decisione americana di usare la bomba atomica contro il Giappone ”….ebbe lo scopo principale di agire come deterrente nei confronti dell’URSS” (Giorgio Candeloro – Storia dell’Italia Moderna).
In realtà, le due bombe nucleari, se risparmiarono la vita ai soldati americani, finirono, però, per provocare tra i civili giapponesi una vera e propria ecatombe, di cui molti sopravvissuti alla terribile onda d’urto ed alle micidiali vampate di calore (fino a 2000 gradi!) portano ancora oggi i devastanti segni.
Quello che ancora oggi colpisce è il misto di cinismo e di trionfalismo con cui la stampa, il Governo e le forze armate degli Stati Uniti salutarono l’immensa carneficina.
Si parlò di “vittoria degli Americani” nella corsa alla costruzione ed all’impiego del “nuovo micidialissimo mezzo di guerra” (The Washington del 7 agosto 1945); il Presidente Truman dichiarò di considerare la bomba atomica “un efficace strumento per il mantenimento della pace”; i generali americani parlarono di “eccellenti risultati” ottenuti con il lancio delle due bombe atomiche. Ed il comandante della spedizione: ”io non mi sono mai pentito. Se oggi esistessero le stesse condizioni del 1945, non esiterei un istante a sganciare la bomba”.
La stessa stampa di informazione italiana, pur avendo titolato: “La bomba atomica ha polverizzato tutti gli esseri viventi a Hiroshima”, non solo non spese una parola, se non proprio di esecrazione quanto meno di sgomento per l’immane carneficina, ma tenne solo a sottolineare che “negli ambienti italiani degli Stati Uniti si è orgogliosi per la parte avuta da tre eminenti scienziati italiani nello studio e nello sviluppo della bomba atomica (“Corriere d’ informazione”).
E così, il 2 settembre dello stesso anno 1945 anche i giapponesi si arresero e la gente ritenne che la guerra fosse davvero finita. In realtà, se finiva la guerra delle armi e delle devastazioni, aveva contemporaneamente inizio un altro tipo di guerra, che verrà definita “guerra fredda”, destinata a spargere nel mondo, all’interno dei due blocchi contrapposti, un clima avvelenato di diffidenza, ostilità, di rincorsa al possesso di nuovi più micidiali mezzi di distruzione: in questo contesto le bombe atomiche sganciate sul Giappone rappresentavano un sinistro monito, una sorta di macabra rivendicazione di primato ma, nello stesso tempo, l’inizio di una rincorsa generalizzata all’armamento nucleare. Il mondo si andava spaccando in due blocchi contrapposti divisi, secondo la celebre frase del Primo Ministro inglese Churchill, da una “cortina di ferro”.
Nel frattempo e nel mezzo di così tragici avvenimenti, con la mia famiglia eravamo tornati alla nostra casa al Prenestino per riprendere a vivere con la speranza di un futuro di pace e di ricostruzione per tutti i danni materiali e morali che la guerra aveva prodotto.
Io potei tornare a scuola. Siccome, però, la vecchia scuola comunale dove avevo frequentato i primi due anni delle elementari era stata danneggiata dai bombardamenti e non era agibile mio padre, sia pure con un certo sacrificio economico, mi iscrisse all’Istituto delle suore del “Sacro Cuore”.
Il sei maggio del 1945 feci la prima Comunione. Ci dissero che questo evento avrebbe portato bene per la fine della guerra. Ed infatti il giorno successivo terminò la guerra in Europa.
Ricordo quanto si dovettero ingegnare sia i miei genitori che quelli degli altri miei amichetti per organizzare la cerimonia. Per il vestito, mia madre utilizzò un vecchio paio di tendine da finestra della cucina per arrangiarmi una specie di camicia bianca che, unita ad un paio di calzoni di mio padre opportunamente adattati, costituirono il mio abbigliamento, unitamente ad un paio di scarpe nere di cartone pressato che mio padre riuscì a rimediare non so dove. Mia sorella Margherita, poi, che aveva ripreso il suo lavoro di dattilografa al Ministero, batté a macchina per tutti i ragazzi del palazzo la frase da immortalare nei santini-ricordo.(“Gesù venne a me e a Lui parlai di tutti voi che mi amate”).
GLI ANNI DEL DOPOGUERRA.
DALLA GUERRA “CALDA” ALLA GUERRA “FREDDA”.
Nel frattempo la vita politica, praticamente soppressa dal fascismo, riprendeva ad animarsi con toni di frontale contrapposizione che riproducevano, in qualche modo, quella spaccatura a livello mondiale che si andava configurando tra mondo cosiddetto occidentale e mondo comunista.
Non era ancora terminata la seconda guerra mondiale che, in un mondo bisognoso di pace e di energie da dedicare alla ricostruzione, i sinistri bagliori delle bombe all’uranio ed al plutonio sganciate sul Giappone annunciavano, invece, l’ imminente apertura di un altro fronte, di una pace “armata”, o di una “guerra fredda”, di una spartizione concordata tra le grandi potenze tra due ampie zone di “influenza” (cioè di controllo politico ed economico) in Europa: da un lato i Paesi satelliti degli Stati Uniti d’America, dall’altra quelli satelliti dell’Unione Sovietica. Aveva, così, inizio il cosiddetto equilibrio del terrore in cui tra le grandi potenze, in un clima di sempre maggiore diffidenza e di sotterranea ostilità, avveniva la rincorsa al perfezionamento dei sempre più devastanti armamenti nucleari con cui intimidire l’avversario e tenere la pace appesa ad un filo.
