Sesta Parte – Epilogo.

 

Restai immobile ed in silenzio in quel nuovo tipo di buio.Era assurdo non poteva esistere un luogo così isolato, senza nessuna luce e senza nessun rumore.Non udivo nemmeno quel ronzio nelle orecchie provocato dal sangue che circola all’interno di esse.Non è nemmeno esatto dire che galleggiavo nel vuoto, perché il galleggiamento implica una sensazione.In realtà mi pareva di esistere solo come essenza di me stesso.

Immaginate di esistere senza il vostro corpo. Pensai che per quanto perfetta e sublime possa essere un’Anima mi pareva un po’ limitativo non possedere più i miei cinque sensi. Ripensai all’oratorio dove, quando ero più giovane, andavo a giocare al pallone o vedere qualche film con gli amici la domenica pomeriggio. Là si poteva giocare tranquilli, senza nessuno che cercasse di fregarti la palla od i soldini per il cinema. Tutto era bonariamente supervisionato, non sempre bonariamente ma il più delle volte si, da Don Attilio che aveva escogitato un trucchetto per fare un po’ di catechismo anche ai più monelli. Chi andava a catechismo entrava gratis al cinema. Va da se che quasi nessuno di noi ragazzi pagava mai per entrare a vedere la pellicola. Comunque Don Attilio non ci si era nemmeno avvicinato alla verità sulla fine che ci toccava una volta trapassati (dì pure morti, tanto ti ci devi abituare).Dov’erano i cori di Angeli, la Luce e….cazzo non sarò mica finito all’Inferno? Ma porca di quella troia! Stai a vedere che sono fottuto e mi tocca bruciare per l’eternità. Vabbeh, certo non ero stato uno stinco di santo…ma addirittura all’inferno….mi pareva un pochetto esagerato. Però non c’erano nemmeno fuoco e fiamme. Forse ero in una specie di sala d’aspetto.

Magari mi stavano tenendo d’occhio per vedere cosa avrei fatto. Mi venne in mente che Fulmine alla fine di ogni Santa Messa (ah, giusto! Sono andato quasi sempre a Messa, cerchiamo di tenerne conto lassù!) soleva affermare che lui avrebbe preferito andare all’Inferno. Trovava insopportabile l’idea di starsene per l’eternità con una vestaglietta candida indosso ad ascoltare gli angeli suonare l’arpa. Riteneva che all’inferno avrebbe incontrato gente più interessante e soprattutto femmine più interessanti. Infatti, Fulmine non era lì con me. Forse era stato accontentato (si tenga conto che io mi sono sempre dissociato da tali concetti). Comunque, o di qua o di là, perché l’attesa si stava facendo snervante.Avrei accettato anche una soluzione compromissoria come il Purgatorio, basta che mi togliessero da questa situazione.Incredibile, mi stavo incazzando anche da morto. “Insomma!” avrei voluto gridare se avessi avuto ancora una bocca per farlo “L’è a mo longa?”.

Ad un tratto scorsi una luce che subito scomparve.Come un flash ma molto distante. Mentre mi chiedevo se fosse stato un miraggio ne vidi un altro ed un altro ancora. Un’infinità di flash mi attorniavano ora completamente. Davanti, di dietro, sopra e sotto.Almeno il dono della vista mi era stato restituito.Notai che una di queste luci, diritto davanti a me, non scompariva ma restava fissa come una stella lontana.Mi avvicinai. Non chiedetemi come perché non ne ho idea, fu come quando in un film il regista zoomma verso un particolare.Arrivai, in un modo o nell’altro, davanti ad un tunnel che poteva essere quello del Monte Bianco. Il tunnel era perfettamente illuminato da lampade al neon e questa luce illuminava anche il piazzale antistante per una decina di metri. Una strada asfaltata, con la sua bella linea continua di mezzeria, si inoltrava all’interno di esso.Entrai domandandomi a che cosa potesse servire la linea continua. Pensavano veramente che qualcuno lì si sarebbe messo a sorpassare? Appena misi piede nel tunnel un coro di angeli intonò il “Te Deum”. Alla fine Don Attilio ci aveva visto giusto.Dopo qualche centinaio di metri raggiunsi un altro “viaggiatore” che procedeva più lentamente di me. Aveva il suo corpo tutto intiero (beh, si fanno figli e figliocci anche qui?) e camminava curvo in avanti. Portava, bilanciato su una spalla, un lungo bastone con il cartello di “carichi sporgenti”.

