Neri per caso

 

Con questo articolo mi farò dei nemici.

Dopo aver letto la prima stesura Tornado mi ha domandato se andassi in cerca di guai.

Per quel che mi frega! Al massimo, in futuro, eviteranno di leggermi.

Speriamo piuttosto che la mia malafama non danneggi anche il suo sito.

Considerate però che il solo fatto che voi mi stiate leggendo, se mi state leggendo, indica che in qualche modo la direzione del sito condivide il mio pensiero, oppure che Tornado lo ha pubblicato di nascosto da Pilli.

Comunque si tratta solo di una mia personale vicenda, di un mio punto di vista divenuto racconto e di un incontro che tutti noi dovremmo fare invece che scrivere fiumi di inchiostro su come e perché la nostra area dovrebbe “ricompattarsi”. Ho solo deciso di metterlo per iscritto al solo scopo di vedere che effetto fa leggerlo anziché pensarlo.

Oppure semplicemente perché non so che cazzo scrivere mentre sto preparando un’ altro racconto del tipo “La corsa su Roma”  (aut.min.concessa).

 

Varese, 8 settembre 1943

(dal diario del Capitano Vittorio Morganti)

Un bel sole caldo splendeva sin dalla mattina e nulla lasciava presagire il disastro, lo sgomento ed il disonore verso i quali ci stavamo avviando.Da buon capitano di fanteria qual’ero mi attenni scrupolosamente alle mansioni che mi competevano e , dopo  un frugale pasto al circolo ufficiali, mi diressi al nucleo comando per sentire se il colonnello avesse novità da rifermi. L’anziano ufficiale se ne stava in piedi d’innanzi alla finestra del suo ufficio, immobile a fissare la piazza d’armi sotto di lui. Alcune reclute marciavano scomposte sotto il comando disattento dei loro istruttori. C’era qualcosa nell’aria che la rendeva elettrica e carica di tensione, qualcosa di indefinibile ma che non lasciava presagire nulla di buono. Da qualche giorno non ricevevamo più alcun fonogramma dal Comando di Divisione e tale fatto non faceva che accrescere il senso di smarrimento fra gli ufficiali.

A dispetto di ciò sulla scrivania del colonnello vi era  un dispaccio accuratamente ripiegato.

Sul dorso, a chiare lettere, spiccava la dicitura “altamente confidenziale”.

L’aria era calda ed inutilmente smossa dalle pale di uno scalcinato ventilatore a soffitto. Restai lì a guardarmi la punta degli stivali per qualche secondo, poi diedi un colpetto di tosse per segnalare all’ufficiale superiore la mia presenza.

“Capitano Morganti.” mormorò senza voltarsi il colonnello “Dia un’occhiata a quel foglietto sulla mia scrivania e mi dica cosa ne pensa. Badi bene che io non la sto guardando, quindi lei lo sta leggendo a mia insaputa.”

“Sissignore” risposi sporgendomi in avanti a raccogliere il plico.

Lo svolsi e vidi subito che si trattava di una informativa dei servizi segreti, di quali però non saprei dire.

Testualmente recitava:

“Roma 8 settembre 1943 – ore 09.00. S.M. il Re Vittorio Emanuele III di Savoia ha ricevuto l’ambasciatore di Germania S.E. Rudolf Rahn e gli ha testè comunicato << Dica al Furher che l'Italia non capitolerà mai, è legata alla Germania per la vita e per la morte >>. Questo ufficio è invece del parere che l’armistizio con gli Anglo-Americani sia già stato di fatto firmato.Convinzione condivisa anche dall’OKW tedesco. FINE - A.R.”

Lo ripiegai e lo riposi sulla scrivania.

“Ma….signor colonnello” balbettai confuso “Non mi aveva detto che pochi giorni fa lo stesso Generale Roatta  (Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, nda) aveva assicurato al Generale Jodl che le dicerie concernenti l’armistizio erano solo fandonie? Com’era la frase con la quale Roatta redarguì Jodl?”

“Noi non siamo sassoni, non passiamo al nemico durante la battaglia” rispose l’ufficiale con un fil di voce.

Restammo tutti e due in silenzio per un tempo che parve infinito fino a quando un bussare concitato ci riportò di schianto alla realtà. Un soldato irruppe nell’ufficio gridando che la guerra era finita e che lo stava dicendo la radio. Accorremmo in sala fono ed allibiti ascoltammo il messaggio del Maresciallo Badoglio che Radio Algeri stava diffondendo senza sosta:

“Il Governo Italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhower comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza."