In questo non certo incoraggiante scenario, da un lato gli Americani erano visti come benefattori, portatori di pace e di benessere. In realtà “l’obiettivo degli Stati Uniti era quello di riorganizzare il mondo in modo che gli interessi americani potessero commerciare, operare e trarre profitti dovunque, senza alcuna restrizione” (Joyce e Gabriel Kolko). L’ URSS, dal canto suo, era vista come miraggio di riscatto per grandi masse lavoratrici.
In realtà, dietro la enunciazione dei buoni propositi – pace e ricostruzione, promozione della democrazia, ripresa delle economie dei singoli Paesi - vi erano solo strategie tese, da parte di ciascuno dei due “blocchi”, alla affermazione di una egemonia militare, politica, economica, culturale, soffocatrice delle autonomie dei singoli Paesi: una nuova sfida per la supremazia nel mondo.
In questa corsa alla conquista della egemonia politica ed economica furono ben presto dimenticati anche i nobili principi in nome dei quali era stata condotta la lotta contro il nazismo, che vennero sacrificati ad una spregiudicata “ragion di Stato”: così, al processo di Norimberga nel 1945, celebrato come il processo ai criminali nazisti da parte delle democrazie vittoriose, condannati a morte i gerarchi più odiosamente indecenti, tutti gli altri responsabili, pur condannati a pene detentive rilevanti, furono poi scarcerati nel giro di cinque anni: questo con l’intento, da parte degli occidentali che controllavano una parte - quella dotata delle maggiori potenzialità economiche - della Germania, di ingraziarsi l’opinione pubblica tedesca con provvedimenti di “clemenza” e di pilotare il rinascente capitalismo industriale dello stesso Paese.
La “guerra fredda” fu non solo una contrapposizione tra grandi potenze mondiali ma anche una divisione delle coscienze, un veleno della vita quotidiana, tra gli uomini e perfino tra i bambini.
Nei primi anni cinquanta – come se l’esperienza del regime fascista fosse passata invano – si tornò a praticare la discriminazione politica sul posto di lavoro ed in alcuni Ministeri, come quello della Difesa, ci furono licenziamenti in massa per coloro che erano sospettati di essere di “sinistra”.
Nelle grandi fabbriche, ove era concentrato il maggior numero di lavoratori, venne instaurato un vero e proprio clima di terrore, all’insegna della minaccia dei licenziamenti contro chi fosse sospettato di essere “comunista”.
Quando l’allora ambasciatrice americana in Italia Clara Booth–Luce suggerì a Valletta, il capo del personale della FIAT, una strategia contro il comunismo, facendo dipendere da questa intesa le commesse e le erogazioni di dollari, lo stesso Valletta le assicurò che avrebbe provveduto a licenziare o, comunque, ad isolare gli operai comunisti nei cosiddetti reparti “confino”.
In questo clima avvelenato, anche una scuola elementare, gestita da suore, poteva divenire il luogo di una forsennata campagna politica in vista sia delle votazioni per il referendum Monarchia-Repubblica che per quelle della Assemblea Costituente, chiamata a redigere la nuova carta costituzionale in sostituzione del vecchio Statuto risalente a Carlo Alberto.
Dietro le elezioni c’era lo spauracchio dell’avvento dei comunisti, del “salto nel buio” qualora si fosse passati dalla Monarchia alla Repubblica.
Ricordo che tutte le mattine del sabato la mia maestra – suor Edvige - le dedicava alla religione. La ricordo ancora oggi con affetto e stima perché da lei appresi quelle fondamentali nozioni di analisi logica che erano assolutamente indispensabili per lo studio sia della lingua italiana che del latino. Senonchè ben presto, durante la mattina di religione, la lezione finiva per scivolare sul piano della propaganda politica e la maestra, solitamente timida e mite, si trasformava al punto che, gridando come una forsennata, forse perché convinta che qualcuno avesse il padre comunista, rivolta a noi bimbetti di otto - nove anni minacciava di “cacciare fuori chi è comunista”!
Per colpire, poi, la nostra immaginazione ed emotività ci diceva, probabilmente con convinzione, che “in Russia hanno tanto grano che lo danno ai cavalli”, anziché inviarlo ai bambini degli altri Paesi, che soffrivano la fame.
Ma non era solo questo l’aspetto stravolgente e devastante di quelle “lezioni”! Era il tipo di religiosità che ci veniva impartito - ridotto a mera propaganda clericale sotto il pontificato di Pio XII, il Papa che, già nunzio della Santa Sede a Berlino ed, in tale veste, certamente informato delle vicende della Germania nazista, non osò opporsi allo sterminio degli ebrei - a provocare dei guasti terribili nelle nostre coscienze ancora tutte in formazione.
Esse, invero, avrebbero avuto bisogno del massimo di rispetto e non certo di essere aggredite dai toni esasperati di una predicazione tutta svolta all’insegna della nostra colpevolizzazione: una religione dove non si parlava di un Dio di amore e di tenerezza, di un Padre sempre pronto ad accoglierci con infinita bontà, ma di un Dio giudice inflessibile di tutte le nostre manchevolezze e, quindi, sempre pronto a condannarci ed a punirci.
