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SCONFINANDO

SGUARDO SUL PRESENTE
La nostra è vera civiltà?


LA NOSTRA E’ VERA CIVILTA’ ?

 


Riferimenti a
La battaglia delle idee
parte prima,
parte II 1,2,4, III, § 2

Al di là della parola che la indica, la pratica dello schiavismo pone interrogativi di grande impegno all’analisi filosofica. Cominceremo collocandoci da un punto di vista rovesciato, tornando dall’opinione negativa che come "benpensanti" oggi abbiamo della schiavitù, noi che fremiamo di orrore nel solo evocarne i misfatti, all’opinione condivisa da quasi tutti gli antichi, e da molti nostri contemporanei, che essa sia una condizione normale per una parte dell’umanità.

Normale perché collegata ad una inferiorità che si presume di natura, ma che deriva dal disprezzo per quanti sono deboli e incapaci, o perché colpiti da sventure e malattie come i mendicanti, i deformi, o perché vincolati alle esigenze riproduttive, come possono essere le donne. O normale perché giustificata da un diritto che in realtà non è che la legittimazione della forza. Da una parte la forza del vincitore sul nemico vinto, dall’altra quella di chi reclama un credito non pagato da un debitore; ma anche la forza che si esercita per paura (degli alienati, degli ex carcerati, degli stranieri "sospetti") e contro tutti coloro, in breve, che sono privi delle qualità e delle prerogative che li fanno riconoscere come membri di una comunità di eguali. A tutto ciò si aggiunge la considerazione dell’utile, perché lo stato di totale dipendenza sarebbe la sola condizione in cui possono vivere questi esclusi per natura o per diritto, e in cui la comunità può avvantaggiarsi della loro utilizzazione come cose possedute a titolo di proprietà acquistata da un padrone, ovvero come reclusi dai sistemi di sicurezza pubblica.

Per molti non fa problema che il fenomeno fosse avvertito come normale nel mondo antico, che immaginano come meno "evoluto" nel cammino della civiltà, dominato da una logica di violenza, anzi necessitato dalla lotta per la sopravvivenza, propria della specie umana nel suo stadio primitivo. Mentre si meravigliano quando ne scoprono le tracce perfino nei paesi dell’Occidente, e cercano di spiegarle come residui di un passato barbarico, destinati a scomparire. Ma si tratta di illusioni ottiche: a guardar bene il mondo antico della nostra storia non è per taluni aspetti più barbarico o primitivo del mondo contemporaneo. Inoltre, non si tratta solo del fatto che talvolta "le medesime cose ritornano" a dispetto del progresso della civiltà, perché spesso le cose si fanno più temibili e più orribili a causa degli sviluppi tecnico-scientifici. Se è vero che i grandi ideali umanitari vantati dalla nostra cultura hanno avuto qualche lenta ma graduale realizzazione nel corso della storia, i fallimenti cui oggi assistiamo fanno disperare per il futuro.

Ma se vi è nel fenomeno dello schiavismo una "norma" della natura, perché l’evoluzione che chiamiamo civiltà non sarebbe riuscita a superarla come ha fatto per molti altri aspetti del costume? Non occorrerà, piuttosto, indagare sul rapporto che questo parlare di "norme" della natura, o di leggi e diritti, di utilità e anche di "civiltà" ha avuto e ha ancora con qualche elemento strutturale, non ben conosciuto, ma che rimane nel tempo?

    1. IL DIRITTO, L’UTILE E IL POTERE

    Riferimento a
    La battaglia delle idee
    parte prima

    Normale e utile, dunque, era lo schiavismo nelle giustificazioni che ne hanno dato Platone, Aristotele, e i giuristi romani nel nome del diritto di proprietà.

    Riferimento a
    La battaglia delle idee
    II, § 4

    Riferimento a
    la battaglia delle idee
    III, § 3


    Per contro apparvero allora stravaganti le opinioni degli stoici, come sedici secoli dopo sarebbero apparse quelle degli illuministi che per primi applicarono a tutti, senza distinzioni di stato e condizione, la nozione di diritti naturali dell’uomo (e perfino della donna, secondo l’illuminista Condorcet). In realtà, non si

    può capire la reale portata del pensiero dei primi né quanta possibilità di influire sulle cose aveva il pensiero dei secondi, se non si mette a fuoco l’altra questione, che è quella del potere.

