Quello che conta è il pensiero

 

Mentre su Varese calavano le prime ombre della sera, mi aggiravo disperato per le vie del centro in cerca di suggerimenti per i numerosi regali che dovevo acquistare e mettere nella mia gerla.

Purtroppo , o meno male, il parentado è composto da una sostanziosa comunità di loschi individui che in questo periodo dell’ anno mi appaiono come degli zombie affamati di doni.

Me li sogno ogni notte mentre si avvicinano a me claudicanti con le braccia protese e gli artigli pronti a ghermire i pacchetti. Ognuno afferra il suo pacco e, dopo averlo scartato a morsi, gli da solo un’occhiata per correre a spiare cosa ha avuto il parente vicino. E così si accorgono di aver ricevuto tutti lo stesso regalo: una saponetta profumata abbinata ad un borotalco ed a dei sali da bagno colorati.

Nel sogno io rimango freddo ed immobile ma, nel mio letto, mi agito come un forsennato e sudo come un cavallo.

Difatti, dopo tante repliche,  so benissimo come l’incubo si concluderà; uno di loro mi si avvicinerà e fissandomi con le sue vuote cavità orbitali se ne uscirà con la più grossa balla che l’uomo sia mai riuscito ad inventarsi da quando il buon Dio gli ha fornito l’uso della parola. A due dita dalla mia faccia, con una fiatella cadaverica, quel simulacro di parente mi dirà “Quello che conta è il pensiero .”, dopodiché mi salteranno tutti addosso per divorarmi.

A questo punto mi sveglio di soprassalto e non mi riaddormento più continuando ad aggirarmi su e giù per la mia stanza fino al mattino, quando il mio direttore di banca  mi riassicura dicendo che mi concederà una linea di credito agevolata.

Sicché mi aggiravo per quel dedalo di lucine colorate che erano diventate le vie del centro travestito come Clint Eastwood nel film “Il texano dagli occhi di ghiaccio”. Sguardo da duro ed espressione disincantata avrebbero validamente dissuaso qualsiasi bottegaio dal solo supporre di potermi fregare; l’atteggiamento tipico di colui che parla poco ma che ha dietro tutto un passato da far impallidire Indiana Jones. Mezzo sigaro in bocca e la barba non fatta mi davano un’aria più matura, il cappello da cowboy ed il poncho mi facevano apparire come uno che non ha nulla da perdere e che la sa veramente molto ma molto lunga.

Nelle fondine, che sbatacchiavano dolcemente sulle cosce, due carte di credito affilatissime.

Ennio Morricone mi seguiva con una pianola diffondendo ovunque le note di “Per un pugno di dollari”.

Doveva essere chiaro a tutti che io ero l’ “Acquirente Solitario”, nulla a che vedere con la torma di mariti e fidanzati da carico che seguivano pedissequamente le loro donne acquistando e trasportando tutto ciò che veniva loro indicato.

Ogni tanto qualcuno di loro, di solito un marito perché i fidanzati non si azzardano, tentava una ribellione ma veniva subito raggelato da un’occhiata che pareva urlare “Come osi? A casa facciamo i conti”. Ogni maschio italiano, ma forse la questione è più diffusa perché in effetti appare come un impulso ancestrale, sa perfettamente cosa significa quello sguardo ed i tormenti che è in grado di provocare. A nulla serve tentare di elevare il tono della discussione imponendosi con un bel “ho detto di no e quindi non lo si compra” perché il maschio sa perfettamente che quando a lui sarà passata l’arrabbiatura la sua donna sarà pronta a colpire alle spalle, ricordandogli e rinfacciandogli il torto subito ad ogni piè sospinto.

Lui comincerà a sentirsi in colpa e, fiaccato nel corpo e nello spirito dal continuo ed incessante brontolio della sua donna, alla fine cederà ed acquisterà non uno, ma forse due degli oggetti del contendere.

E si cari Camerati , le femmine sono astute come totani; prima ci lasciano sbollire e poi iniziano il terribile lavorio ai fianchi.