“Yuhuuuuuuuuuuu” gridava felice l’operatore radio “La guerra è finita! Si torna a casa!!”

La notizia si sparse come un lampo ed urla di giubilo esplosero da ogni anfratto della caserma.

Erano le 17.30 di quel mostruoso 8 settembre 1943, l’onta infamante per il nostro esercito era appena cominciata.

Radunammo ufficiali e sottufficiali ed il colonnello ricordò loro della necessità di avere un ordine scritto, non si poteva certo congedare tutti solo perché lo diceva Radio Algeri.

Fra i mugugnii generali la truppa si convinse a rientrare nelle camerate e ad attendere l’evolversi degli eventi.

Gli eventi non tardarono a farsi vivi nella persona del Capitano Herbert von Risen che invase la piazza d’armi con tre camion di SS tedesche. Il capitano ci informò che dovevamo deporre subito le armi o che saremo stati fucilati tutti. Il colonnello staccò la fondina della pistola dal cinturone e consegnò l’arma all’ufficiale. Io ribattei che non potevano fucilarci perché espressamente vietato dalla Convenzione di Ginevra. L’ufficiale tedesco con un sogghigno mi fece notare che non eravamo prigionieri,  ma disertori e traditori. La Germania non aveva firmato l’armistizio e l'Italia, formalmente,  non aveva dichiarato guerra alla Germania. Per loro l'Italia era ancora un’alleata, e per chi disertava o si ribellava in armi quella era la "regola", così era scritto nella Convenzione. Il ragionamento non faceva una grinza, per cui a mia volta consegnai la pistola. Alle mie spalle vi fu un improvviso rumore di vetri infranti e, voltandomi di scatto, vidi due soldati tedeschi che strappavano la bandiera di guerra del battaglione dalla teca ove era custodita. Mi lanciai contro di loro urlando ma un tremendo colpo alla nuca mi fece perdere i sensi e caddi riverso a terra.

 

Fiuggi, 27 gennaio 1995

(dalle cronache di  Tomàs de Torquemada)

Un bel sole caldo splendeva sin dalla mattina e nulla lasciava presagire il disastro, lo sgomento ed il disonore verso i quali mi stavo avviando. O meglio non lo presagivo e non lo auspicavo io, che dalla fondazione di Alleanza Nazionale il 22 gennaio dell’anno prima, mi ero sempre battuto affinché i nostri sacri valori e le nostre origini non venissero rinnegati. Il trovare la mia seggiola mi prese un po’ di tempo, nonostante la solerzia delle hostess alle quali eravamo tutti affidati. In un clima da convention all’americana, o per meglio dire da convention berlusconiana, ci eravamo riuniti tutti per vedere se ci avrebbero “sdoganati” del tutto o meno dopo l’abiura verso tutto ciò in cui avevamo creduto da sempre. Sapevo che sarebbero stati i quattro giorni più lunghi della mia vita e che comunque non sarebbero riusciti a “condirmi” in modo da farmi rinnegare l’Ideale radicato nel nostro passato. Passato che, per la mia giovinezza, non avevo certo vissuto ma che conoscevo dai libri, dai documenti e dalle lunghe chiacchierate con coloro che c’erano. Ma gli ideali non soggiacciono a questa regola temporale dell’ esserci o del non esserci, gli ideali si trasmettono di padre in figlio, da maestro a discepolo, da cuore a cuore.Per questo motivo sono andato al congresso con già in tasca la lettera di dimissioni che avevo già deciso di consegnare al dirigente della mia sezione giovanile, per questo motivo avevo intenzione di far sentire a tutti il peso del tradimento che stavano perpetrando.

Con questi funesti propositi in testa mi sedetti tranquillo ad assistere allo show che andava ad incominciare.

Non starò ad annoiarvi declamando i versi di tutti gli splendidi oratori che hanno partecipato al festival dell’infamia, ma in un modo o nell’altro devo pur comunicarvi i sentimenti che mi straziavano la mente ed il cuore in quelle tristi giornate. Come un povero allocco avevo sperato che coloro che avevano deciso di seguire la strada per Arcore concedessero almeno l’onore delle armi all’ideale ed alla storia che ripudiavano.

Come un ingenuo mi aspettavo che Gianfranco, vestito da senatore romano, salisse sul palco e, come ebbe a fare Marcantonio, avesse almeno il pudore di salutare con onore quello che stava abbandonando per sempre, quello che gli aveva fornito la linfa vitale per diventare ciò che era divenuto.