Mi doveva aver sentito arrivare perché, senza smettere di camminare, si voltò a guardarmi. Era Fulmine.

Cercai di salutarlo ma non riuscivo a parlare. Aveva un’espressione tristissima e con una mano mi fece cenno di sorpassarlo e poi si voltò nuovamente a guardare avanti. Mi avvicinai di più e vidi che sul cartello, a strisce diagonali bianche e rosse con regolari catadiòttri, stava scritto “Trasporto eccezionale – Peccati di Fulmine”. Lo sorpassai stando bene attento a non oltrepassare la linea continua, anche se non riuscivo ad immaginare chi potesse mai arrivare in senso opposto. Davanti a Fulmine, come fossero una scorta della stradale, c’erano i due alpini (zombie!) che mi salutarono allegramente, per quanto possibile, agitando una paletta bianca e rossa con la scritta “Dipartimento dei Dipartiti” in neretto. Accelerai lasciandomi il terzetto alle spalle. Tutto d’un tratto, senza nemmeno la regolare segnaletica, la strada prese a scendere in una forte pendenza. Sempre più forte. Ora il tunnel era un pozzo ed io vi precipitavo ad una velocità tremenda avvicinandomi celermente ad una luce abbagliante. Caddi nella luce e mi misi a sedere sul letto.

Ero sudato fradicio e respiravo affannosamente.Mia madre si alzò di scatto da una poltroncina sulla quale stava seduta ed accorse al mio fianco.Aveva l’aria di chi non dorme da una vita e le lacrime agli occhi.

“Tommaso…Tommaso. Come stai, vita mia? Come ti senti? Dottore!Dottore!”

Un’infermiera ed una medico irruppero nella stanza che, dopo essermi guardato in giro, avevo realizzato trattarsi di una stanzetta d’ospedale o di una clinica.Conoscendo mio padre decisi per la seconda soluzione.

Il medico mi puntò contro una piccola torcia elettrica a forma di penna e me la accese in un occhio.

Aveva un’aria giustamente preoccupata e seriosamente professionale.

“Segui il mio dito con lo sguardo” disse ed io obbedii. In quel momento entrò nella stanza mio padre con due bicchierini da caffè di plastica in mano.Li posò velocemente su una scrivania e si avvicinò al medico.

“Come sta mio figlio, Dottore?”

“Pare che stia bene. Il polso è regolare ed i riflessi corretti. Le ossa del cranio non sono ancora saldate ma si avviano ad esserlo.Certo ha preso una bella botta. Io lo terrei sotto osservazione ancora per qualche giorno, dopotutto dieci giorni di coma non sono una passeggiata.”

Mio padre ed il dottore si salutarono e questi uscì dalla stanza.I miei genitori mi fissavano con ansia anche se a mio padre stavano già girando le balle.

“Cosa è successo?” domandai “Dove mi trovo? Che giorno è?”

Mia madre si voltò verso mio padre con un’espressione del tipo “poverino, non riesce a ricordare nulla.”

Mio padre si sedette sul bordo del letto e mi fissò con aria severa.

“E’ successo che uno dei tuoi amici deficienti ti ha rotto il calcio di un fucile sulla testa e ti ha mandato in coma. Sei rimasto privo di sensi per dieci giorni.Per fortuna quei delinquenti che hanno organizzato quella pagliacciata di campeggio avevano a disposizione un elicottero che ti ha portato all’ospedale di Vicenza. Adesso sei in una clinica che mi ha consigliato il Dottor Procopio. Ma li ho denunziati tutti: quel pirletta che ti ha colpito, gli organizzatori, gli pseudo-istruttori e la prefettura che ha autorizzato la cazzata. In galera li mando! Dovranno lavorare per millenni per rifonderci i danni!”

“Non voglio che denunci nessuno”sbottai io ancora molto confuso.

“Cosa?”ringhiò mio padre diventando rosso come un pomodoro “Uhe, cretinetti, hai anche il coraggio di contraddirmi?” Alzò una mano come per tirarmi uno schiaffo.

“Benito!” gridò mia madre con uno sguardo inceneritore.Mio padre si morse la mano e si alzò di scatto dal letto prendendo ad aggirarsi per la stanza.