Per questo e per altri motivi le vedevo aggirarsi da una boutique all’altra seguite dal loro uomo come se fossero dei primari d’ospedale inseguiti servilmente dai “dottorini”.

Per questo e per altri motivi mi ero calato nei panni dell’ “Acquirente Solitario”.

Avevo memorizzato esattamente tutte le persone (gli zombie) a cui dovevo fare dei doni. Oltre ai genitori dovevo saziare i nonni, gli zii e le zie, i cugini e le cugine, gli amici , le amiche, i cani, i gatti e tutti gli altri animali di casa compresa mia sorella. Fra l’altro mia sorella era lo zombie più sanguinario, infatti se il regalo non le fosse piaciuto se ne sarebbe uscita con “Bhe..Tommaso..del resto quel che conta è il pensiero e da uno con un cervello da pirla come il tuo che genere di pensieri potevo aspettarmi?”.

Per cui la mia concentrazione era al massimo, si trattava di indovinare che cosa ogni singolo zombie potesse desiderare, che cosa avrebbe toccato con gusto, quale oggetto gli avrebbe fatto piacere possedere.

Si trattava di tentare di gioire delle gioie di un altro, di immedesimarsi nei suoi gusti, nelle sue voglie e nel suo carattere.

Ennio Morricone non mi facilitava certo il compito continuando a suonare, seppur in modo celestiale la sua pianola.

Decisi di ordinare la bolgia dei parenti (degli zombie) in tre grandi categorie regalistiche: vestiario, oggettistica ed informatica. Per gli animali il compito era più semplice, tranne che per mia sorella che non si sarebbe accontentata di un osso di pelle di bufalo o di un topo a molla.

Forse un collare chiodato? (Scherza, scherza, ne riparliamo a Natale.)

Mi avvicinai quindi alla vetrina di una boutique per iniziare a far breccia nella prima categoria di regali.

Mentre osservavo i modelli esposti, da dietro la vetrina fece capolino una commessa; mi diede un’occhiata distratta ed abbassò lo sguardo per sistemare una sciarpa ma, resasi conto solo dopo a quale categoria di potenziale cliente appartenessi, tornò subito a fissarmi negli occhi. La ragazza, di una bellezza abbacinante, iniziò a sorridermi ma, mentre la sua bocca si atteggiava nella giusta postura, i suoi occhi si strinsero un poco restando gelidi ed attenti. Io non abbassai i miei continuando a guardarla con la fissità tipica del pistolero. Le mie mani scostarono il poncho mettendo a nudo le fondine e le mie dita si avvicinarono lentamente alle carte di credito arrivando a sfiorarle. Ennio, da parte sua, ce la mise tutta per aumentare il pathos arrivando a sublimità aristoteliche. I secondi passavano con una lentezza esasperante ed una goccia di sudore, nonostante il freddo, fece capolino da sotto il mio cappello.Il sigaro era bloccato fra le mie labbra come un picchetto nel ghiaccio dell’Himalaya mentre osservavo la ragazza che molto lentamente cercava di raggiungere la prezzatrice a nastro. La sua intenzione era, lo sapevo io e lo sapeva lei, di dare una ritoccatina verso l’alto ai prezzi, sia per sfruttare al meglio gli ultimi giorni prima del Natale, sia per punire i clienti ritardatari. Nel preciso istante in cui stavo per estrarre le armi e porre fine al duello, due ragazzi si interposero fra me e la commessa. Si fermarono a guardare la vetrina commentando i prezzi e ridacchiando di gusto.

Quando se ne andarono la giacca a vento su cui avevo messo gli occhi costava il 10% in più e la commessa era sparita.

Ennio sottolineò magistralmente la situazione con le prime note della “quinta” di Beethoven.

Deciso a vendicarmi mi misi a pedinare i due disgraziati ed inopportuni personaggi.

