ROMAN ITAS

 

Lo scopo di questo breve scritto, è quello di fornire una chiara e succinta descrizione di quella che, non a torto, può essere considerata l’essenza della romanità: i mores maiorum.

Questo richiamo ai costumi degli antichi non è dettato da alcuna forma di “antichismo”, piuttosto dalla consapevolezza che si tratta di valori eterni e imprescindibili, perché connaturati alla stessa essenza umana.

Fare dunque appello ai mores maiorum, in un’epoca di decadenza come la nostra, significa proporre agli italiani del nostro tempo un modello sul quale fondare la necessaria opera di ricostruzione nazionale.

 

Romanitas è il vocabolo usato da Tertulliano per significare tutto ciò che un romano considera ovvio, istintivo, indiscutibile, connaturato al proprio abito mentale. E’ un vocabolo molto affine al termine “civiltà romana”, ove per civiltà si intenda ciò che gli uomini pensano, sentono e fanno. E, se è vero che la civiltà si manifesta in modo tangibile tramite segni esteriori e materiali, è altrettanto vero che la sua essenza è eminentemente spirituale. Secondo Tacito, solo l’ignorante pensa che monumenti, palazzi e raffinatezze siano la civiltà.

Humanitas, termine tra i preferiti da Cicerone, illumina un concetto squisitamente romano, nato dall’esperienza di Roma. Esprime, da un lato, il senso della dignità della persona umana, che è unica e deve essere rispettata e messa in grado di svilupparsi pienamente; dall’altro implica il riconoscimento della personalità altrui e il diritto di ciascuno a coltivarla. Ma la frase che più comunemente e con maggior concretezza definisce la civiltà èsemplicemente questa: pax romana. In questa idea il mondo constatò con maggiore evidenza il raggiungimento di quella missione che il carattere, l’esperienza e la potenza romana avevano a poco a poco scoperto, facendone un fatto consapevole e consapevolmente adempiendola.

Ma quale è l’essenza della romanità?

Durante l’intero corso della loro storia, i romani furono sempre profondamente consci dell’esistenza di un “potere” posto al di fuori dell’uomo, individuo o collettività: un potere imprescindibile. L’uomo deve subordinarsi a qualcosa; se rifiuta di sottomettervisi, o lo fa con riluttanza, è destinato a sicura rovina; se accetta senza riserve il potere che lo trascende, copre che può anche essere elevato alla dignità di collaboratore di esso, ciò che può consentirgli di discernere la strada e, forse, la meta. La collaborazione zelante e spontanea gli infonde un senso di missione; i fini gli divengono più comprensibili, facendolo sentire agente o strumento nel raggiungerli. In altre parole, egli diventa consapevole di una vocazione, riservata a lui e a quelli che, come lui, formano lo Stato. Sin dai primordi di Roma è avvertibile nel cittadino questo senso di dovere religioso, dapprima rozzo e inarticolato, e non disgiunto da superstizioso timore; in seguito espresso con maggiore chiarezza, e sprone nell’agire. Negli ultimi tempi la missione di Roma èproclamata apertamente; spesso a voce più alta proprio da chi, in senso stretto, non èvero romano e più insistentemente proprio quando, nella sua espressione visibile, questa missione è esaurita.

Il senso di dovere, di missione, si rivela dapprima in forme semplici, umili, in seno alla famiglia e alla casa; quindi si espande nella città-Stato per culminare nell’idea imperiale. A seconda del momento, esso occupa differenti categorie di pensiero e assume differenti espressioni, ma nella sua essenza è religioso, poiché trascende l’esperienza sensibile;

 

una volta adempiuta la missione, anche la sua base si trasforma. E’ questa la vera chiave per comprendere i romani e la loro storia.