    Il quale si fonda essenzialmente sul monopolio della forza per la sopravvivenza della comunità sociale, e prese corpo nelle forme di sovranità pubblica sorte via via nel corso della storia occidentale, con il connesso apparato giuridico, amministrativo, culturale. Di tale regolazione della forza si preoccuparono per primi i filosofi antichi, che di conseguenza provvidero a inquadrare in forma normativa le istituzioni necessarie alla conservazione dello Stato. Tra queste l’istituzione schiavile: che fossero preda di guerra (e quindi tangibile prova delle vittorie militari e delle conquiste coloniali) o fossero proprietà privata, gli schiavi erano fondamentali ai fini dell’edificazione di opere pubbliche e della produzione in generale, perché fornivano mano d’opera ai minimi costi. Quindi rientravano nelle strategie di sopravvivenza della comunità né più né meno degli altri apparati dello Stato politici, giuridici, militari, amministrativi.

    Anche i Padri della Chiesa cristiana avvertirono, del resto, queste necessità. Perciò anche loro, sebbene presupponessero come Platone e Aristotele che tutto ciò che rientrava nella sfera del II, 1diritto dovesse essere gestito con equità, chiusero gli occhi di fronte all’iniquità implicita nell’appropriazione di altri esseri umani come fossero cose. Tanto che poterono essere citati nei secoli seguenti a giustificazione delle forme più spietate del colonialismo europeo.

    Se ciò appare in contraddizione con i principi evangelici, non bastano a giustificarlo le spiegazioni basate sulla fallibilità umana o sui costumi del tempo. Occorre peraltro ricordare che non mancarono di levarsi, da una parte, le voci critiche all’interno della cultura ecclesiastica, dall’altra quelle dei dissidenti nei confronti di ogni istituzione, politica o religiosa. Essi protestavano a rischio della loro stessa vita, ma non ebbero la forza di incidere sulla realtà, così come non l’ebbero i filosofi eredi dell’illuminismo quando il grande evento della Rivoluzione francese arrivò a travolgere l’ordine antico.

    Si tratta, dunque, di "forza" come si dice con una parola equivoca che sta a indicare cose II,3 opposte: ciò che agisce con la costrizione violenta e ciò che agisce mediante suggestioni morali o argomentazioni persuasive. Nel primo significato la forza è monopolio del potere, mentre nel secondo il pensiero critico e scientifico può avere una "forza" per l’evidenza della verità che denuncia, ma non ha un "potere" fino a che non sia adottato dagli apparati e trasformato esso stesso in istituzione. Infatti, secondo Rousseau, "il più forte non è mai tanto forte da essere sempre il padrone, s’egli non trasforma la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere". (Il Contratto sociale, III, p. 15).

    Se la schiavitù implica un sistema di potere come quello che è durato in Occidente fino a due secoli fa, dovremmo vederla come una struttura inevitabile, destinata a ritornare in un "medioevo futuro", o a perpetuarsi dove è ancora in vigore? E pensare che sia dovuta ad una malvagità insanabile nell’essere umano? O alle leggi immutabili dell’economia e della politica di ogni tempo? Ipotesi del genere appaiono ancora insufficienti per la spiegazione che cerchiamo.

  1. SCHIAVITU’ / DIGNITA’ UMANA>
  2. Un altro strumento a cui ricorre la filosofia è quello delle opposizioni di concetti, attraverso le quali ognuno dei due termini trova luce nel confronto con il suo contrario.

