Ritorna all'HOMEPAGE
SCONFINANDO

QUESTIONI E PROBLEMI

IL DIVERSO IMPATTO DEGLI IMPERI SPAGNOLO
E PORTOGHESE


COME GLI SPAGNOLI RIUSCIRONO AD ABBATTERE GLI IMPERI ATZECO E INCA ?

BARTOLOMEO DE LAS CASAS
CONDANNA I CONQUISTADORES


GLI INDIOS NON SONO UOMINI, MA OMUNCOLI,
SERVI PER NATURA


CIVILIZZAZIONE O GENOCIDIO?

L'INGHILTERRA AL CENTRO DEI COMMERCI INTERNAZIONALI

LE COLONIE INGLESI D'AMERICA

LA RIVOLUZIONE AMERICANA

LA NASCITA DEGLI STATI UNITI D'AMERICA

LA GUERRA DI SECESSIONE
QUESTIONI SOCIALI E QUESTIONI ECONOMICHE


LA GUERRA CIVILE

RITORNIAMO SULLA TRATTA DEI NERI

LA CULTURA DELLA PIANTAGIONE

LA CULTURA AFRO - AMERICANA

BIBLIOGRAFIA












IL DIVERSO IMPATTO DEGLI IMPERI SPAGNOLO E PORTOGHESE

Gli imperi coloniali portoghese e spagnolo presupponevano entrambi un solido controllo militare del mare, l'oceano Indiano per l'uno, l'Atlantico per l'altro. Per quasi tutti gli altri aspetti, essi si differenziavano nettamente. L'impero spagnolo era un impero terrestre; finita l'epoca dei saccheggi e dei massacri, i conquistadores si trasformarono in latifondisti e in rancheros. Complementare alla conquista dovette perciò diventare la colonizzazione. Intorno al 1570 vivevano nell' America spagnola almeno 150.000 persone di origine iberica; agli uomini si erano aggiunte le donne ed un gran numero degli abitanti bianchi erano bambini nati nel Nuovo mondo (un numero ancora più elevato era costituito da meticci nati da unioni miste) : una nuova società stava sorgendo al di là dell'Atlantico, destinata ad accrescere sempre più la sua autonomia demografica ed economica.

Alla stessa data, invece, i Portoghesi che vivevano in Asia erano forse 10.000, dispersi nelle agenzie e nei forti che sorgevano da Hormuz nel golfo Persico fino all'isola di Amboina: si trattava sempre di basi a stretto contatto con il mare, perché l'oceano non era solo un presupposto del loro impero, ma si identificava con esso. I rapporti con la popolazione asiatica si esaurivano all'interno delle città costiere conquistate, mentre dall'entroterra ci si potevano attendere solo minacce. Non diversamente andarono le cose in Africa: le micidiali malattie tropicali che colpivano coloro che cercavano di inoltrarsi nel continente e l'incontro con società sufficientemente organizzate tennero i Portoghesi ancora relegati sulla costa. Scarso o nullo fu insomma l'impatto portoghese sulla storia asiatica e africana: l'avanzata dell'impero moghul, il crollo dell'impero songhai, il disfacimento dell'Etiopia sono tutti fatti che non hanno rapporto con la presenza europea.

Ben diversamente andarono le cose per la storia americana che non seguì più il suo corso: l'arrivo degli Spagnoli significò lo sterminio della popolazione indigena e la scomparsa di intere civiltà.

COME GLI SPAGNOLI RIUSCIRONO AD ABBATTERE GLI IMPERI ATZECO E INCA ?

Che alcune migliaia di portoghesi non siano stati in grado di influire sulla storia dei regni asiatici ci appare naturale. Stupisce invece l'idea che poche centinaia di spagnoli abbiano potuto conquistare gli imperi americani, con milioni di abitanti e un notevole livello di organizzazione dello stato. Cresce di più lo stupore se riflettiamo che per gli spagnoli fu assai più semplice abbattere gli imperi azteco e inca che non sottomettere gli indiani poco numerosi e primitivi del Messico settentrionale e delle regioni più meridionali del Sudamerica. Le pur micidiali armi da fuoco e le balestre degli spagnoli non costituiscono una spiegazione sufficiente, e lo stesso vale per i loro cavalli e cani mastini, che terrorizzavano gli indios. Comune agli imperi azteco e inca fu l'effetto devastante delle malattie importate dagli europei, ma a questo fattore esterno occorre aggiungerne altri tre interni. All'assalto finale a Tenochtitlan parteciparono anche migliaia di indiani di città che si erano ribellate agli aztechi; d,altra parte, Pizarro poté ottenere l'aiuto dalla parte sconfitta durante la recente guerra civile. Il secondo elemento è di ordine religioso: Montezuma e i suoi sacerdoti videro in Cortés una divinità, Quetzalcoatl, il serpente piumato, che tornava dal suo esilio. Quando gli aztechi si accorsero con chi avevano a che fare, gli spagnoli a stento riuscirono a scamparla. Il terzo fattore è di ordine militare, ma riguarda la cultura e non la tecnica: le battaglie in Messico e in Perù erano soggette a una forte ritualità e finivano con il riconoscimento della sconfitta da parte dei vinti e con con il loro massacro; gli aztechi volevano prigionieri da sacrificare ai loro dei ,gli inca volevano dei sudditi. Gli americani non capirono che dovevano uccidere gli spagnoli e non tentare di catturarli; allo stesso tempo, restarono sconcertati da nemici che non si arrendevano mai e che uccidevano con una ferocia a loro sconosciuta.

BARTOLOMEO DE LAS CASAS CONDANNA
I CONQUISTADORES

Le atrocità commesse dai conquistadores ebbero un testimone dissenziente e un cronista nel frate predicatore Bartolomeo de Las Casas. Nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie Occidentali, inviata nel 1552 a CarloV di Spagna, il domenicano denunciò le crudeltà di cui erano oggetto gli Indios. Ma fu uno dei pochi che prese le loro difese. Per il resto, la storia della conquista fu scritta dai vincitori, da uomini che credevano di rappresentare una civiltà superiore, che imposero perciò la religione cristiana agli indigeni e che, in nome di Cristo, distrussero i loro templi e le statue degli dèi. Per gli Indios la distruzione delle loro città era qualcosa di più di una semplice sconfitta : significava che gli dèi li avevano abbandonati e la vita non aveva più senso.