La mente del romano è quella del contadino-soldato, e ciò è vero anche per i tempi più tardi, quando può non essere più nè l’uno nè l’altro. Lavorare senza sosta è la sorte del contadino, poiché le stagioni non aspettano i comodi di nessuno. Ma il lavoro, da solo, non serve a nulla: l’uomo può far progetti e preparativi, arare e seminare, ma deve pazientemente attendere l’aiuto di forze che sfuggono alla sua comprensione, e tanto più al suo controllo. Se esiste un modo per procacciarsene il favore, egli lo adotterà, ma nella maggior parte dei casi potrà solo collaborare con esse, mettersi al loro servizio per attuare i loro fini e, subordinatamente, i propri. Intemperie e infortuni potranno rendere vane le sue fatiche; in tal caso dovrà accettare il compromesso e saper aspettare. La semina, la crescita delle messi, la raccolta, nella loro ordinata ripetizione, regolano la sua esistenza; la vita dei campi è la sua stessa vita. Se, come cittadino, sarà spinto a intraprendere un azione politica, tale azione sarà volta a difesa della sua terra, del suo commercio o della fatica dei figli. Per lui, la conoscenza raggiunta attraverso l’esperienza ha maggior valore di qualsiasi speculazione teoretica. Le sue prime virtù sono onestà e frugalità, previdenza e pazienza, operosità, coraggio e tenacia, semplicità e umiltà di fronte a ciò che sta sopra di lui.

Sono le stesse virtù del soldato. Anche il soldato conosce il valore della routine come parte della disciplina, poiché è suo compito rispondere all’appello improvviso con prontezza quasi istintiva. Anche il soldato deve avere fiducia in sé, possedere la forza e la perseveranza del contadino, mentre l’ingegnosità pratica di costui lo aiuta a diventare ciò che il soldato di Roma deve essere: un costruttore di strade, di fossati e di valli, colui che sa tracciare un accampamento o una fortificazione allo stesso modo in cui sa delimitare i confini di un campo o disegnare un sistema di canali di scolo. Sa vivere della terra, perché l’ha sempre fatto. Anch’egli è consapevole dell’esistenza di quell’elemento imponderabile che può sovvertire il più cauto progetto: anch’egli crede a forze invisibili e chiama fortunato quel generale che la potenza ignota sceglie a proprio strumento. E’ leale verso gli amici, si affeziona ai luoghi. Se e quando si abbandona alla violenza politica, Io fa per assicurarsi una casa e un pezzo di terra da coltivare quando sarà finita la guerra, e incrollabile è la sua fedeltà al generale che difende la sua casa.

Uno dei concetti che maggiormente spiega il pensiero dei romani, è il concetto di genius. L’idea del genio risale al paterfamilias il quale, generando i figli, diviene capo della famiglia. Il suo carattere essenziale di procreatore viene isolato e gli viene attribuita una essenza spirituale autonoma. Egli guida la famiglia che gli deve la propria continuità e cerca in lui la protezione. Così, come membro di quella misteriosa sequenza figlio-padre-figlio-padre, l’individuo acquista nuovo significato; è posto su uno sfondo, non più continuo, ma spezzato, in cui i pezzi hanno forme diverse, e uno di essi ha la sua forma. Il suo genio, pertanto, è ciò che lo pone in una relazione speciale alla sua famiglia nel passato, che ora è scomparso, e nel futuro, che avrà origine dai suoi figli. La catena di un potere misterioso unisce la famiglia di generazione in generazione, ed è grazie al suo genio che egli, uomo di carne e ossa, può essere un anello di questa catena invisibile. Come il genio della famiglia esprimeva l’unità e la continuità della stessa attraverso le generazioni, così si venne ad attribuire un genio particolare anche a un gruppo di uomini non uniti da vincoli di sangue, ma da interessi e scopi comuni. Il gruppo acquista un’entità:

il tutto è più delle parti che lo compongono, e questa misteriosa personalità collettiva è il genio.

Nell’organizzazione familiare contadina, la donna occupa una posizione di autorità e responsabilità. Tra i romani, teoricamente, la donna era soggetta alla potestà del marito e

non godeva di alcun diritto legale. Tuttavia non era tenuta segregata e condivideva la vita del marito, stabilendo quel codice di virtù uxorie e materne in seguito ammirate e invidiate. L’autorità dei genitori era rigida: essi esigevano e ottenevamo il rispetto dei figli che facevano vivere in stretto contatto con loro, in casa e fuori. Si impartiva ai ragazzi un’educazione “pratica”, e le storie del passato erano presentate in modo che se ne traesse una morale.