Mi immaginavo dicesse “Camerati, amici, miei compatrioti, vogliate darmi orecchio: io sono qui a seppellire il fascismo, non a tesserne le lodi. Il male fatto sopravvive agli uomini, il bene è spesso con le loro ossa sepolto; e così sia anche del Duce.”(adattato dal Giulio Cesare di W.Shakespeare, ndr[nota1]).

Da queste mie pie illusioni capirete senz’altro quale imbecille romantico io sia, di quale povero fesso state leggendo i vaneggiamenti.

Comunque nulla di questo fu detto. Gianfranco, da grande mattatore quale egli è, tenne in scacco la platea che pendeva dalle sue labbra. Ci disse che “…non si può identificare la Destra politica con il fascismo e nemmeno istituire una discendenza diretta da questo”, che “La Destra politica non è figlia del fascismo”, che “…oggi la Destra politica fa propri i valori democratici che il fascismo aveva negato” e dulcis in fundo, parlando del patrimonio di Alleanza Nazionale, che questi sarebbe “intessuto di quella cultura nazionale che ci fa essere comunque figli di Dante e di Machiavelli, di Rosmini e di Gioberti, di Mazzini e di Corradini, di Croce, di Gentile ma anche di Gramsci”.

A queste parole corsi in bagno a vomitare. “Quando i poveri han pianto,Egli ha lacrimato: l’ambizione è fatta, credo, di più dura stoffa; ma Gianfranco dice ch’egli fu ambizioso,e Gianfranco è uomo d’onore.”[nota1]

Alla fine del congresso cercai di manifestare tenacemente il mio disappunto urlando più invettive possibili all’indirizzo dei congiurati vincitori , ma un guardaspalle abnorme mi chiese di consegnare il passi e la tessera, altrimenti sarei stato pestato come un merluzzo. Io ribattei che non potevano pestarmi perché espressamente vietato dalla Convenzione di Ginevra. Il guardaspalle arcorese con un sogghigno mi fece notare che non eravamo prigionieri, ma disertori e traditori.

Fuggii dalla sala inseguito goffamente dal losco figuro.

 

Verona, 15 settembre 1943

(dal diario del Capitano Vittorio Morganti)

La giornata era splendida, ed io me ne stavo inebetito a veder passare i treni uno dopo l’altro.Avevo il solito peso allo stomaco che mi perseguitava ormai da giorni ed un senso di nostalgia diffusa anche se non indirizzata verso nulla in particolare. I treni tedeschi mi scorrevano davanti oltre il reticolato del campo di raccolta ove ero stato rinchiuso insieme con altre migliaia di “traditori”.I tedeschi, con la loro operazione Alarico, avevano occupato de facto tutti i punti nevralgici d’Italia, arrestando e deportando nei campi di lavoro germanici migliaia di miei commilitoni. Parecchi militari italiani, che si erano rifiutati di deporre le armi, erano stati fucilati per ribellione e per diserzione (Oltre 20.000 soldati e 1.000 ufficiali, nda).

In meno di un’ora e mezza dallo scoccare dell’operazione Alarico le panzerdivisionen tedesche erano a Verona e cinquanta treni militari calavano dal Brennero dilagando per la penisola. Tutte le sedici divisioni dell’esercito italiano, quasi 545.000 uomini, vennero disarmate e messe in condizione di non nuocere.

Per non parlare dello stupore delle nostre truppe che si trovavano in quell’8 di settembre a combattere a fianco dei tedeschi in terre lontane. Passarono in un battibaleno da fieri alleati a schifosi traditori. E di tutto ciò potevano ringraziare quello stratega da strapazzo, quell’inetto e, ma si diciamolo pure, quel vile del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio che li aveva lasciati tutti senza direttive alla mercé della ritorsione tedesca.

E quell’infame di Roatta aveva persino fatto l’offeso quando Jodl e Rommel, pochi giorni prima, gli avevano chiesto se l’Italia era intenzionata ad arrendersi agli anglo-americani. “Noi non siamo sassoni, non passiamo al nemico durante la battaglia” aveva sbottato stizzito, riferendosi chiaramente all’armistizio con la Russia firmato dall’alleato finlandese.

Ma la dissociazione dall’Asse dei finlandesi era stata compiuta almeno in modo formalmente ineccepibile. Il governo di Finlandia informava il 17 agosto, Keitel, capo dell'OKW, che l'accordo Ryti-Ribbentrop era annullato.Il ministro finlandese consegnava il 25 agosto, all'ambasciatore sovietico Kollontaj, una nota che chiedeva  di ricevere una delegazione d'armistizio. Il Governo russo acconsentì, purché la Finlandia  annunciasse pubblicamente la rottura con la Germania e chiedesse il ritiro di tutte le truppe tedesche, entro 25 giorni. Se i tedeschi si fossero opposti, i finlandesi li avrebbero disarmati e consegnati agli alleati. Alla fine i finlandesi non fecero gran che per "disarmare" i tedeschi e non risulta che vi siano stati effettivi combattimenti fra loro e i tedeschi stessi.