L'opera di Las Casas fu particolarmente apprezzata dalla corona di Spagna, che trovò in essa argomenti solidi per contrastare l'iniziativa privata dei conquistadores, i quali cercavano di trarre dalla nuove terre un rapido e facile guadagno, anche a costo di esaurirne per sempre le ricchezze umane e naturali. La corona spagnola, sostenuta dalla grande aristocrazia terriera, sosteneva invece la necessità di una politica più accorta, basata su insediamenti stabili e su un'abile utilizzazione della manodopera indigena. Ma il Nuovo Mondo era troppo lontano ed il potere dei conquistadores troppo forte perché questa esigenza riuscisse ad imporsi.

GLI INDIOS NON SONO UOMINI, MA OMUNCOLI,
SERVI PER NATURA

Di fronte alla Relazione di B. de Las Casas la Spagna fu scossa da un vasto movimento di coscienze, tanto che un alto funzionario, il cronista imperiale Juan Ginés de Sepulveda, scrisse un Trattato sopra le giuste cause della guerra contro gli Indi, nel quale sostenne il diritto della corona di Spagna sulle terre d'America. Al confronto con gli Spagnoli, con le loro doti "di prudenza, ingegno, magnanimità, temperanza, umanità, religione", gli indigeni d'America non erano propriamente uomini, ma omuncoli, nei quali si poteva discernere appena qualche traccia di umanità, privi com'erano di cultura, di lettere, di leggi scritte; esseri così ignavi e timidi da lasciarsi sbaragliare da un piccolo numero di Spagnoli, fuggendo dinanzi ad essi "come donnette". Quale miglior prova della loro inferiorità, che il vedere i re aztechi (i più civili tra tutti gli indigeni) innalzati al trono non per diritto ereditario, ma per suffragio popolare? Non uomini, dunque, ma subuomini, destinati a servire per legge di natura. Per giustificare lo "sterminio di questi barbari" Juan Ginés de Sepulveda ricorre all'autorità di Aristotele: "Si ha il diritto di sottomettere con le armi coloro che, per la loro condizione naturale, sono tenuti all'obbedienza, in quanto il perfetto deve dominare sull'imperfetto, l'eccellente sul suo contrario". Un miserabile libello, diretto manifestamente contro B. de Las Casas, che ebbe tuttavia scarsa fortuna. "Le idee esposte da Sepulveda", scrive L. Séjourné, "furono biasimate dalle autorità stesse che avevano sollecitato l'aiuto del casista (teologo esperto nel risolvere casi di coscienza) ed il manoscritto fu successivamente rifiutato dal Consiglio delle Indie e dal Consiglio reale, dopo che le venerabili università di Salamanca e di Alcalà, consultate in merito, ebbero dichiarato l'opera indesiderabile per la sua dottrina malsana". Certo è che il Trattato fu interdetto in tutta la Spagna e non vide la luce che nel 1892, mentre "gli scritti" più virulenti di B. de Las Casas furono pubblicati ed ampiamente diffusi". Non si trattò solo di ragioni umanitarie, a detta di L. Séjourné. Nei suoi scritti B. de Las Casas adduceva a difesa degli Indios anche argomenti di ordine economico per indurre la corona a far cessare i massacri: "Vostra Maestà e la Sua reale Corona perdono grandi tesori e ricchezze che in tutta giustizia potrebbero ottenere, tanto dai vassalli indiani, quanto dalla popolazione spagnola, che, se lasciasse vivere gli Indiani, diverrebbe grande e potente, il che non sarà possibile se gli Indiani muoiono".

Come già comunicato, invio il seguito del lavoro e una attività di laboratorio sulla "tratta degli schiavi". Speriamo che vada bene! Invierò ad Alessandra uno schema del lavoro perchè, come comunicato dalla preside Giancotti, i coordinatori il 22 maggio, a Latina, dovranno relazionare sul lavoro dei gruppi. A risentirci, saluti, Rina.


CIVILIZZAZIONE O GENOCIDIO?

Le grandi scoperte geografiche e la successiva conquista spagnola dell'America hanno suscitato un dibattito storiografico e politico che oggi è ancora vivo. Da una parte gli autori che si richiamano alle argomentazioni di J.G. de Sepulveda, dall'altra gli scrittori che condividono la dura condanna pronunciata da B. de Las Casas. Anche se con il passare del tempo le argomentazioni si sono fatte più complesse e meditate, rimangono comunque due schieramenti contrapposti: quello che vede nell'intervento degli ispano - portoghesi in America il criminoso sopruso di una civiltà ai danni di un'altra, e l'atteggiamento, invece, di chi sottolinea soprattutto il contributo al progresso che, nonostante tutto, quelle imprese rappresentarono. Si evidenziano, in breve sintesi, il pensiero di uno storico e teologo messicano, E. Dussel e le osservazioni del saggista italiano E. Galli della Loggia.

Secondo E. Dussel i protagonisti della conquista furono lo Stato spagnolo, il capitale monetario e la Chiesa. La corona ne fu senza dubbio l'attrice principale, forte dell'appoggio della nobiltà, dei proprietari latifondisti e degli hidalgos, gli esecutori materiali della conquista. Seguirono i mercanti, che offrirono i capitali per l'impresa e che ben presto si trovarono a dipendere dai grandi finanzieri europei. Subito dopo venne la Chiesa, un organismo che con il suo numeroso clero, i suoi potenti vescovi, la sua influenza sulle università, condizionava profondamente la vita quotidiana e la vita pubblica. Gli uomini inviati dalla Chiesa, i missionari, giocarono un ruolo essenziale nella conquista.

La conquista fu prima di tutto una " guerra di occupazione ", preceduta dalla " scoperta ", e protratta nella " colonizzazione " e nello " sfruttamento " propriamente detti. Piantare la croce su un'isola, su una spiaggia, in un paese era un atto di dominio: la proclamazione della sovranità dello Stato spagnolo. Contemporaneamente all'occupazione dei territori si procedette alla conquista economica, che iniziò con la rapina dei metalli preziosi e si concluse con il saccheggio dei prodotti tropicali.

Quando, già nel 1520, a Santo Domingo non si trovava più oro nel letto dei fiumi , si intraprese lo sfruttamento della canna da zucchero e si finì con il mercato degli schiavi neri.

E. Dussel scorge nell'opera di J. G. de Sepulveda la prima enunciazione di una " teologia della dominazione "; di una teologia, cioè, che considera la conquista e la riduzione in schiavitù come processi " civilizzatori". L'opera di evangelizzazione avrebbe dovuto giustificare la conquista: certamente conferì all'autorità ecclesiastica il pieno controllo della cultura. Gli indigeni e gli schiavi neri erano misconosciuti come soggetti storico - culturali, aventi diritti propri. Il teologo messicano riconosce che non è da ignorarsi l'azione di molti missionari che evangelizzarono in semplicità e povertà, differenziandosi dalla società spagnola dominatrice: aggiunge, tuttavia, che questi "cristiani sinceri " non furono mai egemoni, né nella Chiesa, né nella società.