Eravamo colpevoli – e, quindi, facevamo “piangere Gesù” – perché eravamo vivaci a scuola e con i nostri genitori. Eravamo colpevoli se non facevamo i cosiddetti “fioretti” alla Madonna, se, cioè, non rinunciavamo a qualcosa che ci potesse piacere in modo particolare (io, ricordo, rinunciavo a qualche ciliegia), così da potere “offrire a Dio” questi nostri piccoli sacrifici. Soprattutto eravamo colpevoli se non facevamo regolarmente la comunione tutte le domeniche: in questo caso il lunedì successivo dovevamo spiegarne i motivi in classe, in una sorta di processo pubblico inquisitorio. E se le nostre “assenze” dall’eucarestia erano ritenute troppo frequenti o non adeguatamente motivate, si insinuava il terribile sospetto che fossimo addirittura “comunisti” e messi all’indice di fronte agli altri.
Un aspetto del tutto particolare di questa colpevolizzazione riguardava, poi, coloro che, per varie ragioni, non riuscivano a seguire gli studi con profitto, i cosiddetti “somari”.
Nella nostra classe, confinate agli ultimi banchi, c’erano quelle che venivano chiamate “le orfanelle”,bambine che vivevano nell’istituto delle suore in quanto prive di una famiglia in grado di accudirle.
Poiché non vi era alle loro spalle nessuno che pagasse la retta di mantenimento, esse dovevano guadagnarsi il pane. Pertanto venivano addette, come sguattere, a vari lavori materiali a contatto con l’acqua fredda per cui avevano, durante l’inverno, le mani piagate da quelle escoriazioni e tumefazioni che volgarmente si chiamano “geloni”. Me le ricordo sempre tristi, confinate agli ultimi banchi, con addosso un lungo camice color grigio cenere che finiva col rimarcare uno stato di inferiorità (noi portavamo il grembiule nero con il fiocco bianco), piene di vergogna (erano quasi tutte ripetenti, non certo per mancanza di intelligenza ma a causa del loro pesante fardello di emarginazione e di privazioni affettive); spesso finivano “in castigo” dietro la lavagna con le orecchie di asino; talvolta, poi, venivano “svergognate” di fronte a tutti noi con in testa le mutande bagnate dalla pipì della notte in quanto, proprio per la profonda sofferenza della solitudine e dell’abbandono, benché grandicelle erano affette da enuresi.
Tutto veniva risolto dalle suore alla luce del binomio: colpa – castigo, senza il benché minimo sforzo per capire le ragioni vere della loro condizione di “inferiorità” rispetto a noi, che avevamo una famiglia addirittura in grado di pagare la retta scolastica. Esse non pagavano la retta e, pertanto, potevano essere trascurate ed emarginate, impunemente mortificate. Avrebbero avuto bisogno di comprensione per i loro ritardi nello studio e di grande amore e tenerezza per la loro condizione; invece venivano, “per punizione”, umiliate davanti a tutti: proprio quelle suore che, cristianamente, avrebbero dovuto vedere in esse “i piccoli” di cui parla il Vangelo, imponevano loro altri pesanti fardelli, in aggiunta a quelli che una vita matrigna aveva imposto sin dal momento della nascita.
Questo comportamento delle suore finiva per indurre in molti di noi una sorta di fastidio verso un tipo di religiosità, fatta soprattutto di imposizioni, divieti, rinunce, “castighi” per cui, appena terminate le elementari, vivemmo l’evento come una specie di liberazione ed in molti ci allontanammo da ogni pratica religiosa.
Ai tempi dell’immediato dopoguerra la scuola già cominciava ad essere selettiva (forse sarebbe più esatto dire discriminatoria) appena dopo le elementari. Infatti, in un quartiere periferico come il Prenestino non esisteva una sola scuola media. Inoltre, per poter intraprendere tale indirizzo scolastico, occorreva superare un esame di “ammissione”. Per un bimbetto proveniente da una famiglia di gente semplice, di modeste condizioni economiche, occorreva superare sia il disagio della lontananza della scuola media – io dovevo recarmi fino alla zona della stazione Termini, con il tram – sia la paura dell’esame di ammissione, sia – e questo valeva soprattutto per la famiglia – l’incertezza di un corso di studi alquanto lungo, impegnativo economicamente, almeno fino al conseguimento di un diploma. Ed allora una famiglia di modeste condizioni spesso finiva per iscrivere i propri figli ai tre anni di “avviamento professionale”, una specie di scuola breve, in qualche modo propedeutica all’inizio di un apprendistato di lavoro, in pratica un abbandono degli studi veri e propri.
Io fui iscritto alle medie su consiglio della mia maestra, la quale aveva una buona considerazione di me e disse che sarebbe stato un peccato fare diversamente.
Grazie alla buona preparazione che mi avevano impartito le suore, mi trovai abbastanza bene.
Ricordo che una volta mi guadagnai un biglietto omaggio per il cinema Rivoli, in Via Lombardia, aperto da poco, bello con le sue poltroncine foderate di velluto rosso. Avevo fatto uno dei migliori “dettati” in classe e potei vedere un bellissimo e commovente film, “Addio Mister Chips”, la storia di un professore di un college inglese, rimasto prematuramente vedovo, che riesce a costruire rapporti meravigliosi, di intensa umanità, con i suoi allievi ed a mantenerli anche per gli anni successivi, anche quando i ragazzi sono ormai divenuti uomini grandi, chiamati a combattere nella prima guerra mondiale. La sua fu una sorta di paternità più ampia e, forse, anche più ricca e più intensa di quella che, purtroppo, non gli era stato possibile realizzare come padre naturale.