Si trattava di un ragazzo ed una ragazza che proseguivano abbracciati lungo il marciapiede. Portavano due eskimo verdi, lunghe sciarpe che arrivavano alle ginocchia nonostante i numerosi avvolgimenti intorno al collo, jeans di un colore indefinito ed indefinibile e scarpe da ginnastica. Erano zecche.

Li pedinai per alcune decine di metri sino a che non si fermarono davanti ad un negozio di giocattoli.

“Deee…che storieee” esclamò lo zeccone “Guarda, Tere, la nuova playstation2”

“C’hai raggione, Robbè…che figata!” fece la zecchetta in risposta

“Mio padre ha detto che, se mi taglio i capelli, me la regala per Natale”

“Vabbè, che sarà mai ….tanto ricrescono e poi, al massimo, ti faccio giocare con la mia che pure mia madre me l’ha promessa” precisò lei sollevando una ciocca dei capelli del suo ganzo. La ciocca si lasciò sollevare di malavoglia rimanendo comunque un blocco solidale con se stessa e mantenendo contatti con il resto della chioma tramite un filo oleoso.

“Certo che in sta storia del Natale ci sto proprio dentro” sentenziò il ragazzo senza spostare gli occhi dal venerabile oggetto tecnologico “Cioè, capito no? Cioè ti fanno un sacco di regali…..ma lo sai che McDonalds ha messo in palio i giochi della play? Cioè, tu ti mangi i suoi panozzi e dopo un tot ti danno un gioco.Anzi poi ci andiamo che così facciamo punti.”

“E se ci riconoscono?” chiese dubbiosa la ragazza

“Ma figurati! C’avevamo le sciarpe in faccia…come fanno a riconoscerci? Cioè un conto è la manifestazione, n’altro sono i punti per i giochi. Ah, poi sai che mio zio mi ha regalato pure le nike quelle da duecentottanta carte? Guarda..una storia che non ti dico.” Proprio in quel momento il ragazzo prese a trillare. Cominciò a palparsi concitatamente fino ad estrarre un telefono portatile dalle dimensioni di un accendino.

“Pronto?…ah sei tu mà…no sto con Teresa….no è quella del centro autogestito…si la figlia dell’avvocato Adelmi.. si.. no.. ah mà, t’ho detto di non rompere le palle con sta storia dei soldi, se ti dico che te li ridò te li ridò.. si ce l’ho io il bancomat di papà.. ma non mi rompere le balle!!” Chiuse la comunicazione e mise via l’apparecchio.

“Oh, Tere, ma che scassacazzo è mia madre? Sempre a darmi il tormento che devo fare questo, che devo fare quello..ma io dico: vado al liceo? Si! Sono quindi uno studente? Si! E allora si può sapere che vuole? Sempre a ricordarmi che mi hanno segato già tre volte! Però è proprio na figata sta palystation 2”

La ragazza si trascinò via il bradipo ed io restai lì a fissare l’oggetto del desiderio di molti ragazzi.

Avevo trovato cosa regalare al cugino Pino: la mitologica Playstation2.

Entrai deciso nel negozio e mi avvicinai al bancone dove un commesso divorato dall’acne stava giocando con un game boy.

“Buonasera” esclamai cortese “Vorrei una PS2!”

“A che nome è la prenotazione?” rispose il ragazzetto foruncoluto senza alzare gli occhi dal videogame.

“Come la prenotazione? Voglio una consolle, mica una suite al Palace!”

Il commesso alzo lentamente gli occhi verso di me e prese a fissarmi come se io avessi due teste. Sul negozio scese di colpo un silenzio glaciale e tutti gli altri commessi ed i clienti si fermarono a guardarmi.

Nessuno parlava.

Nessuno faceva il benché minimo movimento.

Una folata di vento gelido entrò d’un tratto dalla porta portando con se una palla di arbusti che rotolò nel retro del negozio. Persino Ennio Morricone aveva smesso di suonare.

Mi guardai in giro nervosamente in quella strana atmosfera sospesa,  poi mi rivolsi nuovamente al bitorzoluto commesso chiedendogli ingenuamente “Perché? Ci vuole la prenotazione?”