Lo scritto di E. Galli della Loggia si pone sul versante opposto per la forte polemica che dispiega nei confronti di quanti, descrivendo l'impresa dei conquistadores con tinte soltanto negative, destoricizzano il passato e sostituiscono al giudizio storico quello morale. Galli della Loggia rifiuta il termine comunemente in uso di " genocidio ": ricorda che si dovrebbe usare lo stesso metro di giudizio nei confronti delle distruzioni materiali e culturali operate dai Vandali e dagli Unni; o anche a proposito di quel dominio arabo sulle popolazioni dell'Africa che fece ampio posto alla schiavitù di massa ed all'acculturazione forzata. Ricorda inoltre, che le stesse vittime degli Spagnoli, ad esempio gli Aztechi, avevano esercitato, a loro volta, sulle popolazioni assoggettate un dominio violento e crudele. Con argomenti storicisticamente più pacati e più congrui si sono espressi gli studiosi A. Tenenti e R. Romano, per i quali il merito dell'impresa non consiste certo nella conquista violenta e sopraffattrice, ma nell' " ir a valer màs "; cioè nella ricerca di " valer di più ", in ogni senso: economico, morale, sociale. Fu questa la prodigiosa " molla " dell'avventura spagnola in America, come in generale fuori dall' Europa. Osservano i due storici che il problema essenziale fu di vedere in che modo quel motto sia stato realizzato, e quali, allo stesso tempo, siano state per i paesi conquistati le conseguenze. Problema impegnativo e pericoloso perché è facile approdare, come conclusione, alla leggenda nera o alla leggenda rosa della conquista. Per la prima gli Spagnoli - uomini cattivi - avrebbero ucciso, torturato, rubato; per la seconda gli Spagnoli - uomini buoni - avrebbero diffuso la vera religione, e dunque la salvezza dell'anima, avrebbero introdotto la moderna tecnologia, avvicinato i popoli " selvaggi " alla " civiltà europea ". Il giudizio sull'incontro di due diverse forme mentali non si può risolvere con una formulazione globalmente netta: s'impone la distinzione. Solo l'introduzione di una serie di distinzioni può stabilire le responsabilità di ordine morale, ed insieme cogliere la genesi di situazioni tutt'oggi vive nei rapporti tra la comunità india dell'America centro - meridionale e la comunità bianca. Le conseguenze della conquista non sono ancora scomparse nel XX secolo.

A. Tenenti e R. Romano proseguono la loro argomentazione sottolineando che le stragi furono ingiuste ed ingiustificabili, ma che le stragi non possono da sole spiegare l'enorme contrazione demografica della popolazione india nel corso del Cinquecento: va considerato anche il fatto che gli Indios mancavano delle naturali difese immunizzatrici nei confronti delle malattie introdotte dagli Europei, e che furono sottoposti a condizioni di lavoro quasi insostenibili. I due storici concludono che non è giusto, d'altro canto, minimizzare la drammaticità dell'avventura degli Spagnoli in America: non si tratta tanto delle loro vittorie militari, ma della loro vittoria " contro le dimensioni smisurate di un mondo nuovo ".

L'INGHILTERRA AL CENTRO DEI COMMERCI INTERNAZIONALI

Fino all'inizio dell'età moderna gli Inglesi restarono soggetti, per i prodotti di cui abbisognavano, ai mercanti tedeschi della Hansa e a quelli italiani (veneziani, genovesi, fiorentini). Nonostante i loro magnifici porti che si aprono tra Dover e Plymouth, essi non avevano un proprio commercio con i paesi stranieri: di fatto erano stati sino ad allora " al margine del mondo civile ". Compirono i primi passi nel campo dell'esportazione dei panni con la costituzione della compagnia dei Merchant Adventurers, che fondarono propri empori a Bruges e ad Anversa nei Paesi Bassi. Il balzo decisivo avvenne al tempo di Elisabetta, nella seconda metà del secolo XVI, allorché, non avendo più bisogno della mediazione dei mercanti stranieri, le galere veneziane ed anseatiche scomparvero dalle coste della Gran Bretagna. Navi inglesi presero a ritirare i prodotti del Levante dai porti stessi del Mediterraneo, entrando in concorrenza con i mercanti italiani in quelle stesse acque dove Veneziani e Genovesi si erano considerati fino allora signori assoluti. Né ci si limitò alla difesa dall'invadenza straniera, ma si iniziò la penetrazione attiva nel territorio commerciale tedesco al punto che la Hansa non riuscì più a difendersi dalla concorrenza inglese. " Fu un'invasione nel suo più assolutamente originale campo commerciale ". Gli inglesi presero a rivaleggiare anche con la Spagna e il Portogallo per il commercio e il possesso del nuovo mondo. E' questa l'età dei Drake, dei Raleigh, l'età delle audaci navigazioni e della pirateria. Il più famoso corsaro inglese fu Francis Drake, che gli equipaggi spagnoli, terrorizzati, chiamavano " El Draco ". Elisabetta, che ufficialmente fingeva di ignorare le sue imprese e usava rispondere alle proteste dell'ambasciatore spagnolo con le più calorose rassicurazioni sulla propria buona fede, era in realtà tra i finanziatori delle spedizioni di Drake, che le rendevano grandi somme di denaro (una sola spedizione, costata 5.000 sterline, ne rese ben 600.000). I danni causati da Drake alle navi spagnole, che spesso caddero nelle sue mani con tutto il loro carico, furono una delle cause dell'attacco lanciato contro l'Inghilterra dall' " Invincibile Armata ", ma Drake stesso fu celebrato in quell'occasione come uno degli artefici della vittoria inglese e la regina lo nominò sir e ammiraglio della flotta reale. Sulla scia delle imprese corsare, nascevano intanto le prime Compagnie commerciali. Esse erano società private, che però questa volta, concordavano ufficialmente con la Corona le proprie zone d'operazione, le rotte che avrebbero seguito, le basi commerciali garantite da eventuali concorrenti. Un gruppo di finanziatori forniva il denaro necessario a iniziare e riceveva in cambio un numero di " azioni " corrispondenti alla somma che aveva versato. Essi potevano perdere tutto, a causa dei mille incidenti che potevano capitare alle navi, ma se il convoglio tornava carico di merci preziose, il guadagno sarebbe stato spartito in proporzione al numero di azioni che ogni socio possedeva. La prima fu la Compagnia della Moscovia, fondata nel 1554, che svolgeva i propri traffici tra l'Inghilterra e la Russia, attraverso il Baltico e il Mare del Nord, alla ricerca di legname e pellicce. Poi ne nacquero altre fino alle più importanti e famose: la Compagnia delle Indie occidentali che trafficava con l'America e presto si avvalse dell'appoggio delle numerose colonie inglesi che nascevano nella parte settentrionale del Continente, e la Compagnia delle Indie orientali che, dopo enormi difficoltà riuscì ad allacciare lucrosissimi commerci con l'India e l'Estremo Oriente. Nel 1584 fu fondata la prima colonia inglese, la Virginia, che costituì la base della colonizzazione dell'America settentrionale. Tutto ciò non era che il preludio di quella irresistibile penetrazione commerciale che doveva portare l'Inghilterra alla fine del secolo XVIII ad esercitare un incontrastato dominio sui mari.