Atteggiamento ben diverso dallo starnazzare, solo otto ore prima dell’annuncio ufficiale del tradimento, che l'Italia non sarebbe capitolata mai, e che era legata alla Germania per la vita e per la morte. Non c’erano scuse, o almeno io non riuscivo a trovarne; quella compiuta dal Re e da Badoglio era stata una vera e propria fellonia all’alleato germanico.

Io da parte mia avevo già deciso; la guerra non è un giro di walzer e non si può voltar gabbana così allegramente.

Ero talmente avvilito, talmente menomato nella mia virilità di soldato e nel mio onore che avevo persino accarezzato l’idea di togliermi la vita alla prima occasione. Ciò che mi dissuase dai miei intenti autodistruttivi furono i sorrisini di compatimento e di scherno che comparivano sulle facce degli ufficiali tedeschi.

Non potevo lasciar pensare loro che gli italiani fossero dei vigliacchi, non potevo lasciar pensare loro che poche centinaia di miglia di suolo patrio carpiteci dagli anglo-americani ci avessero indotti alla fuga dissennata, al terrore più completo come pecore inseguite dai lupi. Me lo imponevano gli eroi di Solferino e di San Martino, del Carso e dell’Ortigara , la divisione corazzata «Ariete» e la divisione paracadutisti «Folgore» ancora grondanti del sangue di El-Alamein.

“Oh infamia, incancellabile infamia. Moriamo almeno con le armi in pugno.Torniamo ancora una volta all’attacco, e chi non ci vuol seguire ora, che se ne torni a casa, e si prepari, col cappello in mano, a stare a guardia, lurido ruffiano, all’uscio della camera da letto in cui uno di questi miserabili inglesi di non più nobil razza del mio cane starà stuprando con sozza lascivia la più vezzosa delle sue figliole.” (Il Connestabile di Borbone ad Azincourt - dall’ EnricoV – W.Shakespeare, nda)

Dopo aver comunicate le mie intenzioni di restare fedele all’Asse all’ufficiale tedesco che si occupava di noi, fui inviato per l'appunto a Verona in attesa di nuova destinazione avversa al fronte anglo-americano. Venni a sapere che il leggendario Principe Borghese della Xa M.A.S. aveva rifiutato l’armistizio e che stava cercando volontari per ricostituire la punta di diamante dell’esercito italiano.

D’un tratto seppi che quello era il mio destino.

 

Milano, 15 settembre 1999

(dalle cronache di  Tomàs de Torquemada)

La giornata era splendida, ed io me ne stavo inebetito a veder passare i treni uno dopo l’altro.Avevo il solito peso allo stomaco che mi perseguitava ormai da giorni ed un senso di nostalgia diffusa anche se non indirizzata verso nulla in particolare. Appoggiato alla ringhiera del ponte di via Farini osservavo i convogli che partivano ed arrivavano alla stazione di Porta Garibaldi. I miei pensieri si rincorrevano accavallandosi e riproponendomi senza alcun filo logico gli avvenimenti degli ultimi quatto anni. Dopo aver lasciato A.N. mi ero illuso di poter ricreare lo spirito del M.S.I. unendomi  alla pattuglia di rautiani che come me erano intenzionati a “non tradire” ne il passato ne l’Ideale.

Un’altra volta ci avevo creduto, un’altra volta avevo dato fondo alle mie energie senza che il loro dispendio producesse nulla di concreto. Mi ero reso conto di essere fuori target, fuori obiettivo; nonostante il mio impegno ero sempre e comunque considerato come l’ultima ruota del carro a causa della mia giovane età.Essendo della classe 1975 avevo allora ventiquattro anni, età in cui mio padre mise su famiglia, un’età quindi ben lontana dall’essere considerata motivo di pregiudizio. Ma ciò che pareva logicamente vero all’interno del partito sembrava essere indiscutibilmente falso. L’organizzazione verticistica della Fiamma tarpava le ali ai giovani e decretava il potere assoluto nelle mani di quel padre-padrone del suo rais. Mentre mi dirigevo in stazione a prendere il treno per Como questi tramestii cerebrali mi spingevano ora a dare tutta la colpa al partito, ora a dare tutta la colpa alla mia impazienza. In ogni caso mi ero ormai troppo esposto. Trascinato dalla mia maledetta irruenza avevo posto ai miei Camerati un ultimatum; o  si schieravano con me per smuovere la dirigenza dalle sue posizioni accentratrici o me ne sarei andato sbattendo la porta. Avevano detto che ci avrebbero pensato su, il che voleva dire che la porta l’avrebbero sbattuta loro in faccia a me.