La domanda ruppe l’incanto e tutti i presenti proruppero in fragorose risate.Un commesso cominciò addirittura ad avere le convulsioni, un cliente cadde a terra supino agitando le braccia e le gambe come uno scarafaggio che non riesce più a capovolgersi, persino i robottini di peluche ridevano ritmicamente. Ad un cliente venne una sincope ed inizialmente due commessi cercarono di soccorrerlo ma dovettero desistere sopraffatti dalle risate. Il commesso al quale mi ero rivolto si sganasciò talmente che due foruncoli esplosero con un botto. Fortunatamente non vi furono vittime.

Io restavo lì in piedi annuendo con un sorriso ebete stampato in faccia. Persino Ennio mi sbeffeggiava intonando una tipica musichetta da circo.

D’un tratto mi tornarono in mente le parole della zecchetta pedinata poco prima “ti faccio giocare con la mia che pure mia madre me l’ha promessa” e la precisazione dello zeccone “…no sto con Teresa…. la figlia dell’avvocato Adelmi” ed il sordido piano prese forma nella mia mente.

Ridendo anch’io come un tricheco gridai a gran voce “Scherzetto!! La prenotazione ce l’ho!!”

Questa formula magica mise fine istantaneamente all’ilarità generale e tutti ripresero ad occuparsi dei fatti loro come se nulla fosse successo.

Il cliente colpito da sincope venne gettato nel retro del negozio, sopra la palla di arbusti. Ennio riprese “per un pugno di dollari”.

Solo il commesso purulento mi fissava torvo, per nulla convinto della mia dichiarazione.

“Ah si? Adesso abbiamo la prenotazione…..e a che nome di grazia?”

“Avvocato Adelmi” farfugliai velocemente

“Come ha detto? Parli chiaro che se non la sento”

“A nome Adelmi, avvocato Adelmi” ripetei con un timbro più deciso.

Il commesso consultò rapidamente un file sul computer e finalmente trovò la prenotazione.

“Sembra tutto in ordine, avvocato. Solo la formalità dell’ impronta retinica e poi le consegneremo la sua playstaion”

L’orrido essere posò sul bancone uno scanner oftalmico per il prelevamento ed il controllo dell’impronta della retina e mi fece cenno di guardare nel monocolo.

“Suvvia avvocato, faccia come quanto ha prenotato”

Non sapevo più che pesci pigliare dato che non sarei certo riuscito a superare la prova; lo schermo al plasma del pc già mostrava l’immagine della retina originale ed il sistema era pronto al confronto. Decisi di tentare il tutto per tutto, guardando dentro il monocolo con l’intenzione di gridare allo scandalo una volta rivelatasi l’incongruenza, mi sarei dichiarato deciso a querelare tutto e tutti. Del resto che altro avrei potuto fare ? Apposi dunque l’occhio allo sputtanatore digitale come un condannato offre il collo al capestro, pronto però alla furiosa pantomima che intendevo mettere in scena. Ennio Morricone aveva appena accennato alle note di “Blade Runner” quando avvenne il miracolo.

Sullo schermo del computer apparve, con un “ding” molto chiaro, un riquadro grigio ed un avviso che diceva pressappoco così:

<< detector.exe – il programma ha compiuto un’azione non valida e sarà terminato>>

Il commesso si fece subito prendere dal panico e pigiò i tasti che di certo gli stavano più simpatici visto che non migliorò affatto la situazione, anzi riuscì addirittura a peggiorarla. Ora tutto il monitor era di un azzurro intenso ed una perentoria dicitura atterrì maggiormente il giovane:

<< errore di sistema – il sistema potrebbe diventare instabile, premere ctrl+alt+canc per riavviare il computer o qualsiasi altro tasto per tornare a windows.>>

Ormai in preda al delirio lo sconsiderato premette il tasto “invio” ed apparve uno schermo nero con il solo puntatore del mouse che si dibatteva come una spigola fuori dall’acqua. Con un urlo il kurnow (che in un’antica lingua gaelica significa “colui la cui pelle è ricoperta da pustole purulente come il culo di una giovenca”) si aggrappò alla cornetta dell’interfono supplicando l’intervento di un tecnico. Gli venne risposto che glielo avrebbero mandato entro un’ora.