Poco dopo mi guadagnai, sempre per meriti scolastici, un biglietto per andare a vedere un altro commoventissimo film, “Il cucciolo”, la storia del rapporto di amicizia intensa tra un bimbo ed un cucciolo di cerbiatto, finita, in modo straziante, con la uccisione del cucciolo da parte del padre del ragazzo, per porre fine alle devastanti incursioni della bestiola nei campi coltivati con tanta fatica e sudore quotidiano.
Questa vicenda, con il suo tragico e straziante epilogo, mi colpì profondamente ma, nel contempo, gettò nel mio animo il seme di quell’amore forte per gli animali che ancora oggi conservo.
Nonostante le difficoltà economiche del momento, eravamo pur sempre degli adolescenti con tanta voglia di divertirci.
All’epoca le strade non erano invase dalle auto e costituivano un grande momento di socializzazione per tutti. Non si andava sempre di fretta, come purtroppo succede oggi, quindi la gente si poteva tranquillamente fermare a parlare; esistevano solo i mercati rionali all’aperto, c’era il contatto diretto con il banco del fruttivendolo, del macellaio, del pizzicagnolo: poi verranno i grandi supermercati dove, dietro uno schermo di apparente efficienza e praticità, tutto si svolge all’insegna dell’anonimato, senza più nessuna occasione di contatto e di comunicativa, nella generale ubriacatura dei concorsi a punti per gli oggetti spesso tra i più insulsi ed inutili.
La strada era un luogo di socializzazione anche per gli uomini. Ricordo mio padre che, al ritorno dal lavoro, scendeva sotto casa, proprio come facevamo noi ragazzi, per giocare alle bocce in un campetto improvvisato.
Per noi ragazzi i giochi erano certamente meno sofisticati ed alienanti rispetto a quelli di oggi: in essi finiva per riversarsi tutta la nostra acerba creatività e questo, a distanza di tempo, mi è apparso come un fatto altamente positivo.
Così, nel giocare a pallone, dovevamo inventarci il campetto, delimitando le porte con dei massi laterali che tenevano luogo dei pali, mentre la “traversa” era una immaginaria linea orizzontale sovrastante la porta, ad altezza indefinita ed indefinibile se non con estrema e, talvolta, arbitraria approssimazione. Questo dava luogo ad infinite dispute quando la palla superava la “porta” ad una certa altezza: era gol, non lo era …. e giù discussioni e litigi! Lo stesso quando la palla passava in prossimità dei massi che fungevano da “pali” laterali. Quanto alla palla, nei primi tempi ci arrangiavamo costruendola con degli stracci; poi, col tempo, qualcuno di noi cominciò a rimediarne una di gomma e, finalmente, venne un pallone di cuoio.
Le sfide avvenivano tra una via del quartiere e l’altra e, specie nelle serate d’estate, i “grandi” riuscivano a creare, in un ampio stradone delimitato da un lungo muretto che fungeva in qualche modo da gradinata, l’atmosfera di un vero e proprio scenario sportivo, quasi da stadio, con protagonisti dai soprannomi bizzarri (“er cipolla”, “er patata”, i fratelli “bebbè”) e con la partecipazione di un pubblico numeroso ed appassionato. Insomma uno spettacolo molto semplice ma coinvolgente, un clima da tifo sano ed autenticamente appassionato, chiassoso ma sicuramente estraneo ad ogni forma di violenza.
Anche il calcio “vero” stava riprendendo l’attività, dopo la forzata interruzione degli ultimi anni di guerra. Insieme al ciclismo – anch’esso alla sua ricomparsa – avrebbe avuto una importante funzione sociale, una sorta di ricostruzione degli animi ridestando nella gente, provata da tanti anni di sofferenza e di lutti, nuovi motivi di speranza, occasioni di genuina passione collettiva e di vero e proprio entusiasmo popolare.
Io divenni tifoso della “Roma”. Paradossalmente avvenne in occasione di una clamorosa sconfitta per 7 – 0 inflittaci dal grande “Torino”, qui a Roma, in quello stadio ribattezzato “Stadio comunale” dopo che il fascismo lo aveva costruito nel 1934, in occasione dei Campionati del Mondo, denominandolo “Stadio nazionale del partito fascista”. E l’anno dopo, sempre qui a Roma, fummo nuovamente umiliati per 7 - 1.
Mi sono spesso domandato perché questa mia scelta opinabile per la “Roma”. Forse perché i veramente forti – e la squadra del “Torino” era fortissima – hanno sempre suscitato in me un senso di lontananza, di irraggiungibilità; mentre gli sfortunati, i “deboli”, gli “umiliati ed offesi”, per dirla con Dostoevskij, li ho, forse, sentiti più vicini, più raggiungibili, più congeniali al mio carattere sostanzialmente timido, senza grandi ambizioni, forse di una modestia eccessiva: per questo hanno suscitato in me una sorta di attrattiva ed un forte impulso di simpatia.