LE COLONIE INGLESI D' AMERICA

La colonizzazione inglese nell'America settentrionale non aveva seguito una logica preordinata e un piano di espansione " imperiale " paragonabile a quello spagnolo e portoghese nel sud del continente. Il sovrano aveva concesso lo sfruttamento dei nuovi territori a compagnie commerciali, a singoli individui (i " proprietari "). A capo di ogni colonia c'era un governatore nominato dal re, ma le " carte "con le quali venivano assegnate le colonie garantivano un notevole grado di autonomia dalla madrepatria.

Quanto al parlamento inglese, esso legiferava solo sugli aspetti commerciali del rapporto con le colonie, non su quelli politici. La debole presenza politica di Londra, il contesto ambientale caratterizzato da spazi amplissimi, le grandi distanze tra una comunità e l'altra favorirono nelle colonie la formazione di una società decentrata, animata da un forte spirito autonomistico e comunitario e da una spiccata coscienza della propria " diversità ".

Dal punto di vista sociale, le colonie non riprodussero meccanicamente le strutture e le gerarchie esistenti nel Vecchio mondo. I coloni che incessantemente affluirono in America nei secoli XVI e XVII erano dissidenti religiosi (come i puritani ), perseguitati politici, contadini rimasti senza lavoro, piccoli mercanti e artigiani, figli cadetti della nobiltà minore e un popolo vario: erano inglesi ma anche francesi, scozzesi, irlandesi, tedeschi, olandesi, svedesi. Per lo più, gruppi di sconfitti o emarginati, di estrazione sociale medio-bassa, uniti spesso da ideali politico-religiosi e dal desiderio di realizzare oltreoceano quello che in patria era loro precluso.

Da questa matrice eterogenea nacque una società quasi del tutto priva di tradizioni e di rapporti feudali e in cui la nobiltà di nascita aveva scarsa rilevanza. Si trattava, però, di una società tutt'altro che egualitaria. Le differenze economiche e sociali erano molto forti, sia nelle colonie meridionali, caratterizzate dal grande latifondo di piantagione, appannaggio di chiuse aristocrazie terriere, sia nelle città mercantili del nord: a Boston, a New York, a Filadelfia la nuova aristocrazia del denaro possedeva la metà e oltre della ricchezza. Questi dislivelli socioeconomici tesero ad approfondirsi nel corso del Settecento.

Sino alla metà del Settecento, le tredici colonie americane costituivano tutt'altro che una " nazione " unitaria. Le accomunava l'uso di una medesima lingua, l'inglese,e il riferimento ad un paese a cui ancora guardavano come alla propria patria. Ma molto forti erano le differenze di ordine economico-sociale, oltre che religioso.

Le colonie settentrionali del New England erano fondate sulle comunità agricole puritane di piccoli e medi proprietari, caratterizzate da una struttura sociale egualitaria e da un'intensa partecipazione politica; erano però chiuse ed economicamente statiche. Forte dinamismo e differenziazioni sociali contraddistinguevano invece le città portuali costiere, dedite ai commerci, all'industria cantieristica, alla pesca. Per certi aspetti analoga la situazione nelle colonie del centro, che erano però assai più composite dal punto di vista etnico e religioso e la cui economia si basava sull'agricoltura e sulla commercializzazione dei prodotti agricoli. Molto diverso, infine, il profilo economico-sociale delle colonie del sud: queste erano caratterizzate dalla presenza di estese piantagioni di tabacco(nelle quali lavoravano gli schiavi neri importati dall'Africa), che appartenevano per lo più a un'elite di grandi e medi proprietari, eredi dell'aristocrazia minore inglese fuggita in Virginia nel secolo precedente, durante l'età di Cromwell.

Furono il contrasto e poi la lotta con gli inglesi a generare progressivamente, fra le classi dirigenti delle colonie, una sorta di autocoscienza nazionale, cioè la consapevolezza di avere problemi e interessi comuni: ciononostante, le diversità rimasero profonde anche dopo la conquista dell'indipendenza, sino a esplodere drammaticamente nella guerra civile che, nella seconda metà dell'Ottocento, contrappose il nord e il sud degli Stati Uniti.

LA RIVOLUZIONE AMERICANA

Fino ai primi decenni del Settecento, l'integrazione delle colonie americane nel sistema coloniale e commerciale inglese non fece sorgere particolari problemi. Le colonie fornivano prodotti agricoli(grano,tabacco, riso), pellicce, tutti prodotti che il mercato inglese assorbiva con crescente facilità. I rapporti commerciali erano regolati da Londra in modo tale da rendere l'economia americana funzionale a quella inglese: già dalla metà del Seicento il parlamento di Londra, seguendo la logica mercantilistica dominante all'epoca, aveva imposto alle colonie di esportare taluni prodotti, come il tabacco, soltanto in Inghilterra e aveva stabilito che tutti i commerci tra l'Inghilterra e le sue colonie dovessero svolgersi con navi inglesi. Inoltre, era vietato ai sudditi americani produrre in proprio beni considerati strategici per l'economia della madrepatria( prodotti tessili e siderurgici), nonché importare manufatti da altri stati.

Bisogna dire che, a fronte di queste limitazioni, le colonie fruivano di rilevanti vantaggi, quali la protezione assicurata loro dall'esercito britannico e l'inserimento in un sistema economico dinamico e in espansione come quello inglese. Le colonie americane, specie quelle del centro e del nord, poterono così partecipare fruttuosamente ai commerci atlantici, praticando anche largamente il contrabbando, tacitamente tollerato dalle autorità coloniali.