Io tirai fuori una delle espressioni più scocciate che avevo in repertorio, una di quelle che avevo visto assumere molte volte a  mia sorella che era da tutti ritenuta un’esperta nel fingersi annoiata e scocciata, mentre dentro di me esultavo promettendo di immolare un capretto al Dio Gates. Diedi un’occhiata all’orologio e sbottai seccato “Non crederà che io adesso stia qui ad aspettare un’ora?” Il giovinotto era imbarazzatissimo e non sapendo che rispondere mi porse la scatola che conteneva il Regalo ricevendo in cambio una delle mie armi.

“Bancomat o carta di credito?” chiese balbettando.

“Bancomat” risposi io preoccupato che andasse a verificare l’intestatario della carta. Ma il pirletta era in coma anafilattico da overdose di figura meschina ed agì come in trance. Salutai frettolosamente e, nella premura di andarmene, urtai un signore distinto che attendeva dietro di me. Mi scusai e questi sorrise come a significare che “son cose che capitano”. Mentre mi avviavo verso l’uscita udii il signore dire “Buonasera, sono l’avvocato Palmiro Adelmi. Ho prenotato una playstation.” Come in una sequenza al rallentatore mi lanciai verso la porta mentre le sirene d’allarme del negozio iniziavano a suonare. Presi Ennio per la collottola e lo lanciai sotto le saracinesche che si stavano chiudendo automaticamente; gli passai il pacco, la pianola e mi fiondai a mia volta sotto l’ormai stretto pertugio. Mi voltai solo un istante ad osservare con orrore le facce stravolte del commesso e dell’avvocato che, premute contro la porta a vetri ormai bloccata, sbavavano e si dibattevano tentando di azzannare il cristallo anti-sfondamento.

Ennio ed io fuggimmo verso il parcheggio e nascondemmo l’ambita preda nel bagagliaio dell’auto, poi io ripresi il mio peregrinare e lui riprese a seguirmi ed a suonare divinamente “Per un pugno di dollari”.

Dovevo ancora sistemare la questione della giacca a vento.

Arrivai con passo deciso davanti alla boutique e ne spalancai la porta violentemente. La commessa mi riconobbe subito e corse a nascondersi dietro la proprietaria dell’esercizio. Notai che le sussurrò qualche cosa all’orecchio e che la signora annuì garbatamente senza interrompersi nel servire una cliente. La ragazza mi guardò maliziosamente e , prima di scomparire nel retrobottega, mi mostrò il dito medio senza mai smettere di sorridere.

Avrei voluto dire qualcosa ma, in quel preciso istante, la cliente schioccò le dita ed un manichino si animò di scatto. Ci misi un secondo o due prima di realizzare che si trattava di un marito da soma e non di un manichino stregato; il tapino era rimasto talmente immobile che fino a quel momento non mi ero nemmeno accorto della sua presenza. Egli pagò il conto senza fiatare, si caricò sull’apposito basto pacchi e pacchetti e seguì la moglie fuori dal locale.

“Desideva?” mi chiese la signora con una erre moscia falsa come il biondo dei suoi capelli.

“Quella giacca a vento color prugna che ha in vetrina.” Risposi a denti stretti facendo rotolare il sigaro da una parte all’altra della bocca. La donna sorrise ed estrasse dalla vetrina il capo in questione. Lo esaminammo insieme, lei lo esaltò ed io lo denigrai, lei mi mostrò la firma sull’etichetta ed io buttai lì un’espressione da tonno come a dire che non ne avevo mai sentito parlare,  lei lo stropicciò per far gonfiare il più possibile le piume d’oca ed io sbadigliai.