Per la stessa ragione, nel campo del ciclismo - l’altro sport capace di coinvolgere grandi masse di giovani e non più giovani - divenni “tifoso” di Coppi, rispetto ai miei amici che quasi tutti tifavano per Bartali. Era l’anno 1950 e Coppi ebbe un grave incidente, fratturandosi il bacino a seguito di una caduta. Sempre per una caduta, l’anno successivo sarebbe morto il fratello Serse. L’immagine del campione piemontese sofferente, sfortunato, fragile fisicamente e moralmente, ma sempre dignitosamente schivo, timido, riservato, secondo le caratteristiche della tradizione contadina della sua famiglia d’origine, a fronte del campione toscanamente linguacciuto, sbruffone, pieno di sé, ma tenacissimo, caparbio e testardo, finì per suscitare in me un vero e proprio trasporto, una attrazione ai limiti del fanatismo.
Ricordo l’emozione fortissima che provavo quando, al cinema, venivano proiettati spezzoni di partite di calcio o di gare ciclistiche: ancora lontano l’avvento della televisione, che finirà per tutto appiattire nella “spettacolarità” e nella commercializzazione dello sport miliardario ,quelle suggestive immagini, che certo non ci capitava di vedere tutti i giorni, ci apparivano ancor più cariche di una indescrivibile magia emotiva. E quando non ci era dato di vedere le immagini reali, ecco la radio che, attraverso la voce dei cronisti – famose quelle di Nicolò Carosio per le partite di calcio e di Mario Ferretti per il giro d’Italia - cercava di farci rivivere le stesse emozioni delle immagini dal vivo.
Tra il calcio ed il ciclismo, pur attratto da entrambi, seguivo con particolare passione il ciclismo, che per me voleva dire soprattutto Fausto Coppi. Più che essere un tifoso, mi sentivo legato a Coppi da un rapporto affettivo di tipo personale, come nei confronti di una persona cara, pur non avendo mai avuto occasione di conoscerlo, avendolo soltanto visto in una gara che si svolgeva in primavera a Roma .
Nel frattempo avevo terminato le scuole medie inferiori e dovevo decidere se proseguire nel Ginnasio e, quindi, nel Liceo oppure se intraprendere una via più pragmatica, quella di un diploma. Mio padre era assillato dalle proccupazioni di carattere economico che un più lungo corso di studi, destinato a prolungarsi nell’Università, avrebbe comportato, ove avessi scelto l’indirizzo ginnasiale . Per questo mi iscrisse ad un Istituto di indirizzo tecnico – industriale, che si rivelò quanto di più estraneo alle mie attitudini di studio. Vi erano , infatti, delle materie di ordine pratico, come lavorare con la lima il ferro ovvero il legno con altri strumenti. Andai bene nelle materie letterarie e perfino scientifiche, come la matematica ed il disegno, ma fui rimandato in quelle pratico – manuali .Fu tale per me l’umiliazione che dissi a mio padre: “o mi iscrivi al Ginnasio o smetto di studiare”. Mi ritrovai, così, al Ginnasio ma avendo perso un altro anno mi sentii ancor più mortificato, come un ripetente, specie nel vedere i miei vecchi compagni delle medie ormai un anno avanti a me.
Iniziato l’anno scolastico, ebbi modo di frequentare solo il primo giorno: infatti mi ammalai di pleurite e fui ricoverato in ospedale. Feci appena in tempo a conoscere i miei nuovi compagni e mi assentai per tutto il primo trimestre.
Appena convalescente volli che mio padre mi procurasse i libri di testo e cominciai a studiare a casa. Ricordo le prime nozioni di greco, un lingua che mi riuscì subito abbastanza facile. Ebbi la soddisfazione, passate le vacanze di Natale, di tornare a scuola con una discreta preparazione in tutte le materie, specie in latino e greco e fui promosso a giugno senza alcuna difficoltà. Così avvenne negli anni successivi fino al conseguimento della maturità classica.
GLI ANNI DEL LICEO.
Non ebbi la fortuna di incontrare dei professori veramente in gamba e formativi; in compenso feci delle amicizie talmente solide che, ancora oggi, restano vive e vitali.
La classe, ai miei tempi, era in qualche modo uno spaccato sociale. C’erano compagni di classe figli di “intellettuali” come professori, medici, professionisti.
C’eravamo noi, provenienti da famiglie di modesta condizione, abitanti nei quartieri di periferia (ci eravamo soprannominati “borgatari”). Le nostre amicizie erano le più tenaci perché legate in qualche modo alle nostre comuni radici popolari, una specie di senso di appartenenza che ha cementato durevolmente i nostri legami.
Infatti, dopo un lungo periodo in cui i nostri rapporti erano divenuti estremamente sporadici – alcuni di noi si erano persi completamente di vista dopo la fine degli studi – recentemente siamo riusciti a ricostituire il gruppo dei “periferici” ed abbiamo preso l’abitudine di sentirci e di vederci abbastanza spesso.
Naturalmente è tutto un allegro ricordare quei bei tempi; ma alla naturale nostalgia per gli anni giovanili si accompagna la riflessione, il tentativo di capire cosa fosse la scuola allora, quale fosse il nostro modo di rapportarci ai professori e fra di noi.