La situazione mutò intorno alla metà del secolo per il convergere di due fenomeni: da un lato, l'impetuoso sviluppo demografico ed economico delle colonie rese loro sempre meno accettabile la dipendenza dalla madrepatria; dall'altro, il governo inglese inaugurò una politica di maggior rigore e controllo nei confronti dei suoi possedimenti americani, che erano ormai diventati un'area di notevole importanza economica e politica.

Le prime avvisaglie di conflitto si ebbero quando nel 1733 una legge(Molasses Act) proibì l'importazione di zucchero dai Caraibi francesi, danneggiando la florida produzione di rhum del Massachusetts; nel 1750 un altro provvedimento(Iron Act) ribadì il divieto di costruire in America impianti siderurgici. Ma la situazione si aggravò dopo il 1763, quando il governo inglese restrinse l'autonomia economica e politica delle colonie con una serie di provvedimenti: ulteriori restrizioni nell'importazione dello zucchero(Sugar Act); proibizione di emettere carta moneta e infine, la legge sul bollo (Stamp Act) che introdusse una tassa su giornali, atti legali, documenti commerciali.

Fu quest'ultimo provvedimento, preso dal governo inglese nel 1765, che diede l'avvio a quel processo che avrebbe condotto alla rivoluzione. Per la prima volta la legge imponeva ai coloni un tributo fiscale. Sino a quel momento, infatti, le colonie non erano state soggette a tasse, non avendo diritto a rappresentanti nel parlamento inglese: e ciò in base al principio, che non può essere tassato chi non gode di rappresentanza politica (no taxation without representation).

Una questione finanziaria di modesta entità assunse grande significato politico. Il governo inglese sosteneva la legittimità dell'imposta con l'argomento che il parlamento rappresentava virtualmente tutti i cittadini, anche quelli privi del diritto di voto; ma i coloni americani risposero mettendo in dubbio la rappresentatività di un parlamento così lontano, cui mancava il requisito dell'identità di interessi con i cittadini rappresentati, sostenendo implicitamente il proprio diritto ad autogovernarsi.

Contro la legge sul bollo iniziò un vasto movimento di opinione: assemblee di deputati delle diverse colonie; accordi fra mercanti per boicottare le importazioni di prodotti inglesi. Il governo di Londra, pressato dalla compattezza della protesta e dal danno economico che ne derivava, ritirò la legge sul bollo (1766 ), ma riaffermò contestualmente il proprio diritto di tassare i coloni: il conflitto era ormai netto e irreversibile.

Nel 1773 il governo inglese, per riassestare le finanze della Compagnia delle Indie orientali, assegnò a quest'ultima il monopolio dell'esportazione del tè nelle colonie (Tea act ), danneggiando i mercanti e i contrabbandieri americani: la risposta fu il famoso Boston tea party, nel corso del quale una grossa partita di tè della Compagnia fu gettata in mare nel porto di Boston. Londra reagì con provvedimenti repressivi, battezzati dai coloni " leggi intollerabili ": chiusura del porto di Boston, cancellazione della carta del Massachusetts, annullamento dei poteri dei giudici americani. Mentre il re ordinava alle truppe inglesi di riprendere il controllo del Massachussets in rivolta, il primo congresso dei rappresentanti delle colonie, riunito a Filadelfia nel 1774, rigettava gran parte delle misure legislative decise dall'Inghilterra; l'anno seguente, un secondo congresso dava vita a un esercito unitario, la Continental Army, e ne affidava il comando al virginiano Geoge Washington. Nell'agosto dello stesso 1975, il re dichiarava ribelli tutti i coloni americani e iniziava i preparativi per una campagna militare.

LA NASCITA DEGLI STATI UNITI D' AMERICA

Il 4 luglio 1776 il congresso delle colonie riunito a Filadelfia approvò la Dichiarazione d'indipendenza, redatta in massima parte da Thomas Jefferson. Si tratta di un documento di importanza storica fondamentale, perché in esso i principi della libertà, dell'uguaglianza civile e politica e del consenso trovano per la prima volta un'espressione politica.

La dichiarazione d'indipendenza venne formulata quando ormai il conflitto con l'Inghilterra era in corso. Si trattò di una guerra in cui l'inferiorità militare dei " ribelli " fu compensata dalle indecisioni e dagli errori strategici degli Inglesi. Importante, nell'alternarsi di successi e di sconfitte da ambo le parti, fu la vittoria di Washington a Saratoga (19 ottobre 1777), perché spinse la Francia e poi la Spagna ad intervenire nella guerra, approfittando delle difficoltà in cui si trovavano gli inglesi. L'appoggio militare dei francesi permise agli americani di continuare a combattere e costituì una condizione essenziale del loro successo. Il governo di Londra fu indotto a sottoscrivere un accordo di pace (Parigi, 3 febbraio 1783) che riconosceva l'indipendenza delle tredici colonie e la loro sovranità su tutti i territori americani.

Dopo la raggiunta indipendenza restavano però all'interno della Confederazione degli Stati Uniti d'America, gravi motivi di discordia, dovuti alla scarsa volontà dei tredici Stati di sottoporsi ad un governo federale e di affrontare l'urto di interessi fra i commercianti degli Stati atlantici e i coltivatori della Virginia. Il 17 settembre 1787 un'assemblea riunita a Filadelfia mise termine ai contrasti e alle discussioni, elaborando e proclamando la Costituzione federale del nuovo Stato, entrata in vigore nel marzo 1789. Il primo presidente fu George Washington.

LA GUERRA DI SECESSIONE
QUESTIONI SOCIALI E QUESTIONI ECONOMICHE

Il contrasto più grave esistente negli Stati Uniti, che condusse alla sanguinosa lacerazione di una guerra civile, era quello fra il sud e il nord del paese. Il conflitto ebbe come oggetto principale il problema della schiavitù: gli stati del sud, dove la schiavitù era legale, volevano mantenerla; gli stati del nord, dove era illegale, volevano abolirla. Il conflitto implicava ragioni ideali molto sentite, come il principio dell'uguaglianza fra tutti gli esseri umani sul quale era stata costruita la nazione americana; ma al tempo stesso esprimeva una profonda lacerazione economica e culturale all'interno del paese. L'economia del sud, infatti, si reggeva sulle piantagioni, cui era essenziale il lavoro degli schiavi; il nord si basava invece sulla diffusione della piccola proprietà contadina, sull'industria e sulle attività commerciali.