Alla fine, con studiata sufficienza, le chiesi il prezzo e lei mi mostrò il cartoncino. Io la fissai dritta nelle palle degli occhi e iniziai la mia danza Haka urlando e minacciando come un vero Maori. La signora, da commerciante navigata qual’era, rispose con una eccellente interpretazione della “Madama Butterfly” arrivando quasi a stracciarsi le vesti, giurando e spergiurando che più sconto di così non poteva farmi, che ci avrebbe rimesso.

Io non mi feci impressionare e la violenza guerriera della mia danza Haka ebbe alla fine ragione delle melodie pucciniane. Acquistai la giacca a vento al fixing del 7.3% di sconto rispetto al prezzo esposto prima della manomissione della commessa-killer.

Uscii tronfio come un tacchino sfuggito al giorno del ringraziamento facendo l’occhiolino ad Ennio che mi stava adulando con la parte finale di “Sfida all’O.K. corral”.

Dando un’ultima occhiata alla vetrina rimasi interdetto notando che  la commessa e la sua titolare che si sbellicavano dalle risate dandosi delle poderose pacche sulle spalle.

Che avevano da divertirsi tanto? Erano forse in preda ad una crisi isterica dovuta allo sconto che avevo virilmente strappato?

Si era ormai fatto tardi ed io ero riuscito a catturare solo due regali prima dell’ormai imminente chiusura dei negozi. Non restavano che i negozi nel centro commerciale. Tornai alla macchina ma, mentre ero in coda per pagare il biglietto del parcheggio, comparve mia sorella spalleggiata da due amiche.

“Ciao fratellone!” esordì la mostruosa creatura in tono subdolo e falsamente amichevole “Che hai nel sacco? Un regalo? Fammi vedere! Fammi vedere!” Io tentai di allontanarla dandole un calcetto in uno stinco ma le sue amiche se ne accorsero ed iniziarono a squadrarmi con odio e disprezzo.

“Ahia, stronzo!” gridò la maledetta a squarciagola in modo di cercare di attirare su di me l’attenzione di tutti, cosa che puntualmente avvenne ed io mi trovai addosso le occhiate severe di tutta la gente in coda davanti alla cassa.

Mostrai un imbarazzatissimo sorriso a trentadue denti e permisi all’abominio di aprire il sacco della boutique. Anche le amiche volevano soddisfare la loro morbosa curiosità ed infilarono pure le loro teste di cazzo dentro al sacco. Restarono lì dentro per qualche secondo e poi saltarono su sghignazzando.

“Che pirla!!” urlò mia sorella mentre le sue amiche si piegavano in due dalle risate proprio come avevano poc’anzi fatto la commessa della boutique e la sua titolare “Ti hanno rifilato un modello dell’anno scorso!!”

“Non è vero!” sbottai io arrossendo come un pomodoro maturo.

“Si che è vero” insisteva la mia perfida sorella “Quello di quest’anno ha le tasche diritte e non diagonali!”

“Ho detto che non è vero!” urlai fuori di me anche se ormai la Verità mi schiacciava come una fava.

Le tre maledette se ne andarono ridacchiando tutte felici di aver cancellato la stima che avevo in me stesso ed anche le altre persone in coda ora mi guardavano con sufficienza, indicandomi e ridacchiando fra loro. In preda al furore più cieco corsi verso la boutique con l’intenzione di spiccare la testa dal collo alla proprietaria, di estrarne con cura il teschio e di bollirla in modo da rimpicciolirla alla maniera amazzonica e farmene un grazioso pendaglio da attaccare al retrovisore dell’auto. Purtroppo il negozio era già chiuso e sarei dovuto tornare il giorno dopo.

Per tirarmi su di morale Ennio prese a suonare una csardàs vorticosa e tornammo danzando al parcheggio dell’auto.

Tra una ciarda e l’altra arrivai al Sacrario del Consumismo, al luogo dove i mercanti del Tempio avevano stabilito la loro dimora, in quel posto dove McDonadls vendeva fiumi di Coca-Cola e dove merendine Nestlè regalavano computer IBM in un’orgia mondialistica senza precedenti; arrivai al Centro Commerciale “Oasi di tranquillità”.