Era perfettamente inutile aspettare la risposta. Mentre giuravo a me stesso che mai e poi mai avrei più fatto parte di alcun movimento politico mi trovai faccia a faccia con un manifesto tricolore con sovraimpressi due giovani in nero con le braccia conserte. Con noi! recitava la scritta in alto, mentre a metà si stagliavano a chiare lettere le parole “Forza Nuova per la ricostruzione nazionale”.

Restai lì imbambolato a fissare il manifesto ed a leggere ed a rileggere quelle parole semplici ma incisive.

Con noi!

La gente passava, dava un’occhiata a quello che stavo leggendo perché incuriosita dall’attenzione con la quale lo stavo fissando, poi scuoteva la testa e se ne andava.

Con noi!

Due ragazzini dai capelli rasati e tintinnanti come alberi di natale per tutto il metallo che avevano indosso si fermarono dietro di me.”Ah, Forza Nuova.” disse il primo. “Massiccio ‘sto poster” fece l’altro “ce l’ho appeso in camera…me la dato mio fratello che si è iscritto”

Con noi!

“Fascistidimmerda!” borbottò un ragazzo dai capelli lunghi passandomi a fianco senza fermarsi.

La frase mi scosse e mi spostai di lato per vedere dove fosse finita la zecca , ma del ragazzo nessuna traccia. Si era inoltrato nel muro di passeggeri, facchini, addetti e ladruncoli che popolano la stazione.

Raggiunsi la biglietteria e salii sul treno per Como, dove mia sorella e mia madre mi attendevano per portarmi a Varese.Durante il viaggio continuavo a ripetere fra me e me quelle due semplici parole.Con noi!

D’un tratto seppi che quello era il mio destino.

 

Milano, 26 aprile 1945

(dal diario del Capitano Vittorio Morganti)

Il tempo era passato fuggevolmente come sempre, ed io mi ero calato nella mia nuova avventura anima e corpo.

La piazza d’armi della caserma di Piazzale Fiume era gremita dai settecento marò superstiti della Decima Flottiglia M.A.S. che se ne stavano tranquilli a fumare sigarette ed a scherzare sulle ragazze comuniste mentre fuori, per Milano, si era scatenato l’inferno.

Io me stavo pensieroso, con il mio mezzo sigaro in bocca, sotto il colonnato ad aspettare che Valerio decidesse come sempre della nostra sorte. Che soldato che era il Principe. Sotto di lui per un anno e mezzo abbiamo rivalutato l’onore militare d’Italia agli occhi dell’alleato tedesco ed a quelli degli avversari anglo-americani e jugoslavi.

Una volta , mentre sostavamo nella radura di un meleto ai piedi delle Alpi , mi confidò quel che aveva passato in quel tragico 8 di settembre di un anno prima.

"Vedi Vittorio, l' 8 settembre, al comunicato di Badoglio, io piansi. Piansi e non ho mai più pianto. E adesso, oggi, domani, potranno esserci i comunisti, potranno mandarmi in Siberia, potranno fucilare metà degli Italiani, non piangerò più. Perché quello che c'era da soffrire per ciò che l'Italia avrebbe vissuto come suo avvenire, io l'ho sofferto allora.
Quel giorno io ho visto il dramma che cominciava per questa nostra disgraziata nazione che non aveva più amici, non aveva più alleati, non aveva più l'onore ed era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa. Non ci si batte solo quando tutto va bene. Anch'io, in quei giorni di settembre, fui chiamato ad una scelta. E decisi la mia scelta. Non me ne pentirò mai. Anzi, quella scelta segnerà nella mia vita il punto culminante, del quale andrò più fiero. E nel momento della scelta, ho deciso di giocare la partita più difficile, la più dura, la più ingrata. La partita che non mi avrebbe aperto nessuna strada ai valori materiali, terreni, ma mi avrebbe dato un carattere di spiritualità e di pulizia morale al quale nessuna altra strada avrebbe potuto portarmi."