Il sud produceva la totalità del cotone americano, però dipendeva dal nord per la sua commercializzazione e per il rifornimento di beni di consumo; il sud inoltre, poiché esportava in Europa gran parte dei suoi prodotti, era favorevole al libero scambio; al contrario, gli industriali del nord erano protezionisti, perché volevano tutelare il loro mercato interno dalla concorrenza europea. Intorno alla questione della schiavitù, insomma, si scontravano due diversi modi d'intendere il futuro economico del paese: l'uno legato alla grande proprietà agricola, l'altro all'industrializzazione e alla competizione con il capitalismo europeo.

Al momento della conquista dell'indipendenza vi erano in America circa 750.000 schiavi neri; nel 1860 i neri erano 4,4 milioni, il 90% dei quali schiavi.

La costituzione aveva lasciato in sospeso il problema della schiavitù, limitandosi a prevedere la fine della tratta dopo vent'anni: l'importazione legale degli schiavi cessò dunque nel 1808. Non per questo diminuì il loro numero, a causa dell'importazione clandestina da Cuba ma, soprattutto, a causa dell'alto tasso di crescita della popolazione nera.

Per decenni fra nord e sud resse un fragile compromesso: la schiavitù era proibita al di sopra del 36° parallelo, permessa al di sotto di questo. Si cercava di bilanciare l'entrata di nuovi territori nell'Unione fra nord e sud: cosi, il Texas fu schiavista, ma la ricca California, nonostante la sua collocazione geografica, pretese di entrare come stato libero( cioè non schiavista). Nel 1854, infine, si decise che i nuovi stati potessero scegliere autonomamente la loro collocazione.

La situazione si fece via via più tesa perché i piantatori meridionali avevano bisogno di braccia, ma la maggior parte degli immigrati si dirigeva al nord, più libero, moderno e dinamico.

Il movimento abolizionista, intanto, cresceva nella parte settentrionale del paese: gli abolizionisti organizzavano veri e propri "corridoi di fuga" per gli schiavi, che non venivano poi restituiti ai "legittimi" padroni, nonostante il parere contrario della corte suprema. Nel 1859 gli abolizionisti tentarono addirittura di far ribellare gli schiavi neri della Virginia, ma la rivolta si concluse con l'impiccagione del loro capo, John Brown.

LA GUERRA CIVILE

La situazione precipitò nel 1860, quando fu eletto presidente Abraham Lincoln, il principale sostenitore dell'abolizionismo. Gli stati del sud( Carolina del sud, Alabama, Georgia, Florida, Mississippi, Louisiana, Texas) organizzarono allora la secessione: si separarono cioè dell'Unione, fondando la Confederazione degli stati del sud. Il conflitto era ormai inevitabile.

La guerra civile tra il sud e il nord, chiamata guerra di Secessione, fu lunga e sanguinosa: durò dal 1861 al 1865 e costò 360.000 morti al nord, 280.000 al sud, oltre a enormi devastazioni e a una drammatica lacerazione morale in tutto il paese. Il successo arrise ai "nordisti", più numerosi e più forti economicamente: il 9 aprile 1865 la Confederazione dovette cedere le armi. Ma la pacificazione all'interno del paese era ancora lontana: cinque giorni dopo Lincoln fu ucciso da un fanatico schiavista. Nel dicembre dello stesso anno la schiavitù fu abolita negli Stati Uniti. Il problema dei neri americani, tuttavia, non era affatto risolto. Dal punto di vista economico, infatti, non furono create le condizioni perché gli schiavi emancipati potessero avviare attività lavorative autonome: molti di loro tornarono a lavorare nelle piantagioni alle dipendenze dei padroni bianchi. Dal punto di vista giuridico, la fine della schiavitù non comportò l'uguaglianza fra bianchi e neri: in molti stati del sud, si avviò un regime di segregazione razziale, cioè di esclusione dei neri da scuole, locali pubblici, mezzi di trasporto frequentati dai bianchi, e anche dal diritto di voto .Contemporaneamente si diffondevano nel sud organizzazioni terroristiche razziste, come il Ku Klux Klan, fondato nel 1866. Ma anche al nord l'emarginazione dei neri, economica e sociale innanzitutto, rimase un problema esplosivo per tutto il corso della storia americana.

LA TRATTA DEI NERI

Il primo sovrano ad emettere un documento ufficiale ( Asiento) che autorizzava il trasporto legale di 4.000 schiavi neri all'anno nelle colonie d'America fu nel 1517 il futuro imperatore CarloV. Il primo carico,destinato alle Antille, fu spedito da una compagnia di mercanti genovesi che acquistarono gli schiavi sul mercato di Lisbona. Ma i Portoghesi non tardarono ad avere l'Asiento per la fornitura di schiavi anche a tutte le colonie spagnole; tale commercio rimase per un oltre un secolo un loro monopolio sino a che, nel XVIII secolo, esso fu loro conteso dagli Olandesi, dai Francesi e dagli Inglesi, che nel 1713 con il Trattato di Utrecht ottennero a loro volta l'Asiento per l'esercizio della tratta. Ma già da oltre un secolo e mezzo Olandesi e Inglesi si erano gettati su tale lucroso commercio. La lunga traversata transoceanica è stata tramandata nella memoria come un insieme di orrori senza precedenti: superaffollamento delle navi, trattamento brutale, cibo scarso e scadente, mancanza di acqua, di igiene, di assistenza medica e, quindi, altissima mortalità. Gli studiosi moderni hanno però dimostrato che questa colpiva indifferentemente sia i trasportati che i membri dell'equipaggio. Tuttavia i comandanti delle navi negriere cercavano di far si che il trattamento non fosse eccessivamente duro, perché gli schiavi erano un capitale. Al momento della partenza gli schiavi di sesso maschile erano ammanettati e incatenati a coppie; se il negriero aveva un po’ di umanità, i ferri venivano tolti al largo e rimessi solo all'arrivo. Questo infame commercio si basava sul cosiddetto "sistema triangolare".

Le navi negriere caricavano nei porti europei una serie di merci ( tessuti, bevande alcoliche, armi da fuoco) che venivano acquistate dai sovrani africani in cambio di schiavi. Esse quindi portavano il loro carico di merce umana nelle colonie d'America dove lo scambiavano con zucchero, riso, tabacco, che successivamente, chiudendo il triangolo, vendevano a caro prezzo sui mercati d'Europa. Una parte cospicua ebbero nel " commercio triangolare" i negrieri della Nuova Inghilterra, i quali si assicurarono il quasi monopolio della fornitura di schiavi al Sud dei futuri Stati Uniti. Essi solevano partire per l'Africa carichi di barili di rum che scambiavano con schiavi in ragione di un uomo per un barile. Dopodichè venduti gli schiavi nelle colonie del Sud, ottenevano in cambio melassa che veniva successivamente trasformata in rum. Inutilmente l'Assemblea della Virginia emanò una serie di ordinanze vietando la tratta: il governo di Londra, sollecitato dai mercanti, le annullò, dichiarando che non si poteva rinunciare a un così lucroso commercio.