L’oasi di tranquillità iniziò nel parcheggio, infatti riuscii tranquillamente parcheggiare in un oceano di catrame ricoperto d’automobili a circa dieci minuti a dorso di cammello dall’entrata del super-tutto.

Una volta inglobato dentro questo essere senziente e dotato di vita propria che è il centro commerciale mi accorsi subito di essere finito in una sorta di macchina per confezionare il pollame. In queste macchine vengono introdotti i polli vivi da una parte ed escono dall’altra spennati ed  incellofanati nell’apposita vaschetta, nel centro commerciale vengono introdotti i clienti  vivi da una parte ed escono dall’altra spennati e senza più una lira nella loro apposita vaschetta.

Un Babbo Natale mi indicò allegramente la via da seguire e, come s’io fossi Dante e lui Virgilio, mi accompagnò oltre la porta ove stava lo fatale avvertimento “qui del cliente non si butta via niente”.

Venni subito preso dal panico e,  per nulla coadiuvato da Ennio Morricone che vagava senza meta suonando “Jingle Bells”, mi lanciai all’acquisto col metodo della decimazione. Ogni dieci prodotti scovati in un negozio ne veniva beccato uno a caso e finiva nella gerla, come ci insegnò a suo tempo il buon Cadorna.

Ennio scomparve nel turbinio dei clienti che si dirigevano “al dilà delle casse” con un sorriso estatico dipinto sul volto mentre attaccava le prime note di “My way” ed io mi resi subito conto che il tempo stringeva.

Agguantai quel che potevo e, con le carte di credito arroventate, tornai nel parcheggio.

Lì mi aggirai piangendo per un’ora in cerca della mia auto che non riuscivo più a ritrovare, spersa per sempre in mezzo ad altre migliaia. Ogni tanto puntavo il telecomando dell’antifurto verso i punti cardinali e premevo il pulsante nella speranza che lei mi rispondesse, ma ogni mio tentativo veniva irrimediabilmente frustrato.

Mi salvai solo chiamando con il cellulare il Nucleo Antivalanga di Varese che, equipaggiato con cani e pertiche da slavina, riuscì infine a ritrovare la mia auto. Di Ennio Morricone non c’era più traccia.

Rientrai finalmente a casa dove trovai mia sorella e mia madre che confabulavano in cucina. Mi osservavano di sottecchi mentre trasportavo l’immane massa di regali verso camera mia; mia sorella ridacchiava e mia madre scuoteva il capo sconsolata mentre affettava del roast-beef.

“Non dare retta a tua sorella, Tommaso, qualunque cosa tu abbia comprato ricorda sempre che quel che conta è il pensiero”.

“Che hai detto mamma?” domandai con il cuore in gola.

“Ho detto…che quel che conta è il pensiero” rispose lei avvicinandosi lentamente alle scale ma restando con il volto nell’ombra mentre la lama dell’affilato coltello da carni mandava fuggevoli bagliori dal buio.

Corsi in camera mia dove mi misi a scrivere questa lunga lettera che invierò poi a forzanuova,net nella speranza che la rendano pubblica ma, per sicurezza, ne ho fatta anche una copia che ho infilato in una bottiglia e che tenterò di lanciare nel lago.

Ora sono chiuso a chiave in stanza ad impacchettare i regali nella speranza di tenere buoni i parenti pure quest’anno, anche se già li sento aggirarsi inquieti nel corridoio. Di tanto in tanto la maniglia della porta si abbassa lentamente per poi risalire altrettanto lentamente ee un paio di volte, ma forse è stata solo uno scherzo della mia fantasia, mi è parso di sentire una voce spettrale mormorare nel buio…“quello che conta è il pensiero”.

 

 

Tomàs de Torquemada augura a tutti un buon Natale ed un felice anno nuovo.

 

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