Il nostro Liceo era stato inizialmente dedicato al Re Umberto I. Era uno stabile posto al centro del quartiere Esquilino, un quartiere edificato ai primi del ‘900 dai piemontesi con palazzi dallo stile definito “umbertino”. Questo spiega il nome del Liceo, che si rifaceva ad una figura attorno alla quale la retorica ufficiale aveva costruito l’immagine del buon Re, vittima ed addirittura “martire” della violenza anarchica; laddove il sovrano era stato, in realtà, un reazionario ed un liberticida (a dimostrazione del fatto che dietro il “buonismo” si nasconde sempre una mistificazione della verità).
Quando, nel dopoguerra, iniziai a frequentarlo, il Liceo non si chiamava più Umberto I ma era stato intitolato a Pilo Albertelli, un antifascista già professore nello stesso Istituto, assassinato alle Fosse Ardeatine dopo essere stato torturato a Via Tasso, combattente l’8 settembre a Porta San Paolo nel disperato tentativo di difendere Roma dall’occupazione dei tedeschi.
All’interno del Liceo c’erano (e ci dovrebbero essere tuttora) due busti, uno posto nell’androne dell’ingresso raffigurante il vecchio sovrano e l’altro posto al piano della presidenza, raffigurante Pilo Albertelli. Scandivano, in un certo senso, il passaggio epocale dall’Italia monarchica, complice del fascismo, all’Italia nuova, democratica e repubblicana. Purtroppo nessuno dei nostri professori spese una parola per richiamare la nostra giovanile attenzione su questo “passaggio”: i programmi ministeriali dell’epoca (anni cinquanta) si fermavano alla prima guerra mondiale e tutto il successivo periodo dell’Italia fascista e della Resistenza veniva omesso dai libri di testo con l’ipocrita pretesto che si trattava di avvenimenti "troppo recenti” , per i quali sarebbe occorso ancora del tempo per un giudizio storico “sereno ed obiettivo”. In realtà, buona parte della classe politica che allora ci governava preferiva che le materie di insegnamento fossero ispirate a cautela, quando non addirittura ad oblio, rispetto al passato più recente, piuttosto che al coraggio di una verità che, in certi casi, avrebbe chiamato in causa anche sue ben precise responsabilità in ordine al passato stesso.
Tuttociò si accompagnava, naturalmente, al permanere di una vecchia concezione della scuola, sostanzialmente autoritaria e paternalistica.
In uno degli ultimi incontri tra ex alunni dell’Albertelli ricordavamo un episodio che ci è rimasto fortemente impresso nella memoria, anche perché, all’epoca, ne cogliemmo soltanto l’aspetto comico. Era l’uscita dopo la quinta ora e scendevamo per le scale con tutto il chiasso che poteva scaturire dalla nostra prorompente vitalità, tenuta repressa per le cinque ore della mattinata. Giunti al piano della presidenza, all’improvviso compare la figura del Preside, un uomo alto ed imponente il quale, con fare solenne, sollevando il braccio in segno di grande riprovazione per il nostro indisciplinato comportamento, pronuncia quelle parole che tutti ancora oggi ricordiamo: ”Voi siete dei profanatori ….. si, profanatori…perché la scuola è un tempio!”
A stento riuscimmo a trattenerci ma, una volta usciti dalla scuola, fu una risata collettiva e fragorosa.
Passato il primo momento della risata, della irrisione nei confronti del preside, l’episodio è rimasto nella nostra memoria come un fatto al limite del grottesco e null’altro. Oggi, invece, a distanza di anni, mi spinge a varie riflessioni.
Anzitutto il linguaggio usato dal Preside (“Profanatori…..Tempio“). Esso, a ben riflettere, tradiva una concezione sacrale, chiesastica della scuola, in cui egli attribuiva a sé stesso il ruolo di “sommo sacerdote”, agli insegnanti quello di corpo sacerdotale, a noi quello di discepoli.
Con gli anni della maturità questo richiamo alle figure dei sommi sacerdoti, dei custodi del tempio mi ha indotto a riflettere come, a ben pensarci, costoro fossero, al di là della loro ufficialità di religiosi, i detentori di un potere di controllo sociale, garanti di un ordine basato sul rispetto delle gerarchie e sul “timore” di un Dio implacabile. Pronti a mandare sulla Croce Gesù Cristo in quanto “sovversivo”, testimone coerente di valori quali la solidarietà, l’amore, la gratuità, l’uguaglianza, che potevano minare dalle fondamenta, come poi in effetti minarono, il potere in una società pagana ingiusta e disumana, fondata sul commercio degli uomini.
Noi dovevamo accettare il nostro ruolo subalterno: ognuno al suo posto, senza “profanazioni“.
Questa visione autoritaria e gerarchica della scuola voleva prefigurare un certo tipo di società: come futuri cittadini dovevamo, già nella scuola, essere “inquadrati” ed educati alla disciplina (nelle classi c’erano i manipoli ed i capi classe) ed al principio di autorità. Ed in tale quadro autoritario e conformista non poteva mancare un moralismo bigotto: non esistevano, nel nostro Liceo, le classi miste ed, addirittura, c’erano due ingressi separati per ragazzi e ragazze. Forse neppure il preside coglieva queste implicazioni che scaturivano come corollari dal suo comportamento, talmente era preso dal suo ruolo, quasi prigioniero di esso.