Gli schiavi trasportati dai negrieri provenivano da una zona che si estendeva dalla Mauritania all'Angola e che, alla metà del XVI secolo, aveva dato vita ad una serie di complesse culture. Vasti reami si alternavano a città-Stato; lì gli Africani dei vari ceppi etnici avevano sviluppato un'agricoltura evoluta, lavoravano il ferro, l'oro e altri metalli, scolpivano il legno, allevavano il bestiame, praticavano l'arte della poesia in lingua suaheli e avevano una vasta e complessa cultura musicale, basata sul ritmo, con una varietà di strumenti a corda, a fiato e a percussione; praticavano inoltre la danza e possedevano un vasto patrimonio di miti e leggende.

Così le navi negriere portavano nelle Americhe non solo i corpi degli schiavi, ma il loro patrimonio culturale. Questo a sua volta avrebbe avuto un influsso enorme sulla mentalità e la civiltà delle terre di piantagione.

LA CULTURA DELLA PIANTAGIONE

E' certo che il sistema della grande proprietà a schiavi fu per cosi dire "imposto" dalle esigenze del mercato capitalistico mondiale. Solo la grande azienda coloniale poteva soddisfare tali esigenze; e sebbene il lavoro schiavile fosse più costoso del lavoro libero, nella carenza di quest'ultimo esso rappresentava al momento l'unica soluzione.

Il mondo della piantagione si andò configurando in tre nuclei principali: il Brasile portoghese, le Antille( Indie occidentali) e il Sud di quelli che divennero poi gli Stati Uniti. Il suo carattere di subordinazione coloniale alle esigenze del mercantilismo risulta evidente dall'assoluto predominio della monocultura: zucchero, poi caffè in Brasile; zucchero nelle Indie occidentali; tabacco, poi cotone nel vecchio Sud. La civiltà della piantagione nelle sue tre grandi aree fu dunque un prodotto diretto del capitalismo mercantile e dette vita a un tipo peculiare di società sostanzialmente precapitalista, agraria, signorile, immobilista e conservatrice. L'elemento determinante di tale tipo di società signorile era il rapporto tra schiavi e padroni. In tale rapporto il lavoro era considerato un'attività di qualità inferiore, da "negri ". Esso ne determinava anzitutto l'immobilismo: tutto il capitale disponibile era investito nella manodopera schiavile, nulla era investito in macchinari agricoli e migliorie fondiarie. Gli ideali della classe dei piantatori erano il lusso, la socialità, il godimento della vita, la cultura, lo " status"; non l'investimento, quindi, ma il consumo, specialmente quello di lusso. La piantagione tendeva ad essere un mondo chiuso in sé: tutto quanto era possibile veniva prodotto e consumato all'interno di essa. Solo la "grande derrata", zucchero, tabacco o cotone, veniva posta sul mercato. Qui i piantatori dipendevano totalmente dalle comunità economiche avanzate: il vecchio Sud dal Nord; il Brasile e le Indie occidentali dalla Gran Bretagna. Erano le banche e i mercanti di tali comunità che finanziavano i piantatori anticipando loro( a tassi esosi) parte del valore del futuro raccolto; che si occupavano di porre sul mercato lo zucchero o il cotone, ecc. Pertanto la classe dei piantatori era cronicamente debitrice verso le imprese commerciali e le banche dei paesi avanzati.

Attorno al piantatore viveva la grande "famiglia", composta non solo dai figli, ma anche da schiavi domestici: camerieri personali, nutrici; su tutti costoro il patriarca regnava come padrone, mentore, amministratore, padre(spesso in senso letterale). Certo le differenze tra le tre maggiori società schiaviste delle Americhe erano profonde e dipendevano dalle rispettive origini, dalle differenti eredità culturali, dal diverso bagaglio di tradizioni.

L'ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITU'

Sebbene il mondo della piantagione schiavista fosse precapitalistico nella struttura e antiborghese nella mentalità, esso viveva all'interno del mercato capitalistico mondiale e ne subiva le leggi; mentre il primo rimaneva immobile, il secondo si evolveva; il mercantilismo cedeva il passo alla rivoluzione industriale, e il mondo generato da questa non aveva più bisogno della schiavitù, ma necessitava di mercati dove esportare la produzione e dove dominasse il lavoro "libero".

La schiavitù era ormai antieconomica: doveva essere abolita.

Il primo movimento per l'abolizione della schiavitù si sviluppò in Inghilterra. Il 1° gennaio 1808 il Parlamento britannico abolì formalmente la tratta; nel 1827 essa fu dichiarata reato punibile con la pena di morte. Infine, nel 1833 il Parlamento di Londra passò la legge che aboliva la schiavitù nelle Indie occidentali. Gli Stati Uniti avevano posto fuori legge la tratta nel 1808.

La rivoluzione industriale sviluppatasi nel Nord tendeva ad eliminare il Sud arretrato e schiavista, che intralciava la creazione di una nazione americana omogenea.

Quando il Sud, con la secessione, tentò di giocare la carta dell'indipendenza, esplose la guerra civile. La schiavitù fu usata come arma per piegare la resistenza del Sud. Il Proclama di emancipazione del 1862 - 1863 liberò solo gli schiavi delle zone " ribelli " e non quelli degli Stati schiavisti rimasti fedeli all'Unione. Mentre nel Sud l'abolizione fu un sottoprodotto della guerra civile, in Brasile seguì un corso più normale. La pressione politica ed economica dell'Inghilterra aveva portato nel 1850 all'abolizione della tratta. Il 13 agosto 1888, per impulso dell'imperatore Pedro II, fu passata la legge di abolizione, detta la " legge d'oro ": la schiavitù aveva cessato di esistere nell'intero Nuovo Mondo.