    Rispetto a "schiavitù", il concetto contrario sembra a prima vista essere quello di "libertà", il cui campo di significato è tuttavia talmente vasto e indefinito da aver costituito per secoli uno dei terreni più ardui per il dibattito filosofico. Per evitare di vagare con scarsi risultati su questo terreno, è utile circoscriverlo al rapporto di dipendenza o indipendenza che un soggetto ha rispetto ad altri. In questo rapporto, la condizione che lega un soggetto ad un altro è servile quando ne risulta la negazione del primo, la diminuzione della sua umanità o la privazione dell’identità, e che la libertà dell’altro è immunità nel potersi impadronire del primo, rimanendo padrone di sé e conservando la considerazione dei suoi simili. L’altro può ridurre il primo a "cosa", a strumento che non ha in sé il principio di ogni sua azione. Sotto questa luce, il concetto contrario a quello di schiavitù non è tanto quello di libertà, quanto quello di dignità umana, consistente nel possesso di un’identità riconosciuta da altri.

    E chi nega l’altro rimane in pieno possesso della propria dignità umana? Il negriero dell’epoca colonialista e lo "scafista" dei nostri giorni, che specula sull’emigrazione dei disperati e non esita a disfarsi della sua merce umana gettandola a mare, non sono forse allo stesso livello di disumanità? In quanto entrambi sono al servizio dell’utile proprio, e in ultima analisi della conservazione di un mondo a danno di un altro? Oggi sappiamo che soltanto la vita in quei mondi di relazioni sociali che si sostengono sull’appartenenza ed escludono gli estranei, come molti popoli antichi e come i tanti che tendono oggi a rinchiudersi nei propri recinti resistendo ai sommovimenti della globalità, solo vivere in questi gruppi chiusi può dare una illusione del genere: che qualcuno possieda identità e dignità a detrimento di chi ne è stato privato.

    Riferimenti a
    La battaglia delle idee
    III § 4

    Ma lo sappiamo soltanto per aver attraversato le più dolorose esperienze che potessero colpire la nostra idea stessa di umanità.

    Vi è forse una sola differenza tra la pratica antica della schiavitù e quella dei lager, dei gulag, dei campi di concentramento o di quelli detti "di accoglienza" del mondo contemporaneo: che queste pratiche recenti hanno prodotto nel sentire comune la convinzione che non vi può essere un popolo o una comunità più ristretta che sia libera a scapito di altre. In altri termini, che nessuno può essere e rimanere libero da solo. Il popolo che si ritiene libero da altri, o più libero di altri, deve questa sua falsa percezione al fatto di dipendere da un regime che lo ha chiuso a forza in una comunità priva di responsabilità e di senso della differenza individuale: una comunità di eguali che non è in grado di confrontarsi con i diversi, e di accogliere altre identità, di far proprî altri modi d’essere. Ma come sono state elaborate dalla filosofia quelle dolorose esperienze, e quali insegnamenti se ne sono potuti ricavare?

    E’ soltanto nel ventesimo secolo che la filosofia, dopo le atrocità delle due Guerre mondiali, la conseguente rovina delle potenze europee e la lacerazione del manto culturale e morale di cui fino ad allora si erano rivestite, ha abbandonato le illusioni circa l’Ordine in cui aveva in gran parte creduto e circa il progresso della civiltà. Allora cominciò ad interrogarsi sul trionfo di quel negativo assoluto, che nella visione filosofica è menzogna sul piano della verità, ed è male radicale, irrimediabile, sul piano morale. Molti sono i filosofi che hanno tentato di rispondere a quegli interrogativi manifestando questa disillusione in una visione critica o in toni apocalittici ma, per il nostro tema, è sufficiente accennare alle risposte delle due filosofe Simone Weil e Hannah Arendt, entrambe testimoni di quella forma estrema dell’asservimento dell’uomo che è stato perpetrato nei Lager di Hitler e di Stalin.

  3. LE MENZOGNE E IL MALE ASSOLUTO

Simone Weil scrisse tra il ‘42 e il ’43, mentre a Londra collaborava con la resistenza francese, le pagine raccolte dopo la sua morte nel volume L’enracinement (Parigi 1949, tr. it. La prima radice, Milano 1996) con il sottotitolo Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano. Queste pagine inquadrano la questione della resistenza al nazismo in una considerazione d’insieme della storia culturale e politica, a partire dalla Francia per allargarsi a tutto l’Occidente, e pronunciano i loro giudizi su di un piano più alto, il piano delle idee della Giustizia e del Bene.