Oggi, a distanza di anni, la sua inflessibile determinazione nel reprimere la nostra vivace esuberanza, il nostro ingenuo modo di ridere e di divertirci (ci bastava poco: una volta, a carnevale, ci presentammo a scuola con barba e baffi finti e lui ci sospese per cinque giorni, sempre per il motivo che “eravamo dei profanatori” del tempio – scuola), mi fanno venire alla mente le stupende pagine del romanzo di Umberto Eco in cui tutta una serie di eventi tragici, apparentemente misteriosi, si intrecciano in una specie di rompicapo, per poi dipanarsi in un epilogo davvero sconcertante: il filo conduttore di tutti i misteriosi delitti sta in una concezione autoritaria, fino alla criminalità, di una cultura religiosa che voleva perpetuarsi come strumento di controllo delle coscienze basato sul “timore di Dio”. Per questo, tuttociò che potesse indurre alla gioiosità ed al riso, come poteva essere la commedia dei classici greci, era visto alla stregua di una pericolosa istigazione alla disubbidienza, alla ribellione, alla emancipazione dal timore della autorità ed andava impedito in ogni modo, fino a ricorrere, se necessario, al delitto. Insomma il riso, in quanto tale, nella raffigurazione fantastica del romanzo finiva per essere considerato, da parte dei gelosi custodi di una religione mummificata e di una cultura separata, sovversione, emancipazione dal controllo basato sul timore, irrisione nei confronti del principio di autorità, aspirazione alla libertà.
Chissà, forse anche il nostro ridere e schiamazzare avrebbe potuto essere avvertito come un segno di pericolosa insubordinazione alla autorità del preside, tale da andare oltre il semplice aspetto di una normale vivacità ed esuberanza giovanile.
Perché potesse divenire una più matura e consapevole insofferenza verso la concezione sacrale della scuola avremmo avuto bisogno che essa ci formasse alla cultura non già del conformismo bensì della libertà, della solidarietà, della condivisione. Insomma, ci mancò una formazione veramente laica, ispirata al principio della tolleranza e rispettosa delle varie diversità.
E questo ci portò ad assumere talvolta comportamenti sbagliati ed ingiusti nei confronti di taluni compagni meno fortunati di noi.
Ricordo, in proposito, il nostro amico Corrado Francucci - Navarra: per lui la vita si era presentata subito in salita. Nato da una ragazza madre, riconosciuto dal padre solo successivamente, menomato da un grave handicap agli arti inferiori che gli procurava una deambulazione assai difficoltosa: per questa sua diversità - che lo tagliava fuori da certi rapporti che andassero oltre la frequenza della scuola - avvertiva fortemente un bisogno di amicizia (ci invitava spesso a casa), un desiderio di primeggiare, di essere compreso tra i “bravi”, che lo risarcisse in qualche modo della sua menomazione. Pur essendo dotato di una notevole intelligenza, rimaneva tuttavia prigioniero di una mentalità subalterna - riflesso, forse, della menomazione fisica - che lo portava a tentare di ingraziarsi i professori con un atteggiamento oltremodo ossequioso. E noi, che non eravamo in grado di capire le ragioni ultime dei suoi comportamenti – ci sarebbe voluto, al riguardo, un ruolo dei professori che mancò completamente - lo accusavamo di scorrettezza nei nostri confronti e, forti della nostra normalità, gli davamo l’ostracismo, lo escludevamo dalla nostra amicizia , dandogli del “ruffiano” in maniera plateale tutte le volte che veniva interrogato dai professori. Noi, “normodotati”, potevamo addirittura permetterci di fare il verso a taluni professori e sbertucciarli, mentre il povero Corrado, fuori dal giro delle nostre frequentazioni – noi potevamo correre, saltare sui banchi durante la ricreazione, ritrovarci per giocare a pallone, a pallacanestro – vedeva nella “captatio benevolentiae” dei professori l’unica possibilità di mettersi in luce, di essere tenuto in considerazione alla pari dei “bravini”. Morì in un incidente d’auto e fu il tragico epilogo di una vita davvero sfortunata.
I limiti della nostra scuola non riguardavano solo i contenuti dell ’insegnamento. Come ben si sa, la possibilità di una pratica sportiva è sempre stato un segno della attenzione delle istituzioni verso i giovani. Ebbene, la nostra scuola era del tutto sprovvista di qualsiasi struttura sportiva (mancava perfino la palestra) e non c’era nessuno che ci rendesse possibile l’accesso a strutture sportive esterne. La educazione alla pratica sportiva, a parte l ’ora di “educazione fisica” presso la palestra di una scuola lontana dalla nostra, era completamente fuori da ogni programma didattico.
Ed invece sarebbe stata importantissima per allargare le nostre amicizie, temprare i nostri carattere alla lealtà e ad un sano agonismo, a prefigurare tutto quello che si fa nella vita come impegno di sacrificio e di serietà. Noi supplivamo arrangiandoci nei “campetti” che di volta in volta riuscivamo a trovare disponibili: ancora oggi rivedo nei miei compagni di allora quella tenacia, quell’impegno, quella determinazione che derivava dalla convinzione che anche una semplice partita era un fatto “serio” in cui gettare fatica, lealtà, gioiosità e perfino un po’ di “sana cattiveria”.
Poi c’era lo sport spettacolo .Qualche volta, dopo aver messo in croce a lungo i nostri genitori, riuscivamo a farci pagare il biglietto per lo “Stadio”: potevamo, finalmente, assistere al calcio vero.