In quel periodo eravamo a caccia di “banditi” sulle montagne. Erano ormai diventati tanti e più si avvicinava la nostra inesorabile sconfitta e più loro aumentavano di numero. In un certo qual modo era diventata ormai una questione personale di risoluzione molto semplice; noi cercavamo di uccidere tutti i “banditi” che trovavamo in funzione del fatto che loro cercavano di uccidere tutti i “repubblichini” che trovavano. Era una lotta senza quartiere, ma gli aiuti esterni sui quali i “banditi” potevano contare erano immensi. Avevano più armi di noi, avevano più viveri di noi, avevano una propaganda radiofonica fornita dagli anglo-americani di gran lunga più diffusa della nostra e persino un servizio di intelligence (anglo-americano pure quello) migliore del nostro. Eravamo destinati alla sconfitta e molto probabilmente alla morte, ma eravamo giovani, eravamo pazzi ed avevamo un Ideale che trasudava Gloria da tutte le parti. Avevamo cancellato per quanto possibile il tradimento ed eravamo assurdamente convinti di essere immortali, di poter continuare a combattere l’invasore ed i “banditi” anche dopo morti.

Tirai un’altra boccata dal sigaro e la espirai lentamente tentando di disegnare senza successo anelli di fumo grigio.

Guardai l’orologio, erano le tre meno un quarto e Valerio non si vedeva.

Solo poche ore prima se l’era presa con Pavolini  che partiva per Como. “Io non scappo” gli aveva gridato in faccia con un tono forse un po’ troppo altezzoso “Io mi arrendo, ma alla mia maniera”.Pavolini lo aveva fissato per qualche istante in silenzio e poi se ne era andato con una cartelletta sotto il braccio.

In quel momento Valerio stava trattando la nostra resa con il CLN e con gli alleati, e la stava trattando da pari, non con il berretto in mano e la coda fra le gambe. I “banditi” e gli americani sapevano che per aver ragione di noi con la forza avrebbero dovuto impiegare molti uomini e Valerio li aveva minacciati di farsi strada sparando fino ad Ivrea dove avremmo potuto congiungerci con il Gruppo Corazzato “M” Leonessa che non ne voleva sapere di arrendersi senza l’onore delle armi (cosa che otterrà il 5 maggio 1945,nda). Il CLN sentiva puzza di legnate e gli americani volevano concludere il più presto possibile la campagna d’Italia.

Mi tornarono alla mente le parole che solo il giorno prima Valerio mi aveva detto “Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà; e allora l'evento storico non incide  che materialmente, seppure per decenni. La resa e il tradimento hanno invece incidenze  morali incalcolabili che possono gravare per secoli sul prestigio di un popolo, per il disprezzo degli alleati traditi, e  per l'eguale disprezzo dei vincitori con cui si cerca vilmente di accordarsi.”

Gettai il sigaro a terra e lo schiacciai con la punta dell’anfibio. Sentii rumore di passi provenire dalle scale che portavano al nucleo comando: Valerio stava arrivando di gran carriera e mi salutò con un cenno del capo. Vedendolo arrivare nella piazza d’armi i soldati si inquadrarono velocemente ed io mi misi sull’attenti di fronte a loro.

“Decima a posto!” gridai con quanto fiato avevo in gola “Decima…att-tentii!”

Come un sol uomo i marò scattarono nella posizione indicata.

“Onore..al Comandante della Decima Flottiglia M.A.S. Junio Valerio Borghese!!”

La tromba suonò il saluto d’onore, dopodiché corsi dal mio comandante per presentargli la forza effettiva.

“Cinque ufficiali, trentanove sottufficiali e seicentocinquanta marinai di truppa, Signore!”

Valerio mi guardò divertito ed io risposi con un sorriso come ad intendere che, almeno per l’ultima volta, era doveroso presentare la forza effettiva con tutti i crismi.

Poi il Comandante parlò alla truppa e le sue parole furono, come sempre, concise.

I “banditi” del CLN che presenziavano alla cerimonia davano evidenti segni di nervosismo mentre gli alti ufficiali americani ci osservavano in rispettoso silenzio.

“Signori! La Decima non si arrende, ne scappa; smobilita solo.Onore ai Camerati caduti per la Patria e per l’Ideale”

Il trombettiere suono altri tre squilli di tromba.

Gli ufficiali americani scattarono sull’attenti salutando militarmente, i “banditi” del CLN si guardarono la punta delle scarpe ed i marò fermi come statue parevano commossi al punto di piangere.

“Ed ora, vi sciolgo dal vostro giuramento al quale avete adempiuto con onore.” terminò Valerio “Rompete le righe!!”

“Decima!” urlarono tutti facendo volare i baschi neri verso il cielo azzurro sopra Milano.