“Sono maggiorenne, papà, e non voglio denunciare nessuno!Mi sono offerto volontariamente.”

Mio padre fece per rispondermi a tono ma ci ripensò e restò zitto.

“Comunque” continuai “ la storia della botta in testa è roba vecchia. Credo che sia stato un colpo di baionetta austriaca a ridurmi così”

“Ecco!” sbottò il mio genitore “Adesso straparla! Se prima era un pirla, adesso è diventato un deficiente!Un mentecatto!”

“Benito!” gridò di nuovo mia madre “Ma cosa dici, gioia della mamma? Come una baionetta austriaca? Ma non ti ricordi più nulla?”

“Ma, mamma, che giorno è oggi?”

“E’ venerdì 25 agosto. Ormai è da ferragosto che sei ricoverato qui.”

“Ma che cazzo dici?!”

“Come ti permetti di rispondere così a tua madre” urlò mio padre che aveva definitivamente messo in giostra le sue palle “Io ti tronco.Ti taglio i viveri! Ti..”

“Benito!” strillò mamma “Non vedi che sta male? Finiscila, no!”

Borbottando minacce incomprensibili mio padre uscì dalla stanza per rientrare subito dopo.

“Ci sono qui quei bellimbusti dei tuoi amici!” sbottò tenendo la porta aperta.

“Sono venuti qua tutti i giorni, sai Tommaso? Erano molto in pena per te.”mi informò mia madre.

Entrarono Fulmine e Vittorio, molto imbarazzati per come erano stati accolti da mio padre.

“Tu, infame traditore” urlai indicando Vittorio che face un passo indietro “Come osi presentarti qui dopo quello che hai fatto? Aspetta che ti prenda e vedrai come ti concio!”

Fulmine e Vittorio si guardarono stupefatti. Fulmine si avvicinò al mio letto.

“Ma, Tommaso, è Vittorio. Non lo riconosci più?”

Guardai Fulmine negli occhi e non sembrava molto morto in realtà.

“Fulmine. Ma tu stai bene?”

“Si, certo, la mazzata l’hai presa tu mica io.”

“Sollevati la maglietta”

“Come scusa?”

“Per piacere, fammi vedere la pancia”

Fulmine si girò imbarazzatissimo a guardare mia madre che si voltò dall’altra parte coprendosi gli occhi con una mano. Mi guardò ancora per un istante e poi, scrollando il capo, si sollevò la Lacoste.Non aveva la benché minima cicatrice.Mi lasciai crollare sul guanciale.

“Ok, scusatemi. Devo essermi immaginato tutto. Raccontatemi cosa è successo.”

“Beh, vorrei vedere! Dopo dieci giorni di coma” disse Fulmine riaggiustandosi la polo nera.

Mi raccontò tutto per filo e per segno e la storia coincideva perfettamente, fino al mio risveglio nella tenda dopo la botta in testa presa la mattina di ferragosto.I miei ricordi erano corretti fino a quando avevamo preso il Passo dell’Agnella dopodiché tutto discordava.Per cui niente munizionamento tipo-B e niente ribellione di Vittorio, niente azione eroica nella conquista della quota 2105 dell’Ortigara e quindi niente medaglia. Vittorio non era un traditore e nessuno aveva mai formato una squadra chiamata “la temeraria” che per questo motivo non era mai stata “massacrata” dalle truppe del bombardiere. Fulmine mi raccontò che, senza di me, al comando del Capitano Romanagens prendemmo l’Ortigara con soli cinque uomini. Si era giocata poi un’altra partita nella quale noi difendevamo la Cima Pòrtule ed in quella le avevamo prese di santa ragione.Fra una “battaglia” e l’altra mi raccontò che furono organizzate da Tornado due feste da paura a base di panini wurstel&crauti e birra a fiumi. Il bombardiere si era dimostrato un vero camerata, leale e coraggioso, ed aveva subito fatto cacciare dalle sue fila il ragazzo che mi aveva colpito.L’unico guaio che si era verificato in quelle tre fantastiche settimane, oltre al mio ferimento, era stato il manipolo di avvocati guerrieri sguinzagliati da mio padre alle calcagna di tutto e tutti. Lo rassicurai dicendo che ogni azione legale da lui intrapresa sarebbe decaduta in quanto contraria alla mia volontà.Mi chiese se quella domenica avrei potuto essere presente alla cerimonia di chiusura del Campo. Ci sarebbe stata una festa veramente grandiosa. Mia madre si intromise immediatamente ringraziando Fulmine per l’invito ed assicurandolo che tutte le querele sarebbero state ritirate ma che fino a lunedì, minimo, io non mi sarei potuto alzare dal letto.