Di quel periodo ricordo le battute “colorite” dei tifosi, con le quali il disappunto per lo svantaggio della squadra del cuore si traduceva non già nella frase volgare e truculenta ma in un sarcasmo tutto popolare che denotava un grande sforzo di creatività. Gli stessi striscioni erano ispirati ad una grande semplicità. Ne ricorderò sempre uno che diceva :”Forza Roma – Lupa faje li bozzi – Tifosi Quadraro”.
Nulla di quella carica di violenza e di razzismo che vediamo, purtroppo, ai nostri giorni: lo stadio non era lo “sfogatoio” di una violenza diffusa nella società, era un luogo di sano e popolare divertirsi, di ancora autentiche emozioni.
Tuttavia, gli anni del Liceo non furono, per me, tutta gioia e spensieratezza. Pur essendo stato sempre diligente e studioso, io vivevo la mia condizione scolastica con una sorta di complesso di “inferiorità”, come una predestinazione ad essere un perdente nella vita. A casa non avevo chi mi potesse in qualche modo seguire negli studi e neppure disponevo di strumenti di conoscenza che non fossero i libri di testo. Questo mio disagio era accentuato dal fatto che, negli anni ultimi due anni, il mio compagno di banco, che ricordo con grande affetto per la sua serietà e generosità, era di famiglia molto agiata e disponeva di uno strumento che, a quei tempi, anni cinquanta, era considerato il massimo: la mitica Enciclopedia Treccani! Io, invece, ricordo le infinite peregrinazioni di mio padre per trovarmi, all’inizio di ciascun anno, i libri di testo usati.
Non mi sentivo dotato di una grande intelligenza, ma avevo una volontà estremamente tenace. La massima umiliazione sarebbe stata quella di arrivare impreparato alle interrogazioni: insomma, se le mie modeste origini popolari mi creavano un senso di inferiorità è pur vero che, nello stesso tempo, sentivo un fortissimo senso del dovere che mi spingeva ad un impegno tenace nello studio per non tradire la fiducia ed i sacrifici dei miei genitori.
Mio padre usciva di casa la mattina alle 6 e 30 – credo che, in vita sua, non abbia mai “bollato” in ritardo il cartellino della presenza – e faceva ritorno non prima delle sei; mia madre aveva il compito non facile di far quadrare il bilancio familiare. Di fronte a questi esempi di serietà e di rettitudine io “dovevo” svolgere il mio compito: quello di andare bene a scuola, di non aggiungere altri problemi, altri “pensieri” per i miei genitori. Era questa la mia morale, estremamente elementare, forse un po’ troppo rigida (per studiare dedicavo poco tempo al gioco, che consideravo quasi una trasgressione), anche nel giudicare i miei amici quando si presentavano impreparati o magari marinavano la scuola. Il loro comportamento, secondo i miei intransigenti “principi”, era un vero e proprio “tradimento” nei confronti delle famiglie, la mia condanna era inflessibile(ancora oggi chiamo affettuosamente “il buffone” il mio migliore amico, Raffaele).
Questo vero e proprio moralismo si rifletteva anche in certi miei particolari comportamenti: così, mentre la stragrande maggioranza dei miei compagni di classe portava i libri legati con una cinghia di cuoio io, che vedevo anche dietro i libri i sacrifici economici che erano costati, avevo per essi un rispetto quasi maniacale, che tuttora conservo: guai sgualcirli nei bordi, guai prestarli a qualcuno, dovevano stare nella cartella e non legati con le cinghie!
A distanza di anni mi sono domandato spesso: il mio senso del dovere, di “fedeltà” alle aspettative dei miei genitori era, tutto sommato, un senso di responsabilità, un segno di maturità ovvero era una limitazione, una distorsione, una sorta di proiezione infinita di quel “minoritarismo” che mi portava ad una forma di difesa, di bisogno di giudicare gli altri dal mio punto di vista, di sentirmi “migliore” e, dunque, risarcito; un arroccamento entro il circuito delle mie rigidità , un non vedere gli altri ed, in genere, i fatti della vita quotidiana con quel minimo di elasticità, di comprensione, di tolleranza e di serenità che, in ultima analisi, costituisce il sale della umana saggezza ed il presupposto di una personalità equilibrata?
E mi sono, altresì, domandato: ma se invece di essere nato figlio di una modesta famiglia fossi stato figlio, per esempio, di un professionista e, quindi, avessi avuto minori complessi, maggiori opportunità ed ambizioni, forse la mia vita sarebbe stata “migliore”? Tutto sommato penso che sia andata bene così: quando ci si incammina sulla strada del “successo” a tutti i costi si diventa spregiudicati, talvolta addirittura cinici, si va sempre di corsa e non si trova mai il momento di una pausa per riflettere e capire; ci si trova spogliati dei nostri sentimenti, indifferenti a certi valori importanti come l’amicizia, l’ attenzione verso gli altri, la solidarietà. In ultima analisi credo di aver ricevuto molto dalla mia modesta famiglia in termini di attenzioni, di premure (talvolta anche esagerate, specie da parte di mia madre), di opportunità di studi: forse avrei potuto fare di meglio se avessi avuto meno insicurezze: ma che significa “fare di meglio” nella vita?