Il Comandante ci fece avere sei mesi di paga (dagli americani) e dei salvacondotti (dal CLN)che ci permettevano di circolare liberamente. Strinsi la mano a Valerio mentre veniva preso in consegna dai “banditi” che avevano promesso di proteggerlo, come in effetti fecero, in accordo con gli americani.

Alla fine ci eravamo dunque arresi, ma con onore e non nell’infamia che ci aveva preparato Badoglio.

 

Varese, 25 giugno 2000                                  

(dalle cronache di  Tomàs de Torquemada)

Il tempo era passato fuggevolmente come sempre, ed io mi ero calato nella mia nuova avventura anima e corpo.

Lessi con immensa felicità il file dove Tornado aveva copiato tutte le e-mail di plauso per l’articolo che gli inviai e che il direttore aveva fatto pubblicare su forzanuova.net. (Cinefilia,nda)

Il Direttore si diceva soddisfatto del mio modo di scrivere e si congratulava per la mia collaborazione nel rendere il sito diverso “dal cliché terribilmente pesante dell’uomo di Destra sempre troppo tetro, incazzato col mondo, che continua a rimuginare sul passato canaglia” (Settanta giorni di gloria – Tornado, nda).

Spensi il computer e feci un giro completo sulla mia poltroncina. Accesi una sigaretta meditando sulla mia decisione di restare nell’ombra, nel non espormi mai pur cercando di fare tutto il possibile per questo movimento.Certo la voglia di gettarsi nel mezzo del ciclone era tanta. Il desiderio di creare una mia sezione e di buttarmi, come al solito, anima e corpo nella politica di Forza Nuova era incredibilmente forte. Eppure non doveva accadere. Non questa volta. Non avrei più permesso a nessuno di procurarmi delle illusioni per poi dovermele sucare da solo come un pirla. Questa volta mi sarei legato mani e piedi e sarei stato a guardare dalla finestra se ci fosse o meno la volontà sincera di lottare per gli ideali che Forza Nuova propagandava

Intanto avrei collaborato con il sito inviando tutto il materiale che potevo produrre e nel frattempo avrei tenuto d’occhio questa nuova genea di Camerati un po’ pazzi e goliardi ma granitici nella fermezza delle loro decisioni. Niente più politica attiva per questo baby-san, non per il momento almeno.

Alla fine mi ero dunque arreso, ma con onore e non  nell’infamia che ci aveva preparato Gianfranco.

 

Milano, 1 novembre 2000. Campo 10 del Cimitero Musocco.

(dal diario del Capitano Vittorio Morganti)

Alla mia età è disdicevole fare codeste stronzate. Guardiamo in faccia la realtà: sono un vecchio furfante che ha da poco compiuto ottant’anni e che nella seconda parte (ma pure nella terza,diciamo) della sua vita non è nemmeno lontanamente riuscito ad emulare le eroiche azioni della sua gioventù. Ho vissuto una vita di ricordi indegna della mia giovinezza, una vita qualunque senza infamia e senza lode. Nei primi anni del dopoguerra ho seguito il mio Comandante nelle sue avventure politiche ma poi mi sono innamorato,sposato ed il futuro dei miei figli mi stava così a cuore da dedicarmi esclusivamente al lavoro per preparare per loro un futuro ed un paese migliore.

Bella cosa che ho ottenuto, tutto l’opposto di quei sacri valori per i quali avevo combattuto ed avevo più volte messo in palio la vita. Come tutti gli anni, anche oggi sono venuto a reggere il labaro della Xa per onorare i caduti della Repubblica Sociale. Come tutti gli anni, anche oggi ho calzato il mio basco da marò ed ho appuntato sul bavero della giacca il teschio con la rosa fra i denti.Vedo che come tutti gli anni, anche oggi sono intervenuti personaggi politici importanti della Destra italiana, sono intervenuti alcuni dei sopravvissuti ed un bel po’ di giovani che portano avanti un discorso mai interrotto dal 1919.

C’e né uno però che sembra tenersi in disparte. Ha un cappello da pescatore calcato in testa e degli occhiali da sole così scuri da sembrare quelli di un cieco. Non porta simboli ne bandiere ma vedo delle limpide lacrime scivolargli lungo le gote mal rasate.Si deve essere accorto che lo fisso ed infatti si è girato verso di me.

 

 

Milano, 1 novembre 2000. Campo 10 del Cimitero Musocco.