Nel terzo capitolo vi sono molti passi riguardanti la schiavitù, a partire dall’idea aristotelica che essa sia giustificata dalla natura. Sebbene Weil fosse di famiglia ebrea, e personalmente attratta dalla conversione al cattolicesimo, non esitava a indicare le responsabilità che hanno avuto le religioni giudaica e cristiana in questa storica ingiustizia.

San Tommaso, benché non approvasse la schiavitù, considerava Aristotele come l’autorità massima per tutti gli argomenti….fra i quali la giustizia… Quindi l’esistenza di una corrente tomista nel cristianesimo contemporaneo costituisce un legame di complicità – con molti altri, purtroppo – fra il campo nazista e il campo avverso….Un uomo che si affanna ad elaborare un’apologia della schiavitù non ama la giustizia…Accettare come autorità il pensiero di un uomo che non ama la giustizia è un’offesa alla giustizia. (p.210) ;

Ma quando la religione cristiana fu ufficialmente adottata dall’Impero romano…..si fece di Dio un duplicato dell’imperatore. L’operazione fu resa facile dalla corrente giudaica da cui il cristianesimo, per la sua origine storica, non aveva potuto purificarsi. Geova, nei testi anteriori all’esilio, ha nei confronti degli ebrei il rapporto giuridico di un padrone nel confronto dei suoi schiavi…Essi sono proprietà sua ed egli li domina come un uomo qualsiasi domina i suoi schiavi….Una simile concezione era proprio all’altezza della sensibilità e dell’intelligenza dei romani. Presso costoro, la schiavitù aveva penetrato e degradato ogni rapporto tra gli uomini…..E questo ha determinato l’atteggiamento dei romani in materia religiosa….Nella tradizione mistica della chiesa cattolica una delle principali finalità delle purificazioni che l’anima deve percorrere è la totale abolizione dell’idea romana di Dio. Finché ne rimanga traccia, l’unione d’amore è impossibile. Ma la luce dei mistici è stata impotente a far sparire quell’idea dalla chiesa perché la chiesa ne aveva bisogno, come ne aveva avuto bisogno l’impero…Ne aveva bisogno per il suo potere temporale. (pp. 232,233, 235, 238).

Qui lo sguardo è soprattutto puntato sulle menzogne, parallele e contrarie, appartenenti alla nostra cultura: quella del dominio assoluto della forza, e quella della giustizia razionale, illusione dell’umanesimo:

Oggi la scienza, la storia, la politica, l’organizzazione del lavoro, persino la religione…non offrono al pensiero dell’uomo se non la forza bruta (p. 251) ;

Da due o tre secoli crediamo contemporaneamente che la forza sia l’unica signora di tutti i fenomeni della natura, e che gli uomini possano e debbano fondare le loro reciproche relazioni sulla giustizia, riconosciuta mediante la ragione.(p. 207-8).

Nell’ottocento e nel novecento, prosegue Weil, gli intellettuali e gli stessi nazisti, avvertendo la contraddizione tra le due menzogne, hanno ideato i loro meccanismi ciechi (utilitarismo, libero mercato, materialismo storico, razza eletta) per incanalare la forza nelle relazioni umane. Ma la forza non crea automaticamente la giustizia: questa, nonostante le menzogne che l’hanno resa "assolutamente irreale", rimane "reale in fondo al cuore degli uomini".

Riferimento a
La battaglia delle idee III, 4


Hannah Arendt nel suo Le origini del totalitarismo (New York 1951) ha esaminato, attraverso una notevole serie di documenti, alcuni fenomeni ideologici del novecento (antisemitismo, nazionalismo, razzismo, imperialismo) in rapporto all’instaurazione dei regimi totalitari, dei quali ha fatto una lucida e puntuale analisi, illustrandone la tipologia, l’origine, l’affermazione.

Sulla base di questa lunga disanima la pensatrice metteva gradatamente in luce la perversione di ogni principio rappresentata dai totalitarismi del novecento, e soprattutto da quelli di Hitler e di Stalin. E’ necessario, perciò, prima di citarne le riflessioni che innalzano il testo al più alto livello speculativo, percorrerne le premesse storiche.