LA CULTURA AFRO - AMERICANA

Il senso della famiglia era molto radicato nella mentalità degli schiavi neri negli Stati Uniti d'America. La tesi che attribuiva alla schiavitù la disgregazione dei legami di parentela è stata superata da studi recenti: anche in caso di vendita, gli schiavi tendevano infatti a ricostituire i legami familiari, come mostrano, ad esempio, le denominazioni di "zio" o "zia" che gli schiavi venduti davano ai membri delle loro nuove " famiglie ". " La comunità nera ", scrive Fohlen, " era fondata su dei legami di sangue o meno, che perpetuavano quelli familiari.[…] Malgrado le fratture tipiche del sistema schiavista, la famiglia rimase la cellula basilare della società nera. Le conseguenze di ciò sono importanti per quel che riguarda il ruolo della famiglia nella trasmissione dell'eredità culturale che risale alle radici africane ".

Questa eredità culturale specificamente africana, cementata nella famiglia, si è trasmessa attraverso la storia orale ed è stata veicolata da due eccezionali strumenti: la musica e la religione.

Fino agli anni Sessanta l'esistenza di una specifica cultura afro - americana era stata respinta, negata o rimessa in causa dagli storici, che si interessavano assai poco al fenomeno culturale.[…] Fino a questa data i giudizi degli storici portano alla conclusione che il nero, a differenza di tutti gli altri immigranti, non possiede cultura propria e che è un prodotto specifico dell'ambiente americano. Due spiegazioni rendono plausibili questi giudizi: l'instabilità dell'ambiente familiare e l'assenza di una cultura scritta, che è comune a tutti gli altri immigranti. La storia orale è una scoperta relativamente recente, che autorizza a confutare quest'ultimo argomento. L'etnologia ha moltiplicato gli esempi di trasmissione orale di pratiche culturali in popoli che ignoravano la scrittura. La scoperta e lo studio della cultura afro - americana sono dunque una recente acquisizione degli storici.[…] I fondamenti di questa cultura sono specificamente africani, importati in America dagli schiavi e trasmessi fino ad oggi dalle successive generazioni dei neri. Ciò che è stato particolarmente messo in evidenza è il fatto che la piantagione, anziché essere oppressiva, permetteva uno sviluppo dell'eredità importata dall'Africa che si può considerare positivo. Non mancavano le occasioni per esprimere la matrice comune, sia durante i lavori dei campi, quando gli schiavi canticchiavano arie sincopate che ritmavano i loro sforzi, sia durante le riunioni organizzate nei quartes (i quartieri dei neri) la domenica o nei giorni di festa, sia durante le funzioni religiose. Il fatto che i neri fossero separati dai bianchi durante i culti cristiani ha permesso loro di conservare una parte del proprio retaggio senza rischi di oppressione o di contaminazione da parte della classe dominante. E' questa una differenza essenziale fra la cultura negra negli Stati Uniti, in cui il paternalismo dei padroni non ha cancellato il fondo originale, e quella dei Caraibi o del Brasile, dove si sono sviluppate delle forme esasperate, affiancate da un'evidente decadenza culturale. Stranamente, la schiavitù ha conservato la cultura afro - americana per trasmetterla fino ai giorni nostri. La ricchezza di questa cultura è rimasta fino ad oggi insospettata. Si era fino ad ora presa in considerazione soprattutto la musica, alla quale si era attribuito il nome generico di jazz.

A differenza di altri gruppi, i neri non consideravano la musica un semplice esercizio uditivo, ma un'attività di partecipazione diretta che " ne fa un intermediario importante per penetrare al centro del loro pensiero, del loro spirito e della loro storia ". Bisogna ugualmente riferirsi ai canti, tanto sacri quanto profani, antenati dei blues, assai noti durante gli ultimi decenni del XIX secolo. Non si può affermare che questi blues fossero già cantati durante la schiavitù, ma è cosa certa che essi sono il risultato di un'antica tradizione trasformata dall'ambiente locale, poiché vi si trovano allusioni ad avvenimenti o a personaggi conosciuti. Il canto è stato così un mezzo per i neri di esprimere lo scontento o la rivolta, senza tuttavia turbare l'ordine costituito. In sostanza sembra essere stato il mezzo espressivo più adeguato alle regole di dipendenza riservate ai neri.

La religione ha svolto indubbiamente un ruolo fondamentale nella trasmissione della cultura negra. E' noto che la maggioranza dei negri ha aderito alla Chiesa battista.[…] I battisti fecero uno sforzo estremo di conversione e lasciarono, più di altre sette, via libera agli sfoghi emotivi dei neri. La scissione tra bianchi e neri nell'ambito di una stessa setta risale al XVIII secolo e riflette il desiderio degli uni e degli altri di radicare il proprio culto " fra di loro ". Fu così che i neri poterono incanalare le loro tendenze nei riti, esprimervi le emozioni, far filtrare parte dell'eredità africana e riuscire infine ad identificare le Chiese con il loro passato culturale. In questo senso, l'influenza delle Chiese è molto simile a quello della famiglia. I piantatori permettevano che le riunioni di schiavi si tenessero nei luoghi di culto, purché non sconfinassero nelle ore di lavoro, considerandole come una buona occasione per consentire loro di liberarsi dalle inibizioni e di esprimersi. Sapevano che i neri erano molto preoccupati di avere accesso al Paradiso e preferivano vedere le loro energie incanalate in questa direzione piuttosto che nelle cospirazioni. L'atteggiamento dei padroni non era del tutto disinteressato, ma il risultato è evidente: le Chiese non hanno mai smesso di essere un elemento di continuità nell'esistenza dei neri e nella rassicurazione che essi cercavano quando erano ancora schiavi. Sono state scritte su questo argomento delle belle pagine in cui si analizza la sintesi fra gli elementi originali africani e il contributo del Cristianesimo.

L'approccio culturale ha rinnovato con successo l'immagine della schiavitù nella formazione della coscienza dei neri.

BIBLIOGRAFIA

E. Dussel, Scoperta o invasione dell'America? Una ri flessione storico-teologica,

"Concilium",6, 1988

E. Dussel, Le reali motivazioni della conquista, "Concilium",6,1990

E. Galli della Loggia, Chi spara su Colombo uccide la storia, in "Tuttolibri", n° 799, aprile 1992

R. Romano - A. Tenenti, Alle origini del mondo moderno, XII vol., in Storia Universale Feltrinelli

J. M. Kulischer, Storia economica del Medio Evo e dell'età moderna, trad. di G. Böhm, Sansoni,Firenze

L. Hurbon, La tratta degli schiavi e la schiavitù dei neri d'America, "Concilium", 6, 1990

Ginzburg Migliorino, La marcia immobile. Storia dei Neri americani dal 1770 al 1970, Milano 1994

Luraghi, Storia della guerra civile americana, Milano 1992

C. Fohlen, La guerra civile americana e il problema della schiavitù, in La storia diretta da N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. VIII, UTET Torino