Base della romanità sono i mores maiorum, le qualità morali incarnate dai Padri. Enumerando alcune di queste virtù, che i romani considerarono sempre squisitamente romane, le troviamo tutte collegate all’assetto primitivo, agli scopi e al tipo di vita, alle prime lotte per l’esistenza e alla religiosità dei primi secoli della Repubblica. Esse formano un tutto unico.

La prima di queste virtù appare essere il riconoscimento che l’uomo è subordinato a qualcosa di esterno che ha un potere vincolante su di lui, e il termine che designa tale potere, religio, ha una vastissima gamma di usi. Si definisce “uomo di altissima pietas” l’uomo religioso, e pietas è un aspetto di quella subordinazione alla quale si è appena accennato. Si è pII verso la divinità se se ne riconoscono i diritti; si è pii verso i genitori e gli anziani, verso i figli e gli amici, verso la patria e i benefattori, verso tutto ciò che suscita, o dovrebbe suscitare, rispetto e affetto, se si ammettono i loro diritti su di noi e si compiono i doveri che ce ne derivano, I diritti esistono in quanto i rapporti in questione sono considerati sacri.

Gravitas è invece il senso dell’importanza di ciò cui si attende, cioè la serietà, Io zelo, il senso delle proprie responsabilità. E’ il contrario della Ievitas, qualità che i romani disprezzavano: la leggerezza, l’incostanza, l’occuparsi di cose futili nel momento non adatto.

Alla gravitas si accompagnano naturalmente la constantia, che è la fermezza di propositi, e la firmitas, la tenacia; o, a temperarla, la comitas, che è la giovialità, la bonomia, il buon umore. Disciplina è quel costante esercizio che porta alla fermezza di carattere; indusfria è l’attività, la laboriosità; vìrtus, il coraggio, la virile energia; clementia, la condiscendenza a rinunciare ai propri diritti; frugalitas, la frugalità, l’amore delle cose semplici. Ed ancora, il rispetto per I’auctoritas, l’autorità; ìustitia, la giustizia, ossia la costante e perpetua volontà di dare a ciascuno il suo; fides, il rispetto della parola data e del proposito manifestato, la fedeltà, verso gli amici e quanti da te dipendono, stimata come una delle cose più sacre della vita.

Queste sono alcune delle qualità che i romani più ammiravano; sono doti morali solide, che solo ad uno sguardo superficiale possono sembrare senza attrattive. Le doti che avevano aiutato i primi romani a imporsi contro la natura e contro i loro vicini, restarono sempre le virtù più alte. Ad esse il romano doveva se la sua città-Stato si era elavata al di sopra delle civiltà circostanti, civiltà che gli apparivano fragili e malsicure senza i sostegno di quelle virtù che egli stesso aveva faticosamente coltivato. Severitas, la rigidezza, in primo luogo verso se stessi, è forse la parola che meglio le riassume.

La spiccata pietas religiosa romana, si realizzerà finalmente nel cristianesimo.

Il travagliato rapporto iniziale tra la religione di Cristo e la Roma pagana, si risolverà infatti nella conversione alla fede cristiana da parte di sempre più vasti settori della popolazione, interessando tanto gli strati popolari quanto la nobiltà e l’ambiente militare, e culminando nella proclamazione del cattolicesimo quale religione dello Stato romano. L’avvento della nuova religione non significherà alcuna rottura con l’essenza della romanità, identificata con quei mores maiorum - intesi anche come patrimonio di tradizioni politiche, civili e militari - pienamente assunti dalla dottrina cattolica nella forma di quelle virtù naturali che costituiscono la base su cui fondare una retta esistenza, conforme al volere di Dio e, per questo, votata alla gloria eterna.