Per quanto riguarda lo schiavismo, la sua tesi era che, sebbene largamente praticato nelle colonie europee, esso non fosse collegato ad una mentalità razzistica vera e propria prima del XIX secolo, nel quale il razzismo fece la sua comparsa in tutti i paesi occidentali, fino alla sua radicale applicazione ad opera del nazismo tedesco. La mentalità razzista era scaturita dalle esperienze dell’imperialismo piuttosto che dalle teorie di qualche intellettuale: anche se queste poterono contribuirvi, poté molto più il contatto con le incomprensibili "differenze" che gli europei incontrarono nella colonizzazione dell’Africa, tra popolazioni così selvagge e subumane da spaventare e inorridire. Nel romanzo Cuore di tenebra Joseph Conrad ha riportato la folle reazione dei boeri a tale esperienza, sfociata nei più terribili massacri sia nel loro territorio in Sudafrica sia, quasi per contagio, nelle colonie africane dei tedeschi e dei belgi (il re Leopoldo II del Belgio ridusse la popolazione del Congo da circa trenta milioni a otto milioni e mezzo in vent’anni).

In particolare questo dei boeri, esaminato per circa venti pagine del capitolo 7, appariva all’autrice un caso esemplare per il futuro sviluppo dei totalitarismi, ai quali ebbe molto da insegnare. Il loro razzismo rappresentò una sorta di fuga collettiva non solo "in una irresponsabilità dove non poteva più esistere nulla di umano" (p. 289), ma anche in una condizione di totale regressione, rispetto alla civiltà da cui provenivano quei coloni di origine olandese. "Essi erano disposti a pagare il prezzo, un regresso verso l’orda razziale, pur di acquistare la signoria su altre razze" (p. 288), un prezzo altissimo anche in termini economici, per aver rinunciato a terre ricche di oro e diamanti ed aver scelto di rifugiarsi nell’interno più selvaggio a praticare le attività dell’allevamento, trascinandosi dietro i neri loro schiavi.

Con l’imperialismo ed il suo accompagnamento razzistico e antisemitico, vennero al tramonto le categorie entro le quali fino ad allora gli uomini potevano definire la loro esistenza. E’ in questo punto che si innesta il discorso centrale del libro sull’essenza umana, sui diritti di libertà, sul passaggio storico che ha identificato il diritto con l’utile (inteso come "interesse" di pochi, non solo economico) e ha escluso intere categorie di persone dall’appartenenza alla propria comunità. E’ un discorso che punta al problema dei fondamenti del potere:

L’identificazione del diritto con l’utile – per l’individuo, la famiglia, il popolo o il maggior numero di persone – diventa inevitabile una volta svanita l’autorità dei criteri assoluti e trascendenti della religione o del diritto naturale....Qui, a contatto con il reale, ci troviamo di fronte a uno dei più antichi dubbi della filosofia politica, che è potuto rimanere nascosto finché una solida teologia cristiana ha fornito la cornice per tutti i problemi politici e filosofici, ma che già a Platone ha fatto dire. "Non l’uomo ma un Dio deve essere la misura di tutte le cose". (p. 414).

Da questo discorso ha poi inizio la serrata analisi dei regimi totalitari del ‘900, soprattutto del nazismo e dello stalinismo che portarono ai limiti estremi l’abiezione dell’essere umano.

Secondo Arendt i diritti, che da privilegi di casta o storicamente conquistati, si erano trasformati con il pensiero illuminista in dotazione di ogni uomo alla nascita, quindi "naturali", non poterono più mantenere questo senso una volta dissolto il significato antico del termine "natura". Soprattutto persero, nello sconvolgimento dell’Europa alla fine della Grande Guerra, anche quel punto di appoggio nella realtà storica degli Stati nazionali, che fino ad allora avevano definito i termini legali e i confini della cittadinanza, e stabilito anche qualche forma di protezione dei loro cittadini fuori dai confini patrî, attraverso trattati di diritto internazionale. Era nata la tragica condizione dei rifugiati, degli espulsi, degli apolidi. E insieme la paura e l’odio per lo straniero, l’estraneo, il diverso, ossia per tutti coloro che mostravano, agli occhi della collettività organizzata degli "eguali", di possedere una sola caratteristica: "l’astratta nudità dell’essere nient’altro-che-uomo", nella quale "il mondo non ha trovato nulla di sacro" (p. 415).