I miei Camerati se ne andarono promettendomi e facendomi promettere che ci saremmo tenuti in contatto.

Passai sabato e domenica a buttare giù gli appunti con i quali ho poi scritto questo racconto, nella paura di dimenticarmi qualcosa. Consideravo però molto strano il fatto che i miei ricordi persistessero come se fossero stati autentici e non sbiadissero come il ricordo di un sogno. Il primario mi rassicurò dicendo che un coma non è come un sonno normale, anche se gli risultava che solo in rarissimi casi i pazienti tornati da un coma ricordassero le invenzioni della loro mente.In quei due giorni controllai un sacco di volte la mia pancia per cercare traccia della baionettata. Non ve n’era alcuna.

Lunedì partimmo tutti per Varese a bordo di quel transatlantico che mio padre si ostina a chiamare “il suo mezzo” oppure, quando è di buon umore, “la mia stelassa” per via del simbolo. In due ore, viaggiando quasi costantemente oltre i 200, arrivammo a casa. Durante il viaggio mi dovetti subire un’ininterrotta paternale sui “diritti e doveri” dei figli. Ringraziai Dio che mio padre non possedesse una macchina più lenta altrimenti mi sarei ucciso. In clinica l’avevo scampata perché avevo supplicato l’infermiera di dire che il primario aveva ordinato per me il massimo riposo, limitando le visite ad un’oretta al giorno. In quell’oretta mio padre riusciva comunque a spaccare i maroni sul caldo, sull’albergo di merda che lui le cinque stelle sapeva bene dove infilargliele, sul motore del “suo mezzo” che faceva tic quando avrebbe dovuto fare tac e sui “diritti e doveri” dei figli.

Una volta nella mia stanza presi le chiavi della Golf ed andai di corsa in garage.Strada facendo incrociai mia sorella che tutta giuliva mi salutò così “Uhe, sei tornato? Cazzo di casino hai combinato? Adesso stai bene? Ok, meglio così. Ciao, faccia da pirla!” Le tirai dietro le chiavi della macchina ma lei le schivò chinandosi.

Mi fece il gesto dell’ombrello, tirò fuori la lingua e se ne andò. Impiegai mezz’ora per ritrovare le chiavi del Golf disperse fra le ortensie. L’intenzione era di fare un giro del pueblo per vedere di trovare los amigos ma, infilate le chiavi nel quadro, vidi con orrore che la macchina era in riserva sparata ed aveva 250 chilometri in più di quando l’avevo lasciata. Corsi fuori dal garage per vedere se quella fetida di mia sorella fosse ancora in giro. Era sparita. “Ciao, faccia da pirla” mi urlò la maledetta dalla finestra di camera sua. Le tirai un sasso ma la lurida chiuse la finestra in tempo. Il sasso prese in pieno il vetro che, benché antisfondamento, si scheggiò visibilmente.”Vedrai come sarà contento il babbo di avere una ulteriore conferma di avere un primogenito pirla!” mi canzonò riaffacciandosi. Salire sarebbe stato inutile perché la maramalda si era sicuramente chiusa a chiave nella sua stanza. Mi sarei vendicato più tardi, magari a tavola spalmandole di gorgonzola la parte nascosta della bistecca, cosa che le avrebbe provocato le convulsioni visto che per lei tutti i formaggi erano tabù. Guidai molto lentamente fino al benzinaio dove subii la usuale rapina che chiamano pieno. Al momento di pagare insieme alle banconote uscì dal portafoglio anche un foglietto ripiegato più volte. Lo aprii con mani tremanti sotto lo sguardo sospettoso del benzinaio. Gli si leggeva chiaramente in faccia quel che pensava di me: drugà de merda.

Il brevissimo testo vergato con una stilografica iniziava con la frase: Con Decreto del Direttore 18 agosto 2000 e' stata conferita la celtica d'oro al valore al Capitano degli Assaltatori DeTorquemada Tomàs con la seguente motivazione…

 

 

Tomàs de Torquemada.

 

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