(dalle cronache di  Tomàs de Torquemada)

Alla mia età è disdicevole fare codeste stronzate. Nonostante il mio ridicolo camuffamento qualcuno potrebbe riconoscermi. Vedo che personaggi importanti di Alleanza Nazionale sono venuti anche quest’anno, nonostante i proclami di Gianfranco.Cosa li muove dunque? Io posso leggere nei loro cuori neri e posso leggervi il pentimento e l’angoscia per aver scelto di imboccare la strada di Arcore.Il volto dell’uomo “veramente brutto” per antonomasia è tirato, quasi triste ed il che lo rende ancora più brutto. Chissà se finge? Chissà se è qui solo per mero calcolo politico come a voler dire “Camerati, abbiamo dovuto fare quello che abbiamo fatto, abbiamo dovuto dire quello che abbiamo detto solo per poter stare al governo. In realtà siamo ancora neri come voi. Votateci, votateci, votateci” Alcuni giovani del suo stesso partito parlottano fitto col dirigente milanese di Forza Nuova. Quasi gli chiedono scusa per aver avuto l’ardire di avvicinarlo per protestare, lievemente e soavemente, a causa del fatto che “ignoti” hanno tappezzato i muri sotto la loro sede con manifesti dove venivano chiamati “codardi” e “traditori”.Manifesti col simbolo di Forza Nuova. Anche il direttore di forzanuova.net li osservava divertito come si trattasse di postulanti fastidiosi. Vennero liquidati frettolosamente dai nuovi “Custodi dell’Ideale”. Alla fine non ho comunque potuto resistere e, dopo averli tenuti sotto osservazione per alcuni mesi, mi sono unito a loro prendendo la tessera ma continuando a restare in disparte. Ho potuto appurare che la loro fede è salda e che la loro causa è onorevole; ho potuto appurare che non si vergognano delle loro origini, che hanno saputo coraggiosamente attingere solo al meglio di quella dottrina e che hanno la forza di rimettersi in discussione continuamente.

Per non parlare della loro organizzazione completamente orizzontale e per cui priva di qualsivoglia vertice. Il loro segretario si aggira per le sezioni e viene trattato come un qualsiasi altro Camerata, con rispetto ma senza alcuna traccia di piaggeria o di adulazione. Tutti gli dicono “ciao Roberto” e lui saluta con un sorriso e con una stretta di mano.Da retta a tutti e scherza con tutti senza il minimo moto di superiorità o di arroganza che il suo passato, a buon diritto, gli permetterebbe di sfoggiare. Forse un giorno lo incontrerò di persona e mi congratulerò con lui per le sue scelte.

Ma ora basta, la cerimonia sta per incominciare e come sempre mi commuovo come un coglione. Vedo i labari, le insegne e le bandiere, vedo i reduci tutti assorti nella loro commozione, sento il silenzio pervadere l’aria e di fronte alla sua bellezza per un minuto, solo per un minuto, non ci sono più divisioni, non ci sono più rivalità , l’area si ricompatta dissetandosi alla sorgente delle sue origini. Vedo un vecchio marò della Decima che mi fissa. Cerco di far finta di niente ma ormai il groppo alla gola è diventato insopportabile. Le lacrime sgorgano da sotto i miei occhiali da  sole e rotolano giù oltre gli zigomi. Il vecchio marò se ne accorge e mi sorride. Cerco di sorridere a mia volta ma un singhiozzo mi fa trasalire.

Il vecchio mi fa un cenno ed io mi avvicino lentamente a lui come in un sogno. Tendo la mano e lui me la stringe, poi mi trae verso di lui e mi abbraccia. Piangiamo insieme come due cretini che hanno il coraggio di difendere un’ideale a dispetto di tutto e di tutti. Due cretini che non sono stati mai e mai saranno dei neri per caso.

 

Tomàs de Torquemada.  "Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo.” (B. Spinoza)

 

 

Nota: trattandosi questo di un racconto vi sarete accorti che la vicenda appare in alcuni punti forzatamente “romanzata”. Ci tengo comunque a sottolineare che tutto ciò che mi è stato raccontato dal Capitano Vittorio Morganti (il nome, il grado e l’incarico sono di fantasia) e suffragato da prove testimoniali e da documentazioni certe. Le parole confidenzialmente riferite a Morganti dal Principe Junio Valerio Borghese risultano “testualmente” enunciate in tempi successivi a quelli in cui si svolge l’azione, ma nulla può far supporre che il Comandante della Decima non le avesse gia esposte in precedenza. Corretto invece il discorso di scioglimento pronunciato in quella data ed in quella occasione. Le vicende narrate invece nei paragrafi indicati come “dalle cronache di Tomàs de Torquemada” non si sono svolte necessariamente nei periodi di tempo indicati ed alcuni luoghi , come alcune situazioni, possono essere stati adattati per servire la logica del racconto. TdT

 

 

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