Su tale nudità si è potuto costruire il sistema del dominio totale, qualcosa che in secoli di stermini, massacri, schiavitù antiche e nuove non si era ancor mai veduto perché andava oltre ogni concetto di utilità o di interesse. Era il sistema dei Lager e dei Gulag, "campi di lavoro" che in realtà non producevano nulla di economicamente sensato, che non potesse essere fatto meglio e con minor spesa in condizioni diverse. Un sistema dove tutto è possibile, dove anche senza distruggere l’uomo fisico se ne annienta rapidamente l’anima umiliandolo con attività assurde e degradanti, rendendolo superfluo.

I campi di concentramento come istituzione non furono creati in vista di una possibile prestazione produttiva, dato che la loro unica funzione economica permanente è stata quella di finanziare l’apparato di sorveglianza....specialmente nel regime staliniano, i cui campi di concentramento erano per lo più descritti come campi di lavoro perché la burocrazia aveva voluto nobilitarli con tale nome...L’incredibilità degli orrori è strettamente legata alla loro inutilità economica. I nazisti portarono questa inutilità all’estremo, fino all’aperta anti-utilità quando nel bel mezzo della guerra, malgrado la scarsezza di materiale edilizio e rotabile, costruirono enormi e costose fabbriche di sterminio trasportando milioni di persone avanti e indietro. (p. 618).

L’autrice stessa ha dichiarato di aver scritto questa sua opera a distanza di qualche anno dalla fine della seconda guerra mondiale,

"per cercar di narrare e comprendere quanto era avvenuto…ancora con angoscia e dolore…ma non più con un senso di muta indignazione e orrore impotente" (Prefazione all’edizione del 1966, p XXVIII),

e nella piena consapevolezza che

"La corrente sotterranea della storia occidentale è finalmente venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione. Ecco la realtà in cui viviamo" (Prefazione alla prima edizione, p. LIV).

Per questo, alla fine del libro, rimane aperto l’interrogativo sul male radicale, il più inquietante per la filosofia.

E’ la comparsa del male radicale, precedentemente sconosciuto, che pone fine alle evoluzioni e al trasformarsi di qualità. Qui non ci sono criteri politici, storici o semplicemente morali, ma tutt’al più la constatazione che nella politica moderna è in gioco qualcosa che non dovrebbe mai entrare nella politica, come noi usiamo intenderla, che essa è al bivio fra tutto e niente. Tutto, un’indeterminata infinità di forme di convivenza umana, o niente, la distruzione dell’uomo in seguito alla vittoria del sistema dei campi di concentramento, una distruzione altrettanto inesorabile di quelle che l’impiego della bomba all’idrogeno riserverebbe alla razza umana. (p. 606)

Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti, la cui punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza….(p. 626) ;

E’ conforme alla nostra tradizione filosofica non poter concepire un "male radicale", e ciò vale tanto per la teologia cristiana, che ha concesso persino al demonio un’origine celeste, quanto per Kant, l’unico filosofo che, nella terminologia da lui coniata, deve avere perlomeno sospettato l’esistenza di questo male, benché l’abbia immediatamente razionalizzato nel concetto di malvolere pervertito, spiegabile con motivi intelligibili. Quindi non abbiamo nulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio fa noi conosciuti. (p. 628).

La conclusione cui la filosofa è pervenuta rimane un monito per i nostri giorni, così come per tutti i tempi futuri in cui continueranno ad agire le cause dello sradicamento di interi popoli in fuga dalle guerre, dai massacri, dalle dittature, o in cerca di risorse per sopravvivere, e perdureranno i motivi profondi per cui agli stessi carnefici è indifferente vivere o morire.